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Maria Angela Eugenia Storti, "Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione"

27 Aprile 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #recensioni, #saggi, #tito cauchi

 

 

 

 

Maria Angela Eugenia Storti

 Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione

Guido Miano Editore, Milano 2023

 

Maria Angela Eugenia Storti, laureata in germanistica, è nata a Palermo, dove vive e ha insegnato. Opera in attività teatrali a fini didattici; ha pubblicato sillogi poetiche e saggi; alcuni fra questi ultimi sono raccolti nel volume Itinerari di letteratura del Novecento (Guido Miano Editore, Milano 2023), che chiama scrigno dei suoi sogni più intimi”, è dedicato ai suoi affetti più cari. Il sottotitolo completo specifica trattarsi di “Memorie artistiche a confronto” dei seguenti autori: Mann, Kafka, Woolf, Eliot, Beckett, Wedekind, Pirandello, Montale. Nella sua nota chiarisce che riguarda autori di cultura anglosassone e tedesca con agganci ad alcuni scrittori italiani di “espressione” europea; non di “comparazioni” si tratta, bensì di “collegamenti”. Spiega altresì che gli artisti, in un certo senso, esprimono le diverse anime della società in cui vivono; tuttavia, esemplificando, osserva che coloro che se ne discostano vengono etichettati, per esempio: di annichilimento (come Kafka), o di rivoluzione (come Brecht, qui non esaminato) o di oscillazione tra realtà borghese e mondo artistico (come Mann).

Quanto alla struttura del volume ci chiarisce la prefazione di Lea Di Salvo, la quale ne indica tre sezioni; e cioè: il Romanzo, attraverso le opere di T. Mann, F. Kafka, V. Woolf e T. S. Eliot; il Teatro, in cui si veicola la comunicazione in ambito di modernismo di portata europea, attraverso F. Wedekind, S. Beckett e L. Pirandello che qui trova collocazione con la sua sicilianità. Infine la terza sezione riguarda la Poesia comprendente insieme E. Montale e T. S. Eliot, i quali prendono le distanze dalle assolutezze, considerano la aleatorietà degli eventi. Insomma il volume mira allo svecchiamento delle letterature ampliandone i singoli confini in cui si inseriscono “squarci di memorie italiane, nel periodo tra le due guerre mondiali (…) preferibilmente attraverso l’impersonalità (…) che spesso dà origine ad una frammentarietà linguistica, al nonsense (…) e infine al silenzio”. Il sottoscritto potrebbe fermarsi qui, tuttavia prosegue sulle orme del volume, omettendo citazioni e riferimenti, per snellire l’esposizione, sia pure zoppicando.

 

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IL ROMANZO

 

Paul Thomas Mann (Lubecca, 1875 - Zurigo, 1955). Quanto al Romanzo, Maria Angela Eugenia Storti inizia con lo scrittore tedesco, esaminando, in particolare, l’opera Doctor Faustus (1947), nell’ottica del “lamento” e della “celebrazione”. Il tema del patto con il diavolo è abbastanza noto nei racconti popolari tedeschi e non solo; ma non ha niente a che vedere con il più vecchio “Faust” goethiano (del 1808). Mann trova occasione per denunciare la “decadenza e la fine della civiltà borghese”, con riferimento agli eventi bellici conclusi con la disfatta della Germania.

Tento una approssimativa sintesi. Nel suo romanzo abbiamo andamenti narrativi e saggistici senza distinzione, aggrovigliati in un sapiente gioco di contrasti. Mann prende a pretesto “un compendio romanzato di storia della musica” e un testo di filosofia, argomentando sul linguaggio nei vari ambiti comunicativi, in particolare del suono e della vista, per concludere che è necessario ricercare nuovi modi di espressione.

Il romanzo si svolge in un virtuosismo lessicale di piani a incastro in cui tutti i personaggi sono caratterizzati in modo ben distinguibile, in tutto e per tutto (timbro di voce, aspetto fisico, ecc.). Si fa uso di parodia e di formule tradizionali per farne caricature. I due protagonisti principali sono amici, Adrian e Serenus, agiscono in uno scambio continuo di ruoli, ma assumono un “significato simbolico”: Adrian rispecchia “la figura del musicista tedesco (…) vittima di cerebralismi diabolici”, vuole raggiungere la fama; Serenus è un umanista che contrappone il valore della parola ed è la voce narrante. Tuttavia essi sono le due anime dell’autore, Thomas Mann, che ora estraniandosi osserva la società; ora interprete, ne subisce le contraddizioni (questo è quello che mi pare di capire) nell’eterno confronto tra bene e male, tra Dio e Satana. Metaforicamente Mann si riferisce non (solo) all’uomo, bensì al popolo tedesco. Egli è ora l’uno, ora l’altro dei personaggi, volendo fare percepire la disfatta della Germania “in cui i colpevoli non sono da ricercare solo tra i gerarchi nazisti (…). non si può dire io non sapevo, non è permesso, e solo un occhio ci si può coprire, uno solo”.

 

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Franz Kafka (Praga, 1883 – Kierling, 1924) è il risultato di una rosa di culture molto diverse tra loro: quella slava (di Praga), quella tedesca (avendo studiato in Germania), quella ebraica (essendo figlio di un israelita), nonché di cultura francese per via delle sue letture. Aveva una formazione ampia con l’inclinazione alla metafisica, alla ironia e all’assurdo, perciò infittisce di oggetti e di personaggi impregnandoli di simbolismo e curandone molto i particolari con forte realismo. Il tutto gli conferisce un’immaginazione demoniaca e assurda.

Insoddisfatto delle sue opere, pubblicò solo il racconto La metamorfosi nel 1916 (traslato in versione cinematografica), con chiara allusione all’isolamento dell’uomo, alla sua alienazione. Gli altri tre romanzi, oltre un Diario, vengono pubblicati postumi. Il Castello, nel 1926, è l’ultimo dei suoi romanzi, rimasto incompiuto; il castello è il luogo della burocrazia dove è difficile entrare e sbrigare delle pratiche gravando alquanto sulla frustrazione degli abitanti; il protagonista, vittima di questo senso di frustrazione, si chiama K. (proprio così), un agrimensore, e la narrazione è affidata all’altra figura di nome Olga. Il processo viene pubblicato nel 1925, è sullo stesso tenore del precedente, perché il protagonista, che si chiama Joseph K., è uno “scrupoloso impiegato”, che viene arrestato improvvisamente senza spiegazione alcuna, condotto in una cava e giustiziato.

Kafka si allontanava dalla letteratura contemporanea giudicata decadente, “ha descritto incubi e pensieri, scaturiti dalla realtà del quotidiano. In tutti gli scritti kafkiani le storie narrate sembrano appartenere al mondo spettrale delle visioni” (La lettera k campeggia nei suoi personaggi).

 

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Virginia Woolf (Londra, 1882 - Rodmell, 1941). Negli anni Venti le venne chiesto di redigere una relazione avente per oggetto “la donna e il romanzo”, per alcune conferenze da dedicarsi a studentesse dei college inglesi. La scrittrice si allontanò dagli stereotipi attesi, che volevano la donna relegata agli standard domestici; tuttavia la sua ricerca sprona le donne a uscire dal proprio guscio e a rivendicare la propria autonomia culturale e uscire dalla anonimità. Mirava ad una narrazione verticale e non orizzontale, cioè a rappresentare la realtà, specialmente delle donne, “in profondità, piuttosto che in estensione”. Perciò la sua scrittura recupera i “processi mentali dei suoi protagonisti”.

Molte delle sue idee troviamo nel suo saggio Una stanza tutta per sé, con chiara allusione alla autonomia auspicata delle donne. Concepisce la vita nella sua molteplicità di forme e fa uso di simbolismo e di motivi conduttori come tecnica narrativa; concepisce l’arte in chiave di comunicazione. Fra le altre opere ricordiamo Mrs Dalloway. Invita la donna alla riflessione, all’autocoscienza, a superare la loro anonimità, trasformare la loro solitudine nel diritto di riservarsi un momento di scrittura e creativo più in generale. Invita la società a considerare sotto nuova luce stranezze eventuali delle donne, di non rinchiuderle nei manicomi e di non ignorare la loro genialità.

Virginia infatti aveva tendenze suicide e ha lottato per essere riconosciuta nella sua identità. Esortò le donne, sì a scrivere, ma senza dimenticare che “la mente degli artisti è androgina”. Infine, Storti, così conclude: “Lo ‘sbriciolamento’ dell’Io, il suo conseguente ‘flusso di coscienza’, ‘apre le stanze e le finestre’ a nuovi itinerari e costituisce il contrappunto drammatico della trasformazione dell’esperienza creativa femminile”.

 

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Thomas Stearns Eliot (Saint Louis, 1888 - Londra, 1965). La letteratura inglese del Novecento fu attraversata da fermenti innovativi ove si inserisce Eliot che si era trasferito in Inghilterra; saggista, critico e poeta, uno fra i più grandi del Novecento. Nuovi movimenti scuotevano gli scrittori europei. Si abbandonava il verso classico a favore del verso libero; ci si staccava dal dolce canto per diventare scopritori dell’animo umano. Lo scrittore americano scrive in modo fluido senza curarsi dei nessi di collegamento, suscitando così degli scossoni interpretativi; e favorendo molte possibilità di collegamenti ipertestuali.

Fra le sue opere ricordiamo la sua prima poesia importante che si intitola Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (del 1911), Poems (1920), “dove gioca sull’opposizione tra passato e presente, tra schemi tragici e farseschi”. Nasce una nuova poesia, che lascia l’Io lirico per farsi Epico e lascia le forme statiche per fare spazio alle necessità della storia. Eliot è aperto a nuove visioni, a una nuova “fioritura delle messi”, ai simbolisti francesi, ai mistici medievali. Si incrociano le varie arti, miti e leggende come nel poemetto Il Re Pescatore (del 1922), un essere tra il divino e un redivivo Tiresia, veggente del mito classico, giustificandone l’esistenza sotto una prospettiva allegorica. Tuttavia il suo capolavoro è La terra desolata (1921) che si ispira al mito medievale del Sacro Graal legato ai temi della decadenza e alla ricerca della resurrezione. Egli si colloca tra l’antico e il moderno.

 

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IL TEATRO

 

Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936). M. A. E. Storti apre l’argomento del palcoscenico con uno scrittore fra i più celebri italiani di levatura internazionale. Era un intellettuale, aveva studiato anche in Germania e ha avuto confronti con altri intellettuali del tempo. Cresciuto fra i templi greci della sua città, si è nutrito del mito classico in veste della sicilianità dei suoi tempi, nel fondo teneva uno strato di romanticismo e di filosofia. È riuscito a innovare il teatro e ha “sprovincializzato il teatro siciliano”. Sostenitore di un’arte rivelatrice dei caratteri reali delle persone.

Nelle sue opere abbiamo l’umorismo, cui dedica l’opera omonima L’umorismo (del 1908); abbiamo la comicità, le situazioni assurde, la metafora della maschera dietro cui viviamo, il sentimento del contrario. I suoi drammi evolvono a sorpresa. Sul piano contenutistico, sotto sotto, presenta intenti sociali e denunce (Morire e vivere insieme; mi sovviene Il fu Mattia Pascal).

I suoi personaggi sono tutti caratterizzati psicologicamente, presentano sdoppiamento dentro la vasta gamma dei sentimenti, del pianto, del riso, dell’inganno, del cinismo. È riuscito a fondere forma e contenuto. Infine la Storti conclude così: “Il linguaggio, unica modalità vitale, tradisce se stesso attraverso il dialogo-monologo dei personaggi che, a causa di una mancata comunicazione, testimoniano la disperazione dell’uomo moderno, la cui solitudine tra le cose trova come unico conforto la parola”. (p.54). Credo si riveli in tal modo nell’Agrigentino il “sentimento del contrario”.

 

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Frank Wedekind (Hannover, 1864 - Monaco di Baviera, 1918), la sua arte viene collocata nell’ambito espressionista. Autore di drammi, fra gli altri, di Lo spirito della terra e di Il vaso di Pandora; in quest’ultima opera, sotto i riflettori, è una donna di nome Lulu, “presentata come l’incarnazione del fascino impossibile da addomesticare per l’ipocrita uomo donatore.” È la donna che incarna l’ambiguità, in ogni senso. Le due opere inizialmente pubblicate insieme furono censurate e in seguito pubblicate autonomamente.

Il nome di Pandora fa esplicito riferimento al mito classico, cioè del sacco che contiene imprigionate tutte le furie per volontà di Zeus. Difatti etimologicamente significa “colei che tutto dona”. Lulu è tutto, nel bene e nel male (è un ninnolo, è Eva, è senza pudore, ha una bellezza angelica e al contrario ha una bellezza demoniaca), gli aggettivi non sono sufficienti a descriverla. Lulu si sente legata soltanto a suo padre, ormai nel regno dei morti.

Nella morale contemporanea di tutti, Lulu (prostituta) non poteva godere del consenso nella società; perciò, per redimersi al giudizio del mondo, l’autore la fa morire per mano di un criminale. Lulu è un “nome balbettato tra l’infantile e l’erotico” che fa tenerezza. La sua ambiguità la porta ad amare un’altra donna, anch’essa segnata da esperienze erotiche. “Sia la Lulu (da tutti donata), che infine la Geschwitz (colei che tutto dona), costituenti due parti indispensabili alla completa costruzione di Pandora, pagano il loro riscatto attraverso una lunga e faticosa catarsi”.

 

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Samuel Barclay Beckett (Dublino, 1906 - Parigi, 1989), drammaturgo, scrittore, poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese. Al contrario di molti autori la sua drammaturgia è ridotta all’osso, si appoggia su eventi minuti insignificanti, quasi senza nessi logici, un paradosso. Il suo viene definito “Teatro dell’assurdo”. Eppure traccia profili umani dei personaggi; specie nelle sue opere teatrali più famose Aspettando Godot (1952) e Finale di partita (1957), egli mette in luce la “crisi di identità tra elegia e parodia giullaresca”.

Sottolinea l’incomunicabilità umana, attraverso un linguaggio comune, quasi dimesso, di tutti i giorni della chiacchiera quotidiana. I suoi personaggi sono fortemente caratterizzati fisicamente e simbolicamente (per esempio con menomazioni fisiche).

 

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LA POESIA

 

Ed eccoci alla terza sezione di Itinerari di letteratura del Novecento, di Maria Angela Eugenia Storti. Come si può notare tutti gli autori presi in esame vissero e operarono soprattutto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Dunque nell’ambito della poesia diventa argomento il rapporto tra l’Io (obsoleto) e il Noi (che avanza), il tema dell’esistenza, l’uso del simbolismo, quindi il “correlativo oggettivo”. E cioè giungere al lettore usando forma e contenuto che facciano presa su meccanismi psico sociologici. Ebbene la realtà del mondo senza false illusioni, sono i motivi che accomunano Montale ed Eliot.

Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981), uno fra i più grandi poeti italiani mette in atto la sua poetica attraverso la sua prima raccolta, Ossi di seppia (1925); dove “ossi” sta per precarietà della vita, da cui deriva “il male di vivere”, l’angoscia di vivere. E anche Thomas Stearns Eliot, di cui si è scritto più sopra, a proposito, in particolare, de Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (1911), esprime il senso della solitudine nella sua prima poesia, in cui Prufrock è (pressappoco) l’uomo che non sa amare e si chiude in sé stesso, ma deve prendere coscienza.

Entrambi scelsero una lingua di uso ordinario (di uno di Noi), uno stile asciutto, ridotto all’essenziale; nondimeno “Di difficile comprensione appare l’opera di Montale per molti, e per altri Eliot fu considerato un poeta elitario, la cui gelida intelligenza gli impediva di condividere le comuni emozioni umane.”

 

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Maria Angela Eugenia Storti si congeda definendo gli scrittori, coinvolgenti, “apostoli dell’immaginazione”, donatori ai lettori di “pezzi di vita” (mie virgolette). Penso che recensire un volume come Itinerari di letteratura del Novecento, che comprenda una raccolta di saggi, diventi un’impresa ardua. Tratta di otto autori fra i massimi del panorama letterario, di cui sei sono Premi Nobel: Mann, Eliot, Beckett, Wedekind, Pirandello, Montale (Kafka e Woolf, probabilmente non fecero in tempo). Recensire diventa un impegno non indifferente, una scommessa; argomenti così specifici, anche a procedere a passo d’uomo, come si suol dire, rischiano di fare prendere cantonate.

In chiusura desidero compiacermi della presenza di due poeti italiani, uno del Nord, l’altro del Sud, che rappresentano due realtà diverse, sia pure in tempi differenti. Questi Itinerari meritano certamente molto di più; tuttavia penso che anche una interpretazione zoppa possa tornare utile, quanto meno stimolante e illuminante per imprese analoghe. La lettura è interessante e coinvolgente, perché se ne vorrebbe sapere sempre di più, anche perché i temi trattati sono attuali.

 

26 aprile 2024, Tito Cauchi

 

 

 

Maria Angela Eugenia Storti, Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione, pref. di Lea Di Salvo, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 82, isbn 978-88-31497-99-2, mianoposta@gmail.com.

 

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"Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Maurizio Zanon" a cura di Enzo Concardi

25 Aprile 2024 , Scritto da Maria Rizzi Con tag #recensioni, #poesia, #saggi, #maria rizzi

 

 

 

 

Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Maurizio Zanon

a cura di Enzo Concardi 

Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Nel testo Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Maurizio Zanon (Guido Miano Editore, 2024), è condotta un’ottima, interessantissima disamina del poeta, saggista e narratore veneziano attraverso le voci dei critici che hanno dato contributi ai contenuti e allo stile delle suo numerose Opere. Vengono citati, tra gli altri, Giampietro Cudin, Mario Stefani, Enzo Concardi, Nazario Pardini, Guido Miano, Angela Ambrosini. Conosco questo prolifero artista tramite due sue Sillogi, che ho recensito e amato molto: Tutto fu bello qui del 2020 e Fralezze del 2023. Trovarlo in un’Opera di ampio respiro come l’Analisi ragionata mi ha spinto a ripercorrere le sue orme dagli esordi, con Prime poesie, attraverso le splendide derive dei saggi che celebri Autori, come Dino Manzelli e Flavio Andreoli hanno dedicato a Zanon.

In questo splendido libro, corredato di foto che riprendono alcuni momenti artistici del Nostro, non manca una collana di cammei lirici, intitolata “Antologia essenziale delle poesie”.  Sul greto del tempo in versi del Poeta sembra siano state raccolte perle sparse, concepite nel corso di circa quarant’anni di attività. Il tempo funge da lente d’ingrandimento per rendere nitida la visione del mondo di un autore e i suoi eventuali cambi di passo. Talvolta da giovani si tende a procedere in un orizzonte infinito, mentre con il trascorrere del tempo si riconoscono le parti e i confini. Non è il caso di Maurizio Zanon, o almeno non mi sembra. Leggendo la lirica del 1987 Andando e ascoltando, tratta dall’omonima silloge, sono stata immediatamente trafitta dalle emozioni che mi rapirono nella raccolta Tutto fu bello qui: “Andando e ascoltando / i discorsi del vento / più leggero io mi sento / tra i misteri del tempo”. Il canto si srotola in quattro settenari che racchiudono il mestiere del Poeta, il suo spartito sempre spalancato, le note che si alzano lievi e danzano dolcissime nella brezza e nello scorrere dei giorni, e la capacità, data solo agli artisti, di trarre enigmi anche dalle soluzioni. Attraverso i versi è possibile imbrigliare l’energia e plasmare la realtà percorrendo grandi distanze in un istante. Il mistero non rappresenta un muro, ma un orizzonte: “Felicità sta nel non sapere / ogni passo che verrà di nostra vita” (Felicità, da Liriche scelte, 2010).

Tema ricorrente di Zanon è il cammino, inteso come ‘andare verso’, un senso eracliteo dell’esistenza, vista in continuo divenire. Si muove il cielo, il mare, si muovono gli anni. La destinazione dei percorsi non sono luoghi, ma nuovi modi di vedere le cose.  “… Nulla rimane / nello scorrere inesorabile : questo radicato / cammino di storia è destinato a dissolversi” (da Come il sole d’autunno, 2011). Restano intatti l’amore per la donna e la fede, punti cardine di un’anima che non vaga inquieta tra le burrasche, ma sa posarsi lieve sulle sponde della laguna, a meditare, a fare bilanci, a visitare le isole care della memoria. Non finirà questo amore /che rinasce ogni giorno al canto d’usignoli! (Non finirà questo amore, da Poesie d’amore, 1991). Trovo straordinario tra anime inquiete, disorientate, che cercano nei versi una catarsi, scoprire un uomo che smentisce l’assunto della vocazione artistica sposa dell’infelicità.

L’autore concepisce il sentimento per eccellenza come un viaggio ai confini di se stesso, un’esperienza che consente di essere simili a fuoco, di bruciarsi ed esplodere dentro “Un fuoco interiore che mai si spegne / brucia l’anima nel costante pensiero” (Passione, da Fralezze, 2023). E sa intendere la fede come una continua evoluzione spirituale, un cammino in verticalità nella certezza che “Dio è sensibile al cuore, non alla ragione” (Blaise Pascal). Nelle liriche sparse è presente una preghiera a David Maria Turoldo, presbitero, teologo e filosofo, nato nei primi anni del ‘900, che sostenne il progetto Nomadelfia per accogliere gli orfani di guerra; un sacerdote che condusse una grande avventura nella storia e nella chiesa italiana schierandosi sempre a favore del civile, del sociale.

In riferimento alle rimembranze, il tempo in fieri dell’Autore non concede di tornare indietro. Zanon, come tutti i grandi sognatori, è consapevole che basta sfiorare il filo teso di un profumo per far risuonare i ricordi. “Vivo l’oggi / pensando a come vivere il domani / ma è l’ieri che non si può più: / attendo allora un tempo senza tempo” (da Un tempo senza tempo, 2007).  Il tempo cui allude il Nostro è quello che consente di restare a stretto contatto con l’anima, di attribuire senso al passaggio terreno. Nel tempo senza tempo nulla si crea o si distrugge, è la stessa essenza  che continua a esistere assumendo varie forme, trasformandosi di continuo. “Ci siamo consumati fino a morire / sotto un cielo da cui ci aspettiamo ancora grandi cose” (Tutto fu bello qui, da Tutto passa, 2019). Da Eraclito si passa a Platone nel suo vertiginoso dialogo intitolato “Il Parmenide”, che asseriva. “La natura dell’istante è qualcosa di assurdo (atopos), che giace tra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo”.

Quando ho avuto l’onore di recensire questo meraviglioso artista, che non ha bisogno di ricorrere alle figure retoriche per rendere superbo il suo canto, mi soffermai sull’amore per Venezia, una città che ben s’identifica con il non tempo, in quanto esiste in una dimensione esotica, in una sorta di gioco illusionistico, in una delle forme del mistero e dell’altrove. Zanon non poteva che nascere lì, un luogo che emerge dal mare o forse affonda nel mare. “Venezia bizantina / si stende in riflessi dorati / rivivo memorie passate / su carezze d’onde / ove si posano / gondole d’opaca luce” (Venezia bizantina, da Giallo oro di sole, 1995).  La forza del sentimento amoroso, della spiritualità e del legame alle radici dà risalto a un aspetto tanto intrigante quanto raro, che caratterizza il Poeta veneziano: la costanza, intesa non come energia ferma, ma come volontà di raggiungere le più alte vette, non attraverso improvvisi scatti, ma lavorando anche di notte sugli obiettivi raggiunti.

Maria Rizzi

 

 

Enzo Concardi (a cura di), Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Maurizio Zanon, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 100, isbn 979-12-81351-24-0, mianoposta@gmail.com.

 

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Alfredo Alessio Conti, "Liriche scelte"

24 Aprile 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #recensioni, #poesia, #saggi

 

 

 

 

Alfredo Alessio Conti

LIRICHE SCELTE

 

Alfredo Alessio Conti è lombardo nativo di Bosisio (nel 1967) in provincia di Lecco e vive a Livigno (Sondrio). Ha un curriculum culturale e professionale di tutto rispetto: ha studiato Filosofia, ha formazione teologica, è un educatore, svolge convegni sulle problematiche giovanili e sul disagio sociale; ha pubblicato una ventina di opere tra poesia e prosa. Quest’opera, dal titolo trasparente, Liriche scelte (Guido Miano Editore, Milano 2024), contiene raggruppate poesie in tre capitoli, ciascuno con prefazione a sé.

Il volume è presentato dall’editore Guido Miano, il quale fra l’altro sottolinea le finalità di “indicare di taluni autori un solco di scrittura nella quale sia da individuare una sorta di fratellanza d’arte, nel nostro caso della poesia”, entro una cornice sovranazionale. Ecco le Letterature comparate che consentono accostamenti tra il Nostro e tre illustri autori stranieri, scegliendo le liriche in base alle tematiche più rilevanti, rispettivamente: l’esistenza, l’amore, la religiosità. Così di seguito.

 

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Enzo Concardi (Zibido S. Giacomo, Milano, 1949), poeta e critico letterario, svolge la sua disamina sulla prima sezione della raccolta, denominando la sua prefazione con il titolo “Le problematiche esistenziali in Alfredo Alessio Conti e in Fernando Pessoa” (1888-1935), poeta portoghese autore di Ho pena delle stelle. Il Critico vuole evidenziare che “Nel groviglio esistenziale vissuto dal poeta” i vari aspetti presenti nella nostra società contemporanea vengono oggettivati seguendo tre direttrici (per esemplificare): bibliche, socratiche, ungarettiane, citandone versi in tal senso. Qui anticipo rispettivamente: l’essere e ritornare “polvere”, il “conosci te stesso”, sentirsi fragili come “foglia d’autunno”. Inoltre avverte che i vari contrasti lirici sono segni di una certa “disperazione ontologica”; tuttavia conclude spiegando che “Se Pessoa è considerato poeta del ‘pessimismo totale’, Conti lo affianca fino ad un certo punto (…) per poi accedere ad una teleologia sostenuta in ultima analisi da speranze metafisiche ed escatologiche con bagliori divini”. Insomma sull’esistenzialismo, nel Nostro, è una continua ricerca, anch’essa tripartita: sull’origine, sul destino e sul senso della vita. Argomenti sui quali il Poeta insiste (con anafore) per rafforzare il proprio sentire e i contrasti apparenti (ossimori) sui quali riflette, sono un bisogno biologico di rassicurazione.

La lettura del testo poetico difatti ci conferma il pensiero di Alfredo Alessio Conti, ossia l’argomento comparativo proposto sull’esistenza, ci accompagna tutta la vita. Citerò alcuni versi che reputo molto significativi, per dare ulteriore conferma del sentire intimo del Nostro. Verrebbe da dire che al di là del big bang, l’essere umano rimane con domande irrisolte. Ci affanniamo a rincorrere mete, come ricchezza e carriera, ma poi assistiamo al fallimento della società opulenta ed egoista, senza volerci rendere conto della precarietà della vita, così il Poeta commenta: “Nel respiro del vento/ vivo/ come foglia d’autunno” (p.13, Esistenza) con chiaro richiamo a Ungaretti. Egli sente su di sé le sofferenze degli ultimi, considerati come fratelli; sente che questa è “la bellezza/ dell’essere, dell’esserci” (p.16). È consapevole del travaglio che vive, sa che la morte non guarda nessuno in faccia; difatti considera la vita già un “sarcofago” e indica la terra come “materna morte” (p.17).

Riscontriamo il richiamo dell’antico motto socratico per conoscersi dentro e comprendere meglio gli altri. Il tempo scorre inesorabilmente: “Anni/ di solitudine e silenzi/ di sofferenze/ (…) / mi sono messo/ in disparte/ e tutte le porte/ si chiusero.” (p.23). Opponiamo fra noi steccati e muri, la diffidenza ci allontana dalla bellezza della natura, dalla sua armonia. Si chiede: “Quali domande avranno risposte/ prima che la mia vita finisca, ma/ rimarranno sepolte con me.” (p. 28). Siamo mutevoli: “sento/ l’usura del mio corpo/ andarsene/ con le energie spese/ in queste inutili/ battaglie.” (p.31). Infine: “naufrago/ nella mia/ solitudine” (p.32); e ancora: Siamo “un alito di vento/ immortale/ sul finire/ della vita” (p.33). Sono parole molto significative, dal senso compiuto, provengono dal fondo dell’anima e racchiudono travaglio interiore e riflessione.

 

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Gabriella Veschi (Ancona 1959) formatasi in Lingue e Letterature comparate, tratta “Il tema dell’amore in Alfredo Alessio Conti e in Pablo Neruda” (1904-1973), cileno, uno dei massimi scrittori del Novecento, autore di Cento sonetti d’amore. Per entrambi i poeti la donna è tutto; nel Nostro la malinconia d’amore per una donna lontana palpita struggente; il suo è un inno all’amore che si eterna grazie alla sua intensità. La Critica sottolinea, da parte del Nostro, il modo oculato del lessico che gli consente di esprimere sentimenti pure contrastanti come iperboliche note di sensualità senza scadere nel banale e nel volgare; così l’uso di “un armonioso succedersi di sinestesie, allitterazioni e paronomasie”, accorgimenti stilistici tali da suscitare le sensazioni desiderate.

Perciò passo ai testi poetici senza andare oltre, poiché il tema dell’amore è così universalmente trattato e abusato, e non vorrei ripetere cose ovvie. La lettura conferma la continua dichiarazione d’amore in cui il Poeta pone un’aura intorno alla donna amata elevata sopra ogni cosa; così “L’amore è un fiume travolgente/ sempre in piena/ dirompente” (p.49). È noto che quando si è innamorati si tocca il cielo con un dito, ma pure si sprofonda in un abisso; il Poeta crede che, comunque sia, gli spiriti di entrambi si uniscano dopo la morte, perché intenso è l’amore suo per lei. Lo struggimento di cui si è scritto sopra, è palpabile; nondimeno alcuni passi, toccano o forse nascondono, una perdita o un distacco come in questi versi: “L’ho sepolto lì/ in quel piccolo cimitero di montagna/ il desiderio d’incontrarti” (p.38); perciò questa dichiarazione assomiglia ad una ammissione di conforto.

 

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Ed eccoci al toscano Floriano Romboli (Pontedera, 1949), docente di materie letterarie, che tratta del tema della religiosità, al terzo capitolo intitolato “L’incontro con Dio e con le creature nell’itinerario spirituale di Alfredo Alessio Conti. Il lascito poetico di Paul Claudel (1868-1955). Il poeta francese nelle sue Opere poetiche “amò declinare la fede religiosa” e anche in Conti “è ricorrente l’idea dell’esistenza individuale come itinerario, come cammino” in cui è possibile incontrare Dio e acquisire una giusta direzione o condotta di vita, fra tante perplessità e attese. Il Critico osserva quanto i limiti umani siano un ostacolo per compenetrarsi negli altri; nel Nostro ammira l’accuratezza lessicale di forma discorsiva e lineare; parla di naturale slancio religioso nel poeta Conti, “di un senso di sincera comunione fisica e spirituale con tutti gli esseri” (p.65); parla dell’intimo interiore che il poeta riesce a “esteriorizzare” ricorrendo alle similitudini.

Conti, poeta dell’amore verso la natura, verso il creato che è armonia, pur dichiarandosi “nomade spirituale”, scrive: “se ne va/ ramingo/ nell’anima nel cuore nelle membra/ e ritorna a Te/ con parole semplici/ a Te che leggi/ e vivi/ ed è un ritrovarsi/ sullo stesso cammino” (p.68). Si raccoglie nel silenzio delle tombe e pensa che le anime siano in attesa della resurrezione; con il suo carico di debolezze chiede perdono a Dio e aiuto, ma continua a confidare in “quell’altra vita” che “prima o poi verrà” (p.78). La sua spiritualità si riflette in un ‘tu’ discorsivo che si allarga all’altro; “Osservo la luna/ riflessa nel ruscello/ (…) //Lassù/ è magia, è poesia.” (p.73). Il tema dell’esistenza è presente anche qui; e il verbo, mi viene da dire, che si fa carne è nel più volte indicato “logos”, che vuol dire parola quanto discorso, seme quanto vita, sta a noi essere predisposti all’ascolto. Ascoltare così i passi che ci stanno vicini, per un amore fraterno. “Veglia/ sulla mia esule vita/ e/ riconducimi/ piano piano/ a Te.” (p.87). Sentendosi, come è naturale, un nulla nei confronti di Dio infinito, promette che non si stancherà di cercarlo: “Ti cercherò/ (…) // Ti cercherò…/ fino a quando/ TU/ mi aprirai la porta.” (p.93), una invocazione che sa di dichiarazione di fede; dopo di che il Poeta si assolve da solo.

 

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Fin qui ho cercato di seguire nell’ordine il volume di Alfredo Alessio Conti, Liriche scelte, anche nella sua architettura, nel rispetto verso l’Autore. Tornano utili al lettore i tre contributi critici (oltre quello dell’Editore); tuttavia confesso che, per via dello stacco tra un capitolo e l’altro, mi sono sentito un po’ spiazzato, è stato come se mi fossi trovato tre volumi e non uno solo (Disorientato forse per la poca dimestichezza, del sottoscritto, alla lettura del digitale). Mi sembra chiaro l’intento del volume circa la comparazione del Conti ai tre poeti stranieri (Pessoa, Neruda, Claudel, dei quali sono citati i titoli delle rispettive opere di comparazione). Così facendo viene ampliata la conoscenza oltre confine, il che conferisce maggiore prestigio all’Autore. Comunque, le singole tre tesi, circa l’esistenza, l’amore, la spiritualità del Nostro, si reggono da sole.

Generalmente le poesie sono brevi e in stile discorsivo, dialogo-monologo, come è in uso da alcuni decenni; il numero delle sillabe è variabile e tendenzialmente fa percepire un senso di palpitazione. Le oltre settanta poesie, pressocché equamente distribuite nelle tre sezioni, propongono liriche scelte dalle medesime raccolte pubblicate, tranne una particolarità singola, a partire dalle più recenti e a scendere, oltre che ad altre forse inedite. Per completezza aggiungo l’elenco dei titoli delle raccolte anche per il loro significato intrinseco: Il mistero ultimo della vita (2022), Tutto è respiro (2021), Sulla soglia dell’infinito (2021), La verità nascosta (2020), Quando un poeta se ne va (2019). Inoltre ciascun capitolo ha attinto in modo esclusivo ad altre sillogi, nell’ordine: il primo capitolo, E in questo mal di vivere (2002); il secondo, Avvolto dal tuo tenero amore (1998); e il terzo, Salmodiando Dio oggi (2008) e Vivo di te (2007). Lo sguardo sui titoli, come sui versi, non ci restituisce meri elementi decorativi, ma un’anima. Si sa che la poesia, come tutte le arti, si presta all’interpretazione, è suggestiva. Salvo interpretazioni che possono sviarmi, reputo titoli che fanno intuire un animo che rivela ricerca, indaga e sonda i misteri primordiali della vita.

Tito Cauchi

 

 

 

Alfredo Alessio Conti, Liriche scelte, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp.104, isbn 979-12-81351-25-7, mianoposta@gmail.com.

 

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Giovanni Peli, "Poesie 1994 - 2024"

21 Aprile 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Giovanni Peli
Poesie 1994 – 2024

Calibano Editore – Euro 13 – pag. 130
www.calibanoeditore.cominfo@calibanoeditore.com

 

Le parole non appartengono alla poesia è il giusto sottotitolo di una raccolta poetica che racchiude trent’anni di attività, selezionata in 130 pagine che rappresentano un lungo addio alla scrittura poetica, ritenuta ormai inutile dal bresciano Giovanni Peli, autore di testi per canzoni, prose poetiche, romanzi e libri per bambini. Dieci raccolte edite - dal 1995 al 2023 - riunite in un solo libro, composto dalle poesie migliori, disposte non in ordine cronologico, ma per comporre un coerente discorso lirico; una serie di versi raggruppati per stile e per tema, mai in rima, solo assonanze e musicalità della parola prescelta.  Prefazione (molto colta e incisiva) di Gian Ruggero Manzoni, che spiega la lirica di Peli come ricerca interiore e indagine morale, ispirata da una sorta di politica etica. Parole che diventano musica di delusioni, sinfonia di amarezze e rimpianti, eco di fallimenti e dolore. Una poesia che parla di natura, uomini e animali, soprattutto gatti che fraintendono la notte, ma anche compagni a quattro zampe che ti vengono a cercare proprio quando hai appena detto che avresti fatto a meno di loro, chiedendo una scodella di cibo e un po’ d’amore. Una raccolta a base di poesie brevi - spesso una terzina, in certi casi persino due strofe - ma intense: Mi manca di te / ciò che non sei / stereotipata stella / unica amica mia / guarda come è bella / la nostra bugia. I seni della donna sono pugni di neve, le mani sono lame profonde, la pelle è asfalto che brucia e alla fine il poeta conclude che sa amare solo se stesso che ama. Molte poesie sono rapide frecciate di dolore: Novembre si è preso tutto il merito / si è aperto come una finestra: / sono nato in un grande cimitero. Tra i versi si avverte l’inutilità della scrittura: Coi versi e con la musica son solo: / è così: non c’entro niente con voi. La solitudine dell’artista è sempre in primo piano, mentre tu stai piangendo perché la vita è questa. Il poeta ammonisce: Non devi darti da fare per essere / qualcuno e men che meno qualcosa: / portami via il dolore e poi sorridimi. La conclusione, condivisibile da chiunque oggi tenti di comunicare con la scrittura, è pessimista: È morta la poesia / specialmente la mia … / i lettori fanno le fotografie / prima di arrivare in fondo. Il poeta, pertanto, si chiude in se stesso: Nella pura falsità della poesia, / ci siamo chiesti che cosa, oggi, valesse la pena di raccontarsi. La chiusura del volume è negativa nei confronti della letteratura e per chi fa della scrittura il suo mondo espressivo: Il nostro tempo è passato nel migliore dei modi / e sarà presto dimenticato, anche perché  serve tempo per scrivere / quel tempo vuoto / dove non batte il cuore. Ed è proprio il tempo che troppo spesso manca. Non solo al poeta. Non solo a Giovanni Peli. Un libro da leggere e meditare.

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Il valore culturale della lettura critica della poesia

17 Aprile 2024 , Scritto da Floriano Romboli Con tag #floriano romboli, #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Maurizio Zanon

 a cura di Enzo Concardi

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Recensione di Floriano Romboli

 

Enzo Concardi premette al suo lavoro antologico - che raccoglie e sistema i molti giudizî critici stilati nel tempo sull’attività poetica di Maurizio Zanon – alcune riflessioni metodologiche e teorico-culturali con le quali concordo pienamente. Queste concernono l’importanza della critica ai fini del corretto intendimento dei risultati di una ricerca artistico-letteraria, ne sottolineano la preziosa funzione di mediazione interpretativa e verificatrice degli autentici valori estetici di essa, nella prospettiva di una lettura non ridotta a una semplice reazione impressionistica, a una sintonia soggettiva ed estemporanea con i testi.

Zanon, interessante scrittore veneto, nato a Venezia nel 1954, si segnala per la ricchezza, non soltanto quantitativa, della produzione lirica, contrassegnata com’è dalla varietà dei motivi e da suggestiva eleganza stilistica e ritmica. A questo proposito mi piace citare il parere di chi, come Nazario Pardini - in riferimento specifico alla fondamentale silloge Tutto fu bello qui, stampata nel febbraio 2021 dalla Casa Editrice Miano, ma con lo scopo evidente di una caratterizzazione d’assieme – ha segnalato “l’empatica visione della vita e del suo rapporto con tempo e spazio”, giungendo a un riconoscimento invero significativo: “Non è facile trovare poeti che facciano della vita un’opera d’arte. E Zanon ne è capace. I sentimenti si concretizzano in visioni calde e brillanti, in oggettive sensazioni di metamorfiche vertigini personali”.

D’altra parte gli è connaturale una delicata nota vitalistica: “Eri chiara/ di luce splendente/ come una stella/ e ora che non ti ho più/ sei ancora più bella” (Alla prima giovinezza, in L’uomo narciso, 1987).

Concardi organizza con lucidità e sicurezza il vasto materiale storico-critico in cinque sezioni, iniziando coll’esaminare gli studi concepiti attorno al rapporto fra poetica ed estetica, cioè fra assunti programmatici, fra convinzioni generali, intenzioni progettuali, e concrete realizzazioni formali, obiettive peculiarità compositive. Se il compianto Guido Miano poneva opportunamente in risalto la centralità dei temi del tempo, del nesso problematico vita-morte, della memoria e delle illusioni, in relazione palese con la grande lezione leopardiana, Mario Stefani indicava nella condizione di sofferta solitudine un tratto distintivo della spiritualità zanoniana, il coefficiente essenziale di una “profondità interiore”, un abito “della riflessione e della meditazione” aliene dai profetismi e aperte alla pietas etico-intellettuale e al vigore testimoniale.

Riguardo poi allo stile dell’autore il medesimo studioso, al quale dobbiamo la monografia Il canto di una voce solitaria (1999), si sofferma sulla frequente alternanza nei suoi versi di tensione e musicalità, spezzature e soluzioni euritmiche, di cui hanno scritto con acutezza pure lettori autorevoli quali Angela Ambrosini, Raffaele Piazza e Maria Rizzi.

Seguono le sezioni dedicate all’ambiente naturale e lagunare – ove lo stesso Concardi sviluppa il tema della natura medicatrix, del potere consolatore della stessa, còlto e illustrato attraverso il fascino sempre vivo di Venezia -, alla dimensione memoriale e all’amore (dalle ascendenze letterarie anche remote, addirittura stilnovistiche, come hanno dimostrato interpreti raffinati come Mario Santoro e Dino Manzelli), al tormento esistenziale e alla ricerca di Dio nella società sempre più secolarizzata e votata al culto spersonalizzante e moralmente opacizzante dei “consumi”. Mi sembra in questo senso degno d’interesse il richiamo a un componimento senz’altro riuscito occasionato dalla ricorrenza del Natale di Cristo, intitolato Senza più misure e compreso nella raccolta Liriche scelte (2010): “Che Natale vuoi che sia? / Lo sai che non amo tanto / il Natale di questi anni! / Mi sembra tutto così orientato / all’apparenza delle futili cose, / al consumismo senza più misure. / Basta ingrassare / fra noci e panettoni: / a distanze sempre più accorciate / c’è chi soffre e muore! / Ma vieni ugualmente, mio Dio, / con la tua povertà / in questa festa che magari per me / non è più festa, vieni / ed offrici pure la tua luce/ qui che il buio è quasi sempre”.

Nell’ultima sua parte il volume ospita alcuni saggi di analisi critica comparata e quindi insistente sulle affinità ideali, sulle attinenze tematico-elaborative che il percorso d’arte di Zanon rivela con quello proprio di altre voci poetiche straniere moderne e contemporanee.

Floriano Romboli

 

 

Enzo Concardi (a cura di), Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Maurizio Zanon, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 100, isbn 979-12-81351-24-0, mianoposta@gmail.com.

 

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Marisa Marchesi Carli, "Il portolano"

14 Aprile 2024 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Marisa Marchesi Carli

IL PORTOLANO

 

 

S’intrecciano variegati motivi in questa raccolta elegante, raffinata e commossa della poetessa ferrarese Marisa Marchesi Carli. Intrecciarsi significa sovrapporsi, compenetrarsi, sgorgare dall’interiorità in libere associazioni per comporre e scomporre caleidoscopici fraseggi di varia intensità, leggerezza, pregnanza di significati. È un ricostruire, ricapitolare, rivisitare le stagioni dell’esistenza alla luce dell’esperienza e del giudizio postumo: siamo davanti a una poesia della memoria, delle memorie e degli affetti che hanno accompagnato la vita rendendola degna d’essere vissuta. È un prendere coscienza della condizione umana di dolore: un patire personale che non si ferma nella circonferenza dell’io, ma che va incontro alla dimensione universale nella comprensione della sofferenza dell’altro. Un patire che non ristagna nella propria commiserazione, ma che valica i suoi stessi confini per abbracciare le ragioni della speranza e le ragioni del sentimento. In tal modo l’autrice può sentirsi grata, debitrice verso coloro che sono stati i suoi fari nel cammino poetico e letterario; verso i luoghi geografici del cuore, divenuti così momenti dell’anima in una metamorfosi culturale e spirituale; verso le creature amate nella famiglia e nel mondo della scuola, i suoi mondi elettivi; verso madre natura medicatrice e donatrice di emozioni, suggestioni, voli pindarici.

 Le prime chiavi di lettura simboliche del libro, penso vadano ricercate nelle immagini e metafore marinaresche, ad iniziare dal titolo, chiaramente un nome del gergo dei lavoratori addetti alla navigazione costiera. È Il portolano, un manuale che contiene anche le carte nautiche indicanti la rotta, quindi ecco il viaggio dell’esistenza e la necessità di conoscere la strada: «Il portolano, / pensieri a bordo / della vita, / intreccio d’eventi». In perfetto stile ermetico l’ultima lirica della silloge, dalla stessa titolazione generale, ne sintetizza in modo estremo il senso e il contenuto. A rafforzare la poesia esistenziale della Carli sopraggiunge Quanti i porti, canto dell’affanno e della deriva di chi non trova dove posare il capo: «Quanti i porti / della vita / remoti tra lidi / senza approdo. / Imbarcaderi flangiflutti, / miraggi d’ancore, / cancellano orme / … / Naviga regatante smarrito / accecato dal luminoso / roco». Rientro al porto, potrebbe in apparenza rientrare in tali problematiche, ma in realtà è una lirica dalle suggestive immagini, dedicata alla fatica del lavoro marinaresco.

 La palude del dolore attraversata dalla poetessa è stata un’esperienza che l’ha messa a dura prova ed ovviamente ne troviamo traccia nella sua poetica, come ne L’assenza, un nome del dolore, dove sono «lacerati sogni / promesse e vita». Come ne La chiesetta dei malati, dove la condivisione del male fisico svela una scoperta importante: «... / ho conosciuto che il mio / dramma non era il solo». Ed ancora come in Spesso la sofferenza, che sembra ispirata al famoso male di vivere montaliano, ed è così, ma solo nel richiamo metrico, mentre il contenuto non è filosofico come nel poeta ligure, ma esistenziale in quanto la poetessa legge la sofferenza concreta colta nei volti, nei gesti, nelle speranze spente, nelle ceneri della rassegnazione: è una sofferenza umanizzata. Tale e quale al dolore per l’assenza di un affetto espresso: «…Quanto avrei voluto / giorni di abbracci e confidenze, / ma il pudore d’allora, / ritrosia all’amore / manifesto, / ce ne ha private. / Il non vissuto / riempie questo tempo, / lancinante rimpianto / d’amore non detto» (Mamma).

 Ma ecco che, per gli insondabili istinti di sopravvivenza umani, dal dolore fiorisce la speranza, ovvero la possibilità di un futuro roseo: la vita serba in sé ancora tanti doni e «dove caddero lacrime / cresceranno fiori … / fili d’oro ricameranno / prezioso avvenire» (Pieni di dolore). Ed è chiara e forte la sua voglia di speranza, tanto che a chiusura del libro, cita versi di Ungaretti: «Dopo tanta / nebbia / a una / a una / si svelano / le stelle». Testimonianza dell’amore verso la vita sono anche le numerose liriche in cui la natura è protagonista: al lettore scoprirle e centellinarle.

Enzo Concardi

 

 

Marisa Marchesi Carli, Il portolano, prefazione di Marcella Mellea, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-22-6, mianoposta@gmail.com.

 

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Roberto Casati, "Come armonie disattese"

12 Aprile 2024 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Come armonie disattese

Roberto Casati

Guido Miano Editore, Milano 2024

 

La presente raccolta poetica di Roberto Casati, Come armonie disattese, costituisce in sostanza, tranne per alcuni aspetti della sezione Corrotti sguardi dedicata ad accadimenti e personaggi della vita sociale e storica, una continuazione ideale, tematica ed estetica della precedente opera Appunti e carte ritrovate (2020). Colpisce anche lo sguardo del critico il successo avuto da tale libro, sempre pubblicato da Guido Miano Editore, che ha conseguito ben 53 riconoscimenti di vario tipo, come sottolineato dalla rivista “L’Araldo Lomellino” del 15 dicembre 2023, in un’intervista di Davide Zardo al poeta. Se la bacheca dei riconoscimenti è importante, per chi scrive più importanti ancora sono le motivazioni delle giurie qualificate: ne riportiamo alcune, dal momento che possono essere considerate altresì quale introduzione alla poetica di Come armonie disattese e come rassegna critica, sebbene parziale, riguardante la scrittura dell’autore.

 «Sensuali metafore marinaresche per raccontare una passione tra vento e maree. Ti viene voglia di conoscere questa donna indimenticabile che – reale o meno che sia – seduce anche il lettore con la sua figura sfuggente… Quelle di Roberto Casati sono poesie ricche e allo stesso tempo leggere, scorrono con ritmo incalzante a furia di figure etimologiche che rendono la narrazione sempre vivida...» (“Premio Letterario Nazionale EquiLibri”, Anguillara Sabazia, RM, 27 maggio 2023). «Il mare come metafora della vita. Tutta l’opera ne fa riferimento e con uno stile ricercato ma mai ostico parla della vita e dei sentimenti...» (“Premio Internazionale degli Scrittori Italiani”, Prato, 6 maggio 2023). «Un’opera poetica verticale e profonda. L’autore conosce intimamente la metrica dell’eros descrittivo, ma non si limita al mero esercizio stilistico, anzi scavalca le formalità e consegna al lettore una nuova lente ottica esistenziale» (“Premio Letterario Città di Asti”, Asti, 29 gennaio 2023). «L’Autore evidenzia una fervida immaginazione che trova, in ogni brano, una sua giusta misura ritmica e compositiva, dando luogo ad un’intera struttura espositiva che risulta viva e vitale, crea attese ed emozioni» (“Concorso Internazionale di Poesia Universum Basilicata”, Potenza, 21 marzo 2022).

Da tali annotazioni ripartiamo per l’analisi critica delle “disarmonie” casatiane, poiché tali sono le “armonie disattese” che hanno subito una metamorfosi, come le dinamiche “illusioni-delusioni” di tanta letteratura romantica: qui tuttavia occorre aggiungere che la sua poesia, per taluni risvolti, visita anche le regioni psicologiche di certo crepuscolarismo che, nel suo caso, possiamo considerare moderno nel linguaggio ed attuale nelle nostalgie memoriali, dal momento che lascia le porte aperte al futuro e alla speranza di nuovi eventi. Come sottolineato anche nelle motivazioni anzidette, Casati è un lirico che ama molto immergere il lettore in realtà rarefatte, impalpabili e sfumate, dove l’intuizione di chi legge può giocare un ruolo importante, creando così un filo diretto, un coinvolgimento intellettuale ed emotivo nelle dimensioni comunicative: pare essere questa la funzione principale che egli assegna alla poesia, anch’essa derivante dalla concezione pascoliana, ovvero da un poeta dell’irrazionale sensitivo e misterico del periodo della civiltà letteraria decadentistica, un grande alveo culturale sviluppatosi in Italia e in Europa tra fine Ottocento ed inizi Novecento.

Si sovrappongono inoltre a tutto ciò, nella poetica dell’autore, complessa e variamente articolata, taluni ermetismi, allusioni e metafore appartenenti come derivazione letteraria al Novecento analogico e sintetico, tipico della poesia sorta fra le due guerre mondiali e protrattasi oltre, come reazione ideale e formale ai toni ridondanti, retorici ed aggressivi del futurismo e del dannunzianesimo: affermazione dei valori fondamentali dell’uomo e della persona, sottesi talvolta ed espliciti altrove, nella concezione del nostro (vedi ad esempio la sezione Corrotti sguardi delle sue ‘disarmonie’). Nonostante che i pilastri fondamentali di Come armonie disattese siano costituiti dal rapporto con l’amore e con la natura - di per sé portatori di esigenze conoscitive e comunicative - si riscontrano nei testi del libro non poche allocuzioni in senso opposto, cioè riconducibili alle problematiche contemporanee dell’incomunicabilità, la cui lirica emblematica potrebbe essere individuata in Istante sospeso, dove il verso rivelatore è: «il rimpianto del non detto», ovvero il desiderio di ‘parlare’ e l’impossibilità di tradurlo in azione.

Abbondano dunque nel soliloquio poetico, nel viaggio per avventure interiori e geografiche, nelle oscillazioni sentimentali dell’amore vissuto e ricercato, negli sguardi addolorati sulle tragedie del nostro mondo, le incessanti auto-interrogazioni sul senso delle cose, delle memorie, del tempo che passa, dei messaggi del mare-mito e lezione per l’uomo navigante verso altri lidi ed approdi. Si tratta nel complesso di liriche aperte ad una ricerca di “passaggi a nordovest”, per utilizzare la terminologia marinara tanto cara all’autore, per la quale il viaggio non è mai finito, ma continua sempre anche in altre dimensioni. Il linguaggio raffinato, elegante, sottile, talvolta ricercato ma mai accademico, dalla fonetica spontaneamente e/o volutamente armonica e musicale, favorisce l’approccio, l’ingresso nel mondo interiore del poeta alla scoperta del suo ‘io’: le reiterazioni dei motivi, delle immagini, delle tematiche, posseggono le stesse caratteristiche delle anafore, quindi rafforzano il messaggio, ricordando al lettore la necessità di procedere in profondità più che in estensione.

Il libro è suddiviso in quattro parti, a cui l’autore ha assegnato titoli suggestivi ed accattivanti: Ho rubato i tuoi occhi (1), Corrotti sguardi (2), Rose nel vento (3), Scivola il tempo della luna (4). La poesia amorosa è presente soprattutto nella prima parte, ma ne troviamo traccia anche nella quarta. L’amore non ha spiegazioni è forse l’unica lirica dove si cerca una soluzione definitoria, ma che non viene trovata poiché esso è contraddizione ed antitesi: «L’amore non ha spiegazioni, / è vento sulle labbra, / è parola fragile scritta sul non detto, / è senza certezze, / è lentezza di passo appesa alla nudità, / è stanchezza quando non siamo noi. // L’amore è tutto e niente, / è voglia di vedere ancora / naufragare le vele oltre Capo Horn». Tutto l’altro è contemplazione di lei, a partire dagli sguardi: dentro ai suoi occhi la notte riapre il discorso; negli occhi del poeta lei troverà sempre intatto l’amore degli inizi; lui riconosce gli occhi di lei negli attimi di silenzio. Per continuare con il tempo dei ricordi nei momenti d’assenza, con la memoria di lei come la ragazza dei baci perduti, con il bruciore degli abbracci mancati. Per finire con le originali immagini del suo erotismo pudico: «... Nello stanco tepore di ceneri / parole disordinate / segnano la notte di vento. // Rivelando tracce / di intravista nudità a prima mattina» (Dentro stanche follie); «... Ciò che resta / sono semplici inseguimenti, / attimi svelati / dalla luna sul tuo seno» (Dilagano verso sud); «... così che io ti senta vicina / sulla linea dove combattono le tue gambe...». (Lascia aperta la porta).

La seconda parte, come già sottolineato in precedenza, contiene liriche che si discostano dai soliti motivi della poetica casatiana, e che la trasformano dunque in canto di testimonianza ed impegno civile, nonché in memoria storica e solidarietà verso vittime di calamità naturali o di responsabilità umane criminali, sia individuali che collettive. Tali sono le composizioni scritte nel periodo della pandemia (i «giorni strani e folli», «il senso, / il valore delle parole e degli abbracci» dimenticati, il vuoto dell’assenza e della distanza, la scoperta della fragilità…). Quelle sgorgate dall’anima in corrispondenza dell’invasione dell’Ucraina («… brucerà la notte e sarà / come fosse giorno, farà urlare / forte di dolore la madre colpita al cuore…» (Sbattono forte le persiane); le altre vergate in memoria di tutte le donne vittime di violenza e in particolare a Giulia Tramontano ed al suo piccolo che portava in grembo. Ed ancora rientrano in questo capitolo eventi come la strage neofascista alla stazione di Bologna; la morte di Masha Amini in Iran, colpevole di non indossare «correttamente l’hijab»; l’alluvione in Emilia Romagna; la strage di Ustica del giugno 1980 (a Rosa De Dominicis, assistente di volo); l’attentato al giudice Borsellino da parte della mafia siciliana (a Emanuela Loi componente della scorta).

Le Rose nel vento (terza parte) profumano di momenti memoriali che poi ritroveremo sparsi anche in Scivola il tempo della luna (quarta parte). Sono rivisitazioni e nostalgie di varia natura che vanno dal ricordo di baci a ritorni verso casa; dagli affetti perduti alla dipartita dolorosa della madre, alla rievocazione dei giorni felici dei giochi d’infanzia, senza pensieri e senza solitudine (Quel cortile era un puzzle). I percorsi della memoria risvegliano riflessioni sul tempo: «... ciò che resta / è l’attimo ritrovato ieri. // Domani saremo già / così lontani da qui» (Così lentamente bianche). È un panta rei che tuttavia gonfia le tue vele se «...sei anima libera / nel mare sterminato del tempo» (Vorrei essere come te). Ma la legge degli opposti s’impone forte anche in queste dimensioni che sfiorano l’astratto, così ecco apparire alla vista del poeta un tempo disabitato, paesaggi desolati e un senso d’estraneità in un mondo forse sempre più incomprensibile (Forse domani ancora).

Il poeta, fedele a se stesso, può concedersi ancora sogni e fantasie: c’è Dragut, corsaro ottomano del 1.400; Gibilterra e gli echi lontani dei mari del sud; il non visto che ancora attrae nonostante i percorsi senza meta; l’ultimo viaggio misterioso dove regna un agnosticismo senza sbocchi… e la compagnia delle lettere, forse più concreta, che s’incarna in Cesare Pavese, Pablo Neruda, Milan Kundera.

E lasciarsi catturare dalla contemplazione della natura, finché l’eternità del mare sarà dentro di noi.

Enzo Concardi

 

 

 

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L’AUTORE

 

Roberto Casati (Vigevano, PV,  1958) si è occupato di informatica gestionale. Ha pubblicato i libri di poesie: Amore e disamore (1984), Roma e Alessandra (1986), Coincidenze massime (1988), Ipotesi di fuga (1992), In navigazione per Capo-Horn (1999), Carte di viaggio (2016), Appunti e carte ritrovate (2020). Ha conseguito molti premi e riconoscimenti; tra i più recenti ricordiamo il primo posto al "Premio Letterario Internazionale Tulliola-Renato Filippelli" del 2023.

 

 

Roberto Casati, Come armonie disattese, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 164, isbn 979-12-81351-31-8, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Poesia 24

11 Aprile 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia, #riviste letterarie

 

 

 

 

Poesia 24
Rivista Internazionale di Cultura Poetica
Marzo/Aprile 2024

Ogni numero di Poesia è una scoperta, una finestra sul mondo della lirica internazionale che apre nuovi orizzonti e al tempo stesso fa viaggiare nel tempo per portare a conoscere opere ignote e far riemergere poeti del passato. Nel numero 24 (Euro 14 per 130 pagine) rileggiamo Vittorio Sereni (1913 - 1983) nel quarantennale della scomparsa con un grande libro Mondadori e con un pezzo di Daniele Piccini che rivede Leopardi e Petrarca in un pugno di versi del poeta di Luino. Si tratta di poesia intrisa di musica atonale, dice il commentatore, che va verso la prosa. Subito dopo scopriamo un crepuscolare minore come Carlo Chiaves (1882 - 1919), presentato da Silvio Ramat, un autore che attinge a piene mani dalla lettura di Pascoli e D’Annunzio, fa poesia autobiografica e muore giovane per colpa di un attacco cardiaco. I problemi di salute fanno in modo che Chiaves non partecipi al primo conflitto mondiale ma sono anche la causa di una prematura comparsa. Il poeta è uno strano essere che vive fantasticando, tra sogno e ironia, come dice il titolo della sua unica opera, anche se con Chiaves siamo dalle parti della cultura storica più che del valore letterario. Daniele Ventre e la sua Odissea commentata - presentato da Maria Clelia Cardona -  ci porta nel mondo classico, un volume di 1.310 pagine edito da Ponte alle Grazie, davvero uno sforzo culturale immenso per una traduzione critica dei famosi versi che approfondisce la questione omerica e tutto quel che ruota attorno. Gabriele Morelli, invece, traduce un grande poeta spagnolo contemporaneo come Martin López Vega (che non conoscevo, quindi ringrazio) e la sua opera base El uso del radar en mar abierto, una riflessione sul senso del destino e dell’esistenza. Tra viaggi, incontri e senso della vita, scopriamo che l’amore è l’ancora di salvezza, niente di nuovo sotto il sole, ma molto spesso non è quel che si dice a fare la differenza ma - come in questo caso - il modo in cui si dice. López Vega traduce Pasolini e Sgalambro in spagnolo, per questo benemerito, merita di essere letto anche solo per il verso “ma è chi resta che davvero costruisce la verità”, perché la soluzione di fuggire è solo la più facile, non la più giusta. Poesia presenta in questo numero anche un Opificio delle voci nuove, a cura di Giulia Martini, che introduce al mondo lirico di tre poeti classe 2001 (sarebbero giovani anche come calciatori, figurarsi come poeti!) che già hanno lasciato il segno come redattori e autori di opere in versi tradotte in molte lingue. Sto parlando di Rebecca Garbin, Mattia Tarantino e Imperatrice Bruno, che meritano un’attenta lettura. David Riondino abbassa il livello del numero 24, purtroppo, ché ricordo l’autore ottimo regista di Biciclette ai tropici e buon umorista con la chitarra in mano, mentre sul valore poetico delle sue terzine ospedaliere esprimo le più ampie riserve. Adam Ansky (1838 - 1897) ci riporta in alto come poeta di un’era impoetica, un post romantico polacco presentato da Valeria Rossella, con i suoi sonetti filosofici tratti dal ciclo Sugli abissi che parlano di solidarietà e auspicano un ponte tra generazioni. Torniamo al mondo classico con le Georgiche di Virgilio e la splendida (quanto libera) traduzione di Giancarlo Pontiggia dei versi 125 - 146 del quarto libro, dedicati a Il vecchio di Corico. Siamo in presenza di una sorta di lectio magistralis di grande spessore e complessa interpretazione (pure per me che provengo da studi classici) che contrasta non poco con la pubblicazione dei versi di Riondino nelle pagine precedenti. Bravissima Anna Maria Carpi (Milano, 1938) che con un florilegio di liriche ci fa riflettere sul senso della vita, al solito conta come si scrivono certi argomenti universali; la poetessa lo fa molto bene, con semplicità lirica e concetti alla portata di tutte le teste (per me un valore aggiunto). Stefano Carrai commenta la poesia moderna e contemporanea in poche paginette, prima di lasciare il lettore alla scoperta di Claudio Damiani con la sua ricerca spirituale di un motore universale che fa ruotare il mondo. Poesia sociale che condanna guerra e violenza, quella di Damiani, senza dimenticare ingiustizie di ogni tipo, disuguaglianze e fame nel mondo. Chiudono una buona rivista, che come sempre consigliamo, un estratto di quarant’anni di lettere inedite (1935 - 1975) di Eugenio Montale a Carlo Bo, presentate da Stefano Verdino, edite da Raffaelli Editore (Rimini 2023).

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Domenico Minardi, "Qunand' ca sémia burdèl"

10 Aprile 2024 , Scritto da Raffaele Piazza Con tag #raffaele piazza, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Domenico Minardi

 

QUAND ’CA SÉMIA BURDÈL

 (Quando eravamo ragazzi)

 

In Quando eravamo ragazzi Domenico Minardi diviene un cantore della vita e ottimisticamente in versi descrive efficacemente la gioia dell’essere sotto specie umana per dirla con Mario Luzi.

Questa felicità, come per Leopardi e Pavese, si riferisce in particolare alla giovinezza e alla sua riattualizzazione nell’età matura.

Il poeta ha scritto queste poesie da adulto e in esse serpeggia lo scarto e lo scatto memoriale come in Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

Lo scavare nella memoria del poeta è struggente ma senza autocompiacimenti e senza gemersi addosso: al contrario il poeta, che anche da adulto sa apprezzare la gioia della vita come dono, rievoca la giovinezza con la sua verginità morale di un’anima in formazione.

Minardi è romagnolo e molto legato alle radici del suo paese natio, alla campagna alla terra e alla natura oltre che agli affetti familiari e ama il suo microcosmo il paesino dove vive che sembra proteggerlo dal mare magnum del mondo che è fuori. In questo il poeta è paragonabile a Giovanni Pascoli nel fare del cronotopo dove è nato e vive un luogo di elezione e contrariamente allo stesso Leopardi non ama il naufragare cosmico dell’individuo negli spazi infiniti dell’universo.

I componimenti in italiano presentano la traduzione nel dialetto della sua terra e l’uso del dialetto del suo paese conferma l’amore per il luogo natale unico per caratteristiche antropologiche rispetto a ogni altro posto come ogni paese del mondo.

Le generazioni si susseguono e il poeta è conscio che questo è il normale iter della vita e qui viene affrontato il tema del senso del profitto domestico comune alla specie che si coniuga a sentimenti nobili che nel terzo millennio liquido, consumistico e alienato sembrano essersi persi definitivamente.

L’adulto Minardi era conscio perfettamente dell’importanza per il raggiungimento della felicità del dovere sentirsi giovani nell’anima e nel corpo anche nella maturità e nella vecchiaia e lo scrivere poesie, che sono generate dai ricordi della giovinezza e direi anche dall’adolescenza, lo aiuta a sentirsi giovane.

Del resto un noto pedagogista ha scritto un saggio intitolato Elogio dell’immaturità nel quale mette in luce il fatto che è salutare avere un approccio adolescenziale con la vita a tutte l’età e lo stesso San Giuseppe Moscati nei suoi scritti ha affermato che i ricordi dell’adolescenza, della giovinezza e dell’infanzia rielaborati nella mente in età matura fanno bene al corpo e all’anima dell’uomo.

Il lettore s’identica nell’io-poetante quando scrive nella poesia eponima: - “Stavamo in una capanna sopra un fosso / fatta di canne di lamiera e qualche bastone / ricoperta di stracci turchini, gialli o rossi / e una fionda posata in un angolo”; qui il tema del gioco diviene, nel minuzioso rivelarsi dei particolari, stato soave per dirla con il recanatese, gioco che è preludio di quello della vita adulta fatta di responsabilità, ma non per questo vissuta a 360 gradi con spensieratezza, come antidoto ai malesseri della società dai quali l’individuo non riesce a sottrarsi.

Raffaele Piazza

 

 

 

Domenico Minardi, Quand ’ca sémia burdèl (Quando eravamo ragazzi), prefazione di Enzo Concardi, postfazione di Pier Guido Raggini, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-11-0, mianoposta@gmail.com.

 

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Federica Cabras, "Dannata"

9 Aprile 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Dannata

Federica Cabras

O.D.E. Edizioni, 2023

pp 250

 

 

Come ormai sappiamo, i generi preferiti della scrittrice ogliastrina Federica Cabras sono il chicklit brioso e conversazionale e l’horror cupo e tormentato. Dannata, la sua più recente fatica per la O.D.E. Edizioni, appartiene a quest’ultimo canone.

Maddalena Sirigu è bella, dinamica e con un buon lavoro. Si è da poco separata da un marito infantile, sposato solo perché incinta, il quale, però, l’ha tradita. Ha una figlia di due anni che è la luce dei suoi occhi, amata follemente fin dal concepimento. Durante la festa del compleanno della piccola, la bambina, momentaneamente affidata alla nonna paterna, ingurgita una tartina al würstel e si strozza. Muore in un istante, senza che nessuno possa far nulla per salvarla. Prima c’era ora e non c’è più, prima sorrideva, faceva il broncio, correva sulle gambette paffute e ora giace in una bara a decomporsi.

Devastata da un dolore sovrumano e innaturale, Maddalena non ha più motivo di continuare a respirare e a farsi battere il cuore, a meno che… a meno che non riesca a riavere ciò che ha perso, a riportare in vita la bambina deceduta. Per farlo, per non sentire più la lancinante sofferenza e il mostruoso vuoto, è disposta a tutto, anche a seguire la via più oscura e orrida, a scendere a patti col Male assoluto.

Quanta cattiveria c’è in ognuno di noi, anche nella persona più semplice e perbene? Quanto è facile per Satana far breccia nelle nostre difese, nei nostri rimorsi, nei nostri sensi di colpa, nei nostri desideri, e indurci a compiere atti impensabili?

C’è un riscatto da tutto questo? Forse sì, ancora una volta nell’amore. Quello della protagonista per Satana nel romanzo è un po’ “di maniera” e, infatti, non regge il confronto con l’amore materno, con quel sentimento atavico e primigenio che è l’essere madre, quello che ti fa rinunciare anche alla tua stessa vita in favore del sangue del tuo sangue.

Senza svelare il finale, posso dire che Maddalena e il suo rapporto col diavolo incarnano anche il contrasto fra amore materno e amore sessuale, quanto spesso la donna preferisca la maternità al rapporto di coppia, quanto possa sentirsi sottilmente in colpa e lacerata in entrambi i casi.

La Cabras riesce, come suo solito, a farti provare tutta la desolante disperazione del lutto, cosa nella quale è bravissima, ma anche lo spaventoso procedere verso l’orrore e il male. Talmente inquietante, realistica e coinvolgente a sua penna che, nel rileggere il testo per recensirlo, ho dovuto fermarmi, fare delle pause per non soccombere all’angoscia. 

In questo horror ci sono tutti i topoi del genere: la bambina in stile bambola assassina, il patto di sangue, l’accoppiamento con l’essere sovrannaturale. Ma ci sono anche, ben rappresentati, i risvolti psicologici di una situazione terribile come la perdita di un figlio. Si passa attraverso ogni stadio del lutto, dall’incredulità, alla rimozione del senso di colpa tramite attribuzione della stessa ad altri, alla ricerca di una via d’uscita, d’un rimedio che non ci può e non ci deve essere.

Insomma, ci insegna l’autrice, i morti è meglio lasciali lì dove stanno.

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