Cinzia Diddi veste Carlotta Bolognini
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Carlotta Bolognini è figlia del grande produttore cinematografico Manolo Bolognini, fratello dell’altrettanto grande regista Mauro Bolognini.
Si è svolta nella splendida residenza storica di Casina di Macchia Madama a Roma la prima edizione di due Premi dedicati al Grande Cinema Italiano, ideati e realizzati proprio dalla Bolognini: il Premio Cinema Anni d’Oro, rivolto per questa occasione alle opere cinematografiche girate nei quartieri e nelle strade di Roma, e il Premio alla carriera George Hilton.
L’abito dell’evento è stato realizzato dalla stilista dei vip, definita dalla stampa "la stilista che veste l’anima": Cinzia Diddi.
Intervista a Cinzia Diddi.
Come ha vestito la Sig.ra Bolognini?
Carlotta è una splendida persona che, per la sua gentilezza, educazione e sensibilità, andrebbe vestita dei colori dell’arcobaleno. Quando ci siamo parlate per capire come realizzare l’abito per l’evento è stata molto immediata: “ Vorrei essere vestita di nero”.
Ho accettato di utilizzare questo colore che poco la rappresenta come anima ma rende giustizia alla sua serietà, compostezza, professionalità.
Il nero è il colore del rigore!
Ho usato le paillettes per la lunga casacca per celebrarla, metterla al centro della scena.
A cosa si è ispirata?
Considero gli abiti “Diamanti di Tessuto” perché hanno la particolare ed importante funzione di proteggere, fanno da “involucro” al corpo o meglio ancora all’anima.
Ho usato tessuti importanti, tessuti nobili, per avvolgere Carlotta, questa meravigliosa anima gentile.
Perché la stilista che veste l’anima?
Cerco sempre di far emergere la parte più nascosta attraverso gli abiti, l’io più profondo.
Cos’è per lei la Moda?
L’altro modo di presentare se stessi attraverso gli abiti. Ci sono vari modi per presentarsi: la parola, l’atteggiamento, la gestualità e gli abiti. Gli abiti raccontano chi sei, che rapporto hai con te stesso, quanto ti rispetti.
Lei è figlia d’arte?
Il mio è un passaggio di testimone è la storia di una promessa! Mio padre, mio nonno provenienti da questo mondo!
La mia figura di riferimento è senza dubbio mia madre donna di grande gusto.
Ha vestito molti vip, curato molti film, spettacoli teatrali cosa prova ogni volta?
Amo le prime volte perché regalano emozioni e adrenalina. Quando non sono più prime volte cerco di rinnovare l’emozione. Una sfida nella sfida.
Non omnis moriar: una meditazione sullo scrivere
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di Guido Mina di Sospiro, tradotto dall’inglese da Patrizia Poli
(pubblicato originalmente su New English Review sotto il titolo Non Omnis Moriar: A Meditation on Writing)
Nel 1992 inviai una lettera al mio vecchio professore di latino, nella quale, inter alia, avevo tradotto per lui il finale di un libro terminato di scrivere alcuni mesi prima. The Story of Yew, alias Memoirs of a Tree, o, nell’edizione italiana, L’albero. Segue un estratto dalla risposta epistolare del professore:
II breve frammento del tuo romanzo, che mi hai trascritto, mi è piaciuto molto. Contiene una riflessione seria che credo sia uno dei motivi conduttori del libro. La natura, la morte: quesiti destinati a rimanere senza una risposta convicente. Tra le tante risposte possiamo scegliere quella dei libri poetici con il loro sofferto “non omnis moriar”. In verità l’uomo lavora, crea, per non morire del tutto, per sopravvivere almeno in parte in ciò che ha fatto. C’è in noi una ansia di eterno insopprimibile. Prova a rileggere o a ripensare all’opera di un poeta prendendo come chiave di lettura il tema della morte, la sua risposta a questa mistero. E scoprirai forse che la letteratura è sorta in funzione della morte, come risposta al mistero della morte.
Non omnis moriar è tratto da ciò che probabilmente costituisce il più antico testamento poetico: L’ode 3.30 di Orazio. Significa “non morirò del tutto”. In uno stile piuttosto roboante
Ho creato un monumento più duraturo del bronzo
E più elevato della struttura delle regali piramidi
Che né la vorace pioggia, né lo sfrenato Vento del Nord
Potranno distruggere, né lo sterminato succedersi di anni e la fuga del tempo (…)
il poeta annuncia ai suoi contemporanei e soprattutto ai posteri che non morirà del tutto, che parte di lui vivrà nella sua poesia, come, infatti, è avvenuto: eccomi qui, nel 2020, a citare una poesia vecchia come l’albero di tasso nel mio romanzo: due millenni.
Aveva ragione il mio professore? È per questo motivo che scriviamo? Per non morire del tutto, per sopravvivere almeno in parte in ciò che abbiamo fatto? La letteratura è nata, come la religione, come risposta al mistero della morte? Ho posto tali domande a uno dei più acuti critici letterari che io conosca, Davide Brullo, egli stesso un poeta. Ha risposto:
Certamente, l’uomo scrive per trovare la parola che faccia risorgere. Ma è vero che la risposta alla morte è con la vita. La poesia è vita, fenomenale, funambolica. Credo, poi, che ci sia una eredità, un lascito in luce. Tanto la battaglia con la morte è persa, dunque scagliamo bolidi verbali sul viso del millennio venturo, che esista il nome dello scrittore o meno è iniquo, vano. Egli crea un linguaggio.
Immortalità, dunque, il vero scopo dell’alchimia, il fine escatologico di così tante religioni, maggiori e minori. È bello doppo il morire vivere ancora, come dice il motto rinascimentale.
Mi chiedo se sia stato lo stesso desiderio di immortalità ad animare Alfred Jarry quando scrisse Gestes et Opinions du Docteur Faustroll, Pataphyshycien (Gesta e opinioni del Dr. Faustroll, Patafisico)? Sì e no sarebbero entrambe risposte giuste. Uno dei libri più intelligenti e spiazzanti che io conosca, in grado di prevedere gli sviluppi futuri della cultura occidentale, è stato scritto nel 1898 e pubblicato per la prima volta postumo nel 1911, quattro anni dopo la morte di Jarry.
Lo stesso desiderio di immortalità ha permeato Dissipatio H.G. di Guido Morselli? La risposta può ben essere, ancora una volta, sì e no.
Il titolo sta per Dissipatio Humani Generis, una frase estratta dagli scritti di Giamblico; significa, la scomparsa dell’umanità.
Il protagonista-narratore, un intellettuale lucido, ipocondriaco, “fobantropo” più che misantropo, decide di affogarsi in uno stagno dentro una caverna in alta montagna. Ma, una volta là, cambia idea, e ritorna al suo chalet.
Alla fine scoprirà che l’umanità, dopo che lui ha cambiato idea circa il suicidio, è svanita. L’umanità è ora rappresentata dall’unico componente superstite, un uomo che stava per lasciarsela alle spalle e che non aveva mai sentito di farne parte.
Così ha inizio un monologo – filosofico, ontologico ed escatologico – in uno sfondo di assoluto silenzio, a parte pochi rumori causati dagli animali o da macchine che continuano a funzionare. Presto il suo monologo si trasforma in un dialogo con i suoi ricordi e poi con tutte le persone svanite.
Il supremo solipsista finisce con il desiderare disperatamente gli esseri umani.
Questo fu l’ultimo libro di Morselli; a differenza del protagonista di Dissipatio H. G., non cambìo idea all’ultimo momento e, poco dopo che anche questo manoscritto fu rifiutato, si suicidò. Ma poi fu pubblicato postumo, insieme a diversi altri suoi libri; la prima edizione in inglese uscirà negli Stati Uniti questo dicembre; ed eccomi qui, decadi dopo che il rifiuto spinse il suo autore a suicidarsi – senza però morire del tutto.
Alcuni giorni fa ho ricevuto una email da un’ammiratrice attraverso il mio sito. Aveva comprato il mio L’albero a Losanna, in Svizzera, in francese, e le era piaciuto; lo aveva quindi acquistato in edizione spagnola cosicché potesse leggerlo suo marito; e ora, a Quito, in Ecuador, lo voleva presentare al suo circolo di lettura, all’aperto per via delle restrizioni dovute al Covid, sotto il vulcano Pichincha – lo stesso libro con cui ho iniziato questa riflessione e il cui finale ho tradotto, agli inizi degli anni novanta, per il mio professore di letteratura latina. Ciò che mi colpisce in retrospettiva è che l’albero di tasso (Taxus baccata) è un essere tecnicamente immortale, capace di rigenerarsi all’infinito. I suoi primi fossili sono datati duecentocinquanta milioni di anni e, se paragonati alle sue condizioni attuali, mostrano che non c’è stata evoluzione: è nato perfetto per vivere in eterno.
Questo presunto desiderio d’immortalità, quanto risuonava in me più o meno mezza vita fa? Forse non così a livello conscio come adesso, ma può darsi che già allora fosse la motivazione.
Così tanti poeti e scrittori non sono morti del tutto, e il loro lascito vivente ci permea tutt’oggi. Gli autori contemporanei potrebbero ritenerli i loro mani, cioè le anime degli antenati, e venerarli come spiriti benigni. Alcuni di noi probabilmente già lo fanno.
Back in 1992 I sent a letter to my old Latin literature professor in which, inter alia, I translated for him the ending of a book I had finished a few months before, The Story of Yew, aka Memoirs of a Tree. There follows an excerpt from the professor’s epistolary reply:
The short fragment of your novel, which you transcribed for me, I liked very much. It contains a serious reflection that I believe is one of the main themes of the book. Nature, death: questions destined to remain without a convincing answer. Among the many answers we could choose the one from poetry books with their suffered ‘non omnis moriar.’ In truth man works, creates, not to die wholly, to survive at least in part in what he has done. There is in us an irrepressible yearning for the eternal. Try to reread or rethink the work of a poet taking as a key to understanding the theme of death, his answer to this mystery. And perhaps you will discover that literature was born as a function of death, as an answer to the mystery of death.
Non omis moriar is taken from what probably constitutes the oldest poetical testament: Horace’s Ode 3.30. It means, I will not wholly die. In rather bombastic fashion
I have created a monument more lasting than bronze
and loftier than the royal structure of the pyramids,
that which neither devouring rain, nor the unrestrained North Wind
may be able to destroy, nor the immeasurable
succession of years and the flight of time. (…)
the poet announces to his contemporaries and above all to posterity that he will not wholly die, that part of him will live on in his poetry, as, in fact, it has: here I am, in 2020, quoting a poem as old as the yew tree in my novel: two millennia.
Was my professor right? Is that why we write? Not to die wholly, to survive at least in part in what we have done? Was literature born, much as religion, as an answer to the mystery of death? I posed these questions to one of the most insightful literary critics I know, Davide Brullo, himself a poet. His reply:
Certainly, man writes to find the word that will resurrect him. But it is true that the answer to death is through life. Poetry is life, phenomenal, acrobatic. I believe, moreover, that there is an inheritance, a legacy in light. At any rate the battle with death is lost, so let’s hurl verbal fireballs at the face of the coming millennium, whether the name of the writer exists or not is unfair, vain. He creates a language.
Immortality, then, the true goal of alchemy, the eschatological objective of so many religions, major and minor: È bello doppo il morire vivere ancora, as the Renaissance motto goes: it’s beautiful, after having died, to be still alive.
I wonder if it was the same yearning for immortality that animated Alfred Jarry when he wrote Gestes et Opinions du Docteur Faustroll, Pataphysicien (Exploits and Opinions of Dr. Faustroll, Pataphysician)? Yes and no would be both appropriate answers. One of the cleverest and most mind-bending books known to me, predating developments in western culture by about eighty years, it was written in 1898 and first published posthumously in 1911, four years after Jarry’s death.
Was it the same yearning for immortality that informed Guido Morselli’s Dissipatio H.G.? The answer may well be, once more, both yes and no.
The title stands for Dissipatio Humani Generis, a sentence excerpted from the writings of Iamblichus; it means, the vanishing of humankind.
The narrating protagonist, a lucid, hypochondriac, “fobanthropic” more than misanthropic intellectual, decides to drown himself in a pond inside a cave high up in the mountains. But once there, he changes his mind, and walks back to his cottage.
He will eventually discover that humankind, after he changed his mind about committing suicide, has vanished. Humanity is now represented by its single remaining component, a man who was about to leave it behind and who never felt that he belonged in it in the first place.
Thus begins a monologue—philosophical, ontological and eschatological—with nothing but absolute silence as a background, except for a few noises caused by animals or by machines that keep on working. Soon his monologue turns into a dialogue, with his memories and then with all the vanished people.
The ultimate solipsist ends up longing desperately for humans.
This was Morselli’s last book. Unlike the protagonist in Dissipatio H.G., he did not change his mind at the last moment and did commit suicide shortly after this manuscript, too, was rejected.
But then it was published posthumously, along with several other books of his; its first English edition will be released in the US this coming December; and here I am, writing about it decades after its rejection prompted the author to take his own life—but he did not wholly die.
A few days ago I received through my website an e-mail from a fan. She had bought my Memoirs of a Tree in Lausanne, Switzerland, in its French edition, and had loved it; she had then bought it in its Spanish edition so that her husband could read it; and now, in Quito, Ecuador, she was going to present it to her book club, outdoors because of Covid restrictions, under the Pichincha Volcano—the same book with which I opened this meditation and whose ending I translated, back in the early 1990s, for my professor of Latin literature. What strikes me in retrospect is that the yew tree (Taxus baccata) is a technically immortal being, capable of regenerating itself in perpetuity. Its earliest fossils date back to two hundred and fifty million years ago and, compared to its present state, show that there has been no evolution: born perfect to live eternally.
How did this purported yearning for immortality resonate in me more or less half a lifetime ago? Perhaps not as consciously as it does now, but I suppose it was, even then, the motivator.
So many poets and writers did not wholly die, and their living legacy informs us to this day. Contemporary authors could think of them as their manes, i.e., the souls of dead ancestors, and worship them as benevolent spirits. Some of us probably already do.
Roberto Concu, "Fedeltà del gelso"
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Fedeltà del gelso di Roberto Concu (AnimaMundi Edizioni, 2020) è una raccolta poetica gentile, una risposta saggia alla vita, nella costante corrispondenza alla fiducia e all’origine delle parole, il bagaglio sentimentale trasportato dalle stagioni e da ogni benevola esperienza. I versi ricompongono nello spazio metafisico i richiami profondi ed istintivi della terra, nella fantastica distrazione che è l’eredità di un incanto e il premuroso legame con la realtà, l’eterna sospensione che dilata la nobile consistenza del tempo ed occupa l’educata e naturale familiarità ai luoghi e alle persone, con l’immediatezza dei sentimenti e la spontanea armonia con la natura. Il poeta intrattiene miracolose sensazioni, assolute ed improvvise circostanze poetiche che ispirano la trasposizione simbolica del gelso, osservato in tutti i suoi mutamenti e trasferisce le similitudini originarie arricchendo significati alla vita. Roberto Concu si descrive fedelmente nell’accoglienza riservata ai suoi versi, teneri, candidi e immaginifici, dove gli accadimenti umani si identificano con la sorprendente e determinante urgenza della vita, nell’impeto entusiastico di creare un componimento poetico dell’anima che trae la sua forza dalle suggestioni dei pensieri e delle immagini. Il libro intreccia l’autentica manifestazione della verità poetica, il sentimento delle cose, il senso di stupore e meraviglia nei toni semplici e rapidi dello spirito libero, un intimismo espressivo e crepuscolare, l’attimo presente oltre le stagioni che aprono l’anno naturale, i luoghi del cuore esposti allo scorrere inesorabile del tempo, in una cortina di ombre e luce, di gioia e di tristezza. Una letteraria e nostalgica bellezza degli spazi, il compimento di un’alleanza emotiva, il valore estetico dell’illuminazione che non consuma e non inganna la memoria di ogni vissuto. L’autore assapora la grazia degli incantesimi e la naturale abitudine della realtà quotidiana, rifugiandosi negli interni del silenzio, ritrovando la confidenza diffusa delle atmosfere e dedicando il tempo ai sogni, proteggendoli e coltivandoli al di là dell’indifferenza dei tempi. Spirito romantico, nel caldo e ammantato colore della speranza, lo spirito poetico giunge ad una meta riservata, privata, lontana dai clamori del mondo, adagiando l’atemporaneità dei valori affettivi, proiettando nel cuore di un destino che pulsa e batte gli attimi della vita, scandita dal torpore e dalla compiacente indolenza assopita di chi sa vivere altrove, altre vie, altri destini. L’energia espressiva ed ospitale delle parole accompagna la delicatezza dell’appartenenza, con la generosità della contemplazione per i frutti che la poesia dona, cinge il legame con l’evocazione dei sentimenti, stringendo l’alleanza con la bellezza di ogni destinazione umana.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
Mattino.
Nella sacralità del silenzio
odo il canto
della figlia del giardiniere
un'onda di mistero
mi commuove.
O dolce, ridente Saffo
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Nuovo gennaio.
Spoglio il gelso -
monaco fedele al voto -
la verità oltre la parola
esige il medesimo linguaggio
spoglio
Foglie parole
ammucchiate
agli angoli del cortile
Come transita in fretta
la luce nell'ombra
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Parola è il volto
presenza che si auto-nega
sino a non mostrarsi più
e spingerci
laddove il dolore
è conoscenza
la voce un passo
tra possibile e impossibile
Mostrare il volto
le cose
il loro -
osceno
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L'inizio della pioggia
accorda il giorno
con la pelle tesa delle foglie
Rifuggono i merli e i
passeri venuti a beccare
le briciole sul balcone
Matura la luce
allo stesso ritmo secolare
della pioggia
tutto è pace e desiderio
prima che il mondo si risvegli
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Un nuovo alfabeto
oltre l'egoismo
l'oscuramento
la corruzione -
Aleph e Ghimel -
fedeltà e primavera
una nuova voce
con cui
manomettere
il nome d'ogni cosa
riconoscere
la sacralità del silenzio
davanti al muro del Mistero
Frutta martorana e Ossa di Morto
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Durante il periodo di Ognissanti e la Festa dei Morti nelle pasticcerie e nei bar risulta onnipresente la frutta martorana, dolci tradizionali che simboleggiano, nonché ricreano, i frutti tipici siciliani: mandarini, limoni, arance, fichi d'India etc, prodotti morbidissimi realizzati con la pasta reale o pasta di mandorle. Avendo un alto concentrato di zucchero, se divorati in grandi quantità possono causare la carie ai denti.
Da menzionare le Ossa dei Morti, caratteristici biscotti Made in Sicily, di dura consistenza, preparati con zucchero, farina, albume e chiodi di garofano. Data la croccantezza, danneggiarsi qualche dente non é affatto difficile. In proposito é “morto” probabile che annualmente i dentisti tra Ottobre e Novembre faciano affari d'oro, quindi occhio e… bocca!
Ad ogni modo sia la frutta martorana e sia le Ossa dei Morti solitamente vengono combinati insieme e venduti in vassoi o in cestini con l'aggiunta di caramelle e cioccolatini, al fine di arricchirli, rendendoli di fatto più gradevoli all'occhio e naturalmente al palato. Associare tali prodotti ad Halloween è da ritenersi una bestemmia, in quanto con la festività americana non c'azzeccano nulla, sebbene le Ossa dei Morti potrebbero far pensare il contrario.
Avevo otto anni e non avevo ancora assaggiato entrambe le tipologie di dolci. Idem per mia sorella Cettina, tant'è che tutti e due sbavavamo alla vista, con quell'incollare le nostre facce alle vetrine delle pasticcerie ,immaginando di quanto potessero essere buoni. Un pomeriggio i nostri genitori ci promisero di acquistarne un misto, a patto di pazientare una settimana in attesa del 2 di Novembre, il giorno della Commemorazione dei defunti, e con la raccomandazione di mangiarli con parsimonia sia per prestare attenzione ai i denti e sia perché molto calorici.
Per la Festa dei Morti andammo a pranzare dai nonni paterni. Fu nonno Peppino ad andare in mattinata al bar sotto casa per comprare i dolci desiderati, sostenendo che, data la confusione, il proprietario a fine giornata con i guadagni forse si sarebbe potuto permettere l'acquisto di una villetta al mare con piscina. A tavola, io e mia sorella fondamentalmente eravamo impazienti di "sconfezionare" il vassoio che stava in bella mostra sopra il frigorifero.
Dopo un gozzoviglio di pasta al forno, carne e bibite gassate, arrivammo alla frutta, ma non ancora a quella frutta zuccherata tanto ambita. Mi scoglionai e presi l'iniziativa di prendere il vassoio e di aprirlo proprio mentre la mia famiglia era distratta a parlare o a sbucciare i vari frutti posizionati, per non dire ammassati nella fruttiera. I miei familiari si accorsero di ciò che avevo fatto e per ovvi motivi si irritarono. Indifferente, afferrai un pugno di frutta martorana in una mano e un pugno di Ossa di Morto in un'altra.
«Sei uno zulu!» mi rimproverò mia madre.
«Prendine ancora, mi raccomando» ironizzò, seccato mio padre. «Stai sicuro che poi ti potrai fare la dentiera come a tuo nonno!»
I nonni sorridevano, presumibilmente non volevano unirsi alle polemiche. Sorprendentemente mia sorella rimase a guardare, sembrava aspettare il permesso dei grandi.
Assaggiai avidamente un Ossa di Morto e un dolcetto qualsiasi di frutta martorana, precisamente una pera. Restai deluso. Il primo troppo croccante, valutandolo niente di che, il secondo troppo dolce, sdegnoso e senza un retrogusto di frutta come avevo erroneamente immaginato. Con nonchalance rimisi al suo posto l’ormai inutile bottino che tenevo tra le mani, ovvero nella rettangolare guantiera di cartone.
Mia sorella cominciò a lagnarsi fastidiosamente dal momento che era decisamente schifiltosa.
«Ah, non li voglio più! Sto scimunito li ha toccati con quelle sue manacce zozze e li ha buttati lì con gli altri!»
Litigammo. Siccome la schizzinosa Cettina si trovava seduta di fronte a me, non potendola percuotere facilmente le lanciai un Ossa di Morto sulla fronte, un biscotto duro come pochi.
Mia sorella con l'intento di scendere dalla sedia per reagire allo sgarro, maldestramente fece cascare una bottiglia di coca cola senza tappo sopra il vassoio aperto; tuttavia lo strato trasparente che di norma viene inserito dai pasticceri o dai baristi nella parte superiore della confezione aveva salvaguardato quasi interamente il contenuto.
Il risultato fu il seguente: mio nonno strafottendosene della ricorrenza si lasciò andare a una serie di bestemmie, mia nonna, sospirando, provvide ad asciugare dove necessario e a gettare nella pattumiera la sottile striscia protettiva, mia madre, invece, mi guardò con espressione inviperita, mentre mio padre mi aveva semplicemente "martorato" emh, martoriato a dovere con degli schiaffoni.
E la rompi di Cettina?
«Così ti impari!» esclamò compiaciuta, sgranocchiando candidamente un agrume martorana.
Premiazione trofeo Rill
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I misteri della cripta
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Cristian Vitali - Maurizio Targa, "Undici metri"
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Cristian Vitali - Maurizio Targa
Undici metri - Storie di rigore
Sensoinverso Edizioni - Euro 17 – pag. 290
La letteratura calcistica (come il cinema) non ha mai avuto grande fortuna in Italia, nonostante scrittori come Arpino abbiano celebrato i mondiali del 1974 con Azzurro tenebra e registi come Pupi Avati abbiano girato Ultimo minuto. In ogni caso escono libri e film dedicati al calcio, che continuo a leggere e vedere, fedele a un’antica passione che mi tiene avvinto alla palla di cuoio almeno dal 1965, in pratica da quando ho l’età della ragione. Tra le ultime belle cose lette e viste posso citare il libro di racconti Undici metri di Vitali e Targa, il film La partita di Francesco Carnesecchi, ma anche l’ennesima visione de L’allenatore nel pallone di Sergio Martino e de I due maghi del pallone con Franco e Ciccio.
Soffermiamoci su Undici metri - Storie di rigore, che gode della bella prefazione di Darwin Pastorin (altro grande scrittore di calcio) e analizza con lo strumento narrativo il ruolo del penalty nella storia del calcio. Vitali e Targa partono dal primo tiro dagli undici metri per giungere ai giorni nostri, prendono in considerazione il trionfo di Berlino, i tiri mondiali di Baresi, Baggio e Di Biagio, il cucchiaio di Totti, le imprese di Zico, Platini, Falcao e Gullit. Sessanta racconti dove trovano spazio persino due bidoni come Caraballo e Toffoli, con i loro errori macroscopici, accanto alle autoreti del mitico Comunardo Niccolai.
Sessanta racconti di passione calcistica, una vera manna per gli appassionati, perché forse non tutti sanno che il calcio di rigore è nato nel 1890, sette anni prima che nascesse la Juventus, e che prima si giocava senza il penalty, fino a quando un portiere irlandese non propose l’innovazione alla federazione britannica. Un’invenzione che non portò fortuna al povero Mc Crum (questo il cognome del vecchio carneade), morto dimenticato da tutti, tradito dalla moglie, alcolizzato e pieno di debiti. Un’altra curiosità la leggiamo sul miglior rigorista di sempre, un tal Giampiero Testa (nato a Magenta nel 1938), che ha giocato soltanto in serie C ma non sbagliava mai un penalty, perché diceva: “Per tirare bene un calcio di rigore si deve avere la testa libera!”. E visto il cognome che portava ci riusciva. Gli autori narrano la storia di Antonin Panenka, che ha giocato fino a 45 anni nelle serie minori, ma viene ricordato per il rigore decisivo del 1976 contro la Germania, primo penalty a decidere una competizione importante. Si rammenta il cucchiaio di Totti del 2000 contro l’Olanda, ma anche il rigore assurdo di Platini in uno stadio pieno di morti, in Belgio, contro il Liverpool. Benito Lorenzi, invece, non tutti lo conosceranno, era Toscano come me e lo chiamavano Veleno, quando nel 1957 con un rigore al limone (leggete il libro per capire!) fece fuori l’odiato Milan indossando la maglia nerazzurra.
Un libro imperdibile per tutti gli appassionati di calcio.
Il progetto: “PARALLEL WORLDS”
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L’atteso primo disco solista del leader e tastierista della leggendaria band ROCKETS.
Quattordici sfumature di colore per gli outfit di Fabrice Pascal come 14 sono i brani. La sua immagine è curata dalla stilista fiorentina Cinzia Diddi. Queste le sue parole: stravaganza, contrasti di colore, nuances esclusive studiate per il mitico leader dei ROCKETS.
Venerdì 23 ottobre esce PARALLEL WORLDS” (Intermezzo/The Orchard), l’atteso primo disco solista di FABRICE PASCAL QUAGLIOTTI, leader e tastierista della leggendaria band Rockets.
In questo disco imperdibile, Fabrice Pascal Quagliotti esprime tutta la sua attitudine compositiva e la sensibilità musicale che lo contraddistinguono, creando una colonna sonora del 21° secolo che trasporterà l’ascoltatore in un viaggio unico e ricco, attraverso un universo di suoni ricercati e d’avanguardia.
Le esplorazioni musicali elettroniche hanno portato Fabrice in vari mondi paralleli, da quelli spaziali (con riferimenti a figure come David Bowie e Tovarisch Gagarin), ai mondi interiori della mente, del misticismo e della magia e al misterioso mondo dell'amore.
L’album vede la collaborazione in due brani (“Friends” e “Strange Loop”) dell’amico e collega Frederick Rousseau, compositore e musicista francese che ha lavorato con Vangelis e con Jean-Michel Jarre e ha collaborato a celebri colonne sonore come Blade Runner (Ridley Scott) e Alexander (Oliver Stone). In “Walk Away” ha invece collaborato il dj milanese Axel Cooper.
Parallel Worlds sarà disponibile in digitale e nelle seguenti versioni, tutte in edizione limitata e da collezione: doppio vinile trasparente, doppio vinile nero, CD Book di 32 pagine.
Tracklist: Alchemy, So Long Major Tom, Princess, Friends, Renaissance, Song of the Earth, Hubble Space Telescope, Japanese Tattoo, Mezcal, Tovarisch Gagarin, Strange Loop, Harem, El Fuego e Walk Away.
La versione in vinile dell’album conterrà due tracce in più rispetto al disco, 2 speciali Binaural Version mix by Frederick Rousseau.
A cosa si è ispirata per vestire Fabrice Pascal Quagliotti?
Amo i colori, il loro significato. Gli abiti sono come “diamanti di tessuto” che valorizzano e rendono più preziosa la nostra immagine, parlando di noi agli altri definendo la nostra identità. Rappresentano un collegamento tra gli aspetti più profondi del sé e l’immagine esterna. Non sono solo l’espressione delle tendenze moda, ma anche del rapporto profondo con noi stessi e con la persona che siamo, con quella che vorremmo essere e con quella che pensiamo di dover essere.
La scelta dei colori dunque sta alla base di tutto, oltre ovviamente allo studio dei tratti somatici, al colore della carnagione degli occhi.
Su FABRICE Pascal Quagliotti vedrete 14 sfumature di colore, perché il suo mondo interiore è colorato ed era giusto comunicarlo attraverso gli abiti.
Orgogliosa di condividere questo progetto con Fabrice Pascal.
A spasso con il morto.
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La sincerità è il privilegio delle menti libere
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Cinzia Diddi è una nota stilista fiorentina conosciuta per aver vestito molti vip, per il suo Luxury brand e per l’ultimo libro scritto La Stella più bella.
Costante il suo impegno nel sociale contro il femminicidio e, durante il lockdown, molto impegnata a sostegno dei più bisognosi.
Ha donato mascherine e aiuto economico alla protezione civile, a favore di ospedali per l’emergenza Covid.
A cosa sta lavorando adesso?
La mia passione è creare, sono sempre in movimento, mi piace il dinamismo della vita.
Sto curando l’immagine di un personaggio RAI, ancora non posso anticipare niente ma fornirò alcune foto degli outfit.
La modella dello shooting è Irene Casartelli, e la giovane fotografa è Matilde Bessi, una bella squadra di lavoro che ci ha portato a raggiungere degli ottimi successi.
Non posso svelare molto!
Come è Cinzia Diddi sul lavoro?
Amo far sentire le persone a loro agio, lavorare in un bel clima è fondamentale per ottenere il massimo.
Io seguo tutto, dalla creazione ai dettagli, alle pose durante lo shooting, e deve essere fatto come dico io, indiscutibilmente, su questo non transigo! Io ho studiato proprio per poter padroneggiare ogni fase del mio lavoro!
E poi ha altri progetti?
Moltissimi, ma uno in particolare mi sta entusiasmando.
Sono la fashion designer di Fabrice Pascal Quagliotti nella sua esperienza da solista che è appena iniziata, un bellissimo progetto.
La collezione A/I 2020 è molto particolare?
È una collezione all’insegna del colore, ma soprattutto ho deciso di fare le foto dello shooting nella nostra Italia: Roma, piazza di Spagna, il Colosseo, Prato, Siena, Firenze, Pistoia, Montecatini e molte altre città .
Ha un titolo interessante?
Amata Terra: scopriamo l’Italia... oltrepassando i confini dell’egoismo.
Giungerà un’alba nuova per coloro che sfidano i momenti bui.
Durante il lockdown ho scritto un libro, nel quale ho raccolto poesie, disegni e foto delle mie creazioni di moda.
Hanno dato il loro contributo molti personaggi del mondo dello spettacolo, della musica, dell’arte, avvocati e psicologi, raccontando con sincerità come stavano vivendo l’isolamento sociale, e quanto stavano cambiando e riflettendo grazie ad esso.
La sincerità è il privilegio delle menti libere. Ci siamo ripetuti innumerevoli volte: "Andrà tutto bene". Ma se i pensieri non sono supportati da azioni difficilmente accadrà. Chi rispetta le regole è saggio! Nasce da qui lo shooting della mia Collezione A/I 2020, 2021.
Tra le tante regole etiche da seguire sarebbe bene non muoversi dall’Italia alla volta di paesi esteri per limitare la possibilità di contagi.
Senza seguire le regole non si riesce a controllare un’epidemia. Il fatto che ci sia stata in questi mesi una diminuzione dei contagi non può giustificare la promozione dell’idea di normalità.
Ho riflettuto molto su questo e ho pensato che questa pandemia ci sta “regalando” la possibilità di scoprire la nostra terra, di visitare luoghi sconosciuti.