recensioni
Giorgia Tribuiani, "Guasti"
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Guasti
Giorgia Tribuiani
Voland
Già a pochi minuti di ascolto di questa storia (ne ho usufruito su Storytel) è evidente, per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i discorsi di co-dipendenza affettiva, che Giada, protagonista di questa storia, ne soffra. Tanto che, all'inizio, si resta un po' perplessi: se il lettore ha già capito il problema della protagonista, vista la brevità della narrazione, perché proseguire? Per diversi motivi. Il primo è che la Tribuiani fa capire la personalità di Giada e il suo enorme e avvolgente problema senza far mai dichiarare apertamente una sola goccia di malessere. Lei, in questa grottesca situazione, pare quasi contenta. Ma le sue parole, pronunciate con apparente contentezza, celano ben altro. Il secondo motivo è che, dietro una storia surreale, originale e certamente bizzarra, io ho visto un sottotesto metaforico svolto in maniera molto credibile e che rappresenta la situazione psicologica della protagonista e la terapia per uscirne. Giada infatti da diverso tempo vive per inseguire le mostre in cui viene esibito il corpo plastinato del suo ex compagno, un noto fotografo che, per concedersi un post-mortem simile, doveva essere un discreto narciso. In realtà lei dai tempi della convivenza con lui aveva rinunciato alla sua vita che non era certo importante come quella dell'artista reso ora opera d'arte. Lui continua a permeare la sua vita così come il ricordo e l'immagine di ogni oggetto d'amore non abbandona il co-dipendente affettivo che, se da una parte accetta a stento con dolore l'abbandono, non concepisce minimamente che esso finisca tra le braccia di qualcun altro. Immaginate pure la reazione di Giada quando un riccone decide di comprare l'unica immagine che le è rimasta del suo semidio. Rifugiarsi nell'unica toilette guasta del museo (unico luogo affine per una personalità evidentemente rotta sotto il profilo affettivo) e accettare il timido ma determinato aiuto di un vigilante che la guida nel suo percorso terapeutico. È abbastanza indicativo che Giada, proprio mentre inizia a capire il suo dramma interiore, venga invitata a lasciare la mostra da un direttore che le nega di incontrare il suo amico guardiano perché la donna avrebbe fatto scattare degli allarmi in passato con la sua inopportuna presenza. Perché i nostri problemi sono una bellissima zona confortevole che ci siamo creati negli anni e cercare di uscirne fa davvero scattare le sirene protettive della paura di ciò che è ignoto e ostacola il terapeuta. Ma Giada ha deciso: se un vigilante e una ragazza con le pinze argentate nei capelli, incontrati da poco per caso, le vogliono bene, la capiscono e la guidano verso la salvezza, perché lei non può farlo da sola? Cosa deve fare per ottenere la liberazione? L'unica soluzione immaginabile. E anche qui direi che, se da un punto di vista della verosimiglianza è ridicolo un guardiano che presta il suo consenso al piano di lei, all'interno della metafora ci sta tutto. Perché il vigilante si è sempre preso cura della donna, il compagno è sempre stato un tramite. E Giada, che paradossalmente per tutto il libro si è stizzita a sottolineare che lei non era la moglie (come dire: non ero legata così tanto a lui, ero libera. Certo, come no), ci lascia nelle ultime righe con una risata che emette suoni di libertà. E che gli allarmi suonino, la terapia è finita.
Filomena Ciavarella, "Versi per l'invisibile"
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Versi per l’invisibile di Filomena Ciavarella (Transeuropa Edizioni, 2020) è una raccolta poetica che segue il destino del filamento indelebile dell’anima, il retaggio celebrativo dei sentimenti, nascosti e protetti nell’impercettibile speranza della comprensione umana, dilatati nel limite dell’inclinazione delicata della poetessa che difende la persuasione di vivere oltre la mediazione delle sconfitte e la consapevolezza dell’angoscia. I versi ricompongono laceranti sofferenze, indicano il senso compiuto e puro di ogni confessione emotiva, analizzano le traiettorie primordiali dell’autobiografia, ispirata e conservata nel giudizio del profondo vissuto, trasportano il bagaglio sentimentale della poetessa alla stabilità dei ricordi e percepiscono la resistenza dei rapporti affettivi. La qualità espressiva della poesia è funzione e proprietà esistenziale, estende pagine diffuse nel prolungato e accorato elogio all’amore, nella generosa consistenza della memoria e nell’istintiva intimità di luoghi, di persone amate e di assenze sofferte. La poetessa destina la sua viva maturità nell’evidenza dei valori smarriti in cammino e in pena per l’allontanamento continuo delle voci partecipi, condanna la freddezza del distacco sostenendo la tenerezza, ripercorre la vicinanza ritrovata con rara poesia. La suggestiva ossessione del sentire e della passione guida i pensieri, allinea la spontanea complicità della presenza amorosa, dona l’interiorità e la corposità di ogni intesa sensibile. Una poesia dedicata al raccoglimento nella concentrazione del silenzio e nella benedizione degli avvenimenti privati, dove la parola diventa la forma di comunione assoluta con i legami vitali più duraturi. Il fine universale e sensoriale delle poesie di Filomena Ciavarella rafforza la percezione della libertà creatrice e mantiene la stabilità delle sensazioni nell’azione immanente dell’agire in nome dei desideri per superare gli ostacoli. Versi per l’invisibile trasforma il passaggio transitorio della causalità dei comportamenti umani adeguando l’analisi delle conseguenze nella loro graduale sparizione dalla regione dell’indifferenza. L’invisibile è la dimensione di ogni lieve sguardo sulla inafferrabile lontananza. La poetessa dedica la natura estetica della sua poetica alla conciliazione del senso, all’insieme strutturato degli intenti di esplorazione, incisivi e contenutistici, incoraggiando l’aspetto della conoscenza e la rappresentazione della realtà. Una poesia naturale, un’esigenza quotidiana di bellezza, in cui la materializzazione delle paure e la manifestazione delle visioni interiori permettono di consumare la parola scritta nell’istinto alla ricorrenza della vita. Nella tormentosa incertezza del futuro l’oscillazione inavvertibile del tempo muove la curva della poesia nello spirito rivelato della memoria, sconfinando la distanza di una consuetudine disincantata nella volontà dei versi e nel continuo attraversamento di ogni ombra, nella superficie di ogni coinvolgimento.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Serraglio d’amore
Un lieve serraglio d’amore
mette il laccio al tramonto
come una bella di notte
che nel suo intimo chiude
l’ultimo raggio di luce
E nella sua gemma preziosa
attende,
attende silenziosa
la nascente aurora.
Incerta bellezza
Incerta è la bellezza
È un filo d’erba nella stanza
Non lontana da te
Tenue come piuma al vento
Prima di volare via
Ancor più candida nella memoria
Da quando l’invisibile
l’ha presa con sé
Lettera d’amore
Le voci sonore all’imbrunire
Fanno eco dove si svuota
l’estasi nel lento cadere
della luce
in uno splendido
volo su bianche ali
di cigni nella notte
Si rivelano antiche
danze di tempi andati
nel vento odoroso di menta
sulle scie che primavera
lascia nel suo canto innocente
È la più bella lettera d’amore
che il tramonto consegna
all’oscurità
Il cerchio fra le dita
Tra le dita teniamo
il cerchio
per rendere l’ignoto
al suo arco
Lo accarezziamo,
fino a quando si leverà
in un luogo senza - luogo
e la matassa troverà il filo
come fiore sotto il cielo
E la folgore ardente il senso
sulla vela del sudario
Fu così che si son piantate le viole
Fu così che si son piantate le viole
Sono vive nel deserto della notte
I petali raggiano l’inafferrabile
Sulla soglia tremano
nel giorno
che sempre si smarrisce
Ed è così che si son piantate le viole
negli occhi fermano
la notte
arrivano da un fiume millenario
sulle strane pendici
dell’invisibile
Patrizia Poli, "L'ultima luna"
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Eleonora Fasolino, "Amabile inferno"
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Amabile inferno
Eleonora Fasolino
Milena in love
pp 360
C’è una parola sola per Eleonora Fasolino: brava. Scrive benissimo, con tutti i tempi narrativi giusti, senza dilungarsi e senza aver fretta.
Soprattutto ha saputo creare uno di quei personaggi che restano iconici, che entrano a far parte dell’immaginario collettivo, come Edward Cullen o Christian Grey. Lei ha creato il nostrano Manfredi Vergara, uno che già dal nome ti scatena gli ormoni.
Bello e impossibile. E l’amore impossibile, si sa, è quello più intenso e romantico. Impossibile, Manfredi, lo è tre volte. Per la differenza di età, lui è un uomo fatto e lei solo una ragazzina. Perché lui è un professore e lei la sua studentessa. E perché Manfredi è… un sacerdote.
Siamo in un liceo classico romano, l’anno degli esami di maturità. Manfredi insegna, bello, bravo, intrigante. Melania Santacroce è la sua allieva, intelligente, graziosa, poetica ma niente di speciale. Forse nel cognome ha già scritto il destino di Manfredi. Sarà la sua tentazione, il suo peccato, la sua croce, la sua colpa.
Ma lui decide di vivere questa storia, di assaporarla senza pensare al futuro, di considerarla una parentesi. Per Melania, Manfredi è tutto, è l’amore, è la scoperta del sesso, è l’ingresso nella vita adulta, è un rischio e un conforto insieme.
La vicenda si svolge nel presente ma si riallaccia al passato, a una precedente storia d’amore di Manfredi, al ricordo di una donna alla quale ha dovuto rinunciare. Il romanzo ha dialoghi ben sviluppati e plausibili, scene ben articolate, il sesso è esplicito - fin troppo per la sottoscritta -, senza freni e senza inibizioni. Il romanticismo, però, e il pathos sono entrambi alle stelle.
Amabile inferno è uno di quei romanzi che, col passaparola, è destinato a diventare un caso editoriale.
Piero Paniccia, "La sconfitta"
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La sconfitta
Piero Paniccia
libro autoprodotto
pp 288
Dispiace dirlo ma questo libro non doveva uscire così com’è. Si doveva avere la pazienza di revisionarlo da cima a fondo, a cominciare dalla banale giustificazione del manoscritto sul lato destro, fino ai dialoghi con quel “disse” che comincia, non si sa perché, dopo il punto. Senza contare discorsi iniziati e non finiti, ripetizioni a raffica. E via discorrendo.
Detto questo, anche la storia, sebbene interessante per capire come funzionano certi ambienti corrotti, è pesante e farraginosa, fra incidenti stradali, malaffare, corse in bicicletta e omicidi.
A Roma, l’ex ciclista Fausto Proietti muore, apparentemente per infarto del miocardio, almeno così dice il medico legale, ma, forse, si è trattato di un misterioso incidente avvenuto giorni prima su un autobus. C’è di mezzo un’assicurazione e la famiglia pretende il risarcimento. Il genero Paolo indaga sulla morte del suocero e poi su quella dell’avvocato che segue il processo.
Almeno per tutta la prima parte, la trama non decolla. Il tutto diventa più piacevole solo quando ci si addentra nella vita dello scomparso. Del fu Fausto scopriamo che aveva una passione per le corse ciclistiche e che non andava d’accordo con il proprio padre, Antonio. Era un bravo ragazzo, lavorava e si allenava con successo ma, quando era stato pronto per il salto nel professionismo e per la prova olimpica, una serie di sfortunati contrattempi e una brutta broncopolmonite lo avevano fermato.
Fausto lavora, si sposa ma ha un carattere scontroso e una mentalità da campione fallito e disadattato. Una parte di lui è preda della nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma, dentro, è sicuro che un giorno riuscirà a provvedere al benessere della famiglia, arricchendola in qualche modo.
Sarà così ma lui, defunto, non avrà modo di saperlo e questa sarà la sua “sconfitta”, unita al rancoroso livore della famiglia nei suoi confronti.
Dopo la sua morte la famiglia si accanisce e si disgrega per ottenere l’indennizzo dell’assicurazione, dimenticando lui e la sua memoria. Le complicate vicende processuali, fino a tre gradi di giudizio, sono raccontate con ridondanza ammirevole ma pure stancante. Viene ben ricostruito un ambiente tentacolare malavitoso che ricorda “mafia capitale” e i recenti intrighi criminali romani, e che si ricollega addirittura alla famigerata banda della Magliana. La corruttela avvolge la vicenda, inquina le prove e l’autopsia, si ramifica nella politica, nelle istituzioni e nei servizi segreti deviati, impedendo alla famiglia di Fausto - difesa da un avvocato a sua volta corrotto - di ottenere il giusto risarcimento. La famiglia stessa si disgrega, dilaniata dai litigi interni e sfinita dall’iter processuale.
Ma, alla fine, una fioraia gentile e sprovveduta, capace di un tenero, postumo e sognante amore, rimetterà le cose a posto, in quelle che sono anche le pagine migliori e più poetiche del romanzo.
Giovanna Strano, "Parlami in silenzio Modì"
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Parlami in silenzio Modì
Giovanna Strano
Aiep Editore, 2020
pp 272
14,00
Un’altra bella biografia romanzata a firma Giovanna Strano. A parlare in silenzio è Amedeo Modigliani, scultore e pittore livornese, ebreo sefardita, artista bohemienne maledetto, morto precocemente dopo una vita di eccessi tutta dedita all’arte, all’affinamento della ricerca, allo studio dei volumi e dei colori. Lasciarsi ritrarre da Modigliani equivaleva a farsi spogliare l’anima, metterla a nudo, ma anche avere uno scambio con il pittore, fondersi con lui persino fisicamente.
Il romanzo ripercorre la sua vita, dalla nascita - nel letto che la partoriente condivideva con gli oggetti ammassati per evitare il pignoramento - alle numerose donne che lo hanno accompagnato e alle quali ha dato amore ma anche tormento. Donne belle, forti, indipendenti, che per un periodo gli hanno fatto da muse ispiratrici e da sostenitrici, per poi arrendersi all’impossibilità di vivere con un alcolista, un drogato, un fedifrago devoto solo alla sua arte, anarchico e libertario nel profondo. Donne che, alla fine, lo hanno abbandonato, tranne la dolce e sfortunata Jeanne, la più giovane, la più innamorata, la più ingenua, di cui tutti conosciamo la tragica fine.
Una vita minata dalla malattia, bruciata in fretta, consapevole della propria brevità, ardente di passione umana e artistica, vissuta in luoghi sordidi ma fervidi di cultura e arte.
Più che un resoconto di fatti, il romanzo della Strano è due cose: una splendida ricostruzione d’ambiente - la belle époque, Parigi, i quartieri di Montmartre e Montparnasse, il crogiolo di avanguardie letterarie e fermento artistico all’ombra della prima guerra mondiale - e una carrellata di dipinti e sculture, studiati nella loro plasticità ma soprattutto nel loro significato filosofico e umano, perché fra modello e pittore s’intuisce una corrente di comprensione e di scandaglio che va oltre il rapporto artistico. Ogni figura è interpretata nell’animo ma anche riportata alla sua essenza storica, alle sue origini culturali.
Il testo mi ha ricordato il film I colori dell’anima di Mick Davis, perché anche qui una vicenda che potrebbe essere carica di pathos viene invece vivisezionata nel suo contenuto intellettuale, di riflessione sull’arte, e questo si rispecchia nei dialoghi viziati da un didascalismo che li fredda, ma che trova il suo riscatto nella commovente e bellissima analisi finale dell’autoritratto di Modì. Uomo, artista, donnaiolo, bevitore, bruciato dalla passione, mangiato dalla tubercolosi, ma immortale, per noi, per tutti, per l’eternità.
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Milena Tagliavini, "Ricognizioni"
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Ricognizioni di Milena Tagliavini (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è una conferma introspettiva all’analisi autonoma della forza poetica, all’indagine inconscia dell’esistenza. Milena Tagliavini prende atto della coscienza osservando la confidenza finalizzata al riconoscimento del proprio mondo, esaminando la propria interiorità interpretata da idee, intenzioni ed esortazioni che generano l’essenza dell’identità della poetessa. I versi, estendono la percezione interna all’attività riflessiva del pensiero, esprimono la voce dialogante con l’anima, dispongono l’intesa della comprensione con il trascorrere dell’autenticità del tempo, dilungando la veridicità degli stati d’animo. L’autrice attinge le sensazioni, raccoglie il riscontro dei sentimenti attraverso ogni manifestazione esplorativa, identifica il percorso esistenziale con l’itinerario della sensibilità, rileva gli accertamenti dell’ispirazione. Il privilegio e la grazia di concedersi una mediazione nella comunicazione elegiaca, permette di verificare la qualità medianica degli avvertimenti sensibili, di descrivere l’evocazione delle convinzioni, la persuasione dell’esperienza. Lo spirito che riflette la luce delle intonazioni umane, irradia una telepatia di emozioni, scorge sempre un significato ultimo da attribuire alla vita, al senso di ogni valore, alla direzione da intraprendere, al messaggio di speranza da divulgare. Il coinvolgimento psicologico ed antropologico della poetessa valuta reazioni profonde ai propri interrogativi sull’abilità del vivere, inseguendo la continua evoluzione dell’inconoscibile, insondabile mistero dei tentativi, cercando di confermare l’universalità della comprensione. Dimostrare la disponibilità dei fenomeni umani, fornire il requisito della saggezza è lo spunto di riflessione per manifestare la presenza oltre l’invisibile linea di confine dello spirito, per invocare la libertà e la volontà delle contraddizioni terrene, per restituire la fermezza del giudizio e della ragione nell’ambito dell’emozionalità, dell’atteggiamento agnostico sui dissidi esistenziali. La poesia di Milena Tagliavini amplifica i quesiti umani universali, propone domande sull’uomo e sull’origine della bellezza, offre la resistenza all’insicurezza, cercando di colmare il vuoto della provvisorietà, superando il tragitto dell’inquietudine, placando la diffidenza oltre ogni apparenza. La poesia, consumata dal tormento doloroso dei conflitti irrisolti o irrisolvibili, strappa con dolore vivo ogni nuova lacerazione, intervallando il ritmo persistente del tempo che scorre, sussurrando la suggestione dei versi adagiati sulla pagina, con la lieve e consapevole consuetudine alla malinconia, ricostruendo dall’indifferenza la sostanza della luce anche attraverso le ombre degli ostacoli. Il monito delle oscure difficoltà permette l’adattabilità dello sguardo a vedere oltre, rischiarando la luminosità del raggio visivo nel riscatto dei versi. Ricognizioni accoglie la necessità della speranza ed evidenzia il disincanto, alternando rumore e silenzio, affermando l’intimità della poesia che risolve le ostilità, travalicando le siepi. Nella costante ricerca stilistica la generosità emotiva perlustra il presentimento del sentiero vitale attraverso percorsi obliqui, trattiene la fragilità con l’intento di aggirare il richiamo incisivo del monologo interiore, abita lo spazio della nostalgia, coniugando la resilienza poetica alla ricostruzione delle opportunità positive, nell’arricchimento del cambiamento e della trasformazione nelle piccole dichiarazioni impalpabili dell’amore.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
NUOVOMONDO – LA NAVE
Visto dall’alto è un canale
D’acqua salata con gli argini fondi,
qua di cemento e là di lamiera.
Si spacca la folla in diagonale,
una faglia slitta via.
E tutto crolla,
ma solo dentro.
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IL ROSA DELLA NEVE
Incorniciata dalla guarnizione
del parabrezza tra il ponte e le strade
l’aureola appare come altro a sé.
Sarebbe una voce capace di tagliare
il nastro della ragione che ci lega qui
se con la pazienza di un docente
non ci dimostrassimo ciechi
di fede ogni giorno il teorema.
Così la fila avanza e lascia
una curva in discesa ai lati
della labbra mentre le dita
dei monti affrescano l’impossibilità
di catturare il rosa della neve.
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LA TRAPPOLA
Con pazienza ho infilato per ore
i punti dell’ago come se la danza
delle dita fosse un rituale,
la pozione per ignorare il tempo.
Nell’urgenza del respiro
non avevo che questa azione inutile,
che restare sola senza parlare
dentro i muri.
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MANI
Proprio oggi ho visto le tue mani
scolpite nelle sue. Mi ricompari
a tratti, a pezzi, ancora viva.
Sono carne di nostalgia le dita
di marmo molle senza rughe
e con lo smalto scuro. Sguardo
che richiama di fianco la tua assenza,
corpo invisibile tra noi.
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TRA DUE MURI
Mi volti le spalle e vai tra due muri
di fiori, hai le redini
di ciò che è stato. Il piede alzato
per il passo e la sensualità
del vento in una curva sui capelli
non si perderanno. La carta
e gli occhi scambieranno
per anni le interpretazioni.
Oggi il non visto ha un senso
D’arresto che si prolunga,
di sospensione del fiato mentre
la palla sta alta sulla rete.
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UNA SVOLTA
È una svolta che forse non c'è
questo giorno colmo di pensieri.
Sei un uomo con le valigie piene
D’aria. Ogni volta che le aprirai
darai pane ad altri respiri.
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CREAZIONE
Ho creato una breccia fra le mura,
un’evasione di note.
Una preghiera materiale
del corpo vivo.
È carne e terra e cielo.
Ha il sapere, oltre le regole
dei soprusi della ragione.
Gustavo Vitali, "Il Signore di Notte"
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Il Signore di Notte
Gustavo Vitali
Libro autoprodotto
pp 513
19,00
È difficile recensire questo libro. Il signore di notte di Gustavo Vitali è senza dubbio un testo di grande valore.
Ma.
Un giallo storico, ben scritto, ben sviluppato, con tutte le cose al posto giusto, a partire da un’ottima scrittura – appena qualche ripetizione o allitterazione di troppo -, per continuare con azione e colpi di scena. Soprattutto un’ambientazione vivissima e piena di atmosfera, dove ogni oggetto, ogni luogo, ogni usanza, sono visti, odorati, assaporati, ricreati attraverso una documentazione ineccepibile. C’è persino una buona interpretazione psicologica dei personaggi. Francesco Barbarigo – il magistrato investigatore seicentesco che indaga insieme al più serio e concreto capitano Stella– è ben tratteggiato nei suoi pregi e difetti molto umani, al punto da non risultare poi nemmeno troppo simpatico.
Niente da eccepire, quindi, un notevolissimo lavoro di scrittura e di storia ben amalgamati.
Ma… ma non posso negare che la continua sospensione delle vicende in favore della ricostruzione storica, applicata in modo maniacale a qualsiasi elemento - dall’architettura, alle ambientazioni, agli usi e ai costumi - alla fine inevitabilmente interrompe il flusso della trama e – considerate anche le cinquecento e più pagine – diventa pesante. Trasforma il romanzo in un libro per addetti ai lavori, per appassionati. Lo rende, insomma, meno fruibile dal lettore comune.
Francesco Barbarigo – personaggio effettivamente esistito – Signore della Notte al Criminal, deve indagare sulla morte di Nicolo Duodo, un nobile in miseria, costretto ad accattare incarichi burocratici per tirare avanti. All’inizio Barbarigo coglie il suggerimento del proprio amatissimo fratello Gabriele, e indaga su un “bravo”, certo Rimondo, che col morto avrebbe avuto dei dissapori importanti. Ma la verità sta da un’altra parte.
Durante l’inchiesta il Signore della Notte s’ imbatte in varie figure e, nel contempo, porta avanti anche la sua vita privata, fatta di affetto per il fratello più godereccio, fatta della scoperta di essere stato oggetto inconsapevole di un amore omosessuale e, soprattutto, del contrastato e inquietante rapporto con la bella Gigliola.
Nonostante tutto, ripeto, non si può negare il merito dell’opera, la sua fantastica capacità di farci rivivere la Venezia del cinquecento e seicento. Sentiamo lo sciabordare dell’acqua nei canali, i lamenti dei prigionieri sul Ponte dei Sospiri, vediamo i colori sgargianti delle vesti maliziose delle nobildonne e le tavole imbandite, assistiamo ai duelli nei vicoli bui e nelle calli. Uno splendido e inimitabile affresco d’epoca, un’opera che denota non solo interesse storico ma vero e proprio amore per la splendida, concreta ma evanescente, Serenissima.
Antonio Messina, "Come una nuvola dentro un cortile"
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Antonio Messina e la poesia del tempo perduto
Come una nuvola dentro un cortile
Nulladie Edizioni - pagine 55 – Euro 11
Antonio Messina è un autore che conosco e apprezzo da quasi vent’anni per aver pubblicato buona parte della sua produzione fantasy e per ragazzi con Il Foglio Letterario Edizioni, romanzi e racconti premiati dal consenso del pubblico e della critica, scritti con uno stile sopraffino, lontani dalla poetica del best-seller quanto vicini a quella della letteratura.
La poesia di Messina traccia una linea di demarcazione netta con la sua narrativa, perché meno solare e fantastica, più introspettiva e densa di contenuti nostalgici. Come una nuvola dentro il cortile sorprende per freschezza d’immagini e poetica del ricordo fuse in un intenso afflato lirico che prende per mano il lettore esortandolo a condividere identiche emozioni. La Sicilia è la terra natia del poeta, il luogo dove tornare con la mente e con il cuore, come il vecchio professore de Il posto delle fragole di Bergman si fermava a rivedere la casa paterna rivivendo il passato con intensi flashback immaginari. La lirica diventa canto di un esule volontario che ripensa cortili, arenili, rocce, mulattiere, strade di paese, padri che rientrano stanchi dal lavoro dei campi, figure materne lontane e perdute. Il poeta è convinto che siamo come le nuvole / passioni nell’istante / frammenti di altrui pensieri …, in fondo non altro che piccoli uomini d’aria che si abbandonano alla vita. Uomini perduti, in attesa della morte, uomini che fluttuano in un cielo di stelle, che un tempo sono stati bambini, per brevi istanti vivono ancora un’infanzia immaginaria, piccoli esseri di latta, dentro le madri, in una notte eterna piena di stelle.
Antonio Messina compone un’opera unitaria, elegiaca e sognante, un maturo casellario di ricordi, legato al sapore del tempo perduto di proustiana memoria. Racconta la terra natia abbandonata e gli affetti presenti, sente che piove tra le rovine della sua vita, sa che non potrà attendere la figlia, perché non ne avrà il tempo. Spera che resti un posto nell’angolo sperduto del suo cuore, per lui che è solo pietra nell’infinito in attesa della morte, piccolo uomo fatto di vento, figlio distratto, smarrito in un sogno.
Come una nuova dentro il cortile è una raccolta preziosa, intrisa di immagini suadenti, persino struggenti, pervasa da un flebile ottimismo, perché tornerà l’estate, prima o poi, non dobbiamo disperare, anche se il poeta preferisce continuare a coltivare la solitudine immerso in una dimensione di sogno, perché in fondo sognare è meglio che pensare.
Gordiano Lupi
www.ilfoglioletterario.it
Federica Cabras, "Animas"
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Animas
Federica Cabras
Officina Milena, 2020
pp 198
15,00
Federica Cabras ha due anime. Una è moderna, arguta, divertente, e scrive romanzi d’amore e d’allegria, infarciti di dialoghi spassosi e battute. L’altra è l’opposto: morbosa, tellurica, ancestrale, affascinata dalla sua terra e dalla morte. È quest’ultima la Cabras migliore, la Cabras deleddiana, che ritroviamo in Animas, il romanzo della piena maturità artistica.
Animas è ambientato in Sardegna, come tutti gli altri testi dell’autrice, ma questa è la Sardegna più cupa e vera, quella delle faide, della pastorizia, del sangue e del trapasso. Animas è un romanzo gotico a tutti gli effetti – oggi lo si chiamerebbe thriller o horror -, basato su maledizioni, leggende della notte dei morti, incubi e defunti che non muoiono per davvero. Banale dire che la protagonista del racconto è la terra dei nuraghi, ma è proprio così, la Sardegna più buia e atavica balza agli occhi con tutte le sue tradizioni, i sui colori, gli odori e, soprattutto, la lingua.
Il personaggio principale è Graziella Ruinas, una di quelle fiere donne sarde che camminano a testa alta e a petto in fuori, che rispettano i loro uomini ma non si sentono da meno di loro. Ognuno al suo posto, uomo e donna, con orgoglio e amore. Siamo negli anni cinquanta e una maledizione grava sui maschi della famiglia Ruinas. Chi di loro muore nella notte fra il trentuno ottobre e il primo novembre – la notte dei morti – resta sulla terra per sette anni, non in forma benevola o protettiva, bensì maligna, tesa a tormentare i vivi e far loro perdere la ragione e persino la vita. È ciò che accade a Giovanni, il padre di Graziella. Sfortunatamente cade dalle scale e muore proprio nella notte meno indicata. E su queste cose, più antiche della terra stessa, si sa, persino Dio può poco.
Strani accadimenti cominciano pian piano a verificarsi, che porteranno Lucia, la madre di Graziella, sul baratro della pazzia. Ma Graziella non ci sta, indaga, vuol capire da cosa deriva ciò che la sta travolgendo, e vedere di rimediare in qualche modo. Da sola, nonostante l’aiuto del cugino Umberto, anche lui un Ruinas, anche lui in pericolo. Fra i due giovani nascerà una tenera e ruvida storia d’amore, di quelle che si vivevano allora, fra campi assolati e monti nevosi, fra bestie da pascolare e fuoco da attizzare, senza inutili smancerie ma fondate su un amore profondo ed eterno.
Sardegna, dicevamo, terra di pastorizia e allevamento, terra dove gli animali sono rispettati per il cibo e il lavoro che forniscono ma non certo amati, non da tutti, non come nelle altre regioni, non negli anni cinquanta soprattutto. Graziella, però, è diversa. Lei ama gli animali. Si affeziona teneramente ai cuccioli di cane, prova compassione quando vengono uccise le pecore, i buoi e i maiali che serviranno alla famiglia per nutrirsi. Questa pietà - umana, nuova, moderna -, agli occhi del paese è sbagliata, è ciò che fa marcire la carne macellata. Ma – vedremo alla fine – sarà proprio un atto di compassione (come ne Il signore degli anelli), sarà l’amore per gli animali e il senso del perdono, a rimettere a posto le cose, a trasformare la morte nella speranza di una nuova vita libera. A collegare la Sardegna di un tempo a quella di oggi.
L’unico difetto del testo è il far progredire la trama un po’ troppo a colpi di sogni, ma questo aumenta l’impressione onirica e misteriosa. Nell’insieme, un romanzo bello e compiuto, molto ben scritto, pieno di atmosfera, di sentimenti potenti, mai tenui o sottintesi, sempre accecanti come gli elementi naturali di questa aspra terra.