Gianni Marcantoni, "Complicazioni di altra natura"
Complicazioni di altra natura di Gianni Marcantoni (Puntoacapo Editrice - Collezione Letteraria, 2020) è una trasparente diagnosi della poesia contemporanea, una leale interpretazione analitica che osserva e presagisce le contrarietà impreviste della vita, gli ostacoli di ogni esperienza, riconoscendo all’altruistica elaborazione della sincerità l’intuizione emotiva dei valori, dileguati nell’indistinta incertezza del futuro. I versi diramano tortuosità impulsive, nella curva oscura delle immagini inquiete e malinconiche, diffondono contraddizioni interiori che ricadono sul dolore raccolto ed intimo dell’anima e dilatano lacerazioni e crudeli instabilità sentimentali. La parola offre in dono la protezione di ogni percettibile verità interiore e proietta la sensibilità nel dettaglio della nostalgia, sconfinando la cognizione di una poesia disincantata, prolungando il disagio delle illusioni e la condizione complicata di ogni mancanza. Il poeta agevola il significato degli impedimenti influenzando le conseguenze favorevoli della profondità espressiva, incisa nella nitidezza delle idee e nella lucidità della coscienza. La necessità poetica di Gianni Marcantoni è energia generatrice delle sensazioni contemplate ed esaminate, percepite attraverso la mediazione del senso, capaci di trasformare la proprietà empatica della realtà oggettiva. La riflessione intimista sulla natura incerta e provvisoria dell’inconsistenza umana, l’assenza e la solitudine dell’individualità invocano il coraggio dell’analisi sulla contemporaneità, l’essenza ontologica della temporalità, e, nelle poesie, i “correlativi oggettivi” sono l’identificazione di un’evocazione, nel legame tra contenuti profondi e motivazioni esterne. Il poeta dichiara di riconoscere la propria autenticità, intraprendendo l’indagine dell’essere, ridestando alla conoscenza l’abilità di essere nel mondo. La maturità sensibile dell’autore si nutre dell’originaria appartenenza alla propria riservatezza e indica la familiarità con la memoria percepita, compresa e legata al destino di chi scrive. Gli “strumenti umani” sono un’occasione esistenziale e rivelano una confidenza elegiaca svelando la spirituale coerenza del patrimonio affettivo, confermando la comprensione degli eventi e l’esposizione delle situazioni autenticamente trascorse e sofferte. I motivi d’ispirazione e d’idealizzazione poetica vivono del momento presente, scarno e vorace, ma evocano il coraggio di vedere oltre, di accogliere i conflitti, le ossessioni e gli inganni che invitano alla stabile permanenza del rifugio esistenzialista. L’orizzonte della consistenza è svelato dalla solidarietà umana, quando la finitudine della realtà, lucida e scaltra, asseconda ogni espressione in corrispondenza degli istinti e dei sogni che produce. Gianni Marcantoni ritorna lungo i luoghi perduti, i territori che con commozione e resistenza conoscono la parte migliore di ogni destinazione privata delle parole, nella distensione di ogni trasferimento della sofferenza. Il poeta si lascia attraversare dall’indugio alla consapevolezza e assegna lo sguardo disarmante e alieno all’abisso generato da ogni emergenza.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Caduta
Il sole trita il mattino davanti al suo corteo
d'ombre, la notte rapiva il sonno della gente
ancora alla ricerca di miserie;
è tempo di ricominciare qualcosa
che abbia un principio,
è tempo di voltarsi e di guardare
oltre queste macerie intossicate nell'oro.
E in mezzo a tutto questo
un pidocchio salta da un marciapiede all'altro
risucchiato dal canto dei clacson ancora vivi,
teme da solo di essere scordato
come l'acqua di uno scarico che scroscia,
che scompare in una macchia buia,
scendendo giù verso la fine,
nell'ultimo spigolo, nell'ultimo rantolo,
come una specie di gomitolo che cade dalle mani.
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Un altro resto
La tua luce si perde in un rifugio,
la notte ci sdoppia
da una membrana rigida come travertino.
Infondo sono poche parole che rimangono,
il vento trastulla il nostro vecchio motivo,
sui picchi dei monti – verso l'alto
il cuore non spinge più contro la parete.
Hai battuto il muso sul petto
(ed è stato solo un attimo),
un silenzio forse troppo complicato
da tradurre in suono. Ma il torchio gira
e ruotando preme l'ultimo
resto di mandibola, il pilastro appuntito
dove il braccio ancora circola.
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Nell'aria
Gesti folli aprono i tuoi occhi,
gesti al buio di un teorema separano le acque,
il mio nome resta traccia di uno spazio che lenisce.
Un varco invisibile conduce alla sola verità necessaria
che sai la mia parola aver taciuto.
Nessun nome il sole può bruciare, dopo aver trascinato
questa vita in un cadavere dalle sembianze inumane.
Ho abitato la terra e il suo stringato lamento
perché il cielo ho smosso con le mani nude d'aria,
e svelato la notte a chi l'aspettava.
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Corone del buio
Le parole incomplete hanno imbrattato
il quadro, ora la cornice sembra più sottile.
Del nulla cosparso osservo
le pinete indurite, che sembrano
un mosaico di ramificazioni allacciate
sopra una intelaiatura. Dell'immane nulla
ammiro la foschia del panorama,
che boccheggia soggiogato davanti alla fessura
aperta della mia safena in emergenza.
Eppure nella materia uno spettro si assembla,
dalle vecchie tubature ardenti
esso sovviene alla mia presenza
con una manciata di briglie in mano,
che aprono alle corone del buio
questo mutilato sipario di tagliole.
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Vissuto
Vi saluto, ma tornerò - tornerò,
da qui nulla è perduto senza un taglio.
Domani è il mio vissuto, il vento era troppo cupo,
la luce troppo solitaria per risorgere da un dirupo.
Nel tempo non c'è sorte a separarci,
qui dove niente può spegnersi tornerò
senza avere avuto cure, saprò cosa dire
alle tue accuse che non più mi riguardano;
le pozze dissetano il branco.
Saprò dove guardare se la quiete
passerà a respirare dalle nostre parti scarne.
Remo Rapino, "Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio"
Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
Remo Rapino
2019, Minimum Fax
ANEMA E CORE SOTTO LA SCALINATA DEL COLOSSEO QUADRATO
Alessandro Del Gaudio, "Rintocchi di clessidra"
Alessandro Del Gaudio
Rintocchi di clessidra
Self Publishing – Euro 10.50
Reperibile su Amazon
Alessandro Del Gaudio lo conosco dai tempi de Il candore dei ciliegi, sarà stato il 2000, lui aveva 26 anni, io 40. Siamo invecchiati entrambi in questo mondo letterario che fagocita sogni e ambizioni, che redige scale di valore inattendibili e che ti fa smarrire la cosa più importante: la voglia di scrivere. Per fortuna Del Gaudio l’ha mantenuta, ma resta un peccato che un romanzo originale come Rintocchi di clessidra esca come autoproduzione, quando le librerie sono ricolme di spazzatura su carta, illeggibile, promossa a piene mani dal sistema mediatico. Discorsi vecchi, che facevo vent’anni fa, che sono costretto a ripetere, visto che la situazione è persino peggiorata dai tempi di Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa).
Rintocchi di clessidra è un romanzo costruito su racconti - per la precisione otto e un epilogo - ma il filo conduttore è la narrazione di raccordo composta da Nivolet, un narratore fantastico che scrive storie da un palazzo al centro dei mondi, racconti che messi su carta subito dopo vengono scordati. Le storie del narratore protagonista sono importanti, scorrono come rintocchi di clessidra, sono le ultime storie da scrivere che dovranno risvegliare Esterel da un sonno eterno. Il dato di partenza è fantastico, così come sono soprannaturali molte ambientazioni, dotate di una doppia chiave interpretativa che passa dal realistico al soprannaturale. In ogni caso il lettore di fantasy troverà pane per i suoi denti, tra torri siderali, spazi interstellari, maghi, giocattoli soprannaturali, penne prese in prestito ad ali di corvi per scrivere storie prive di lieto fine, capitani coraggiosi e ciurme di surreali pirati.
Lo stile di Del Gaudio è maturo e consapevole, ben strutturati i dialoghi, descrizioni come morbide pennellate, suspense narrativa dosata a dovere, costruzione letteraria che risente di letture importanti, da Borges a Calvino. Rintocchi di clessidra è la dimostrazione di come si possa fare letteratura partendo dal genere, senza tradire il rispetto per il lettore che attende una storia avvincente. Rintocchi di clessidra ne contiene nove.
Il tuo nome è un’altra opera interessante di Del Gaudio, edita da Sereture Edizioni di Varese, nel 2015, che ho avuto modo di apprezzare. Qui siamo nel territorio della narrativa sentimentale, con l’originale trovata di alternare un capitolo in prosa a una poesia d’amore. Un romanzo struggente e delicato che racconta una storia d’amore incompreso, un cuore che batte per una donna che di cognome fa follia e che resta solo un fantasma della notte, di un’altra notte in cui poterla sognare.
Provateli entrambi. Non ve ne pentirete.
Per acquistare: Rintocchi di clessidra.
Nicolas Guillén, "Obra poetica"
Obra Poetica 1922-1985
Nicolás Guillén
Traduzione di Gordiano Lupi
Tomo I
Il Foglio Letterario, 2020
pp 494
15,00
Il primo ponderoso tomo della traduzione fatta da Gordiano Lupi – e pubblicata con la sua casa editrice Il Foglio - dell’opera poetica di Nicolás Guillen (1902-1989), meticcio figlio di schiavo, poeta cubano comunista, esiliato dal dittatore Batista, combattente della guerra civile spagnola, viaggiatore, presidente dell’unione nazionale degli scrittori di Cuba.
Questo primo tomo raccoglie le opere scritte dal 1922 al 1958 e l’evoluzione è evidente. Le prime liriche – addirittura inedite - sono giovanili, intimiste, ancora ottocentesche, tese a raccontare di un amore perduto, distante e ormai indifferente, e hanno un sapore occidentale. La speranza è tutta in un nuovo amore e si passa attraverso immagini sofferte e cristologiche, condite di solitudine e misantropia. Molto evidente la dualità innocenza/ corruzione, il senso della propria indegnità che si trasforma in una sorta di preghiera laica.
L’approdo successivo è a una lirica impegnata, sociale, dove Guillén canta gli ultimi, i dimenticati, gli sfruttati, i tagliatori di canna da zucchero.
Nel mezzo fra le due, la poesia più bella e sonora, quella “mulatta” di Songoro Cosongo, che si rifà al son cubano, musica e ballo insieme, onomatopeia di tamburi e mimetismo del ritmo sensuale dei neri. Una poesia che è suono, ma anche sangue e carnalità.
Erotismo, dicotomia fra bianco e nero (i due “nonni”, i due “bimbi”), bisogno di riconoscersi in una delle due identità senza averne la possibilità, cori da tragedia greca che oggettivano la narrazione in realismo a volte anche ironico, più spesso drammatico. Tutto poi evolve nella poesia più tarda, quella contestataria e comunista, dove il poeta denuncia la condizione dei neri cubani e il furto da parte degli Stati uniti delle ricchezze nazionali.
Infine, l’entusiasmo per la rivoluzione, per Che Guevara, per tutto ciò che appare nuovo, luminoso e giusto. Guillén, per sua fortuna, morirà prima di vedere la triste fine dei suoi ideali.
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Matsuteia ed E.T.A. Egeskov, "Volevo essere un supereroe"
Matsuteia ed E.T.A. Egeskov
Volevo essere un supereroe della Marvel – vol. 1
Amazon - E book euro 0,99 – Cartaceo 4,99
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Un agile volumetto che non pretende di essere esaustivo, solo di raccogliere una serie di curiosità sui supereroi degli universi Marvel - che sono davvero tanti (quasi 1000!) tra buoni e cattivi (persino più affascinanti) -, anche perché ci sono già molti saggi specifici che contengono di tutto sulla Casa delle Idee. Sono un fan della Marvel dal 1970, dal giorno in cui fui affascinato in edicola da L’Uomo Ragno contro Lizard, Editoriale Corno, subito dopo essere stato irretito da Mentre la città dorme, protagonista il Devil dal costume giallo e nero di Stan Lee e Wallace Wood. Confesso che leggo Marvel ancora oggi, certo solo i personaggi classici, cose nuove come Venom e Deadpool (che i ragazzi amano) un po’ mi disturbano, riesco ad apprezzare poco persino un grande disegnatore come Todd Mc Farlaine, cresciuto come sono a Ditko e Romita, per me il massimo di modernità restano Kane, Kirby e Buscema. Non solo, mi capita di vivere come un tradimento certe trasposizioni cinematografiche di Spider Man, soprattutto le ultime, mentre ho apprezzato molto il cartone animato di Sara Pichelli con il nuovo Uomo Ragno di colore (Miles Morales). Detto questo veniamo al libro, un piccolo e prezioso manuale che in certi casi dice cose che un appassionato conosce, ma in altri fa compiere vere e proprie scoperte al vecchio lettore. Per esempio mi è servito a capire che il nuovo Nick Fury cinematografico è il figlio di quello che leggevo negli anni Settanta. Poi fa piacere rileggere anche quel che sappiamo, trovarlo sistemato in maniera ordinata, come la storia su Spider Man che l’editore Martin Goodman proprio non voleva pubblicare: Chi vuoi che si appassioni alle vicende di un uomo con i poteri di un ragno? Per fortuna ebbe ragione la testardaggine di Stan Lee. L’Uomo Ragno conta versioni da romanzo grafico strepitose, vera letteratura a fumetti, oltre a una serie regolare che - tra alti e bassi - resiste in edicola dal 1962. Gli autori del libro raccontano lo sbarco Marvel in Italia, al quale ho assistito in prima persona, negli anni Settanta, prima su Linus (grande Oreste Del Buono, quasi mio compaesano!), poi su Sergente Fury (possiedo molti numeri), infine con la mitica Corno. I due autori non dimenticano le vicende moderne con Star Comics e Play Press, per poi parlare di Panini unica depositaria del verbo Marvel. Il libro analizza la continuity - fenomeno che rende diversa e unica la Marvel -, i cross-over, il primo eroe omosessuale, gli autori che hanno fatto la storia, i problemi con il Comics Code per la troppa attualità dei racconti (droga, razzismo, Vietnam …). Una sezione finale è riservata agli attori dei film che hanno impersonato gli eroi Marvel, importante per rendere il tutto più attuale e appetibile per i fan contemporanei. Per quel che mi riguarda resto legato al passato, al profumo di quella carta colorata della Corno, che oggi ritrovo - come una madeleine proustiana - nella collezione da edicola Super Eroi Classic, edita dal Gruppo Rizzoli in collaborazione con Panini. Per chi ancora non conosce la Marvel questo piccolo libro è una vera e proprio guida virgiliana in un paradiso fantastico che noi ragazzini nati negli anni Sessanta abbiamo vissuto desiderando tutti trasformarci in Super Eroi Marvel!
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Paul Watzlawick, "Istruzioni per rendersi infelici"
Le Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick possono essere realmente annoverate nel filone della "biblioterapia" nel senso clinico del termine. E come ogni medicinale possono dare fastidiosi effetti collaterali in individui predisposti al momento del lettura. È quello che successe a me, 5-6 anni fa quando lo comprai e lo iniziai: subito avvertiti un senso di malessere, fastidio. Non lo capivo. Lo abbandonai ma lo portai con me nei successivi traslochi, complice un inconscio che sapeva che prima o poi ne avrei colto i frutti. E così è stato negli scorsi giorni, durante i quali l'ho fatto fuori in 3 pause pranzo al sole. Lettura che è stata rapida, senza soffermarmi troppo, ma sorridente, perché giungeva dopo anni di esperienze scomode e di testi di filosofia, sociologia, spiritualità, che mi hanno permesso di capire che non c'era nulla da capire, il libro offre ciò che promette dal titolo, ovvero le istruzioni da seguire se si vuole vivere infelici.
Watzlawick espone sornione le sue regole, tutte attraversate da una potente ironia ma tutte corrette. Se glorifichiamo il passato, se ci riterremo indegni di essere amati, se passeremo il tempo a manipolare i nostri cari, se ci porremo obiettivi facilmente raggiungibili, non sarà possibile sbagliare, come seguire una ricetta passo passo, il risultato è garantito: la nostra infelicità. E non sono fantasiose teorie dell'autore, no, no, sono corroborate dalla saggezza degli antichi (giapponesi, romani, greci) e dei grandi contemporanei (Rousseau, Dostoevskij, Nietzsche).
Personalmente è un testo che non mi sento di consigliare a neofiti di psicologia, filosofia, sociologia o spiritualità: il rischio di trovarlo superficiale e ostico esiste. Un precedente approccio anche spicciolo alle materie di cui sopra permetterà di apprezzarlo, intuire una serie di sottotesti che Watzlawick appena accenna (narcisismo e manipolazione, difficoltà nelle relazioni amorose, gestione errata dei fallimenti) e scovare le geniali verità in esso contenute. Poi, se proprio ci tenete, potete sempre decidere di applicare al contrario le sue istruzioni e cercare di avere una vita appagante. De gustibus.
Chi è stato? Boh, sarà stato Pasquino
Cinzia Diddi veste Carlotta Bolognini
Carlotta Bolognini è figlia del grande produttore cinematografico Manolo Bolognini, fratello dell’altrettanto grande regista Mauro Bolognini.
Si è svolta nella splendida residenza storica di Casina di Macchia Madama a Roma la prima edizione di due Premi dedicati al Grande Cinema Italiano, ideati e realizzati proprio dalla Bolognini: il Premio Cinema Anni d’Oro, rivolto per questa occasione alle opere cinematografiche girate nei quartieri e nelle strade di Roma, e il Premio alla carriera George Hilton.
L’abito dell’evento è stato realizzato dalla stilista dei vip, definita dalla stampa "la stilista che veste l’anima": Cinzia Diddi.
Intervista a Cinzia Diddi.
Come ha vestito la Sig.ra Bolognini?
Carlotta è una splendida persona che, per la sua gentilezza, educazione e sensibilità, andrebbe vestita dei colori dell’arcobaleno. Quando ci siamo parlate per capire come realizzare l’abito per l’evento è stata molto immediata: “ Vorrei essere vestita di nero”.
Ho accettato di utilizzare questo colore che poco la rappresenta come anima ma rende giustizia alla sua serietà, compostezza, professionalità.
Il nero è il colore del rigore!
Ho usato le paillettes per la lunga casacca per celebrarla, metterla al centro della scena.
A cosa si è ispirata?
Considero gli abiti “Diamanti di Tessuto” perché hanno la particolare ed importante funzione di proteggere, fanno da “involucro” al corpo o meglio ancora all’anima.
Ho usato tessuti importanti, tessuti nobili, per avvolgere Carlotta, questa meravigliosa anima gentile.
Perché la stilista che veste l’anima?
Cerco sempre di far emergere la parte più nascosta attraverso gli abiti, l’io più profondo.
Cos’è per lei la Moda?
L’altro modo di presentare se stessi attraverso gli abiti. Ci sono vari modi per presentarsi: la parola, l’atteggiamento, la gestualità e gli abiti. Gli abiti raccontano chi sei, che rapporto hai con te stesso, quanto ti rispetti.
Lei è figlia d’arte?
Il mio è un passaggio di testimone è la storia di una promessa! Mio padre, mio nonno provenienti da questo mondo!
La mia figura di riferimento è senza dubbio mia madre donna di grande gusto.
Ha vestito molti vip, curato molti film, spettacoli teatrali cosa prova ogni volta?
Amo le prime volte perché regalano emozioni e adrenalina. Quando non sono più prime volte cerco di rinnovare l’emozione. Una sfida nella sfida.
Non omnis moriar: una meditazione sullo scrivere
di Guido Mina di Sospiro, tradotto dall’inglese da Patrizia Poli
(pubblicato originalmente su New English Review sotto il titolo Non Omnis Moriar: A Meditation on Writing)
Nel 1992 inviai una lettera al mio vecchio professore di latino, nella quale, inter alia, avevo tradotto per lui il finale di un libro terminato di scrivere alcuni mesi prima. The Story of Yew, alias Memoirs of a Tree, o, nell’edizione italiana, L’albero. Segue un estratto dalla risposta epistolare del professore:
II breve frammento del tuo romanzo, che mi hai trascritto, mi è piaciuto molto. Contiene una riflessione seria che credo sia uno dei motivi conduttori del libro. La natura, la morte: quesiti destinati a rimanere senza una risposta convicente. Tra le tante risposte possiamo scegliere quella dei libri poetici con il loro sofferto “non omnis moriar”. In verità l’uomo lavora, crea, per non morire del tutto, per sopravvivere almeno in parte in ciò che ha fatto. C’è in noi una ansia di eterno insopprimibile. Prova a rileggere o a ripensare all’opera di un poeta prendendo come chiave di lettura il tema della morte, la sua risposta a questa mistero. E scoprirai forse che la letteratura è sorta in funzione della morte, come risposta al mistero della morte.
Non omnis moriar è tratto da ciò che probabilmente costituisce il più antico testamento poetico: L’ode 3.30 di Orazio. Significa “non morirò del tutto”. In uno stile piuttosto roboante
Ho creato un monumento più duraturo del bronzo
E più elevato della struttura delle regali piramidi
Che né la vorace pioggia, né lo sfrenato Vento del Nord
Potranno distruggere, né lo sterminato succedersi di anni e la fuga del tempo (…)
il poeta annuncia ai suoi contemporanei e soprattutto ai posteri che non morirà del tutto, che parte di lui vivrà nella sua poesia, come, infatti, è avvenuto: eccomi qui, nel 2020, a citare una poesia vecchia come l’albero di tasso nel mio romanzo: due millenni.
Aveva ragione il mio professore? È per questo motivo che scriviamo? Per non morire del tutto, per sopravvivere almeno in parte in ciò che abbiamo fatto? La letteratura è nata, come la religione, come risposta al mistero della morte? Ho posto tali domande a uno dei più acuti critici letterari che io conosca, Davide Brullo, egli stesso un poeta. Ha risposto:
Certamente, l’uomo scrive per trovare la parola che faccia risorgere. Ma è vero che la risposta alla morte è con la vita. La poesia è vita, fenomenale, funambolica. Credo, poi, che ci sia una eredità, un lascito in luce. Tanto la battaglia con la morte è persa, dunque scagliamo bolidi verbali sul viso del millennio venturo, che esista il nome dello scrittore o meno è iniquo, vano. Egli crea un linguaggio.
Immortalità, dunque, il vero scopo dell’alchimia, il fine escatologico di così tante religioni, maggiori e minori. È bello doppo il morire vivere ancora, come dice il motto rinascimentale.
Mi chiedo se sia stato lo stesso desiderio di immortalità ad animare Alfred Jarry quando scrisse Gestes et Opinions du Docteur Faustroll, Pataphyshycien (Gesta e opinioni del Dr. Faustroll, Patafisico)? Sì e no sarebbero entrambe risposte giuste. Uno dei libri più intelligenti e spiazzanti che io conosca, in grado di prevedere gli sviluppi futuri della cultura occidentale, è stato scritto nel 1898 e pubblicato per la prima volta postumo nel 1911, quattro anni dopo la morte di Jarry.
Lo stesso desiderio di immortalità ha permeato Dissipatio H.G. di Guido Morselli? La risposta può ben essere, ancora una volta, sì e no.
Il titolo sta per Dissipatio Humani Generis, una frase estratta dagli scritti di Giamblico; significa, la scomparsa dell’umanità.
Il protagonista-narratore, un intellettuale lucido, ipocondriaco, “fobantropo” più che misantropo, decide di affogarsi in uno stagno dentro una caverna in alta montagna. Ma, una volta là, cambia idea, e ritorna al suo chalet.
Alla fine scoprirà che l’umanità, dopo che lui ha cambiato idea circa il suicidio, è svanita. L’umanità è ora rappresentata dall’unico componente superstite, un uomo che stava per lasciarsela alle spalle e che non aveva mai sentito di farne parte.
Così ha inizio un monologo – filosofico, ontologico ed escatologico – in uno sfondo di assoluto silenzio, a parte pochi rumori causati dagli animali o da macchine che continuano a funzionare. Presto il suo monologo si trasforma in un dialogo con i suoi ricordi e poi con tutte le persone svanite.
Il supremo solipsista finisce con il desiderare disperatamente gli esseri umani.
Questo fu l’ultimo libro di Morselli; a differenza del protagonista di Dissipatio H. G., non cambìo idea all’ultimo momento e, poco dopo che anche questo manoscritto fu rifiutato, si suicidò. Ma poi fu pubblicato postumo, insieme a diversi altri suoi libri; la prima edizione in inglese uscirà negli Stati Uniti questo dicembre; ed eccomi qui, decadi dopo che il rifiuto spinse il suo autore a suicidarsi – senza però morire del tutto.
Alcuni giorni fa ho ricevuto una email da un’ammiratrice attraverso il mio sito. Aveva comprato il mio L’albero a Losanna, in Svizzera, in francese, e le era piaciuto; lo aveva quindi acquistato in edizione spagnola cosicché potesse leggerlo suo marito; e ora, a Quito, in Ecuador, lo voleva presentare al suo circolo di lettura, all’aperto per via delle restrizioni dovute al Covid, sotto il vulcano Pichincha – lo stesso libro con cui ho iniziato questa riflessione e il cui finale ho tradotto, agli inizi degli anni novanta, per il mio professore di letteratura latina. Ciò che mi colpisce in retrospettiva è che l’albero di tasso (Taxus baccata) è un essere tecnicamente immortale, capace di rigenerarsi all’infinito. I suoi primi fossili sono datati duecentocinquanta milioni di anni e, se paragonati alle sue condizioni attuali, mostrano che non c’è stata evoluzione: è nato perfetto per vivere in eterno.
Questo presunto desiderio d’immortalità, quanto risuonava in me più o meno mezza vita fa? Forse non così a livello conscio come adesso, ma può darsi che già allora fosse la motivazione.
Così tanti poeti e scrittori non sono morti del tutto, e il loro lascito vivente ci permea tutt’oggi. Gli autori contemporanei potrebbero ritenerli i loro mani, cioè le anime degli antenati, e venerarli come spiriti benigni. Alcuni di noi probabilmente già lo fanno.
Back in 1992 I sent a letter to my old Latin literature professor in which, inter alia, I translated for him the ending of a book I had finished a few months before, The Story of Yew, aka Memoirs of a Tree. There follows an excerpt from the professor’s epistolary reply:
The short fragment of your novel, which you transcribed for me, I liked very much. It contains a serious reflection that I believe is one of the main themes of the book. Nature, death: questions destined to remain without a convincing answer. Among the many answers we could choose the one from poetry books with their suffered ‘non omnis moriar.’ In truth man works, creates, not to die wholly, to survive at least in part in what he has done. There is in us an irrepressible yearning for the eternal. Try to reread or rethink the work of a poet taking as a key to understanding the theme of death, his answer to this mystery. And perhaps you will discover that literature was born as a function of death, as an answer to the mystery of death.
Non omis moriar is taken from what probably constitutes the oldest poetical testament: Horace’s Ode 3.30. It means, I will not wholly die. In rather bombastic fashion
I have created a monument more lasting than bronze
and loftier than the royal structure of the pyramids,
that which neither devouring rain, nor the unrestrained North Wind
may be able to destroy, nor the immeasurable
succession of years and the flight of time. (…)
the poet announces to his contemporaries and above all to posterity that he will not wholly die, that part of him will live on in his poetry, as, in fact, it has: here I am, in 2020, quoting a poem as old as the yew tree in my novel: two millennia.
Was my professor right? Is that why we write? Not to die wholly, to survive at least in part in what we have done? Was literature born, much as religion, as an answer to the mystery of death? I posed these questions to one of the most insightful literary critics I know, Davide Brullo, himself a poet. His reply:
Certainly, man writes to find the word that will resurrect him. But it is true that the answer to death is through life. Poetry is life, phenomenal, acrobatic. I believe, moreover, that there is an inheritance, a legacy in light. At any rate the battle with death is lost, so let’s hurl verbal fireballs at the face of the coming millennium, whether the name of the writer exists or not is unfair, vain. He creates a language.
Immortality, then, the true goal of alchemy, the eschatological objective of so many religions, major and minor: È bello doppo il morire vivere ancora, as the Renaissance motto goes: it’s beautiful, after having died, to be still alive.
I wonder if it was the same yearning for immortality that animated Alfred Jarry when he wrote Gestes et Opinions du Docteur Faustroll, Pataphysicien (Exploits and Opinions of Dr. Faustroll, Pataphysician)? Yes and no would be both appropriate answers. One of the cleverest and most mind-bending books known to me, predating developments in western culture by about eighty years, it was written in 1898 and first published posthumously in 1911, four years after Jarry’s death.
Was it the same yearning for immortality that informed Guido Morselli’s Dissipatio H.G.? The answer may well be, once more, both yes and no.
The title stands for Dissipatio Humani Generis, a sentence excerpted from the writings of Iamblichus; it means, the vanishing of humankind.
The narrating protagonist, a lucid, hypochondriac, “fobanthropic” more than misanthropic intellectual, decides to drown himself in a pond inside a cave high up in the mountains. But once there, he changes his mind, and walks back to his cottage.
He will eventually discover that humankind, after he changed his mind about committing suicide, has vanished. Humanity is now represented by its single remaining component, a man who was about to leave it behind and who never felt that he belonged in it in the first place.
Thus begins a monologue—philosophical, ontological and eschatological—with nothing but absolute silence as a background, except for a few noises caused by animals or by machines that keep on working. Soon his monologue turns into a dialogue, with his memories and then with all the vanished people.
The ultimate solipsist ends up longing desperately for humans.
This was Morselli’s last book. Unlike the protagonist in Dissipatio H.G., he did not change his mind at the last moment and did commit suicide shortly after this manuscript, too, was rejected.
But then it was published posthumously, along with several other books of his; its first English edition will be released in the US this coming December; and here I am, writing about it decades after its rejection prompted the author to take his own life—but he did not wholly die.
A few days ago I received through my website an e-mail from a fan. She had bought my Memoirs of a Tree in Lausanne, Switzerland, in its French edition, and had loved it; she had then bought it in its Spanish edition so that her husband could read it; and now, in Quito, Ecuador, she was going to present it to her book club, outdoors because of Covid restrictions, under the Pichincha Volcano—the same book with which I opened this meditation and whose ending I translated, back in the early 1990s, for my professor of Latin literature. What strikes me in retrospect is that the yew tree (Taxus baccata) is a technically immortal being, capable of regenerating itself in perpetuity. Its earliest fossils date back to two hundred and fifty million years ago and, compared to its present state, show that there has been no evolution: born perfect to live eternally.
How did this purported yearning for immortality resonate in me more or less half a lifetime ago? Perhaps not as consciously as it does now, but I suppose it was, even then, the motivator.
So many poets and writers did not wholly die, and their living legacy informs us to this day. Contemporary authors could think of them as their manes, i.e., the souls of dead ancestors, and worship them as benevolent spirits. Some of us probably already do.