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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Matt Haig, "La biblioteca di mezzanotte"

31 Marzo 2021 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

La biblioteca di mezzanotte
Matt Haig
2020
 
A molti questo libro parrà scontato e superficiale, altri lo definiranno fantastico e illuminante. Sono vere entrambe le opinioni, la differenza la fa chi lo legge. Chi ha alle spalle qualche riflessione sulla vita e le opportunità non ci troverà nulla se non le conferme a ciò che già aveva intuito. Vittimisti, sconsolati, dediti al rimpianto cronico scopriranno che wow, mica l'avevano mai vista così la faccenda. La storiella non è nulla di che, più o meno il film di Capra La vita è meravigliosa (o se vogliamo buttarla sul colto, pure Dante 700 anni fa si fece accompagnare per un tour pre-mortem da una guida di fiducia) condita da un briciolo di fisica quantistica. 
Nora dopo una giornata in cui tutto va storto (e a chi non è capitato?), dall'amica che non risponde al Whatsapp alla certezza di avere sprecato tutti i suoi talenti nella vita, decide di lasciare il mondo terreno. Nel limbo che la separa dalla morte vera e propria si imbatte in una biblioteca che contiene tutte le sue possibili vite causate da tutte le possibili scelte diverse che avrebbe potuto fare. Inizia quindi a sperimentare centinaia di vite possibili. Quale sceglierà? Ora, prima di elencare quali sono i messaggi degni di nota del romanzo, vorrei solo avvisare l'incauto lettore che sì, tutto molto bello e poetico e zen, però non è che tutto nella vita si condisce con queste colate di pensiero positivo. Insomma, shit happens e io aggiungo sometimes it lasts, e non solo non c'è nulla di male ma è meglio farci i conti. Per cui l'ultimo capitolo leggetelo con una sana dose di cinismo. Ora veniamo ai messaggi da tenere a mente:
1) Mai essere precipitosi nel giudizio. Una giornata di M capitò pure a Matt Haig che infatti arrivò sull'orlo di una scogliera e del suicidio e che probabilmente si ispira a questo fatto personale nel romanzo. Andiamo a dormire e il giorno dopo scopriremo anche un sacco di cose belle.
2) Valutiamoci. Facciamo un mucchio di cose belle per chi ci circonda, spesso non ce lo dicono o ce lo dicono in modo goffo o sbagliato ma è così. Senza di noi qualcosa va peggio sicuro, fidatevi.
3) Ringraziamo chi ci fa stare bene così impedivano agli altri di inciampare nel punto 2
4) La Vita la maggior parte delle volte va vissuta e non capita. Ovvero ammazzarsi di domande soprattutto che non avranno risposta (perché il tipo a cui piacevo mi ha rifiutato? Perché il collega astioso mi ha poi fatto complimenti bellissimi? Ho ferito mai qualcuno?) fa sì che il mondo proceda sereno senza di noi che stiamo lì al palo con espressione ebete. Hai voglia poi che ti perdi le occasioni.
5) Le cose vanno vissute sennò non possiamo sapere se davvero sono buone o cattive per noi. Se sono cattive averle vissute ci insegnerà un mucchio di roba. Prezzo alto ma soddisfazione garantita.
Termino con uno stralcio del libro: "Forse però è così che sono fatte le vite di ognuno. Forse persino quelle all'apparenza così perfette nella loro intensità, o degne di essere vissute, alla fine hanno lo stesso sapore. Acri di disillusione e monotonia e ferite e rivalità, intervallati da sprazzi di meraviglia e bellezza. Forse era questo l'unico significato che aveva davvero importanza. Essere il mondo, testimone di sé stesso".
Buona vita, insomma.
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Le Tellier, "L'anomalia"

30 Marzo 2021 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni, #fantascienza

 

 

 
 
 
L'anomalia
Hervé Le Tellier
2020
 
 
"Sì proprio così. Posso ricordarle la frase di Nietzsche? 'Le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria'. In questo momento, l'intero pianeta si trova di fronte ad una verità inedita, che rimette in discussione tutte le nostre illusioni. È un segno che ci è stato inviato, indubitabilmente. Ma, pensare richiede tempo, ahimè. L'ironia sta nel fatto che essere virtuali implica forse maggiori doveri nei confronti del nostro prossimo, del nostro pianeta. Soprattutto collettivamente.
- E perché mai?-
- Perché - ed è stato già detto da un matematico - questo test non è destinato a noi in quanto individui. Questa simulazione pensa in termini di vastità oceaniche, se ne infischia del movimento di ogni singola molecola d'acqua. È dunque dalla specie umana nella sua interezza che la simulazione si aspetta una reazione. Non ci sarà nessun salvatore supremo. Dovremo salvarci da soli".
 
Leggere ora questo romanzo scritto ben prima del 2020 e che si incasella con difficoltà (fantascienza? Ucronia?) fa veramente uno strano effetto. Nel romanzo di Le Tellier, che si manda giù che è una delizia, accade l'impossibile, che è poi quanto scritto in sinossi. Un intero aereo con il suo contenuto umano viene misteriosamente "duplicato" durante una turbolenza. Ci si ritrova quindi con 243 esseri umani con medesimo DNA ma anche ricordi di quelli del medesimo aereo atterrato 3 mesi prima al JFK. A parte le ovvie difficoltà di gestire la situazione da un punto di vista sociale, psicologico, economico e militare,  diventa urgente capire come il fatto possa essere accaduto e chi ne sia il responsabile. E per trovare una spiegazione occorre scomodare Nick Bostrom, filosofo reale, e la sua disturbante teoria. Le problematiche per inserire i "doppioni" sul pianeta si sciolgono a poco a poco e tutti i rivoli costituiti dai 7 personaggi che il romanziere ha deciso di seguire confluiscono in un rassicurante lieto fine ma nessuno ha risposto alla domanda fondamentale: se i "cigni neri" sono come degli enormi quiz inviati alla specie umana per testare le loro risposte, dalla nostra risposta dipende o la nostra evoluzione verso uno stadio evolutivo più alto o il crash del sistema essere umano. E come la filosofia insegna, bisogna sempre affrontare i problemi, mai evitarli. Perché a ignorarli può succedere un problema di impaginazione delle ultime righe.
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La signora e la strega

29 Marzo 2021 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia, #personaggi da conoscere

La signora e la strega
 
In conclusione, tutte queste cose provengono dalla concupiscenza carnale che in loro è insaziabile […] non c’è da stupirsi se tra coloro che sono infetti dall’eresia delle streghe ci sono più donne che uomini […] E sia benedetto l’Altissimo che finora ha preservato il sesso maschile da un così grande flagello!”
(Malleus maleficarum, I parte, questione VI)
 
Seduta al bar in piazza San Domenico, guardo con distacco le persone che camminano davanti alle tombe dei glossatori o alla colonna medievale di Guido Reni e penso che forse non tutti sanno che un giorno del 1498 in questa stessa piazza fu bruciata sul rogo Gentile Budrioli, anche detta la “strega enormissima” proprio per la sua vasta cultura. Bologna fu teatro di storie poco conosciute, una città, anzi un paesone, che ti accoglie con il suo buon odore di manicaretti artigianali e con un immenso tesoro artistico non sempre manifesto a una prima occhiata, ma che merita di essere scoperto. Fermarsi un attimo in ascolto su questa piazza, dunque, è un po' prestare attenzione a ciò che la città ha da raccontare. Passeggiando sotto le due torri, lungo i portici, in un centro così immutato, si può rivivere un'epoca, si può sentire rimbombare sotto le volte il ticchettio dei tacchi o il fruscio dello strascico dei lunghi abiti di due donne che diventarono amiche, pur se diverse, legate dalla passione per l'esoterismo e l'indipendenza: Ginevra Sforza e Gentile Budrioli.
La prima, fu moglie di Sante Bentivoglio, molto più anziano di lei e poi, alla morte di questi, del cugino Giovanni II. Una moglie per due signori di Bologna, assolutamente poco ben vista in città e dalla Chiesa. Figlia illegittima di Alessandro, signore di Pesaro, la bella Ginevra era la tipica donna del tempo, ricca, viziata e coinvolta dalle, sempre poco chiare, trame di potere. Con Giovanni ebbe un rapporto molto intenso di complicità assoluta, gli diede sedici figli, alcuni dei quali però morirono in tenera età. Dal temperamento forte e insolito, capace di trattare con il giusto distacco anche le questioni più difficili, divenne consigliera fidata del marito negli affari politici e di famiglia. Ginevra era però anche curiosa, aperta e attratta da esoterismo, alchimia e altre pratiche ritenute poco adatte a una signora par suo e che, dunque, teneva gelosamente segrete per non incorrere nelle ritorsioni dell'Inquisizione. Va detto che Bologna non ha mai troppo amato questa donna, considerata vanitosa quando non viziosa, si vociferava di una relazione amorosa con Giovanni già prima delle sue seconde nozze. Era ritenuta un'ambiziosa arrivista che, con troppa disinvoltura, ostentava lusso e bellezza. Tant'è che il giorno del suo primo matrimonio con Sante Bentivoglio, il vescovo sbarrò la porta di San Petronio per impedirle di entrare con abiti giudicati troppo sfarzosi, e costringendola a ripiegare su un'altra chiesa per la celebrazione delle nozze.
E Gentile Budrioli chi era? Una ragazza molto bella oltre che intelligente. Con lunghi capelli castani, lo sguardo mite e sincero. Una donna buona, ma con la pretesa di potersi esprimere liberamente, di fare ciò per cui si sentiva ispirata, senza nessun veto. Oltre che moglie e madre, era molto colta e, nel tempo, era diventata astrologa, erborista e guaritrice. Era di certo una mente brillante, ma anche spontanea al punto da esporre al marito le sue aspirazioni, sperando almeno nella sua di comprensione. Apro una parentesi, Gentile era ricca di famiglia, il marito, il notaio Alessandro Cimieri, aveva beneficiato della sua dote, di ben 500 ducati, per farsi strada fra i notabili della città, ma questi mal sopportava le qualità della moglie e le viveva come un affronto personale, tanto da diventare, in seguito, uno dei suoi principali accusatori. Gentile intendeva, a ogni costo, approfondire i suoi studi, quindi anche contro il volere del suo sposo, decise di frequentare, nel convento dei Francescani, l'amico Frate Silvestro, per apprendere da lui ogni segreto sull'arte e l'uso delle erbe officinali. I Francescani erano da sempre custodi del segreto di curare con le erbe e Gentile, attenta e appassionata, imparò, ben presto e bene, come guarire le persone. Inoltre, prima che le fosse impedito definitivamente dal marito, per un periodo, aveva frequentato presso l'Università di Bologna, le lezioni di Astrologia del professore Scipione Manfredi. Per farla breve questa donna dimostrò ben presto la sua vera natura, la volontà di precorrere i tempi, disposta a esporsi e a rischiare per raggiungere le mete prefissate. I suoi comportamenti furono giudicati inappropriati: intollerabili per l'ignoranza dilagante della ricca borghesia, disdicevoli per la Chiesa che metteva ogni impegno nel sopraffare, reprimere e tenere il popolo (le donne soprattutto) in condizioni di ignoranza e inferiorità; doti quelle di Gentile che furono disapprovate da tutti, non ultimo, dalle sue stesse coetanee, figlie di buona famiglia come lei che, al contrario, aspettavano solo di fare il matrimonio giusto. Diventata esperta iniziò, anche fuori dal convento, a mettere le sue capacità a disposizione di tutti, la gente la considerava una guaritrice migliore dei medici e in molti si rivolgevano a lei. Era capace di curare dolori fisici, ma poiché, come detto in precedenza, era una donna di grande empatia e sensibilità, riusciva a dare sollievo anche alle pene interiori di chi le si avvicinava. Fu così che la sua fama di curatrice di corpo e anima si diffuse a Bologna di strada in strada, di vicolo in vicolo, di bocca in bocca fino a giungere all'orecchio di Ginevra Sforza. La sua decantata perizia ne aveva attirato dapprima la curiosità, ma furono le sue doti umane a instaurare le basi di un'amicizia sincera. La signora di Bologna volle Gentile come dama di compagnia che accettò di buon grado, le due donne trascorrevano pomeriggi a passeggiare per il centro e a chiacchierare, scoprendo ogni giorno affinità di uguali passioni e interessi. Gentile e Ginevra, le cui storie così diverse, si erano intrecciate. Il loro incontro aveva cambiato la vita di entrambe: una riuscì ad apprendere nozioni in materie che da sempre l'avevano affascinata, l'altra era entrata a far parte dell'entourage dei Signori della città.
Ginevra aveva provveduto alla sistemazione in convento per due delle figlie di Gentile, mentre uno dei suoi quattro figli maschi divenne notaio a corte. La signora, sempre più conquistata dalle capacità dell'amica, le affidò alcuni parenti ammalati: in particolare, le chiese aiuto per la figlia Laura, sposata con il marchese Giovanni Gonzaga, e Laura, grazie alle sue cure, guarì. Tuttavia, fra i nobili cortigiani bolognesi, si cominciò a guardare Gentile con sospetto, di anno in anno sempre più potente, e a vociferare che con le stesse erbe con cui riusciva a sanare le persone, le facesse anche morire, o peggio ancora, creasse loro dei problemi per poi prendersi il merito di averle curate. Intorno a loro, molti cominciarono a malignare e a intravedere, nello stretto rapporto di confidenza fra le due amiche, l'opera del diavolo, e da lì il passo fu breve, iniziarono a descriverlo come pericoloso e a raccontare di notti trascorse a officiare riti di “magia nera”. In ultimo, l'aver destinato, da parte di Ginevra, una generosa dote per la terza figlia di Gentile, fu causa di non poco malcontento, dicerie e invidia, fra coloro che ormai vedevano essere due donne a influenzare le decisioni di Giovanni Bentivoglio: una Signora poco amata e una strega.
 
Le maldicenze tuttavia si concentrarono principalmente su Gentile che, agli occhi della gente, continuava a comportarsi in modo anomalo, a fare di tutto per uscire dal percorso consentito a una vita femminile, per emergere e distaccarsi dall'ombra del marito. Gentile era anche tenuta sotto stretta osservazione dalla Chiesa per le sue frequentazioni in convento e le pratiche curative che dispensava ormai senza nascondersi.
 
A Bologna il Tribunale dell'Inquisizione lavorava, e parecchio, da più di due secoli, insediatosi presso il convento di San Domenico, fin dal 1233, era uno dei più solerti e spietati. Gentile, per seguire le sue passioni, era finita dentro le mura di quello stesso convento, proprio in bocca al nemico giurato delle donne, il cui corpo era considerato materia favorita dal diavolo. Le streghe a Bologna non furono diverse da tutte le streghe condannate e arse vive in ogni altro luogo durante i secoli. Subivano processi sommari con prove inventate, venivano condannate ed eliminate dopo confessioni strappate sotto terribili torture; si trattava principalmente di levatrici, astrologhe, erboriste e, ovviamente, prostitute.
Le accuse di stregoneria conservate nel Fondo dell’Inquisizione dell’Archivio di Stato di Modena (ASM) riguardano essenzialmente donne ritenute pericolose agli occhi della comunità in cui vivevano.
 
..La macchina della paura verso le donne non è mai morta, – spiega lo storico Adriano Prosperi, esperto di Inquisizione – la dominanza maschile sull’universo nella nostra cultura ha portato con sé un margine di paura nei confronti dell’indomabile differenza naturale e culturale delle donne, delle escluse (...)”.
 
Innumerevoli sono le vicende trattate, troppe per poterle ricordare tutte. La persecuzione fu spietata e durò nei secoli ancora fino al 1600. Per brevità cito qui solo alcuni emblematici casi: nel 1293, Franceschina fu condannata come strega per avere fatto innamorare di sé il ricco bottegaio Corvino. Nel 1295 vennero condotte al rogo due astrologhe, Morba e Medina. Nel 1373, Giacoma fu giudicata per aver curato una donna, da tempo ammalata, con pratiche di erboristeria. Uno degli ultimi episodi che si ricorda, e siamo già nel XVII secolo, è quello di Margherita Sarti, astrologa e prostituta che, una volta trascinata in piazza, fu linciata dalla folla per giorni e morì dopo una lunga agonia.
Tornando al caso di Gentile Budrioli, va però detto che, con ogni probabilità, a decretarne la fine fu proprio la sua volontà di partecipare alla politica cittadina. I Bentivoglio, negli anni, avevano dovuto sopportare diverse congiure da parte di famiglie bolognesi concorrenti che bramavano il potere, come i Malvezzi e i Marescotti, e fu anche la vicinanza a queste famiglie che contribuì alla rovina di Gentile. Fra maldicenze da un lato e fatti più o meno chiari dall'altro, la corte riuscì a influenzare l'opinione di Giovanni II su di lei, a farla apparire sia strumento del diavolo che dei suoi oppositori; la sfortuna dei Bentivoglio, dunque, era causata dalla sua presenza, dai suoi oscuri malefici e la sorte di Gentile divenne quella di capro espiatorio.
Il potere temporale della Chiesa in quel periodo costituiva una minaccia costante per il governo della città. Innocenzo VIII era un Papa per niente bonario e tranquillo, essendo veemente persecutore del filosofo modenese Pico della Mirandola e relatore della bolla papale che vide all'opera nella “caccia alle streghe” i feroci inquisitori tedeschi Kramer e Sprenger e che, dopo aver blandamente condannato la politica del predecessore Sisto V, nominò in Spagna Grande Inquisitore, nientemeno che Tomas Torquemada. Consultando alcuni documenti conservati nell’Archiginnasio di Bologna, si possono trovare richieste di finanziamento, da parte della Chiesa, per “l’allargamento della sala delle torture” e per il rinnovo degli strumenti di supplizio per gli interrogatori. Questa tremenda macchina di persecuzione veniva alimentata confiscando ai condannati i beni che possedevano e che finivano equamente suddivisi fra la Chiesa e il Comune di Bologna, che dal canto suo incentivava, nei periodi di crisi, l’attività di inquisizione.
Era successo che uno dei figli di Giovanni II si fosse gravemente ammalato e che la moglie volesse affidarlo per le cure alla sua amica Gentile, purtroppo il bambino morì in pochi giorni e quella fu l'occasione giusta per trarre vantaggio dall'accaduto e sbarazzarsi della scomoda presenza di Gentile, entrata in un gioco più grande di lei. La Corte l'accusò di avere, in combutta col diavolo, “guastato” il bambino. Così, convinto da eventi personali e dall'opportunità di un riavvicinamento al Papa, per siglare una sorta di tregua nella lotta al dominio della città, il Signore di Bologna intravide nella consegna di Gentile alla Santa Inquisizione la sua via di salvezza. Ginevra, pur tentando con tutte le sue forze, per non mettere a rischio la sua stessa vita, non poté risparmiare all'amica una tremenda sorte.
È Leandro Alberti (1479-1552) importante storico, domenicano, teologo e filosofo di Bologna che, nel suo “Historiae”, dedica alcune pagine alla vicenda di Gentile Budrioli, alla sua condanna al rogo e ai dettagli dell'esecuzione. Quanto alla Inquisizione l'Autore aveva voce in capitolo essendo stato istituito egli stesso Inquisitore intorno al 1533.
Per Gentile, donna istruita, appartenente a una famiglia in vista, fu montato un processo in grande stile, con l’accusa di stregoneria più vasta e completa possibile, ovviamente gli atti del processo sono andati per lo più dispersi.
 
"La graziosa brunetta passeggiava per Bologna con vesti di seta e di velluto, con orecchini preziosi, braccialetti d’oro e perle al collo e tra i capelli. In più aveva un servitore che la precedeva e due damigelle che la seguivano, sempre…”
 
(Dagli atti del processo di Gentile Budrioli, 1498)
 
La casa di Gentile nel torresotto di Porta Nova, venne perquisita una prima volta e furono trovate le prove della sua stregoneria: un diavolo di piombo, tracce di sangue, ampolle piene di liquidi, mantelli e abiti ricoperti di diavoli dipinti. A una seconda perquisizione, quando lei era già rinchiusa nelle sale di tortura, saltarono fuori, manco a dirlo, le prove definitive e inconfutabili della sua alleanza col diavolo: libri di negromanzia, un altare con le immagini di Lucifero, dodici sacchetti contenenti ciascuno polvere di organi umani con i quali bastava che lei toccasse il corrispondente organo di qualcuno per farlo ammalare o morire. C’era chi giurava che Gentile fosse in grado di predire cosa sarebbe accaduto, solo guardando le stelle. Ginevra Bentivoglio, la signora di Bologna che, durante l'inchiesta fu sfiorata dai sospetti ma troppo in alto per venire colpita, si chiuse in un silenzioso riserbo. Ed ecco con un coup de théâtre, uscire allo scoperto anche il marito di Gentile che testimoniò con dovizia di particolari contro di lei, dichiarando che prima lo aveva tradito, poi lo aveva sottoposto a un incantesimo per fargli perdere l’intelletto. Una serva di Gentile confermò che la sua Signora parlava con il diavolo e le aveva insegnato una malìa per far innamorare un uomo. La povera Gentile fu torturata a lungo fino a crollare e, allo stremo di ogni resistenza fisica e psicologica, confessò ben vent'anni di attività occulte: “72 congiungimenti carnali con spiriti demoniaci”, ammise di aver rubato ossa al cimitero e di aver profanato simboli religiosi. Confessò dunque tutto quello che c'era da confessare pur di porre fine al suo supplizio, chiedendo in cambio solo di salutare i suoi figli per l'ultima volta.
I condannati erano portati, dopo il processo, dal convento di Piazza San Domenico a Piazza VIII Agosto, in genere su un carro, in mezzo alla folla delirante, con il boia e un frate che cantilenava liturgie. Il tragitto non era breve: dalla camera delle torture si passava attraverso piazza Cavour ei proseguiva verso piazza Maggiore, dove si assisteva alla prima Messa. Sul carro con lo sventurato di turno c'erano i membri dell’Arciconfraternita della Morte, braccio della confraternita di Santa Maria della Vita, sita tra via Clavature e via Pescherie, uomini vestiti con un saio e un cappuccio che lasciava intravedere solo gli occhi e, per incutere più terrore, un teschio all'altezza della bocca. Finita la Messa si ripartiva per Piazza VIII Agosto dove la celebrazione della seconda Messa era l'introduzione al rogo.
 
Era il 14 luglio del 1498 quando si diede seguito alla condanna di Gentile, ma nel suo caso fu scelta come scena dell'esecuzione la piazza davanti al convento di San Domenico, proprio dove aveva appreso le sue nozioni, dove aveva avuto inizio la sua storia. Fu eretta una piattaforma con un palo alto sei metri sulla quale, ormai priva di forze, Gentile venne legata con una catena di ferro e con un cappio intorno al collo. I giorni di tortura e umiliazione, il processo, la condanna, non avevano potuto cancellare del tutto, dal viso diafano, la sua conturbante bellezza. Il boia, mastro Giacomo, aveva cosparso i vestiti di pece, mischiata con polvere da sparo, così come la legna posta sotto i suoi piedi, e quando il fuoco venne appiccato la folla accorsa in massa, rimase terrorizzata dalle violente fiammate, dai botti, credendo che fosse il diavolo a causarli mentre saliva dagli Inferi a prendersi l'anima della sua serva prediletta. Il fumo denso e acre si alzava dalle fascine, riempiendole i polmoni, il cappio le si stringeva sempre di più al collo e la sventurata spirò ancor prima che il corpo fosse lambito dalle fiamme. In breve tempo “l'enormissima strega” si tramutò in un gran falò e presto fu cenere che il vento disperdeva su questa bella piazza.
Nonostante la morte di Gentile, le sfortune dei Bentivoglio non conobbero fine, la famiglia continuò a subire congiure da più parti, Ginevra, legata indissolubilmente in un vero e proprio sodalizio col marito, seguì la sua sorte continuando a consigliarlo su quali strategie intraprendere e su quali oppositori eliminare. Alla fine, è risaputo, la città di Bologna venne ripresa dal Papato. Giovanni trovò rifugio a Milano, ma Ginevra non si arrese subito. Coraggiosa e indomita fino all'ultimo, mise insieme un esercito con due dei suoi figli e combatté al loro fianco per riprendere il controllo della città. Sconfitti in battaglia a Casalecchio, le fu comminato l'esilio, lei non si allontanò troppo da Bologna riparando a Parma, dai Signori Pallavicino, in casa di un'amica, ma pagò la sua disobbedienza e l'insubordinazione armata con la scomunica. Il Papa Giulio II, vincitore, si era insediato proprio nella dimora dei vecchi signori a Bentivoglio, dove Ginevra chiese più volte, di essere ricevuta senza ottenerne nessuna possibilità, né perdono, né clemenza. Morì esule nel 1507 e il suo corpo fu sepolto in una fossa comune vicino a Busseto.
Una storia popolare racconta che, il giorno del rogo Ginevra, sentendosi in colpa per aver permesso che la sua amica fosse barattata con la ragion di stato, vagasse senza meta intorno alla casa di Gentile, tappandosi le orecchie per non sentire le urla della folla inferocita, annusando l'odore acre del fumo che si spandeva per le vie del centro. Se questo è vero sicuramente avrà pianto a lungo e avrà atteso di vedere volare nell'aria le ceneri della sua compagna. Ceneri grigie, polvere sottile, che a ben guardare non si sono ancora totalmente disperse e continuano a volare qua intorno, davanti ai miei occhi... ma forse è soltanto smog.
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Betta Zy, "Codice Redox"

28 Marzo 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantascienza

 

 

 

 

Codice Redox

Betta Zy

 

Carpa Koi Edizioni, 2021

pp  216

12,00

 

E se gli Ariani non fossero stati tedeschi di razza cosiddetta “pura” ma alieni dal sangue blu, gli occhi azzurri, i capelli biondi e una temperatura corporea di diciotto gradi, discendenti umanizzati di una progenie di rettili? Se vivessero da anni in una misteriosa città sotto l’Antartide? Se Hitler avesse saputo della loro esistenza e ne avesse sfruttato le fonti di energia? Se non si fosse suicidato ma fosse stato terminato da un agente segreto russo sotto copertura?

Sono queste le premesse strane e inquietanti di Codice Redox, la sesta compagnia, primo di una futura serie, un fanta-thriller ucronico.

Una serie di personaggi poco caratterizzati  - ma ben rispondenti alle tipicità di genere -, di cui seguiamo le vicende attraverso molti anni, tutti sullo stesso piano e le cui vite si intersecano con gli accadimenti storici, in salsa fantapolitica, dalla guerra fredda alla caduta del muro di Berlino.

Vagamente, l’atmosfera, in certi momenti artica, mi ha fatto venire in mente Il senso di Smilla per la neve. Agenti segreti, poliziotti, giornalisti che ficcano il naso dove non dovrebbero, esperimenti genetici, la Storia con la S maiuscola e quello che invece avrebbe potuto essere se… ma anche droni, strane sostanze verdi, ologrammi. Un romanzo per amanti del genere, per adepti del deep state, per nostalgici dei rettiliani.

Uno stile corretto e scorrevole, se non per qualche strana imprecisione da mancata rilettura, molto americano nell’impostazione narrativa e linguistica.    

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Il fidanzamento 2

27 Marzo 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #paula martins, #racconto

 

     

                                                 

 

 

 

Non so proprio come lui ha avuto il coraggio di riavvicinarmi il giorno seguente. E se io non avessi voluto essere la sua fidanzatina? Cosa avrebbe fatto in questa ipotesi?

Ma il problema è stato brillantemente risolto, nell'invincibilità dei dieci anni. Non mi ha detto più niente a riguardo, ma mi ha tenuta fermamente per mano. Per un lungo mese, questo è bastato. Tutti e due sapevamo che eravamo fidanzati. Ancor oggi ricordo quella sensazione di un calore un po' arrossito, quell'appartenere che allo stesso tempo possedeva, quell'essere già grande.

Sfortunatamente, anche mia Madre lo sapeva (devi averci visto mano nella mano). L´ho sentita che bisbigliava e rideva con le amiche. Questo mi ha terribilmente offesa, mi sono sentita ridicolizzata.

Lo so oggi che non è proprio così. Mia Madre era furba, sapeva che tutti questi movimenti innocenti fanno parte del crescere, e mi lasciava fare.

 

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Luke Rhinehart, "L'uomo dei dadi"

25 Marzo 2021 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

 

L'uomo dei dadi

Luke Rhinehart

1971

 

"Poteva esistere un uomo totalmente a caso? Poteva un singolo uomo sviluppare talmente le sue capacità da poter variare la sua anima, a piacere, da un'ora all'altra? Poteva un uomo essere una personalità infinitamente multipla? O meglio, come l'universo secondo alcuni teorici, essere una personalità multipla in continua espansione, tale da potere essere contratta solo dalla morte? E del resto, anche allora, chi poteva dirlo?"

Luke Reinhardt, protagonista omonimo dello scrittore (che però si chiama in realtà George Cockcroft e non c'entra nulla con queste vicende totalmente inventate) è uno psicanalista mediamente bravo, mediamente di successo, mediamente ricco ma soprattutto mediamente infelice, da buon medio borghese che ha tutto quanto gli servirebbe per sentirsi totalmente appagato. Cosa non va nella vita di Reinhardt e di milioni di americani di mezza età? Che sono solo se stessi, forse, o magari che sono l'unico se stesso che hanno imparato ad essere scivolando tra i paletti di società, educazione, morale, legge. Ma l'io si può cambiare come un vestito? Secondo lui sì. Basta prendere un dado e dare una opzione a ogni faccia, tiri e quello che esce sarai. Vuoi stuprare la vicina di casa, ammazzare, frodare, farti sodomizzare, corrompere i tuoi figli, mentire? Vai, lanciati, mica lo hai deciso tu, è il maledetto (o benedetto?) dado! Inizia dalle piccole cose e poi lanciati (dopo il dado si intende, sia mai), sii chi mai avresti potuto immaginare, sperimentati! Non ci dicono fior di psicologi, filosofie, guru che il nostro ego è il peggior nemico? E allora annulliamolo, che aspettiamo? Se saremo infiniti non vivremo più nella prigione dell'Io ma correremo felici nel labirinto di mille personalità fluide senza mai fermarci. Fino all'uscita. Se decidiamo di uscire. E se sapremo riconoscerci.

Libro che parte con un'idea geniale, trasgressiva, dissacrante e che alcuni hanno deciso di seguire davvero come filosofia di vita ai tempi della pubblicazione (a cavallo tra i '60 e i' 70) ma che da un punto di vista letterario secondo me diventa prolisso, ripetitivo e un po' troppo indulgente in scene ed episodi pruriginosi che lasciano il tempo che trovano a un certo punto. Scoppiettante la prima metà, declinante la seconda, con gli ultimi due capitoli notevolissimi, brevissimi ma geniali. Un invito scherzoso (sì?) alla follia, al libero arbitrio dei sensi, all'infrazione delle regole, al correre nudi per strada urlando a squarciagola frasi senza senso incuranti delle guardie o degli sguardi. Anzi, forse proprio per provocarli.  Ovviamente non applicabile davvero nella realtà. Tranne che per.

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Cortés contro gli Antropofagi: due trilogie sulla Conquista del Messico e l’avvento del Mondo Moderno

24 Marzo 2021 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #recensioni, #storia

Cortés contro gli Antropofagi: due trilogie sulla Conquista del Messico e l’avvento del Mondo ModernoCortés contro gli Antropofagi: due trilogie sulla Conquista del Messico e l’avvento del Mondo Moderno

 

Di Guido Mina di Sospiro

tradotto dall’inglese da Patrizia Poli; pubblicato nell’originale nella New English Review dell’aprile 2021

 

“Gli esseri umani sono buoni.”—Jean Jacques Rousseau.

“Gli esseri umani sono buoni.” —Detto diffuso fra i cannibali.

 

Graham Hancock e Juan Carlos Sánchez Clemares hanno dato alle stampe due trilogie sulla conquista del Messico, rispettivamente: La guerra degli dei, il romanzo epico sulla conquista spagnola del Messico, che consiste in La notte del serpente (volume 1); Il ritorno del serpente (volume due); La profezia del serpente piumato (volume 3); e Cronicas de un Conquistador, che consiste in Un nuevo Mundo (volume 1); Mexico – Tenochtitlan (volume 2); Un mundo nuevo (volume 3). Nell’insieme, la trilogia di Hancock annovera 1476 pagine, mentre quella di Sánchez Clemares 1811. Sono due lavori colossali e “monumentali”, nell’etimologia originale, che deriva da monere, latino per “ricordare”. Queste due grandi opere sono un memento non solo di una conquista trionfale, e di una delle più incredibili serie di imprese militari nella storia, ma della nascita del mondo moderno, per ragioni che spiegherò entro breve.

Fin dal tempo di Impronte degli dei sono un avido lettore di Graham Hancock. Con tale libro ha essenzialmente inventato un nuovo genere letterario: la saggistica narrativa. È stato fra i primi ad avere l’idea di scrivere saggistica con la tecnica della narrativa (avvincente, veloce).  Come risultato ha prodotto un libro appassionante, e poi vari altri. Non solo ha adottato la tecnica del romanzo, ma molti, e io fra questi, pensano che sarebbe un romanziere eccezionale e, in effetti, lo è. La premessa della trilogia de La guerra degli dei è la creazione di due personaggi immaginari sul vivido sfondo di personaggi e avvenimenti storici: Tozi, una giovinetta locale dotata di poteri magici che cerca di salvare coloro che ama; e Pepillo, un orfano spagnolo che viene preso sotto l’ala di Hérnan Cortés, e impara come si diventa un conquistatore. Un’altra particolarità dell’interpretazione di Hancock della conquista è la magia: entra nella testa dell’imperatore azteco Montezuma e ci resta fino a che non viene ucciso, mostrando al lettore quanto la religione, qualcuno potrebbe definirla idolatria, abbia avuto a che fare con la caduta dell’Impero Azteco (sebbene “Mexica” sia la parola giusta, che userò da qui in avanti.)   

A causa dell’interesse di Hancock per l’esoterismo, c’è molta magia nella sua trilogia: quella di Moctezuma e quella di Tozi, oltre a lunghe escursioni nella mente di Cortés, che è ritratto come molto devoto a San Pietro. È importante che il lettore contemporaneo si renda conto che la religione ha caratterizzato sia l’Impero Mexica sia l’Impero spagnolo; la sua influenza è stata pervasiva in entrambi, dettando sia credenze sia azioni. Ma le due religioni erano straordinariamente differenti, cosa che ha esacerbato lo scontro di culture.

Nonostante tali lunghe digressioni nella magia, ciò che più di tutto mi è piaciuto sono le battaglie. Hancock si dimostra maestro nel descriverle, e ce ne sono molte; in tutte, gli Spagnoli sono assurdamente sfavoriti e tuttavia… Mi chiedo, ad esempio, quale altro avanzo di esercito della storia, assediato, affamato e sfinito, sarebbe stato capace di vincere la battaglia di Otumba, e subito dopo l’ecatombe della Noche Triste? Confesso di essere tornato di recente a questa trilogia proprio per rileggere le scene di battaglia che sono rese in maniera superba.

Un’altra caratteristica dell’opera è il ritratto che gradualmente emerge di Cortés di un Ulisse in carne e ossa: furbo, audace, astuto, spericolato, sicuro di sé, versatile (politropos), e così carismatico che, cinque secoli dopo gli avvenimenti, il suo carisma trasuda dalle pagine di entrambi i romanzi. Per fare un esempio: molti di voi hanno sentito parlare dell’ordine dato da Cortés di bruciare tutte le navi – che è parente del bruciare i propri ponti, nel senso militare di tagliarsi intenzionalmente la possibilità di ritirata – per obbligare i suoi uomini a sopravvivere per mezzo della conquista, sebbene non avesse idea di ciò che aspettava lui e loro. In realtà ha fatto di più: ha riunito i suoi capitani e ha detto loro che c’era un “broma” nelle navi, un tarlo che stava divorando tutto il legno. Era meglio smantellare le navi e tenere il legno che poteva essere salvato per costruire una città, per inciso La Villa Rica de la Vera Cruz, l’odierna Veracruz. E le navi furono debitamente smantellate. Come se non bastasse, in castigliano la parola “broma” significa anche “scherzo”. 

In Cronicas de un Conquistador, Sánchez Clemares ricorre a un unico personaggio – Diego de la Vega Hurtado y de Velasco – un mercenario, di antica e illustre nobiltà ma squattrinato che, dopo essersi distinto come grande combattente in Italia, finisce a Cuba, e s’imbarca su una delle navi della flotta di Cortés. Siccome Diego ha studiato, ma non è certo uno scrittore, nemmeno nella più fervida immaginazione, Sánchez Clemares non compie l’errore di farlo scrivere fluentemente e in modo accattivante, poiché sta soltanto compilando una cronaca, priva di velleità letterarie. Se ciò è stilisticamente appropriato, inevitabilmente rallenta la narrazione. Lo scritto procede lemme lemme senza gli abili crescendo e decrescendo, in intensità e ritmo, riscontrabili nella trilogia di Hancock. Ma il colpo  magistrale che Sánchez Clemares mette a segno è che molto gradualmente, quasi impercettibilmente, rende la prosa di Diego sempre più scorrevole e avvincente, così che alla fine del volume 2 è del tutto appassionante: l’iniziale (e voluto) tirare avanti si trasforma in un inarrestabile telos narrativo. La ricchezza di dettagli sui Mexica è stupefacente e, come nell’opera di Hancock, gli eventi narrati sono storicamente accurati, così come le ambientazioni e tutti i personaggi coinvolti, a parte i due creati da Hancock e quello di Sánchez Clemares, come spiegato. 

E che dire del linguaggio utilizzato da Sánchez Clemares? Un castigliano antico, a tratti aulico, con coniugazioni e consecutio temporum insoliti per i miei occhi e orecchi ma, oh, graditissimi. Il che fornisce ancora più credibilità alla storia: ci si sente come se si fosse tra i conquistadores, ad ascoltarli mentre tramano la prossima mossa – o il prossimo tradimento. Non erano santi, ma la loro avidità per l’oro e sete di fama erano uguali alla loro fede religiosa, e fin dal principio il clero fu dalla parte dei nativi, proteggendoli dagli abusi, con grande dispiacere degli spietati conquistadores.  

Dei molti conquistadores descritti oltre Cortés, tutti storicamente accurati, quello che più colpisce – tostissimo e senza scrupoli – è Pedro de Alvarado, le cui gesta, incluse quelle dopo la Conquista del Messico, che il lettore interessato dovrà cercare altrove, sembrano ugualmente irrealizzabili. Meriterebbe un romanzo a parte.

I Mexica erano convinti che gli spagnoli fossero dèi (teules), e alcune delle loro straordinarie imprese militari suggeriscono che fossero per lo meno … titani. Per inciso, dalle lunghe conversazioni che ho avuto con l’uomo della medicina della tribù Miccosukee in Florida, e con uno sciamano dei Navajos in Arizona, è emerso il fatto che a tutt’oggi essi considerano gli italiani e gli spagnoli diversi dal resto degli europei, gente speciale, favorita dagli dei. E i Mexica avevano molte profezie che presagivano l’arrivo dei conquistadores. Detto ciò, a quei tempi l’esercito spagnolo era probabilmente il più disciplinato e ben addestrato al mondo, e l’acciaio spagnolo era il più forte.

Entrambe le trilogie chiariscono che i Mexica erano conquistadores quanto gli spagnoli. Le nazioni che i primi avevano conquistato – e dalle quali esigevano un pesante tributo di prodotti agricoli, metalli, gemme, piume (che consideravano di gran valore), schiavi, così come gente da usare nei loro sacrifici e poi mangiare – tutte senza riserva li odiavano. Varie nazioni si allearono prontamente con Cortés contro i Mexica e, dopo la Noche Triste, mentre Cortés era intento a riprendersi Tenochtitlan, ambasciatori dei Mexica cercarono di persuadere i loro vicini ad allearsi con loro contro gli spagnoli, ma per la maggior parte invano.

Inoltre, le donne, di solito figlie di importanti dignitari, che venivano date in moglie come dono a conquistadores di alto rango, erano subito più felici fra gli spagnoli, poiché la condizione della donna fra i Mexica e le altre nazioni era terribile. Tali matrimoni misti, che iniziarono senza indugi, portarono al mestizaje (meticciaggio), cioè la mescolanza razziale e culturale degli amerindi con gli spagnoli che dette inizio al mondo moderno. Gli inglesi, invece, erano razzisti, e non ebbero mai intenzione di stanziarsi nelle proprie colonie. Ma gli spagnoli si stanziarono prontamente nel Nuovo Mondo, e immediatamente si sposarono con donne locali.

I sacrifici umani e la conseguente antropofagia, una costante allora tra i Mexica e tutte le nazioni che ruotavano attorno al loro impero, erano scioccanti per gli spagnoli, e continuano a esserlo per la nostra sensibilità moderna, al punto che per lungo tempo sono stati del tutto negati dagli storici ben pensanti. Ben prima della conquista del Messico, i padri fondatori della Cristianità avevano deciso di spiegare il sacrificio estremo di Cristo – la sua morte sulla croce per la redenzione dell’umanità – nei termini più scioccanti e abominevoli che potessero immaginare: il cibarsi rituale della carne di Cristo e il bere il suo sangue durante la Santa Comunione (che, nella cristianità pre-ecclesiastica, aveva presumibilmente più a che fare con l’agàpe o, più intrigante ancora, con ciò che il mio co-autore Joscelyn Godwin e io descriviamo nel nostro romanzo Forbidden Fruits). Chiaramente l’antropofagia fu considerata già a quei tempi come il più aberrante di tutti i comportamenti umani, che l’umanità peccatrice e immeritevole aveva inflitto al suo Salvatore. E questi cattolicissimi conquistadores giunsero in quello che è l’attuale Messico per scoprire con orrore che ogni nazione contro la quale combattevano si dedicava cronicamente all’antropofagia. Non ebbero dubbi: era opera del Diavolo. Persino quando alcune di queste nazioni divennero alleate degli spagnoli, non smisero di sacrificare esseri umani e mangiarli. Verso al fine della conquista, quando Cortés e il suo esercito stavano assediando Tenochtitlan con tale successo che nessun cibo poteva raggiungere i Mexica dentro la città, gli spagnoli si chiesero come potessero i loro nemici continuare a combattere così ferocemente per mesi. Come si scoprì, mangiavano tutte le vittime che trovavano: ottime proteine di grande valore nutritivo. 

Nel suo libro Los Invencibles de América, Jesús A. Rojo Pinilla sostiene che, lungi dal commettere genocidio contro i Mexica, Cortés e i suoi conquistadores li salvarono da un olocausto autoinflitto. Non conoscendo l’allevamento degli animali, i Mexica e i loro vicini si stavano mangiando l’un l’altro fin quasi all’estinzione. Non solo commettevano decine di migliaia di sacrifici umani ogni anno per motivi religiosi, e come conseguenza mangiavano le cosce delle vittime sacrificali, ma la loro antropofagia era diffusa per la scarsità di cibo. Il canone occidentale contemporaneo, ancora oggi strenuo difensore e propagatore della Leyenda Negra (la propaganda britannico/americana – e anche italiana [basta pensare a I promessi sposi] – che demonizza la Spagna e tutto ciò che è spagnolo), alla luce di prove storiche e archeologiche c’insegna l’opposto: che il Messico pre-colombiano era il Giardino delle Delizie e che i conquistadores procedettero allo sterminio. Il test del DNA sulla popolazione messicana contemporanea rivela però che il 30% è di pura discendenza Maya o Mexica; il 60% meticcio; e solo il 10 % bianco. Se il presunto olocausto avesse avuto luogo, il DNA dei messicani contemporanei non indicherebbe una schiacciante discendenza bianca? 

Ma il concetto di buon selvaggio è sopravvissuto fino a oggi; anzi, non potrebbe essere più di moda. In una visione del mondo distintamente manichea, ci viene insegnato che i nativi erano sempre i buoni, e gli invasori europei sempre i cattivi: una squisita e inequivocabile dicotomia. Jean- Jacques Rousseau ha scritto: Le principe de toute morale (…) est que l’homme est un être naturellement bon, aimant la justice et l’ordre: qu’il n’y a point de perversité originelle dans le cœur humain (…). (Il principio di tutta la morale [...] è che l’uomo è un essere naturalmente buono, amante della giustizia e dell’ordine; e nel cuore umano non c’è perversione intrinseca). 

Forse Julius Evola non aveva torto quando definì l’Illuminismo, Oscurantismo: prendi un’idea (un ideale) e trasformala in un dogma, ignorando ogni evidnza contraria. Questo non è accaduto solo con l’ovviamente erroneo concetto del buon selvaggio. Molte sono state le idee (gli ideali) inventate durante la cosiddetta Età dell’Illuminismo che si sono trasformate rapidamente in dogmi (quando tali idee hanno come sostenitore la ghigliottina, vi stupireste di quanto velocemente vengano adottate), sui quali si basa la società contemporanea. Non avevano e non hanno alcuna rispondenza nella realtà, ma da quando ciò è stato un requisito per un dogma? Indipendentemente da ciò, Il Discorso sulla Diseguaglianza di Rousseau e il suo Contratto Sociale sono i fondamenti del moderno pensiero sociale e politico. Rousseau divenne il membro più famoso della Société des amis del la Constitution, La Società degli amici della Costituzione, rinominata la Società dei Giacobini. Il periodo in cui essa fu all’apice include il Regno del Terrore, durante il quale più di diecimila persone furono messe a morte in Francia, molto spesso per “crimini politici”.

Così l’ammiratore del buon selvaggio, il difensore della bontà intrinseca dell’uomo incorrotto, è anche la mente dietro la macchina assassina votata all’eliminazione di ogni dissenso. Quella, ci viene detto da storici entusiasti, è stata l’Età dell’Illuminismo.

Bene, il buon selvaggio, cinque secoli fa, in quello che è l’attuale Messico, mangiava i suoi simili umani con trasporto. Portavano le vittime sacrificali sulla cima di una piramide, strappavano loro il cuore, che gettavano su un braciere, impalavano la testa oppure la lasciavano rotolare lungo i gradini, si tenevano le braccia e le gambe, che mangiavano, e gettavano via il resto. Si formavano fiumi di sangue che non seccavano mai.

Sia Hancock sia Sánchez Clemares raccontano dei recinti da ingrasso in cui venivano rinchiusi bambini e giovani vergini, per essere ingrassati e alla fine mangiati. L’incubo immaginato dai fratelli Grimm in Hänsel e Gretel veniva attuato su scala industriale dai Mexica. L’allevamento degli animali (come il concetto della ruota, o una metallurgia capace di produrre l’acciaio) non è mai venuto in mente ai Mexica: era più semplice e veloce mangiare la gente. Ciò non era limitato a un occasionale sacrificio ai loro déi sanguinari, era una pratica comune, un fenomeno pervasivo. Sembra caratterizzare le Americhe: con l’eccezione dei contemporanei Stati Uniti e del Canada, dal Messico odierno fino al Cile, l’antropofagia era un stile di vita (?) o, piuttosto, una graduale autoeliminazione. 

Entrambe le triologie sono magistrali; quella di Hancock sembra a prima vista la migliore, ma quella di Sánchez Clemares diventa altrettanto convincente e, poi, straordinaria. Come collega scrittore, non so come siano riusciti a… vivere mentre scrivevano le loro rispettive 1476 e 1811 pagine, visto che normalmente un romanziere vive col fiato sospeso e la mente militarmente occupata da trama, struttura, dialoghi e riflessioni fino a che la prima stesura non è finita. Tanto di cappello a entrambi: le trilogie mi sono piaciute immensamente. 

 

Cortés vs. the Anthropophagi: Two Trilogies about the Conquest of Mexico and the Coming into Being of The Modern World

 

by Guido Mina di Sospiro

 

Human beings are good.—Jean-Jacques Rousseau

Human beings are good.—A popular saying among cannibals

 

Graham Hancock and Juan Carlos Sánchez Clemares have authored two trilogies about the conquest of Mexico; respectively: War God: The Epic Novel of the Spanish Conquest of Mexico, which consists of Nights of the Witch (volume 1); Return of the Plumed Serpent (volume 2); Night of Sorrows (volume 3); and Crónicas de un Conquistador, which consists of Un nuevo mundo (volume 1); México-Tenochtitlan (volume 2); Un mundo nuevo (volume 3).

Cumulatively, Hancock’s trilogy numbers 1,476 pages, while Sánchez Clemares’s, 1,811. They are two colossal and monumental works, “monumental” in the original etymology that derives from monere, Latin for “to remind”. These two great works are a reminder not only of a successful conquest, and of one of the most incredible series of military feats in recorded history, but of the coming into being of the modern world, for reasons that will be explained shortly.

Ever since the now classic Fingerprints of the Gods I have been a keen reader of Graham Hancock. With that book he essentially invented a new literary genre: narrative nonfiction. He was among the first to have the idea of writing nonfiction with the technique of (engaging, fast-paced) fiction. As a result, he produced a page-turner, and several more after it. Not only did he adopt the technique of novel-writing, but many, and I among them, felt that, if he tried his hand at it, he would be a terrific novelist—and so he is. The premise for the War God trilogy is the creation of two fictional characters amidst the vivid background of historical characters and occurrences: Tozi, a local young girl with magical gifts who tries to save those she loves; and Pepillo, a Spanish orphan who is taken under the wing of Hérnan Cortés, and learns what it takes to be a conquistador. Another peculiarity of Hancock’s interpretation of the conquest is magic: he enters the head of Aztec Emperor Montezuma and stays inside it until he is killed, showing the reader how much religion, or some may call it idolatry, had to do with the fall of the Aztec Empire (though “Mexica” is the correct word, which I shall be using henceforth).

Indeed, because of Hancock’s interest in esoterica, there is a lot of pertinent magic in his trilogy: Moctezuma’s and Tozi’s, as well lengthy explorations of the mind of Cortés, who is depicted as being very devoted to Saint Peter. It is important for the contemporary reader to appreciate that religion featured very prominently in both the Mexica and the Spanish Empire; its influence was all-pervasive for both, thus dictating beliefs and actions alike. But the two religions were strikingly different from one another, which exacerbated the clash of cultures.

Despite such lengthy digressions into “magic”, what I enjoyed above all were the battles.[1] Hancock proves to be a master at describing them, and there are many; in all of them the odds were absurdly against the Spaniards, and yet… I wonder, for example, what other beleaguered, hungry, thirsty and exhausted remnant of an army in recorded history would have been able to win the Battle of Otumba, and right after the hecatomb of the Noche Triste? I confess to having gone back to this trilogy recently specifically to reread the battle scenes, which are superbly rendered.

Another characteristic of the work is the portrait that gradually emerges of Cortés as an Odysseus in the flesh: cunning, fearless, astute, risk-taking, overflowing with confidence and versatility (polytropos), and so charismatic that, five centuries after the facts, his charisma exudes from the pages of both novels. To give an example: most of you have heard about Cortés’s order to burn all ships — which is akin to burning one’s bridges, in the military sense of cutting off one’s own retreat intentionally — to force his men to survive through conquest, though he had no idea what he and they may have to face. He actually did better than that: he gathered his captains and told them that there was a broma in the ships, an insect that was eating away all the wood. It was better to dismantle the ships and keep what wood could be salvaged to build a city, incidentally, La Villa Rica de la Vera Cruz, today’s Veracruz. And the ships were duly dismantled. In addition to that, in Castilian the word broma also means “joke”.

In Cronicas de un Conquistador, Sánchez Clemares resorts to a single fictional character — Diego de la Vega Hurtado y de Velasco — a professional soldier from ancient and illustrious nobility, but penniless, who, after distinguishing himself as a great warrior in Italy, ends up in Cuba, and boards one of the ships of Cortés’s fleet. Being Diego well-schooled, but not a writer by any stretch of the imagination, Sánchez Clemares does not incur the mistake of making Diego write flowingly and engagingly, as the latter is merely compiling a chronicle, devoid of literary velleities. While this is stylistically appropriate, it inevitably slows down the pace. The writing chugs along without the artful crescendi and decrescendi in intensity and pace to be found in Hancock’s trilogy. But the magisterial thing that Sánchez Clemares pulls off is that he very gradually, almost imperceptibly renders Diego’s prose increasingly flowing and engaging, so much so that by the end of volume 2 it is no less than riveting: the initial (and deliberate) chugging along morphs into an unstoppable narrative thrust. The wealth of details about the Mexica and all the other nations is stunning and, much as in Hancock’s work, the events narrated are historically accurate, as are the settings and all characters involved except for the two created by Hancock and the one by Sánchez Clemares, as mentioned.

And what to say of the language Sánchez Clemares employs? An ancient, at times archaic Castilian, with conjugations and sequences of tenses unusual for my eyes and ears but, oh, so wonderful. This lends even more credibility to the story: one feels as if he were among the conquistadores, listening in as they plot the next move—or the next betrayal. They were no saints, but their greed for gold and thirst for fame were equal to their religious faith, and from the start the clergy was on the side of the natives, protecting them from abuse, much to the chagrin of the more ruthless conquistadores.

Of the many conquistadores described other than Cortés, all historically accurate, the most striking — ruthless and badass — is Pedro de Alvarado, whose deeds, including those after the Conquest of Mexico, which the interested reader will have to find elsewhere, seem equally impossible to achieve. He deserves a novel of his own.

The Mexica were convinced that the Spaniards were gods (teules), and some of their inconceivable military accomplishments would suggest that they were at least… titans. Incidentally, from long conversations I have had with the bundle-carrier of the Miccosukee nation of Florida and with a shaman from the Navajos, in Arizona, the reality has surfaced that to this day they consider Italians and Spaniards different from the rest of the Europeans, special people at least favored by the gods. And the Mexica had many prophecies vaticinating the arrival of the conquistadores. That said, the Spanish army back then was probably the most disciplined and well-trained in the world, and Spanish steel was the strongest.

Both trilogies make clear that the Mexica were conquistadores as much as the Spaniards. The nations the former had conquered — and from which they exacted a heavy tribute of agricultural produce, metals, gems, feathers (which they considered very valuable), slaves as well as people to use in their sacrifices and then eat — all unreservedly hated them. Various nations readily allied themselves with Cortés against the Mexica and, after the Noche Triste, when Cortés was intent on recapturing Tenochtitlan, Mexica ambassadors tried to persuade their neighbors to strike an alliance with them against the Spaniards, but mostly in vain.

Moreover, the women, usually daughters of important dignitaries who were given as gifts to high-ranking conquistadores to become their wives, were immediately happier among the Spaniards, as the condition of a woman among the Mexica and the other nations was dreadful. Such intermarrying, which got underway in earnest, led to the mestizaje, the racial and cultural mixing of Amerindians with Spaniards that began the modern world. The English, on the other hand, were racist, and never really intended to settle down in their colonies. But the Spaniards readily settled in the New World, and readily married local women.

The human sacrifices and the subsequent anthropophagy, a constant accompaniment to life then among the Mexica and all the nations around their empire, were most shocking to the Spaniards, and continue to be so for our modern sensibility, to the point that for a long time they were outright denied by bien pensant historians. Well before the conquest of Mexico, the founding fathers of Christianity had decided to explain Christ’s ultimate sacrifice — his death on the cross for the redemption of humankind — in the most shocking and abominable terms they could think of: the ritual eating of Christ’s flesh and drinking of his blood during the Holy Communion (which, in pre-ecclesiastical Christianity, was presumably more about agape or, more tantalizingly, what my co-author Joscelyn Godwin and I describe in our novel Forbidden Fruits). Clearly anthropophagy was singled out as early as then as the most extreme and aberrant of all possible human behaviors, which sinful and undeserving humankind had meted out to their Savior. And these very Catholic conquistadores arrived in what today is Mexico to discover to their horror that every nation they fought against chronically engaged in anthropophagy. There was no doubt in their mind: it was the work of the devil. Even when some of these native nations became allies of the Spaniards they could not stop sacrificing humans and eating them. Toward the end of the conquest, when Cortés and his army were besieging Tenochtitlan so successfully that no food could reach the Mexica inside the city, the Spaniards wondered how could their enemies keep on fighting so fiercely for months. As it transpired, they were eating all the casualties they could find, be they their enemies or their own soldiers: good protein there, and plenty of nutritional value.

In his book Los Invencibles de América, Jesús Á. Rojo Pinilla maintains that, far from committing genocide against the Mexica, Cortés and his conquistadores saved them from a self-inflected holocaust. Animal husbandry being unknown to the Mexica, they and their neighbors were essentially eating each other to the brink of extinction. Not only did they commit tens of thousands of humans sacrifices every year for religious motivations, and thereafter ate the thighs of the sacrificial victims, but their anthropophagy was widespread because of the scarcity of food. The contemporary western canon, still a staunch supporter and propagator of the Leyenda Negra (the British/American propaganda that demonizes Spain and all things Spanish), in the face of historical and archeological evidence teaches us the opposite: that pre-Columbian Mexico was the Garden of Earthly Delights and that the conquistadors proceeded to exterminate everyone. DNA testing on contemporary Mexican population reveals that 30% of them are of pure Mexica or Maya descent; 60%, mestizo; and only 10%, white. If the alleged holocaust had in fact taken place, wouldn’t the DNA of contemporary Mexicans indicate an overwhelmingly white descent?

But the concept of the bon sauvage has survived to this day; indeed, it could not be more in vogue. In a distinctly Manichean worldview, we are taught that the natives were always good, and the European invaders always ruthless and cruel: heroes and villains, how delightfully unequivocal. Jean-Jacques Rousseau wrote: Le principe de toute morale (...) est que l’homme est un être naturellement bon, aimant la justice et l’ordre ; qu’il n’y a point de perversité originelle dans le cœur humain (…) (The principle of all morality [...] is that man is a naturally good being, a lover of justice and order; that there is no original perversity in the human heart [...].) 

Julius Evola was on to something when he called the Enlightenment, Obscurantism: take an idea(l) and turn it into a dogma, regardless of all the evidence against it. That did not happen exclusively with the ostensibly flawed concept of the bon sauvage. Many were the idea(l)s invented during the so-called Age of Enlightenment that turned quickly into dogmas (when such idea[l]s have a guillotine as their enforcer, you’d be surprised at how quickly they get adopted), and upon which contemporary societies still hinge. They had and have no correspondence to reality, but since when has that been a requirement for a dogma? Regardless of that, Rousseau’s Discourse on Inequality and The Social Contract are the foundations of modern social and political thought. He became the most famous member of the Société des amis de la Constitution, the Society of the Friends of the Constitution, renamed the Society of the Jacobins. The period in which it was at its most effective includes the Reign of Terror, during which well over ten thousand people were executed in France, most often for “political crimes”.

So the admirer of the bon suavage, the advocate of the inherent goodness of uncorrupted man, is also the mind behind a killing machine bent on eliminating any dissenter. That, we are told by enthusiastic historians, was the Age of Enlightenment.

Well, the bon sauvage, five centuries ago in what is Mexico today, ate his fellow humans with abandon. They took the people to be sacrificed at the top of a pyramid, ripped out their heart, which they tossed on a brazier, either impaled their head or let it roll down the steps, kept their legs and arms, which they ate, and threw away the rest. Rivers of blood thus formed, and never dried up.

Both Hancock and Sánchez Clemares write of the fattening pens in which children and young virgins were kept, there to be fattened and eventually eaten. The nightmare imagined by the Brothers Grimm in Hansel and Gretel was carried out on an industrial scale among the Mexica. Animal husbandry (much like the concept of the wheel, or a metallurgy capable of producing steel) never occurred to the Mexica: it was more expedient to eat people. This was not limited to the occasional sacrifice to their bloodthirsty gods; it was an ongoing, all-pervading phenomenon. It does seem to characterize the Americas: with the exception of contemporary USA and Canada, from contemporary Mexico all the way down to Chile anthropophagy was a way of life (?), or rather, of gradual self-annihilation.

Both trilogies are superb; Hancock’s seems at first the better one, but Sánchez Clemares becomes just as good, and then, incredibly good. As a fellow writer, I don’t know how they managed to… live while they wrote their respective 1,476 and 1,811 pages, as normally a novelist lives with bated breath and his mind militarily occupied by plot, structure, dialogues and thoughts until the first draft is done. Hats off to both: I enjoyed the trilogies immensely.

 

 

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Aldo Dalla Vecchia, "Amerigo Asnicar"

21 Marzo 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione

 

 

 

 

Le avventure di Amerigo Asnicar

Aldo Dalla Vecchia

 

Graphe.it Edizioni, 2021

pp 92

11,90

 

Nostalgia nella nostalgia. Sì, nostalgia, perché questo romanzo, lieve come una caramella che si scioglie sulla lingua, io lo avevo già recensito quando uscì in forma ridotta. Adesso, Aldo Dalla Vecchia - giornalista, autore televisivo e scrittore - lo ha rieditato aggiungendo nuovi gustosi racconti che compongono le avventure di Amerigo Asnicar, personaggio in tutto e per tutto ispirato ad Aldo stesso e al mondo da lui frequentato.

E nostalgia perché il periodo in cui il libro è ambientato, attorno al 2015 dell’Expo, sembra, alla luce di ciò che poi è avvenuto, lontanissimo. Nonostante la forte crisi economica, era ancora un mondo pieno di vita e di cose, fra partite a carte, viaggi, aperitivi, e lavoro senza mascherine sulla faccia.

Da sempre l’autore ci introduce nell’ambiente televisivo, quello fatto di vip, stelline e paillettes, un habitat che lui adora fin da bambino, che vive dall’interno per motivi professionali e che, comunque, ha sempre osservato con distacco bonariamente ironico.

Amerigo Asnicar conduce la stessa vita di Aldo Dalla Vecchia, fa le stesse cose, e frequenta le stesse persone - fra studi televisivi, vernissage e tornei di burraco –, in una Milano amata, dove si muovono personaggi reali o comunque riconoscibili, come la soubrette Alda Marietti, chiaramente riconducibile ad Alba Parietti. Nell'esistenza del protagonista sorgono complicazioni dai risvolti gialli, che è bravo a risolvere, dipanando le matasse alla svelta.

Non sono tanto le trame poliziesche a costituire l’interesse precipuo di questo libro, formato da sei racconti, quanto l’aura gentile e perbene che da sempre accompagna gli scritti di Dalla Vecchia, e il trovarci faccia a faccia - in modo leggermente voyeuristico per noi lettori – con personaggi di cui tutti abbiamo sentito parlare e che ci incuriosiscono, anche quando non lo ammetteremmo mai.

L’altra fonte di interesse è lo stile di scrittura di Dalla Vecchia, sempre pulito, scorrevole, prezioso nella sua semplicità raffinata, uno stile dilettevole che ti tiene incollato alle pagine di qualunque cosa l’autore parli.

Piccola chicca nella chicca, una canzone inedita di Cristiano Malgioglio dal testo piacevole e leggermente hot.   

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Il fidanzamento

9 Marzo 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #paula martins, #racconto

       

                                           

 

 

 

Il mio primo scontro con l'amore è stato all'età di dieci anni. Il mio primo fidanzamento.

Nei party di cui ho già parlato ho conosciuto un ragazzino. Tanto piccolo quanto me, e probabilmente tanto inesperto. Mi fa ridere oggi quando ci penso. Ballavamo vicinissimi quegli slow interminabili, scostando un po' i volti, mentre guardavamo non si sa che in lontananza, cercando di mascherare il nostro disagio.

Un giorno che ero fortunatamente da sola, vedo Zé  (diminutivo per José, il suo vero nome) avvicinarsi rigidamente, dritto, ancor più a disagio di quando ballavamo insieme. Il mio cuore perde un  colpo. Succedeva ogni volta quando lui era vicino e, in questi momenti, non vedevo più niente.

Rigido, Zé non dice niente, nemmeno mi saluta. Allunga una mano quasi aggressiva dove intravedo un foglio. Lo prendo, ma non stacco i miei occhi dai suoi. Ancora senza dire una parola se ne va, sempre rigido, ancora dritto, ancora tanto a disagio.

Intontita, guardo il foglio dov'è scritto, sbagliando un po':

Vuoi essere la mia fidanSata?

 

 

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"L'Opera " il nuovo libro di Cinzia Diddi

3 Marzo 2021 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #cinzia diddi, #moda

 

 

 

 

Cinzia, tu sei una stilista, vesti star del cinema, dello spettacolo. Torniamo indietro negli anni, quando eri bambina e già fantasticavi questo lavoro che poi è diventato la tua grande professione: raccontaci quali erano i sogni di allora e di questi sogni quali sei riuscita davvero a realizzare.

Il sogno era uno: lavorare nel mondo della moda. Non potrei volere di più. Ho realizzato tutto perché faccio il lavoro della mia vita.

Dal sogno al successo, intendendo per successo un concetto personale. Sono ricercata da costumisti importanti per seguire nello stile la scenografia e la sceneggiatura di film, spettacoli teatrali, red carpet. Vesto vip, per programmi televisivi, sfilate, shooting fotografici, trovatee sui giornali le mie creazioni.

Sono stata fortunata perché ho potuto studiare altro mentre inseguivo il mio sogno nell’azienda di mio padre dove sognavo il lusso e l’alta moda .

 

Nel libro si parla della sua arte?

Si parla di alta moda, il mondo che ho reso mio. La bellissima prefazione è stata scritta da Fabrice Pascal Quagliotti, leader dei Rockets.

 

Abbiamo avuto notizia che uscirà  un altro suo libro libro dal titolo L’opera.

Il libro è autobiografico vuole essere un messaggio chiaro che i sogni si possono realizzare.  Ci vogliono impegno, determinazione, costanza, talento, studio, allenamento a far divenire le difficoltà delle occasioni di grande crescita.

 Al di là dei sogni, il lavoro sappiamo che è tutta un'altra cosa. 

 

C’è qualche stilista a cui si è ispirata o si ispira?

Sinceramente no, io percorro la mia strada, con il mio senso del gusto, la mia ammirazione per l’equilibrio, il colore, il neoclassicismo, il barocco.

Fra le mie muse e icone di regalità c’è proprio lei, la più splendida principessa di tutti i tempi: Grace Kelly.

 

Cinzia, lei appartiene ad una famiglia che ha una lunga e stimata tradizione nella sartoria.  Quanto questo le è stato d'aiuto e quanto eventualmente le ha pesato, per le aspettative che si vengono inevitabilmente a creare in questi casi, come per tutti i "figli d'arte"?

È stato sempre un grande aiuto, è chiaro: bisogna sapere di essere figli d’arte e stabilire un giusto rapporto con l’esserlo. Ci sarà sempre tuo padre che pretenderà il massimo e dovrai sempre fare i conti con le aspettative dei tuoi spettatori. Ma se tu lavori bene, e con il cuore tutto questo si annulla e anzi sarà d’aiuto per fare anche meglio.

 

Qual è la tentazione più forte a cui Cinzia Diddi non ha saputo resistere?

Io non resisto al bello, davanti alle cose belle non posso che cadere in tentazione. Ammirandole, studiandole, e facendole mie.

 

Il libro sarà un impegno di solidarietà?

Sì, il ricavato andrà a Cure2 children un’associazione a tutela dei Bambini.

Io sono nel sociale molto attiva da questo punto di vista, adozioni a distanza e donazioni, non voglio dire molto altro , queste sono azioni che devono venire dal cuore, non mi piace molto pubblicizzarle.

A me piacciono i fatti più delle parole in certi ambiti.

 

Foto Mariano Marcetti

Model Claudia Licheri

 

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