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L'ologramma (parte 2)

31 Gennaio 2017 , Scritto da Lorenzo Campanella Con tag #lorenzo campanella

Non puoi cronometrare un sogno, non puoi registrarlo su supporti, non dovresti morire dentro.
Perché se l’ologramma ha una valenza, una portata enorme, lo si deve alla sua interiore matematica. È un insieme senza tempo di millisecondi. Una narrazione dentro le zanne d’avorio.

Forse dovremmo insegnare ai neonati ad essere folli. Forse follia e felicità sono indivisibili.
Perché un’idea oggi normale una volta è stata folle, fuori da questo mondo.
Ma quando ho scritto di non essere soltanto un ologramma, l’ho fatto di getto. Senza se e senza ma.
Ho letto che l’anima è un fenomeno border e in parte secondo me ha senso.
Come l’inizio di Futura di Dalla. E poi senti: “Qui tutto il mondo sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio.”
Penso che ci sono persone che annullerebbero l’ologramma. Lo eliminerebbero.
Perché la storia ci spiega che lager e gulag fecero fuori milioni di persone.
L’ologramma è un manifesto blu forte su un muro opaco, è un progetto infinito. È una macchina da scrivere bianca. È l’Aida di Rino Gaetano. Come il mokele-mbembe.
Come le luci nella valle di Hesdalen, in Norvegia. È il satellite Black Knight sempre in orbita.

A Washington, da qualche parte, c’è un Museo dedicato al mondo dello spionaggio. Ed è anche questo il progetto.
Siamo il sogno. Siamo l’ologramma di questo puntino chiamato Terra. Esseri umani.
Siamo un trattato non rispettato. Gli eredi della rivoluzione digitale.
Siamo in cerca di un George Orwell anche se sappiamo che i tempi sono cambiati e che il controllo è massificato, diffuso.
Siamo le righe d’incipit di Cent’anni di solitudine.
Siamo il cervello positronico nato dalla mente di Asimov.
Ecco. L’ologramma è un noi di musica, poesia, letteratura, cinema, follia, arte, altri mondi.
Perché nell’ologramma c’è l’Alfa e l’Omega, come nel mare.
Perché è un panta rei senza padrone. È un geroglifico addormentato. È un pentagramma dove scriverai la tua musica. È urlo dentro. È La metamorfosi di Kafka. È un profeta accecato dal mondo. È Dottor Jekyll e Mr Hyde. È la sentenza di una clown.
Da anni sono affascinato dalle opere del pittore belga Magritte. Al quale accosterei certe idee di Jung. È un giacimento d’oro nel Klondike.
L’ologramma, nostro, ha la vista del Pamukkale in Turchia. Passa da Uluru alla cinese Valle del Jiuzhaigou. È tra i 45 messicani fondatori di Los Angeles.
Siamo, come dice Camus, un popolo di colpevoli che camminerà senza posa verso un’impossibile innocenza, sotto lo sguardo amaro dei grandi inquisitori.

L’ologramma è ubiquo senza materia. È un torrente in mezzo al deserto.

Ma deve generare felicità. Senza di essa non può esistere.
Un’altra condizione d’esistenza del progetto è la matrice della bellezza. Perché senza bellezza nemmeno l’universo può esistere.
L’ologramma è la nave di Comfortably Numb. L’ologramma è un’ombra rossa.
L’ologramma è un sogno che non muore, un vulcano pronto ad esplodere.

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I giorni della merla

30 Gennaio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

 

 

Per me la domenica è sempre uguale”, scrivevo il 16 febbraio 1970. “Ieri come sempre sono restata in casa con i miei genitori. La mattina ho giocato mentre la mia mamma faceva le faccende e il mio babbo non so. Il pomeriggio ho giocato e poi alle cinque abbiamo guardato la televisione fino a tardi poi abbiamo mangiato e dopo si è riguardato la televisione. Così succederà tutto l’inverno ma a primavera noi andremo a fare qualche gita a fine settimana.”

Quello che facciamo da bambini, sia esso frutto di una nostra libera scelta oppure delle imposizioni familiari, plasma ciò che diventeremo e ci piacerà fare da grandi. Mi pare che le mie domeniche non siano poi tanto diverse da quelle del lontano 1970. Certo, ora esco di più, ma lo faccio per dovere, verso il marito, verso il cane e verso me stessa, ché una boccata d’aria e un po’ di movimento fanno bene. Se fossi io a decidere, però, starei tutto il giorno in casa, dopo aver pulito e messo in ordine, essermi fatta una doccia e aver indossato un tutone comodone e calzettoni di ciniglia. Ma un marito irrequieto e un mezzo border collie mal si sposano con le mie aspirazioni segrete e con la mia pigrizia innata.

E la televisione, così come i libri, è sempre stata un must nella mia vita. Non ho nessuna remora a dirlo, non temo il giudizio degli intellettuali per i quali esisti solo se leggi Tolstoj prima di dormire e se conosci a memoria tutte le poesie di Majakovskij. Io, invece, amo le fiction in costume stile Elisa di Rivombrosa e la Dama Velata e non me ne vergogno certo.

Le giornate stanno impercettibilmente allungando e anche nei fatidici giorni della merla già intravedo una luce di primavera, meno radente e obliqua, e sento profumo di erba tagliata e di salmastro nell’aria. Ogni attimo della nostra breve vita, ogni novità, ogni conquista sembrano così recenti, così nuovi di zecca e significativi da divenire immutabili, invece tutto cambia, basta guardare le foto di qualche anno fa, basta voltarsi indietro per rendersene conto. E la vita diventa una strada buia che va verso il nulla.

Che cosa c’è di nuovo nel guardaroba per accompagnare questo inverno che gocciola via giorno dopo giorno, interminabile e veloce come la vita stessa?

 

La camicetta fantasia, con un tocco di tutti i colori che ho già nell’armadio e quindi facile da abbinare.

Il lupetto di lurex nero, uguale a quello che ho indossato per Natale ma comprato in saldo.

Il cappellino stile turbante da vecchia signora, impreziosito da un microscopico filo luccicante.

Il piumino in oro pallido, con la cerniera illuminata da brillantini.

Il trench, intramontabile, chic, e adatto alla primavera che speriamo arrivi presto.

I giorni della merla
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Terribili guerrieri a cavallo

24 Gennaio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

Quattrocentodieci anni dopo la nascita di Cristo, una piccola schiera di barbari, i Visigoti, guidati dal re Alarico, dopo aver saccheggiato tutto l’impero d’Occidente, giunse alle porte di Roma. Dopo una lunga sosta, attaccarono. La scorreria fu breve e non recò gran danno ma creò un precedente. Roma non era più la padrona indiscussa del mondo, era una città ancora ricca ma sempre più indifesa. La via era aperta.

Così, dopo i Visigoti, scesero i ferocissimi Unni. Col naso schiacciato apposta dalle madri per entrare nell’elmo, con le gambe stortissime, brutti e letali, pare che emanassero un odore spaventoso, che indossassero per tutta la vita gli stessi abiti di pelo di topo, che inserissero carne cruda e putrefatta fra cavallo e corpo, che vivessero in sella, dove persino si cibavano, dormivano e defecavano. Saccheggiarono il Veneto ma tornarono indietro fermati dalla peste

Il papa Leone I riuscì a convincere il loro capo Attila (406-453), di cui era stato maestro quando questi era cresciuto alla corte ravennate. Attila era, infatti, uno dei principi barbari mandati all’imperatore di Roma come pegno di pace.

Gli abitanti del Veneto fuggirono dagli Unni rifugiandosi su un gruppo d’isolette deserte in mezzo alla laguna sulla costa del mare adriatico, fondando così Venezia.

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Laboratorio di Narrativa: Luca Lapi

23 Gennaio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto, #Laboratorio di Narrativa, #luca lapi

 

 

Luca Lapi continua con i suoi racconti che diventano sempre meno racconti e sempre più piccoli sassi lanciati nell'acqua con la speranza che creino onde in espansione. Se dal punto di vista narrativo c'è un regresso, da quello psicologico, forse, abbiamo finalmente un passo avanti.

Dopo il recente lutto che lo ha colpito, dopo aver perso la figura di attaccamento primario, di accudimento e di riferimento, Luca non si limita più a gridare bizzosamente la sua solitudine ma comincia quel processo di distacco/maturazione che lo porta a crescere e a identificare se stesso come qualcosa di inserito nella società, dalla quale pretende diritti ma verso la quale ha anche doveri e responsabilità.

Al contempo, però, continua a chiedere aiuto, a pretendere che le sue note diventino sinfonia, laddove, ahimè, è lui il primo ad esprimersi a senso unico, a monologare più che dialogare, a rispecchiarsi negli altri non mostrando, almeno apertamente, di riconoscerli e avendo sempre e solo come baricentro se stesso.

Anche lo stile sembra più maturo, meno frammentato da virgole prolisse, illuminato da quei pun, da quei giochi di parole brillanti, "inviolabile, non sfiorabile, nemmeno con una viola", vere e proprie scorciatoie dell'intuito poetico, che sono la caratteristica principale della scrittura e del pensiero di Luca. 

Patrizia Poli

 

 

Biagio è un essere umano

     Biagio è un essere umano.
     Ha dei diritti, come ogni altro essere umano.
     Sa che ogni suo diritto, una volta acquisito, diventa un dovere verso se stesso e verso gli altri.
     Intende vigilare affinché ogni suo diritto non degeneri in un rovescio, capace di rovesciare su di lui l'edificio morale, civico che sta tentando di costruire.
     Sa che ogni suo diritto è fondamentale poiché è fondato sulla roccia della Costituzione dello Stato di cui è cittadino.
     E' universale, al di là dei confini nazionali e continentali.
     E' inviolabile, non sfiorabile, nemmeno con una viola.
     E' indisponibile a compromessi.
     Biagio, ripeto, è un essere umano.
     Non è un avere disumano.
     Lo sa ed esige che ognuno lo sappia, giustamente.
     Lo ripete, perciò, periodicamente, riproponendolo attraverso una sua Nota su Facebook.
     Vorrebbe che questa sua Nota non restasse ignota e che diventasse l'inizio di una sinfonia.
     Lascia il condizionale e grida, imperativo, a squarciagola, alla sua Nota:"Diventa vento che spazi via ogni ingiustizia, legandola a testa in giù ad ogni sua responsabilità, finora, mai assunta!!!"

          Luca Lapi 

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Francesco Dell'Olio, "Amore incompatibile"

21 Gennaio 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #racconto

 

Francesco Dell'Olio

Amore incompatibile

Historica - Pag. 230 - Euro 15

 

Francesco Dell'Olio scrive racconti, incurante delle mode e del fatto che in Italia i racconti non si vendono. Fa bene, perché in fondo si vede che è tagliato per quel tipo di scrittura, per la narrazione breve e ironica, mentre forse non sarebbe così a suo agio con la costruzione di trame e sottotrame e con l'elaborazione di un plot complesso. E poi esiste ancora un tipo di libro che si vende, a parte gli involucri di carta rilegata scritti per Natale da nani, elfi e ballerine? Non si vendono neppure i romanzi, se non ti chiami Moccia, Volo, Baricco, De Carlo, Camilleri e compagnia cantante. Ergo, fa bene il nostro autore a scrivere quel che vuole. Tanto…

Amore incompatibile è il settimo libro edito dal 2006 - anno del debutto con Un angelo seduto tra i rifiuti - equamente divisi tra due piccoli editori non certo rivali, ma entrambi di progetto. Posso dire che Dell'Olio è una mia scoperta, perché ricordo di averlo premiato quando ero in giuria al Cappelletti, che si teneva a Piombino, quindi di averlo invitato a scrivere per la rivista che dirigevo e infine di aver pubblicato il suo primo libro. Amore incompatibile è la sua raccolta più matura, tra echi di John Fante e Bukowski, una schizzatina di Carver e un pizzico di Amarcord felliniano in salsa ravennate. Ironia, surreale, grottesco, amore per le belle donne, serate alcoliche, amicizie interessate, datori di lavoro sporcaccioni, ragazze che ci stanno, amore per la letteratura. Dell'Olio scrive di se stesso ma estremizza e inventa, racconta le vicissitudini di uno scrittore di provincia, abbastanza sfigato, cita i suoi riferimenti alti nel campo della narrativa e soprattutto ci fa divertire. Erano anni che non leggevo da cima a fondo, ridendo di gusto, un libro da me non scelto, ma inviato da un editore, scopo recensione. Cercatelo, certo non nei discount del libro targati Feltrinelli e Mondadori, ma come il vino buono si trova nelle enoteche più eleganti, pure la narrativa non dozzinale viene servita nei posti giusti. Se non vi piace, scrivetemi. Soddisfatti o rimborsati.

 

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Premio "Cipressino d'oro" 2017

20 Gennaio 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #poesia, #concorsi

 

 

 

«Cipressino d'oro» 2017, ecco la giuria del premio di poesia Kiwanis

C'è tempo fino al 23 marzo per inviare il proprio componimento al concorso letterario

 

Ecco la giuria del concorso letterario Cipressino d'oro, organizzato dal Kiwanis Club di Follonica e dall'artista Gian Paolo Bonesini:

  • Miria Magnolfi (scrittrice e poetessa);
  • Gordiano Lupi (scrittore e poeta);
  • Patrice Avella (scrittore e poeta)

 

Saranno chiamati a giudicare i componimenti poetici in arrivo.

Il tema scelto dagli organizzatori per questa quinta edizione del premio è «Il futuro dei nostri ragazzi. Tra progetti e difficoltà prende forma il futuro degli adolescenti: desiderio dell'avvenire, speranze e timori».

Il termine fissato per la consegna degli elaborati è giovedì 23 marzo: l’iscrizione – gratuita – potrà avvenire sia tramite email (follonica@kiwanis.it) che a mezzo posta, scrivendo all'indirizzo Premio Cipressino d’Oro – Kiwanis Club Follonica, via Lamarmora 62 (c/o Loriano Lotti), 58022 Follonica (Grosseto).

Per tutte le informazioni è possibile anche chiamare il numero 347.6754324.

Le poesie devono essere inedite e, oltre ai componimenti, i partecipanti dovranno inviare la propria scheda di adesione.

 

«Stanno già arrivando poesie da tutta Italia – dice il responsabile del premio, Loriano Lotti – e siamo certi che anche quest'anno la partecipazione sarà massiccia, confermando la tendenza che vuole questo premio crescere ogni anno in termini di numeri e prestigio.

Un premio istituito, come vuole la tradizione, per promuovere e incoraggiare la diffusione degli ideali kiwaniani diretti al servizio dei bambini del mondo».

Il primo premio è una scultura dell’artista Gian Paolo Bonesini, ma sono previsti riconoscimenti per i primi dieci classificati e attestati di partecipazione per tutti i poeti partecipanti. La cerimonia di proclamazione dei vincitori è in programma sabato 6 maggio e i primi classificati saranno avvisati telefonicamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Niccolò Gennari, "L'incanto del tempo"

19 Gennaio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantasy

 

 

 

L’incanto del tempo

Niccolò Gennari

 

Nulla die, 2017

pp 377

19,90

 

Orchi, gnomi, folletti, fate, streghe, stregoni, coboldi, draghi, nani, troll. C’è tutto il repertorio dell’high fantasy epico, in auge dagli anni 30 del novecento fino ai 90, quello di Tolkien, Terry Brooks, Marion Zimmer Bradley, ma ci sono anche influenze successive, come l’apprendistato dei maghi in stile Rowling e i draghi buoni di Christopher Paolini, in questo L’incanto del tempo di Niccolò Gennari, primo volume di una saga a venire, basato sulla quest della prima goccia - una delle bacchette elementali nate dall’Albero della Luce - capace di comandare l’acqua.

Gennari, astronomo e fondatore di una catena di negozi fantasy, tenta una sorta di ritorno alle origini del fantastico primigenio, ma il tempo è passato, l’autore inserisce realtà, come gli eccessi alcolici e il sesso, che non erano presenti – né pensabili – fino agli anni novanta.

La classica storia di ricerca è abbastanza lineare ma non eccessivamente coinvolgente, i personaggi sono quelli stereotipati del genere. C’è il giovane antieroe, c’è la fanciulla misteriosa e prodigiosa che nasconde un segreto, c’è la compagnia eterogenea impegnata nella cerca e ci sono tutte le altre creature buone o malvagie a far da contorno.

Forse perché l’autore è vissuto in un periodo in cui il fantasy si è espresso più che altro visivamente – attraverso il cinema, le serie tv, i videogiochi ed i giochi di ruolo – ma tutto è affidato all’azione, mentre mancano, almeno in questo primo volume della saga, l’approfondimento, l’introspezione dei personaggi e la costruzione di un mondo secondario affascinante e credibile, come se ci si limitasse a citare oggetti e creature magiche facendo affidamento sul fatto che il lettore avvezzo al genere già sappia di cosa si sta parlando.

Fanno eccezione due luoghi, cioè il “Bosco Rosso”, la foresta abitata dai folletti che altro non è se non una gigantesca caldera, e la “Fine del mondo”. Ogni fantasy che si rispetti ha un luogo che non si può dimenticare, dalla terra di Mordor di Tolkien, al gigantesco muro di ghiaccio di Martin. Qui resta infissa nella mente l’inimmaginabile cascata, dove tutta l’acqua del mare va a riversarsi in un vuoto senza fine. L’autore riflette che, se ci sembra normale avere il nulla sopra la testa, potrebbe esserlo anche vederselo di fronte come un immenso burrone sconfinato.

Lo stile del romanzo è piano, senza echi lirici né epici, con parecchie imprecisioni – che l’editore stesso in una nota invita il lettore a segnalare – e con la fastidiosa e sconcertante abitudine di ripetere la stessa parola ogni due righe.

 

NOTA BENE. In data 12 agosto 2017 l'editore ci informa che :

 

È stato completato un nuovo editing del romanzo “L’Incanto del tempo”, una revisione che ha individuato e corretto più di 300 errori di vario tipo, tra cui refusi, errori grammaticali, ripetizioni, ecc.

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Carlo Manzoni, "Ti spacco il muso, bimba!"

18 Gennaio 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

Carlo Manzoni
Ti spacco il muso, bimba!

Sensoinverso Edizioni – Pa. 135 – Euro 14
www.edizionisensoinverso.itinfo@edizionisensoinverso.it

 

Non crediamo di cadere nel luogo comune se diciamo che molto spesso le cose belle e insolite stanno dove meno te le aspetti. Questa regola - nel campo editoriale - viene quasi sempre confermata dalla piccola editoria di progetto. Sensoinverso di Francesco Dell’Olio, per esempio, ha lanciato una collana interessante come Italia Nascosta, della quale abbiamo già apprezzato un documentato saggio sui fumetti Bianconi, Salvatore Giordano – Da Braccio di Ferro a Provolino), scritto partendo dal seguito blog Retronika. Ora Dell’Olio si spinge oltre, va a recuperare un grande scrittore del passato, quel Carlo Manzoni (1909 - 1975), già autore Rizzoli, punta di diamante della rivista Il Candido di Guareschi, umorista sottile e raffinato, dal tratto surreale e parodistico. Ricordiamo Manzoni inventore del signor Brambilla, satira feroce dell’italiano medio ai tempi del boom, ma anche del signor Veneranda, come della critica bonaria ma pericolosa al Presidente della Repubblica vinaio Luigi Einaudi.

Ti spacco il muso, bimba! Fa parte dei romanzi dimenticati di Manzoni, e solo per questo sarebbe benemerita l’attività di Dell’Olio, che è anche scrittore, e quando scrive racconti pare ispirarsi moto allo stile surreale dell’autore milanese. Provate a leggere Amore incompatibile (Historica, 2016), di cui bisognerà parlare vista la bontà dell’opera, forse la più matura del giovane editore ravennate. Tornando a Manzoni, c’è da dire che la sua vena umoristica frequentò anche il giallo, inventandosi un detective privato come Chico Pipa - un poliziotto che fa il duro - dotato di un assistente canino come Gregorio Scarta - un socio con la coda - e circondato da una ridda di comprimari surreali, tra i quali nel romanzo che abbiamo letto ricordiamo una vedova copiativa. Personaggi straordinari che sembrano made in USA e invece quasi, chiosa beffardamente Manzoni. Un’Italia nascosta quella che racconta Manzoni, un’Italia dove funzionava la narrativa di genere, dove la gente affollava i cinema e non solo per mangiare pop-corn, dove si leggevano ancora libri per puro divertimento e si faceva la fila per comprare fumetti. Era un’Italia migliore, più colta e piena di entusiasmo, non esito a dirlo, con i suoi difetti ma di gran lunga superiore a quella che ci è dato in sorte vivere e sopportare. Nessuno si sarebbe sognato di andare al cinema o a teatro con un attrezzo luminoso acceso da consultare a ogni piè sospinto mentre gli attori recitavano. Poi c’erano il terrorismo, le bombe, gli opposti estremismi, la politica dei maneggioni, certo. Ma in certi campi non è che adesso stiamo meglio. Sensoinverso fa tornare in libreria un grande del passato, rinvigorisce il giallo comico che una volta andava alla grande anche al cinema, tra Tomas Milian e Luc Merenda, Fernando di Leo e Sergio Corbucci, per tacere di Amendola, Castellano, Pipolo e chi più ne ha più ne metta. Speriamo che il pubblico disattento e incapace di scegliere, costruito da questa Italia così depressa e perduta se ne accorga. Noi ci crediamo poco, ma d’altra parte siamo qui per consigliare…

 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

 

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Laboratorio di poesia: Umberto Cerio

17 Gennaio 2017 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia

 

 

 

 

IL MIO EXODUS

Di Umberto Cerio

 

Exodus di antichi Greci cacciati

da gente violenta del Nord

nella terra di Pandione e di Egeo;

exodus dei Troiani superstiti

dalla distruzione spietata di Ilio

( compiuta da molte stirpi dei Greci)

che il pianto di Omero immortala;

exodus circolo eterno di fughe,

seminatore di morte, invocata

giustizia di uomini e donne,

conforto di vittime-padri

sicari per vendette implacabili,

per furore di sventure perenni

sei ancor oggi nel cuore del tempo.

 

Exodus della presaga Cassandra

che scova come un segugio

di Agamennone nell’infida reggia

tragiche tracce di antichi delitti

e trepida Scamandro invoca

- acqua lustrale della sua terra -

mentre in Argo sulla polvere muore

nella casa ove s’è insediato un coro

intonato e straziante, che canta la morte,*

e dove di sangue s’è ubriacato il coro

delle Erinni,* nate dal sangue di Urano

da Cronos castrato, offesi spiriti

di Giustizia per l’ara rovesciata

e di Vendetta che chiama altro sangue,

sei ancor oggi un canto straziante.

 

Exodus di Ebrei schiavi d’Egitto

che liberi si fanno nella terra

promessa attraversando il deserto

di sabbia e di sole brucianti

e il deserto della loro ragione:

eressero allora l’idolo d’oro

che li inchioda alla terra violata

persecutori ora di popoli

che giurano Giustizia e Vendetta;

exodus di Maometto a Medina,

che con la sua higra un popolo sperso

tra le onde delle dune di sabbia

plasmò nel palmo del deserto

al respiro di pazienti cammelli,

siete il coro di lunghe torture

che risuona nelle valli di morte

al lamento perpetuo delle madri.

 

Exodus afgano prima di guerre

di vendette, fuga di asini lenti

e nere masserizie, simboli d’atavica

miseria di oscuri Musulmani

ai margini del mondo

che non hanno sognato paradisi

e delizie promesse,

sei indovino di terrore

nelle ossa tremanti di fatica

e dolore della morte violenta.

Nell’oriente lontano e misterioso

in migliaia di anni

intere stirpi di eroi quotidiani

hanno forgiato arte

e cieli tersi su cime di monti

ove i morti saranno sepolti

tra macerie di frantumi e speranze

e macerie di giorni e di notti.

 

Non cresceranno mai fiori

sulla terra dove madri bendate

avranno sepolto figli massacrati

e figli sepolto padri traditi,

dove padri e figli attendono insieme

il silenzio perenne delle stelle,

l’eterno freddo della morte.

 

Non cresceranno mai alberi sacri

su pietre dove imputridito sangue

di ignari eroi senza nome

si disperde nero e aggrumato

ai rari morsi di uccelli rapaci

e corpi insepolti offerti alle fiere

nei templi del silenzio

dove l’amore è forse da tempo

solo infinita immagine vuota

negli occhi perduti tra cielo e rocce.

 

Exodus, mio exodus terribile,

che mi dai insaziata libertà

e speranza di vivere e amare,

scardini porte di acciaio serrate,

sfondi soffitti e pareti di pietra,

voli negli spazi aperti del mondo
oltre le mura del dolore.

 

Exodus, oh! mio exodus

atteso una vita,

sei fuga interiore alla luce

da un oscuro ignoto,

crollo aereo che esplode nel buio

e infrange barriere del cuore.

Mio exodus, viaggio infinito

dell’uomo sapiente e blasfemo

che torna alla terra dove nacque

- dopo oscure minacce di morte -

che sa i giorni dell’ansia bruciante

e le notti di angoscia o di attesa,

nei dubbi atroci della memoria

sei cammino ritrovato e perduto.

 

Exodus, mio exodus senza fine,

errare senza sapere più dove,

viaggio che comincia alla luce

del fuoco greco e di tede augurali,

fino alle torce, alle lanterne a gas,

alle gelide lampade del neon

e al raggio tagliente del laser,

mio exodus ancora senza fine,

oh! exodus senza mai una fine,

senza vanità di gioie e speranze,

ebbrezza di avventure mai vissute,

sei la storia della vita dell’uomo,

nel male più duraturo del bene,

che ora ha smarrito nella spelonca

dei giorni la ragione segreta

di questo suo lunghissimo andare.

 

*Eschilo, Agamennone, traduzione di P.P. Pasolini.

 

 

Leggere il poemetto di Ugo Cerio è come sfogliare un libro di storia. Ma è attraverso un atto di empatia che cogliamo il fil rouge che lega la composita prima parte, ricca di particolari storici e geografici, ambientali e paesaggistici, alla seconda, filosoficamente più interessante, a mio parere.

Exodus come fuga in massa di popoli, come fuga dal reale per sottrarsi al suo deludente ritmo di evenienze effimere e mutevoli, tragiche e fatali.

Nuclei fondamentali sono il dolore della separazione, la lacerazione dell’abbandono, il senso di sperdimento e infine la perdita dell’identità.

Eppure non per tutti l’esodo rappresenta ciò. Per gli Ebrei l’exodus fu ritorno alla terra promessa, per Enea fu il compimento di una profezia, non già un viaggio rinunciatario, ma un desiderio impellente di riscattare l’esistenza abbrutita dalla sconfitta per un’altra di elezione.

E ancora, exodus come stimolo alla conoscenza, come consapevole ricerca lungo le strade del mistero con l’illusione o la presunzione di penetrarlo in questa terra.

E infine l’uomo che lascia la sua terra, esplosa nei suoi valori, nelle sue formule e nelle forme interiori, vittima di soprusi e violenza, non più culla ma letto di morte per migliaia di esseri umani, molti appena affacciati alla soglia della vita. E per mano di altri esseri umani. Sicché l’esodo non è ritorno, non è viaggio, ma fuga di popoli interi che migrano, che lasciano la loro storia, la propria tradizione per trasformarsi in personaggi senza storia. E vanno alla ricerca di un’identità in un’epoca come la nostra senza più identità, ma soprattutto senza pietas.

Il naufragio di barconi stracolmi di esseri umani in fuga che troppo spesso avviene sulla rotta verso il Mediterraneo non è solo un simbolo, è l’ironia che serpeggia nel destino.

Nella seconda parte intravedo analogo e diverso tentativo di esodo, di fuga, di viaggio tra i mari del tempo per quell’appartenenza perduta. Per ritrovare se stessi nel dolore, nella preghiera, nel dialogo profondo nei fondali dell’animo, laddove non esiste finzione, dove regna il mistero, dove occorre tanta pazienza. E che in definitiva è segno d’Amore, è un atto d’Amore.

L’Amore, che realizzando il sentimento dell’umanità, crea negli uomini una condizione di perenne insoddisfazione, di assidua brama, in definitiva di costante ansietà. Una specie di sgomento che si chiama malinconia.

Malinconia che diventa l’emblema dell’uomo vero, che è speculare all’entusiasmo. Che esprime una sete di conoscenza inestinguibile, mai appagata, dando luogo spesso a sentimenti di delusione, perfino di stanchezza. Ma è proprio questa condizione che accende il desiderio.

Exodus, mio exodus terribile,

che mi dai insaziata libertà

e speranza di vivere e amare

.................................................

Exodus, oh! mio exodus

atteso una vita,

sei fuga interiore alla luce

da un oscuro ignoto,

crollo aereo che esplode nel buio

e infrange barriere del cuore...

 

Una inquietudine che non ci fa distinguere facilmente il vero, e quanto più ci mettiamo sulle sue tracce tanto più la fuga dal reale diventa una necessaria condizione. Solo in tal modo è possibile distinguere il vero dal falso e giungere alla consapevolezza che tutto ciò che appare, la vita stessa, è il sogno di un’ombra come recita Euripide in Plotino. Di qui l’arduo compito di cercare e credere in “realtà” altre, metafisiche, oltre il tangibile

 

“Quam ob rem toto illo tempore quo sublimis animus in infimo agit corpore, mentem nostram velut aegram perpetua quadam inquietudine hac et illac, rursum deorsumve iactari nec non dormitare semper et delirare Pythagorici et Platonici arbitrantur singulasque mortalium motiones actiones passiones nihil esse aliud quam vertigines aegrotantium, dormientium somnia, insanorum deliramenta, ut non iuniura Euripides hanc vitam umbrae somnium appellaverit”

 

(Plotino Teologia platonica libro XIV, cap. VIII)

 

Dunque tali fughe interiori, anzi ex interiore, non sono altro che ricerca, una sorta di arte maieutica sulla via della conoscenza e della compiutezza del destino dell’uomo.

In conclusione è questo il pathos del poema. L’andare come mezzo di conoscenza di sé e del mondo, come ricerca delle condizioni esistenziali dove si possa contemplare il mistero della vita, mentre lo si vive. Per far ciò occorre però superare l’inquietudine, non solo quella interiore, ma quella del viaggio in cui l’uomo si trova ad affrontare il tempo. O del viaggio nel quale, attraverso la memoria, l’uomo cerca la sua storia

 

Exodus, mio exodus senza fine,

errare senza sapere più dove,

viaggio che comincia alla luce

del fuoco greco e di tede augurali,

fino alle torce, alle lanterne a gas,

alle gelide lampade del neon

e al raggio tagliente del laser,

mio exodus ancora senza fine,

oh! exodus senza mai una fine,

senza vanità di gioie e speranze,

ebbrezza di avventure mai vissute,

sei la storia della vita dell’uomo,

 

 

E questo è il pathos che pervade l’intera lirica, dall’andamento a volte prosastico per la sovrabbondanza descrittiva, e per la mancanza di un labor limae efficace, che togliendo verbosità, doni un po’ piu di armonia e musicalità.

Adriana Pedicini

 

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Fulvio Colucci e Lorenzo D'Alò "Ilva Football Club"

16 Gennaio 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò

Ilva Football Club

Kurumuny – Pag. 80 – Euro 8,50

 

Un libro come questo non poteva non destare il mio interesse, dopo aver scritto Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino (Acar), nel 2014. Sì, perché i problemi di Taranto e Piombino sono abbastanza simili, due città di mare fagocitate dalla grande industria siderurgica, Italsider prima, Ilva poi, quindi ceduta nelle mani di privati di pochi scrupoli che hanno avvelenato l’aria e il mare di due luoghi invidiabili dal punto di vista paesaggistico.

Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò, due giornalisti tarantini, puntano l’indice accusatore sulla tragica fine di una squadra di calcio e di un intero quartiere divorato dalla fabbrica: il Tamburi. A Piombino sarebbe la zona Poggetto - Cotone, un tempo splendido golfo in riva al mare, con gli anni quartiere dormitorio invaso da spolverino e miasmi maleodoranti, dove vivono extra comunitari e famiglie a basso reddito. Certo, al Tamburi la situazione è più grave, muoiono le piante e gli uccelli, ma soprattutto cadono - come in una sporca guerra - gli ex calciatori della squadra dilettantistica che giocava sul campetto in terra battuta confinate con l’Ilva. Un gran bel libro Ilva Football Club, racconto - ché non ha il respiro del romanzo - di denuncia ma scritto in maniera molto letteraria con protagonista Ulisse (nome più che appropriato) alla ricerca del suo passato e di tutte le menzogne che narravano di un falso benessere. Ulisse cerca la sua vecchia maglia grigia, indossata durante un torneo, che tanto somigliava al colore del siderurgico, compiendo un viaggio nel tempo e nei ricordi di una generazione uccisa dal cancro. L’Ilva Football Club è una squadra dolorosamente immaginaria, ricostruita mettendo insieme le figurine di coloro che lasciarono sogni e speranze giovanili sul terreno del vecchio Tamburi. Gli autori raccontano con pennellate di tragica poesia la storia della fabbrica più inquinata d’Europa e di un cimitero dove le polveri minerali colorano di rosso le lapidi. Chiudo con una breve citazione: “Sono tracce brevi, percorsi frammentari quelli di chi militò idealmente nell’Ilva Football Club e realmente finì a morire in fabbrica. Scie luminose spentesi in un vento grigio. Furono lucciole quegli atleti, le lucciole operaie. Illuminarono il campo dei veleni con i loro cross, così simili alle adorabili traiettorie delle lucciole, con le loro invenzioni di gioco”. Da leggere per meditare sul male che abbiamo fatto, da Casale Monferrato a Taranto, passando per Piombino. E per promettere ai nostri figli che non ripeteremo gli errori del passato.

 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

 

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