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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Gordiano Lupi, "Sogni e altiforni"

25 Febbraio 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

Sogni e altiforni

Gordiano Lupi e Cristina de Vita

 

Acar Edizioni, 2018

pp 318

15,50

 

Sogni e altiforni, di Gordiano Lupi e Cristina de Vita, è il seguito a quattro mani di Calcio e Acciaio. È composto da due testi distinti, uno poetico e uno narrativo, visti rispettivamente dalla parte del protagonista maschile e da quella della protagonista femminile.

Ritroviamo Giovanni là dove lo avevamo lasciato alla fine del primo libro. Un ex calciatore famoso che, dopo aver abbandonato il mondo dorato del calcio importante, è tornato nella sua città, Piombino, e ricomincia a interessarsi di sport facendo il direttore tecnico per una piccola squadra di ragazzi del Venturina.

Giovanni è sempre più triste, più solo e più vecchio. Giovanni è preda di abitudini cui per pigrizia non riesce a rinunciare. Divorziato da tempo, vive con la madre e fa sesso senza amore con la badante di lei.

“E la mia vita, se provo a ricordare, è stata solo un tuffo nel non fatto, un’ipotesi infinita di non detto”. (Pag 96)

Torna spesso con la mente a un amore di gioventù, Debora, che non ha avuto il coraggio di concretizzare quando era il momento. Debora è l’amore romantico e perduto, quello che rimarrà meraviglioso proprio perché non lo si è vissuto, perché è finito prima ancora di cominciare. La realtà brutale non lo ha corrotto, non lo ha contaminato.

In tutta la lunga parte scritta da Gordiano Lupi ritroviamo il suo incedere lento e poetico, quell’ingolfarsi sempre sui medesimi ricordi, ripetuti come in un loop tristissimo e nostalgico. Sehnsucht, saudade, nostalgia canaglia, chiamatela come volete, è lo strazio di un passato che non ti fa progredire, ti lascia sempre nel medesimo punto, forse perché, alla fine, è lì che vuoi rimanere, con la tua abulia intrisa di comode memorie dolceamare.

Quello che per noi è un brutto presente sarà il ricordo magico di qualcun altro, ed è così anche per Giovanni. Percorrendo i paesaggi conosciuti, torna ossessivamente all’infanzia, rivede il padre, la madre, riascolta i racconti del nonno, risente l’odore della fuliggine dell’altoforno, rivede il falso tramonto rosso dell’acciaieria ormai spenta, triste relitto di archeologia industriale.

Piaceva tutto del passato, perché tutto è trasfigurato dal tempo, piaceva il puzzo dell’acciaieria, la povertà dignitosa, i campi incolti, i muri fatiscenti, l’odore di frittura, le seme e le noccioline del cinema di seconda visione.

Quando vivi da sempre nello stesso luogo, ogni pietra, ogni anfratto, ogni angolo è pervaso di ricordi. Per qualcuno la reminiscenza è dolce e allegra, per altri, come per Giovanni, è rimpianto struggente. Di che? Di tutto e di niente, di quel momento in cui ogni cosa era ancora possibile, di oggetti poveri e brutti che, attraverso le nebbie del tempo, ora sembrano belli. Rievocazioni di un mare ondoso e cangiante, di un cielo terso, di un campetto sterrato dove tirare calci a un pallone, sentori amari e ancora selvatici di provincia, di pitosforo e tamerici, di cipressi e salmastro.

La cifra stilistica di Lupi è la ripetizione, come una dolce e tristissima onda che rotola e poi torna indietro, si avviluppa su se stessa. Ripetizione di scorci, di paesaggi, d’immagini, di sentimenti perduti.

Dall’altra parte c’è il testo narrativo, la voce di Debora. Sappiamo dalle sue parole che cosa le è accaduto dopo che Giovanni l’ha abbandonata. La scrittura è più romanzesca e più femminile, meno poetica, meno ritmata e meno perfetta di quella di Lupi.

Giovanni e Debora s’incontrano un’ultima volta per caso ma non concretizzano il loro ritrovarsi. Sanno entrambi che il passato non può tornare, che, se accadesse, non darebbe le gioie immaginate, che il sogno deve rimanere sogno e il ricordo ricordo.

Un romanzo struggente fin dalla dedica, consapevole del tempo che passa, dell’avvicinarsi della fine. “Le cose da scrivere con urgenza sono sempre di meno”. Perché ormai si è all’impasse e si vive “di ricordi senza scorgere un brandello di futuro”.

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L'abito in plastica

24 Febbraio 2020 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #cinzia diddi, #moda

 

 

 

 

L’Abito in plastica di Cinzia Diddi, si annuncia un cult. E siamo pronti a scommettere che sarà l’ennesimo successo. Fino a ora il suo stile ha conquistato star anche internazionali, in questo periodo sta vestendo Cristopher Lambert.

Infinita la lista dei personaggi famosi che scelgono le sue collezioni e il suo tocco glamour, chic.

Il Look fuori dagli schemi è già un successo.

In preparazione un'intera collezione, per stupire in eventi super mondani.

La stessa Stilista ha dichiarato che lo indosserà sul red Carpet della biennale o al festival di Cannes dove parteciperà con Sidus, il film sulla sua vita, regia e sceneggiatura Stefania Rossella Grassi

Sua la creazione, completamente in plastica, realizzata per l’estate 2020, il cui titolo è Donne dalle pose plastiche.

Lo scatto, preciso e intenso, appartiene al fotografo Thomas Capasso.

Donne plastiche: a tutto volume!!

La Stilista, orgoglio pratese, con il suo Luxury brand è ricercatissima da star e costumisti.

Un giovane talento emergente ma che sa come muoversi nel mondo... della MODA.

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Il tempo del ritorno (1993) Regia di Lucio Lunerti

23 Febbraio 2020 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #cinema, #recensioni

 

 

 

 

Misconosciuto film italiano datato 1993 dell’altrettanto (mi)sconosciuto Lucio Lunerti, il quale gira un film drammatico, con lievissime venature thriller e mistery, che ha come cornice i post Anni di Piombo, con tanto di immagini di repertorio, al fine probabilmente di ricreare un lungometraggio con qualche elemento documentaristico.

Il tempo del ritorno l’ho trovato un po’ lento, sebbene la storia risulti interessante, tuttavia il film non riesce a coinvolgere ed emozionare più di tanto, nonostante, nella parte finale, avvenga una decisa virata verso situazioni comunque già inflazionate, con lo scotto, ahimè, di perdere la “carica eversiva.” Infatti, a tal proposito, poche volte ho visto soluzioni e sintesi efficaci, e non si è nemmeno cercato di sfruttare a pieno le implicazioni psicologiche. Soltanto una buona padronanza della macchina da presa ha permesso al sottoscritto di non criticare troppo il film e la dizione sopra la media degli attori, specie i confronti tra i vari personaggi, che senz’altro rendono più che verosimile la storia, tra l’altro senza mai divagare, però azzerando o quasi le figure di contorno.

Il film, comunque, non si basa solo ed esclusivamente su una matrice politica, poiché si dedica pure ad altre cose, ad esempio a svelare aspetti sorprendenti dell’“indagine” da parte di Luca Ansaldi, (Stefano Abbati), il protagonista, che accetta un pericoloso e scottante incarico da parte di Giovanni Duranti (Alberto Di Stasio), amico e regista televisivo, in primis per chiudere il suo passato “rosso”, in cui “manifestava” assieme ad un gruppo di amici/dimostranti, di cui ognuno ha cambiato vita per non dire “partito.”

Al film contesto per lo più quella mancanza di coraggio nel raccontare in maniera più incisiva, a cominciare dal fatto che si potevano rendere più "cazzute" alcune sequenze di morte che, per ovvi motivi, non posso, anzi non voglio, spoilerare.

Che altro dire?

Il cinema italiano degli anni 90, nonostante risulti globalmente di scarso lustro, aveva in egual modo parecchio da dire, producendo di fatto film di vario genere e attingendo a migliaia di contesti. A livello intellettuale lo si può suddividere in due filoni, ovvero uno "alto" ed uno "basso," in questo caso direi di orientarci in una via di mezzo e senza quella pretesa di focalizzarsi eccessivamente sulla storia.

Da segnalare come Il tempo del ritorno in certe sequenze mi abbia ricordato Concorso di colpa di Claudio Fragasso, interpretato da Francesco Nuti, per via della sequela orientata sullo “rispolverare” eventi passati al fine di trovare e sbattere davanti allo spettatore la verità su un piatto d’argento, con le dovute e tragiche conseguenze.

In conclusione, Il tempo del ritorno non è una di quelle pellicole memorabili, merita una semplice visione e con la consapevolezza poi che difficilmente in futuro si andrà a riguardarlo, difatti una volta basta e avanza.

 

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CINEMA E DRINK - ispirato a 'Odio l'estate', con Aldo, Giovanni e Giacomo il drink BUBBLES NEGRONI del bartender Andrea Pomo del The Jerry Thomas Speakeasy di Roma

22 Febbraio 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #ricette, #cinema

 

 

 

 

 

DRINK: BUBBLES NEGRONI
(ispirato a 'Odio l'estate' di Massimo Venier, con Aldo Giovanni e Giacomo, 2020)


BARMAN: Andrea Pomo, bartender del The Jerry Thomas Speakeasy di Roma, classificato al numero 50 della classifica The World's 50 Best Bars 2019

 

INGREDIENTI:

45 ml Crocodile Gin 
30 ml Vermouth Del Professore Classico
25 ml Bitter Del Professore 

45 ml infuso Lemon Grey (tè nero a base di pompelmo e limone)
7.5 ml succo di melograno chiarificato 
2 drops di soluzione salina
1 scorza di pompelmo


Bicchiere: Collins
Garnish: peel di pompelmo


PREPARAZIONE:

Miscelare tutti gli ingredienti, tranne la scorza di pompelmo e raffreddare fin quasi al punto di congelamento. Applicare la carbonatazione a 2.9 bar di pressione. Versare in un bicchiere collins ghiacciato con ghiaccio chunk e spremere la scorza di pompelmo sopra il drink.

 

ISPIRAZIONE:

I miei comici preferiti chiamano il loro anziano regista per occuparsi di loro che negli ultimi tempi non stavano più tanto bene per recuperare la vecchia alchimia, ne viene fuori un film spontaneo, in memoria dei vecchi tempi: un vero proprio twist on classic! La mia reinterpretazione si basa proprio su questo. Ho voluto reinterpretare un grande classico intramontabile come il Negroni, IL Fenomeno Italiano. Ho scelto il Negroni perché tre sono gli ingredienti che hanno creato questo drink unico, come tre sono i comici che hanno creato a loro volta una comicità unica. Il drink è una semplice rivisitazione del Negroni che si basa sul terroir e la stagione durante la quale è stato ambientato il film: l'estate. Quindi un drink fresco e con prodotti freschi. Tutto nasce dal The Jerry Thomas Speakeasy, primo 'secret bar' italiano, quest'anno in  posizione 50 nella lista del The World Best 50 Bars, nato a Roma dieci anni fa con l'idea di riportare alla luce uno stile di miscelazione ormai dimenticato. Nel 2010 un gruppo di bartender decide di dare vita a questo piccolo Club nel cuore della Capitale mettendo a disposizione di colleghi, appassionati e curiosi un luogo dove sperimentare e condividere le loro particolari esperienze. Gli anni che seguono sono fatti di viaggi, ricerca, studio, scambi culturali, seminari e tanta determinazione che permetterà al The Jerry Thomas Speakeasy di entrare per ben cinque volte nella classifica dei “50 World Best Bar”. Nel 2013 dopo una lunga e minuziosa ricerca storica e tecnica, vede la luce il “Vermouth Del Professore”, primo di una lunga serie di prodotti ideati in collaborazione con le “Distillerie Quaglia”, compresi tre gin di altissima qualità. E lo scorso anno esce anche “Twist on classic – I grandi cocktail del Jerry Thomas Project”, volume edito da Giunti, che vede raccontati i quattro protagonisti di questa storia: Roberto Artusio, Leonardo Leuci, Antonio Parlapiano e Alessandro Procoli. Un libro che si fregia della prefazione di un cliente affezionato d'eccezione, Jude Law - che durante le riprese delle due stagioni di The Young Pope e The New Pope si affacciava spesso al locale - e la prefazione dello storico dei cocktail David Wondrich. 

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Nicolás Guillén, il poeta nazionale

21 Febbraio 2020 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #poesia

 

 

 

Nicolas Guillén dopo il trionfo della Rivoluzione è sempre stato chiamato il poeta nazionale e non c’è denominazione più giusta e meritata. Infatti la poesia di Guillén interpreta la realtà in maniera critica e da un punto di vista collettivo, senza mai farsi tentare da individualismi o da fughe astratte. Quando Cuba era ancora alla ricerca della sua identità, Guillén denunciava l’ingiustizia sociale, la discriminazione dei neri, la fame, il furto sistematico da parte degli Stati Uniti delle ricchezze nazionali. Possiamo dire che Guillén sia sempre stato il cantore delle necessità degli oppressi e dei poveri. A maggior ragione, dopo il trionfo della Rivoluzione, ha messo al servizio della costruzione di un nuovo stato la sua poesia.

Nicolás Guillén è nato a Camagüey il 10 luglio del 1902, suo padre lottò per l’indipendenza cubana, ma subito si rese conto che la Repubblica sarebbe stata tradita dal nuovo governo e si schierò con i liberali. Fu assassinato durante una rivolta e Nicolás dovette lasciare l’Università (frequentava Giurisprudenza) per impiegarsi come tipografo e dare una mano in casa. Pubblicò le prime poesie sulla rivista «Camagüey Grafico», quindi in «Castalia» dell’Avana e in «Orto» di Manzanillo. Il suo primo libro è del 1922 (non lo pubblicò) e si intitola Cerebro y corazón, mentre l’anno seguente fondò «Lis», una rivista letteraria che ebbe breve vita. Nel 1926 si trova all’Avana, si iscrive al Partito Comunista Cubano ed è proprio nella capitale che si avvicina alla poesia d’avanguardia. Scrive per «El Diario de la Marina» (un foglio reazionario) una serie di articoli contro la discriminazione razziale. Nel 1930 pubblica Motivos de son e Ideales de una raza. Soprattutto il primo è un libro importante, perché adotta il son come base musicale e sceglie un linguaggio di facile comprensione, capace di parlare alle persone e di raccontare la vita quotidiana. Si tratta di poesia che molti hanno giustamente definito mulatta, perché si appoggia ai due elementi predominanti della cultura nera: il ritmo e il colore. Le liriche di Guillén nascono dalla guaracha cubana e sono soprattutto parole scritte per canzoni popolari. Si pensi a un componimento come: «Sóngoro cosongo/ Songo be/ Sóngoro cosongo/ de mamey;/ sóngoro, la negra/ baila bien…». Si tratta di una vera rivoluzione poetica che vede protagonisti soprattutto i neri avaneri, con il loro linguaggio caratteristico e i loro modi di dire.

La poesia di Guillén non si ferma qui. Con il passare del tempo diviene lirica di denuncia sociale e lui stesso è tra i primi intellettuali che aderiscono al Movimento Negrista. Il suo secondo libro è Sóngoro cosongo (1931) e qui affronta ancora il tema del nero, ma lasciando da parte la comicità e la caricatura dei vecchi personaggi per cominciare a sperimentare una poesia descrittiva e realistica. Non è ancora un libro sociale, ma basta a dare valore all’opera la denuncia dello sfruttamento dei neri: «El negro/ junto al cañaveral./ El yanqui/ sobre el cañaveral».

West Indies Ltd. (1934) è invece il primo poema sociale vero e proprio e dimostra un impegno politico sempre maggiore da parte di Guillén, che sarà redattore ed editore delle riviste comuniste «Resumen» e «Mediodia».

Nel 1937 pubblica in Messico una delle sue opere più importanti: Cantos para soldados y sones para turistas. La cosa triste è che questa poesia, scritta da un comunista per un paese che avrebbe dovuto ribellarsi all’oppressione di un feroce dittatore, si adatta bene ancora oggi alla situazione vissuta dai cubani. Protagonista del poemetto è José Ramón Cantaliso che mostra al turista la miseria, la fame e tutte le ingiustizie nascoste dietro una apparente allegria. Tutto questo senza perdere l’umorismo tipico della sua poesia e senza lasciare il ritmo del son che accompagna i versi. Ai soldati Guillén ricorda qual è la loro estrazione sociale e dice che sono soltanto lo strumento di un potere ingiusto, quindi devono imparare a rivolgere i fucili contro la tirannia. Sempre in Messico pubblica España: poema en cuatro angustias y una esperanza, ispirato alla lotta del popolo spagnolo contro il fascismo. Guillén viaggia molto: prima va in Spagna ed entra in contatto con la parte comunista della ribellione, successivamente è in Argentina dove pubblica El son entero (1947). In questo libro è presente tutta la sensibilità e la musicalità afrocubana: poche poesie sociali, alcune folcloristiche, altre intimiste, persino romantiche. Viaggia ancora nei paesi socialisti e nel 1953 è a Santiago del Cile per il Congresso della Cultura Latinoamericana. Il dittatore Fulgenzio Batista, in un impeto di repressione anticomunista,  gli impedisce di fare rientro a Cuba.

Nel 1955 l’Unione Sovietica gli conferisce il Premio Lenin per la Pace. Le poesie di questo periodo sono raccolte nel libro La paloma de vuelo popular (1958), pubblicato a Buenos Aires. Sono le liriche di un rivoluzionario ante litteram vagabondo del mondo e accomunano la sorte di tutti gli oppressi uniti nel solo destino possibile: la ribellione per essere finalmente liberi. In questo libro Guillén profetizza il trionfo rivoluzionario. Libro politico per eccellenza è anche Elegías (1958) che raccoglie: Elegía a Jesús Menéndez, Elegía a Jacques Roumain e soprattutto la Elegía cubana che esalta la Rivoluzione: «Brilla Maceo en su cenit seguro./ Alto Martí su azul estrella enciende».

Nel 1959 la Rivoluzione Cubana giunge a compimento e Guillén si unisce corpo e anima alla causa dell’uomo nuovo. Sarà Presidente della Unione degli Scrittori e Artisti di Cuba (uneac) fino al 1961. Pubblica ancora: Prosa de prisa (un libro di cronache giornalistiche del 1964), Poemas de amor e Tengo. Tengo riveste grande importanza, si tratta di un libro scritto sotto l’influenza della vittoria rivoluzionaria. Tutto quello che prima veniva denunciato (repressione, razzismo, miseria, sottomissione agli statunitensi) è scomparso e l’uomo socialista ha la forza necessaria per superare antiche disuguaglianze e ingiustizie: «Tengo, vamos a ver,/ tengo lo que tenía que tener». Il passato serve da esempio per far brillare i meriti di una rivoluzione voluta dal popolo oppresso. Tengo è caratterizzato da un ottimismo e da una fiducia nel futuro senza precedenti.

 

Buenos días, Fidel!

Buenos días, bandera; buenos días, escudo.

Palma, enterrada flecha, buenos días.

Buenos días, mis manos, mi cuchara, mi sopa,

mi taller y mi casa y mi sueño…

 

Tutto è allegria e limpidezza; tutto è nuovo e bello. Si esaltano i simboli nazionali (bandiera, scudo, palma), ma anche le cose che appartengono alla vita quotidiana (il cucchiaio, la zuppa nel piatto, la casa, il canto…). Guillén canta un paese che risorge dall’oblio della dominazione e che vuole essere artefice del suo futuro.

 

Obrero en armas, buenos días.

Buenos días, fusil.

Buenos días, tractor.

Azúcar, buenos días.

 

Tengo raccoglie anche l’epopea cubana dalla Sierra Maestra fino al trionfo, le successive minacce americane e la vittoria di Playa Girón. Leggiamo in italiano la parte finale di Tengo.

 

Ho, vediamo bene,

che adesso ho imparato a leggere,

a contare,

ho che adesso ho imparato a scrivere

e a pensare

e a ridere.

Ho che adesso so 

dove lavorare

e guadagnare

quello che devo mangiare,

ho, vediamo bene,

ho tutto quello che devo avere.

 

Nel 1967 esce El gran zoo, in cui Guillén immagina una galleria di animali paragonati a una serie di esempi negativi che si annidano nella società capitalista (usurai, gangster, magnaccia, generali…).

Nel maggio del 1972 pubblica El diario que a diario (versi e prosa) e riassume tutta la storia di Cuba fino al trionfo della Rivoluzione, facendo ricorso a tutta la sua verve satirica. A giugno invece esce l’ultimo libro: La rueda dentada, che dimostra la sensibilità artistica di Guillén, sia quando canta il Vietnam, la morte di Gagarin, Martin Luter King, sia quando chiama alla ribellione contro i padroni culturali stranieri o, ancora, quando canta gli uccelli dei campi cubani e l’amore per la donna.

Nell’opera di Guillén non vanno dimenticate le poesie dedicate a Che Guevara: Che Comandante, Guitarra en duelo mayor e Lectura de domingo. Che Guevara è visto come il simbolo immortale della lotta e la sua figura è un esempio eccezionale per tutti – «Che comandante,/ amigo…» e poi conclude: «Partiremos contigo» –, persino per i soldati boliviani che lo massacrarono: «Él fue tu mejor amigo, / Soldadito boliviano;/ Él fue tu amigo de a pobre/ del Oriente al altiplano…». Il vero cammino, quello diritto, lo ha indicato il Che e tutti dobbiamo seguirlo.

Guillén muore nel 1989, al massimo della fama, appena in tempo per veder cominciare il “periodo speciale”, ma non abbastanza per rendersi conto di quel che sarebbe accaduto dopo. Meglio per lui, in ogni caso. Non ha visto la fine che ha fatto quel comunismo in cui aveva così fervidamente creduto.

Cerebro y corazón (1922) non è mai stato tradotto in italiano. Molti saggisti cubani definiscono questa opera acerba e immatura, una palestra per esercitare e sviluppare il futuro talento. A nostro parere contiene piccole perle di poesia che non vanno trascurate, soprattutto se consideriamo che sono opera di un adolescente.

 

Gordiano Lupi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un fante lassù. Uomini e vicende sul fronte italiano della grande guerra

17 Febbraio 2020 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

Il libro di Gino Cornali (Tarka edizioni) è il memoriale di un ventenne che come molti coetanei allo scoppio della guerra del 1915 sente l'impulso di partire volontario. Le sirene del patriottismo suonano fortissime anche per lui che come altri universitari si presenta subito in caserma per combattere contro l'Austria. Divenuto ufficiale di complemento, combatte nei momenti più delicati sugli altipiani e sul Carso; è a Passo Buole durante la Strafexpedition, poi sul Carso come tenente comanda una compagnia. Pur nel dolore della vita di trincea e pur non mancando molti screzi con ufficiali più insipienti che capaci, permane in lui la convinzione di aver fatto la scelta giusta. Vive il trauma di Caporetto che ci consegna con immagini efficaci; provenendo da un periodo nelle retrovie, il suo viaggio di ritorno verso il fronte gli fa incontrare migliaia di uomini in disarmo, senza guida, incamminati lungo i binari, frammischiati ai civili, convinti di dover solo scappare.

Due sono gli aspetti che in generale restano impressi; innanzitutto la fratellanza con gli altri ufficiali mentre con i subalterni c'è spesso un rapporto di stima reciproca. È questo mondo di relazioni cameratesche che l'autore sente purtroppo di perdere quando arriva il congedo, mentre si trova a Lubiana a guerra ampiamente terminata. Le paure per l'avvenire, i dubbi sulla vita da civile, il timore di aver perso tempo al fronte mentre i furbi si imboscavano nei posti migliori, l'angoscia di perdere gli amici veri emergono in modo struggente. È la fine di un mondo per un giovane che dopo quattro anni in divisa sente di dover ricominciare tutto da capo, come se non avesse fatto nulla nei suoi  anni migliori, aggravato dal fardello della trincea che poco servirà lontano dalle armi. C'è lo smarrire un'identità, costruita nei pericoli della guerra che aveva creato rapporti intensissimi tra uomini che dovevano contare gli uni sugli altri, correndo gli stessi rischi. Relazioni irripetibili, quindi.

L'altro aspetto attiene al dopoguerra e alle prevedibili difficoltà di inserimento, già messe in conto da chi prevedeva disordini sociali e quindi bisogno di guide forti. Come gli spiega infatti un suo superiore, ci vuole un dittatore che costringa all'obbedienza un popolo capace di perdersi, pronto a reclamare concessioni sproporzionate: "Vinceremo senza dubbio gli austriaci; ma bisogna poi vincere anche noi stessi. Vincere la pace, dopo aver vinto la guerra; e non tradire i morti col frustrare la vittoria. Sarà necessario un governo forte che non abbia paura del sangue e delle barricate (..) meglio un dittatore".

Non resterà in effetti, a molti tornati dal fronte, che buttarsi tra le braccia di chi era pronto a valorizzare la generazione dei reduci, pieni di ferite fisiche e morali e soprattutto timorosi di non vedere un adeguato riconoscimento dopo il sacrificio compiuto per vincere. Il memoriale, edito nel 1934, termina non a caso inneggiando "al Fante dello Javorkec e di quota 144, colui che aveva guarito le nostre malinconie", ossia al Duce. Così l'ex studente volontario di guerra contro l'autoritarismo degli Imperi Centrali, finì come tanti altri, nella complessa situazione storica del tempo, per appoggiare il regime autoritario che esaltava il grande sacrificio compiuto al fronte.

Resta un'opera intensa, con molte pagine liriche, scritta da un ventenne che portò la divisa dal 1915 fino al settembre 1919, quando fu congedato col grado di capitano dopo che il conflitto era terminato da quasi un anno.

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Sidus

13 Febbraio 2020 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #cinzia diddi, #moda, #cinema

 

 

 

 

Cinzia Diddi e la promessa a suo padre Ray Abruzzo nel cast La Storia della Stilista Cinzia Diddi. Regia Stefania Rossella Grassi.

 

Cinzia Diddi è un’apprezzatissima stilista fiorentina, nota per aver vestito importanti personaggi del mondo dello spettacolo. Il suo Luxury brand è conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Sono terminate le riprese di Sidus, il nuovo film di Stefania Rossella Grassi, tratto dall'omonimo libro della stilista. Un sogno, una promessa fatta un padre, l’amore che supera anche la morte.

Nel cast Ray Abruzzo, Lorenzo Flaherty, Chiara Iezzi, Barbara Kal, Cinzia Diddi, Martina Marotta, Serena Baldaccini. "Il film 'Sidus’- ha dichiarato Cinzia Diddi - è una storia quasi surreale, in cui la bellezza e la meraviglia combattono contro le “tenebre” della terra. Il film che abbiamo appena terminato di girare è però anche una storia d’amore appassionante, un grande viaggio fisico e sentimentale, che parla di argomenti che devono appartenere sempre più al sentire comune: i valori, l’amore per il proprio lavoro, l’amore eterno che supera anche la morte e l’importanza della memoria".

Scritto da Stefania Rossella Grassi, direttore alla fotografia Bruno Cascio. Sidus è una produzione Bic production in coproduzione con Cinzia Diddi. Si ringraziano tutte le persone che hanno permesso la realizzazione del film per il prezioso supporto in fase di riprese.

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"License to Wed" (2007) Regia di Ken Kwapis

12 Febbraio 2020 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #recensioni, #cinema

 

 

 

 

Ho visionato proprio stamattina Licenza di matrimonio ("License to Wed" titolo originale in inglese) e, francamente, non si può certo definirlo un capolavoro né uno dei migliori film con Robin Williams, in quanto non porta nulla di innovativo.

Non è un brutto lungometraggio, semmai risulta nella media, e per di più godibile quanto basta. Se dovessi riassumere il prodotto cinematografico in due parole direi… irregolare e (troppo) bizzarro.

È doveroso fare un accenno alla trama: Sadie e Ben si amano e vogliono sposarsi con la benedizione e con la celebrazione dello stravagante reverendo Frank, il quale chiede, pardon, ordina, alla coppia di completare un corso di preparazione al matrimonio, formato da una serie di test veramente bislacchi, dalla durata di tre settimane. A complicare le cose i due fidanzati devono attenersi all’astinenza sessuale fino al giorno del loro sposalizio. Mica robetta, eh!

In sostanza, il susseguirsi narrativo mi è apparso decisamente prevedibile (pur senza spoilerare si capisce dove si vuole andare a parare), per non parlare di specifiche parti o sequenze tra noiosette e incredibili, fra cui il folle test “della guida alla cieca”, che si orienta su dell’apprezzato metaforico, visto che viene adeguatamente espresso il discorso "fede", nonché sul fatto che in un matrimonio ne possono accadere di cotte e di crude e, di conseguenza, bisogna avere coraggio e temperamento per affrontare la qualsiasi.

Come assistente, il reverendo dispone dell’aiuto di un adolescente paffuto, una specie di chierichetto o “perpetuo”, a metà tra l’angioletto e il diavoletto, che  ho trovato piuttosto simpatico e quindi ben inserito.

Soffermandomi sulla recitazione, Mandy Moore e John Krasinski, i “partner” principali, non risultano affatto due cattivi interpreti, al più un po’ anonimi; (non credo siano attori blasonatissimi), in compenso dispongono di quella necessaria chimica per far sì che il film proceda (quasi) senza intoppi. Ma è Williams colui che fa la differenza, sebbene il nostro caro “Sudy Nim” (così soprannominato a Hollywood e dintorni) non sia assolutamente quello degli anni novanta, si mantiene sullo standard con un atteggiamento da cabaret e, in un’occasione, addirittura da simil presentatore televisivo, ovvero quando si cimenta con una lezione di catechismo ai bambini della chiesa di St. Augustine.

Insomma, il noto e compianto artista raramente arriva a delle vere e proprie eruzioni comiche.  Si ha la sensazione che Williams si sia “controllato”, (ricordiamoci che non di rado la sua recitazione risultava improvvisata), forse a causa del fatto che interpreta un reverendo, oppure semplicemente ha dovuto adattarsi il più possibile al canovaccio, ehm, al copione imposto dagli autori e dal regista Ken Kwapis.

Circa le ambientazioni siamo sull’ok, l’unica critica sarebbero le sequenze ambientate in Giamaica sicuramente un po' troppo forzate. Si salvano pochissime gag, e un paio di frasi intrise di quell'humour che assai gradisco.

Ad esempio quando l'hostess dell'aereo diretto ai Caraibi si rivolge ai passeggeri dicendo:

--- Su questo volo è vietato fumare, ma una volta atterrati in Giamaica vi potrete accendere qualsiasi cosa! ----

Parliamoci chiaro: nel film non si ride mai in maniera sguaiata, peraltro negli ultimi quindici minuti la trama assume una tonalità seria/riflessiva,poiché lascia spazio al comparto romantico che commuove giusto un pochettino.

In conclusione, consiglio il film a voi spettatori? In verità vi dico: sì… ma non arriverete a consumare il DVD, ve lo garantisco.

 

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XXVI Trofeo RiLL per il miglior racconto fantastico

11 Febbraio 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #concorsi

 

 

 

 

 

 

Sono aperte sino al 20 marzo 2020 le iscrizioni al XXVI Trofeo RiLL, premio letterario per racconti di genere fantastico curato dal 1994 dall’associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare e patrocinato dal festival internazionale Lucca Comics & Games.

 

Possono partecipare al concorso storie fantasy, horror, di fantascienza e, in generale, ogni racconto sia (per trama e/o personaggi) “al di là del reale”.

Ogni autore/autrice può inviare una o più opere, purché inedite, originali e in lingua Italiana.

 

Da oltre un decennio i racconti partecipanti al Trofeo RiLL sono 250-300 a edizione, scritti da autori/ autrici residenti in Italia e all’estero (Australia, Brasile, Cina, Giappone, Svizzera, USA, oltre che paesi membri dell’Unione Europea). Nel 2019 i racconti ricevuti sono stati 345.

 

I dieci racconti finalisti del XXVI Trofeo RiLL saranno pubblicati (senza alcun costo per i rispettivi autori/ autrici) nel prossimo e-book della collana Aspettando Mondi Incantati, curata da RiLL e in uscita a ottobre 2020. Inoltre, i migliori racconti fra quelli finalisti saranno pubblicati (sempre gratuitamente) nell’antologia del concorso (collana Mondi Incantati, ed. Quality Games), che sarà presentata durante il festival internazionale Lucca Comics & Games (novembre 2020).

Il racconto primo classificato del XXVI Trofeo RiLL sarà tradotto e pubblicato, sempre gratuitamente:

- in Irlanda, sulla rivista di letteratura fantastica Albedo One;

- in Spagna, su Visiones, l’antologia dell’AEFCFT (Asociación Española de Fantasía, Ciencia Ficción y Terror);

- in Sud Africa, su PROBE, il magazine dell’associazione SFFSA (Science Fiction and Fantasy South Africa).

 

All’autore/autrice del racconto primo classificato andrà, infine, un premio di 250 euro.

 

RiLL selezionerà, fra tutti i racconti partecipanti, i dieci finalisti. Ciascun racconto partecipante sarà valutato in forma anonima (cioè senza che i lettori-selezionatori conoscano il nome dell’autore/autrice), considerando in particolare l’originalità della storia e la qualità della scrittura.

La giuria del Trofeo RiLL sceglierà poi, fra i racconti finalisti, quelli da premiare e pubblicare nell’antologia Mondi Incantati del 2020. Sono giurati del Trofeo RiLL, fra gli altri, gli scrittori Donato Altomare, Pierdomenico Baccalario, Mariangela Cerrino, Francesco Dimitri, Giulio Leoni, Gordiano Lupi, Massimo Pietroselli, Vanni Santoni, Sergio Valzania; gli accademici Luca Giuliano (Università “La Sapienza”, Roma) e Arielle Saiber (Bowdoin College, Maine – USA); la poetessa Alessandra Racca; i giornalisti ed autori di giochi Andrea Angiolino, Renato Genovese e Beniamino Sidoti.

 

Ogni partecipante al XXVI Trofeo RiLL riceverà una copia omaggio dell’antologia LEUCOSYA e altri racconti dal Trofeo RiLL e dintorni (ed. Quality Games, 2019; collana Mondi Incantati), che prende il nome dal racconto vincitore del XXV Trofeo RiLL, scritto dalla romana Laura Silvestri.

Il libro propone dodici storie: i migliori racconti del XXV Trofeo RiLL e di SFIDA (altro premio organizzato da RiLL nel 2019) e i racconti vincitori di quattro concorsi letterari per storie fantastiche banditi all’estero (in Inghilterra, Irlanda, Australia e Sud Africa) e con cui il Trofeo RiLL è gemellato.

 

Tutte le antologie Mondi Incantati sono disponibili su Amazon e Delos Store, oltre che presso RiLL.

Nel Kindle Store di Amazon sono inoltre disponibili gli e-book della collana Aspettando Mondi Incantati, sempre curata da RiLL e dedicata ai racconti finalisti del Trofeo RiLL.

 

La cerimonia di premiazione del XXVI Trofeo RiLL si svolgerà nel novembre 2020, nell’ambito del festival internazionale Lucca Comics & Games.

 

Per maggiori informazioni sul XXVI Trofeo RiLL si rimanda al bando di concorso e al sito di RiLL, che ospita ampie sezioni sul Trofeo RiLL e la collana Mondi Incantati.

 

 

 

 

Associazione RiLL - Riflessi di Luce Lunare

via Roberto Alessandri 10, 00151 Roma

www.rill.it

www.riflessidilucelunare.it

info@rill.it

 

 

L’associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare è attiva in ambito letterario e ludico dai primi anni ’90.

La principale attività associativa è il Trofeo RiLL per il miglior racconto fantastico, un premio letterario bandito dal 1994 e che ha riscosso un interesse crescente fra gli appassionati e gli scrittori esordienti.

Dal Trofeo RiLL sono nate tre collane di antologie: “Mondi Incantati” (con i racconti premiati in ogni annata di concorsi RiLLici), “Memorie dal Futuro” (antologie personali dedicate agli autori/ autrici che più si sono distinti nei premi organizzati da RiLL) e “Aspettando Mondi Incantati” (e-book che pubblicano i racconti finalisti di ogni edizione del Trofeo RiLL). Le antologie curate da RiLL sono tutte realizzate senza alcun contributo da parte degli autori.

Sul sito di RiLL sono on line molte informazioni sul Trofeo RiLL e le sue diverse edizioni, sugli altri concorsi e iniziative organizzate da RiLL e un vasto archivio di articoli e interviste.

 

 

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"James ou pas" (1970) Regia di Michel Soutter

8 Febbraio 2020 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #recensioni, #cinema

 

 

 

 

Dopo La Pomme, il regista Michel Soutter ci riprova un anno dopo con James ou pas, un film che ho trovato più assimilabile e più interessante rispetto al lungometraggio poc’anzi citato.

Soutter comunque non tradisce il suo marchio di fabbrica: non una Svizzera fatta di banche, di cioccolato e formaggio Emmental, ma un focalizzarsi su quel tipo di provincialismo estetico dove la routine è un piatto freddo tradizionale e quotidiano. Un paese neutrale, popolato da persone neutrali. Tutto è in bianco e nero oppure bianco o nero per cui il black & white implementato in questa opera filmica direi che è ideale.

Nel susseguirsi, o comunque nella narrazione, a parte lo stile e i dovuti collegamenti ed elementi presi in prestito dai precedenti film, si evita qualsiasi tentativo di costruire una vera e propria storia, mantenendo piuttosto quelle inflessioni drammatiche e introspettive che generano a momenti del surrealismo, specie nel finale. Hector, il protagonista interpretato dal veterano attore Jean-Luc Bideau, si ritrova a fare i conti con un omicidio di cui magari non è responsabile, oppure lo è solo dentro la sua testa. C’è quindi qualche elemento crime, viene addirittura chiamata in causa la polizia, l’indagine però spetta allo spettatore che, in base all’attenzione prestata al film in maniera indipendente, può tracciare, delineare, o comunque farsi un’idea di come sono realmente (o oniricamente) andate le cose. Chiavi di lettura, quindi? Umh, semmai chiavi di visione.

Ad ogni modo dall’incipit in poi seguiamo Hector, di professione tassista, che si imbatte (forse) casualmente in James, un enigmatico scapolo che vive in una abitazione collocata in un villaggio isolato. Improvvisamente Hector si ritrova coinvolto con degli sconosciuti e in situazioni che non riconosce ma in cui si lascia trascinare, a cominciare da Eva.

James ou pas  ha indubbiamente un suo (insolito) perché. Le sequenze, tra la varie cose, rappresentano campioni visivi della vita di allora, preparati con cura da un regista capace di tale indipendenza e coraggio. Numerose idee si intrecciano a formare un caleidoscopio di varie emozioni, a cominciare dai quei castelli in aria con dei tocchi di realismo.

Fondamentalmente il régisseur confeziona un'ispirata pellicola che possiamo definire indipendente e, per certi versi, anche sperimentale. Un viaggio mentale, un misto fra cinema e teatro d'avanguardia, per via di certi monologhi o, per meglio dire, la fusione di questi due elementi. Inutile scavare a fondo per cercare di estorcere i significati: l'opera va fruita senza farsi troppe domande e, di conseguenza, apprezzata per il lavoro di ricerca del linguaggio visivo totalmente al di fuori dei canoni cinematografici di allora e soprattutto di oggi, con una recitazione mai monocorde, sebbene certe sequenze possano risultare poco verosimili. Del resto i personaggi, anzi, Hector sulle battute finali sembrano essere pervasi dal dubbio. Ciò indubbiamente contagia lo spettatore, per di più generando incomprensioni, incomunicabilità, fallimenti interiori e quella routine di cui si è vittime che, “finalmente” una scossa “spezza.”

Promosso… fino all’ultimo fotogramma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

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