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il mondo intorno a noi

Giorgio Diddi : Donazione di mascherine e fondatore della Dimedical

15 Aprile 2021 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #cinzia diddi, #il mondo intorno a noi, #personaggi da conoscere

 

 

 

Giorgio Diddi è figlio d’arte, imprenditore pratese, da sempre nel tessile. Rappresenta la terza generazione, il padre imprenditore, il nonno imprenditore.

Durante questa lunga pandemia la città di Prato ha chiesto alla sua azienda, punto di riferimento sul territorio, di produrre presidi di protezione per fare fronte all’emergenza coronavirus.

Diddi non si è tirato indietro e non solo ha prodotto 350.000 mascherine, convertendo un reparto per la produzione “a mano” delle stesse, ma ha anche acquistato macchinari per la produzione di mascherine certificate chirurgiche automatizzando la filiera produttiva e fondando la Dimedical.

 

Quanto è stato importante per lei dare un contributo così profondi alla sua città?

Direi che è stato fondamentale.

Poi come sono solito dire aiutando gli altri ci si aiuta.

Producendo mascherine ho potuto creare lavoro per i miei dipendenti assicurando loro gli stipendi.

 

Lei ha donato molto, come l’ha fatta sentire?

Credo nella beneficenza e nell’aiuto reciproco.

 

Quanto ha risentito il suo settore di questo momento di crisi?

Molto, si parla nel distretto tessile anche di una riduzione dei fatturati del 70%.

 

Come crede di combattere questa profonda crisi mondiale?

Come direbbe mio nipote Dante: usando i “Superpoteri”.

 
 
 
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GIORNO DELLA MEMORIA 2021 _ Cori partecipa alla diretta streaming da Auschwitz

27 Gennaio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Quest’anno, a causa della pandemia, non potrà aver luogo la tradizionale visita istituzionale dell’Amministrazione Comunale alla gemellata Città di Auschwitz in occasione del 76° Anniversario della Liberazione del campo di sterminio.

 “Un’esperienza emotivamente forte – ricorda il Sindaco Mauro Primio De Lillis – che ci costringe ad un’immersione in un pezzo di storia aberrante dell’umanità ma che rappresenta un monito per restare sempre vigili e attivi sui valori dell’uguaglianza e della fratellanza. Sono dispiaciuto che quest’anno non sia stato possibile organizzare il viaggio ad Auschwitz per gli studenti delle scuole di Cori e Giulianello, che ormai si ripeteva da 12 anni, perché sono convinto che ognuno di quei ragazzi che ha fatto quell’esperienza sia tornato più forte in quei valori.

Il Sindaco di Oświęcim, Janusz Chwierut, ha invitato tutti i Sindaci delle città gemellate alla cerimonia che si terrà in forma di video conferenza il 27 gennaio e che verrà trasmessa a partire dalle ore 16,00 sui canali social dell’Auschwitz Memorial.

Il Comune di Cori rilancerà la cerimonia online sulla propria pagina facebook perché vogliamo far arrivare un piccolo segno della nostra vicinanza alla città gemella di Auschwitz, e perché vogliamo far condividere questo momento commemorativo a tutti quei nostri concittadini ed a quei ragazzi che quest’anno non potranno partecipare alla cerimonia di Auschwitz.

 

Credo fermamente che solo rinsaldando valori e comportamenti di uguaglianza e fratellanza possiamo guardare al futuro e vincere anche la battaglia contro il COVID-19 che da un anno accomuna tutto il mondo”.

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Viva il caffellatte

15 Dicembre 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #unasettimanamagica, #adventscalender, #il mondo intorno a noi

Viva il caffellatte

 

Da certi servizi, da certe interviste, sembra che l’ideale dell’italiano medio sia la brioche al bar o il pranzo al ristorante.

Ultimamente – intendo negli ultimi due decenni in crescendo – c’è stata una corsa alla “vita da aperitivo”. E, forse, - con buona pace dei ristoratori e di chi con quelle attività vive – uno stop ci voleva. Un ripensamento di questo stile di vita di corsa e superficiale. La vita da aperitivo andava fermata. Di forza, per legge.

A diciotto anni è normale ritrovarsi in baracchina per fare i soliti discorsi e le solite battute. È un bisogno di appartenenza al branco, serve a staccarsi dai genitori e a crearsi un’identità individuale e sociale. Ma non a sessanta anni. Non con questa follia generazionale collettiva.

Eterni adolescenti con lo spritz in mano. Riti quotidiani di socialità forzata, in una dipendenza da drogati che è stata sfruttata per “far girare l’economia”. Un’economia che non si basa più sulla produzione di buoni manufatti ma sul consumo di cibo, di alcol, di droga. La cultura dello sballo. La movida.

Se questa pandemia si fosse presentata nei miei mitici anni sessanta, non ci sarebbero state tante rinunce da fare.  Al ristorante si andava solo per festeggiare qualche occasione speciale. Le vacanze si facevano una volta d’estate e in Italia. Il bar era un posto da uomini che giocavano a biliardo o a carte. In palestra andavano solo gli atleti. I bambini frequentavano la scuola mezza giornata e mangiavano a casa. Il pomeriggio facevano i compiti e giocavano con i figli dei vicini.

Il lockdown c’era già e non lo sapevamo. Anzi, eravamo felici.

La nostra vita moderna è in deriva. E allora ben venga questo Natale senza sorrisi obbligati, senza pizze di palestra, senza la festa aziendale alla Filini e Fantozzi. Senza la zia che ci sta sulle palle. Senza una vuota corsa che ci sfianca ma non nutre la nostra anima. Senza bambino a karate e bambina a danza. Senza il corso di zumba per vecchi.

Liberiamoci di questa adolescenza perenne, dei bambini che nascono già grandi e vanno a mangiare la pizza con gli amici a sei anni, delle nonne con le calze a rete.

Viva il caffellatte in casa. Viva la pasta al pomodoro cucinata senza aver prima preso l’aperitivo. È buona lo stesso, sapete? Riempie comunque la pancia e non costa nulla, fa persino bene al portafoglio.

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Breaking bad ai tempi di un Memento mori globale

21 Maggio 2020 , Scritto da Guido Mina Di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #televisione, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Tradotto da Patrizia Poli dall’originale Breaking Bad during a Time of Global Memento Mori, pubblicato nel numero di giugno, 2020, della rivista New English Review.

 “Quanti funerali passano davanti alle nostre case? E tuttavia non pensiamo alla morte. Quante morti premature?” Così scriveva Seneca duemila anni fa. Prima di lui, Platone, discutendo della morte di Socrate, nel Fedone, affermava che “i veri filosofi sono sempre intenti alla pratica di morire” .

La morte è stata al centro della filosofia occidentale e di tutte le religioni e le mitologie. Siamo tutti gravati da un memento mori, ma la maggior parte di noi cerca di dimenticarlo, fino a quando non siamo posti, direttamente o indirettamente, di fronte all’inevitabilità della morte. In tempo di pandemia, il memento mori, assunta la forma di un virus, si è acutizzato, poiché siamo tutti ansiosi circa il nostro benessere e quello dei nostri cari. Siccome la pandemia è coincisa con una quarantena, ci siamo ritrovati con molto tempo a disposizione. Oltre alla lettura, alla scrittura, all’ascolto della musica e alla preparazione di insolite ricette di cucina, ho fatto una maratona di alcune serie televisive. Breaking Bad, che ha vinto più premi di qualsiasi altra produzione e che è stata immensamente popolare, mi è sembrato un buon punto di partenza. Ora sono in grado di affermare che può essere considerata una rappresentazione della cultura occidentale agli albori del 21° secolo.

Vari sono i temi che ritengo emblematici. Il memento mori diventa all’improvviso molto pressante nella mente di Walt, l’insegnante di chimica delle superiori, quando gli viene diagnosticato un cancro polmonare inoperabile allo stadio tre. Circa cento anni prima, Thomas Mann aveva trattato il problema della malattia e dell’imminenza della morte ne La montagna incantata da un punto di vista metafisico e filosofico, con ogni personaggio principale nel sanatorio che impersona una diversa corrente filosofica. All’inizio del 21° secolo, Vince Gilligan e gli altri creatori di Breaking Bad trattano lo stesso tema della malattia e dell’imminenza della morte con la decisone, da parte di Walt, di diventare un produttore di metanfetamina.

Il pragmatismo americano – il non abbiente Walt intende lasciare soldi a sua moglie e ai suoi figli – al posto delle riflessioni ontologiche ed escatologiche. Per uno che ha studiato tutta la vita religioni comparate, mitologia e filosofia, una tale scelta sembra stupefacente. Ma, d’altra parte, è giusto paragonare Thomas Mann a Vince Gillian e ai suoi colleghi? L’ambiente europeo del post prima guerra mondiale agli Stati Uniti degli inizi del ventunesimo secolo? È giusto paragonare un’opera magna letteraria di immenso respiro con una serie televisiva? Considerando quanto hanno scritto di quest’ultima i critici, direi di sì, dal momento che hanno preso Breaking Bad molto sul serio. Forse perché contiene elementi di ciò che oggi passa per “literary fiction”, o narrativa letteraria (le mie opinioni a riguardo sono espresse nel saggio Contro gli scrittori che contemplano il proprio ombelico e pubblicano romanzi che sono un inventario di banalità, con la prosa di un bambino di seconda media. Ovvero: sul declino della “narrativa letteraria”). Il tempo dedicato al motivo della metanfetamina – la sua produzione e distribuzione e tutti i personaggi sgradevoli ma coloriti che queste comportano – è più o meno lo stesso di quello dedicato alle dinamiche della  famiglia di Walt: la moglie, i due figli, il cognato e la cognata. E tali dinamiche sono sviluppate nello stile di quella che oggi passa per narrativa letteraria: molta angoscia suburbana e complicazioni che aspirano all’universalità di uno Shakespeare o di un Cervantes, ma posano su spalle molto inadeguate. Walt e Hank, suo cognato, non sono né Amleto né Don Chisciotte. La gente comune non è in grado di occuparsi di problemi filosofici semplicemente perché non sa che la filosofia esiste, come d’altronde la gran parte degli americani. 

Ma, dopo tutto, la filosofia non è forse concepita solo per una elite? Il dramma La vida es sueño (La vita è sogno) di Calderon de la Barca fu estremamente popolare quando esordì nel 1635 e da allora  è rimasto nel repertorio teatrale come un classico senza tempo. I suoi motivi principali sono distintamente filosofici: il tema religioso preponderante nella vita di allora, ovvero il libero arbitrio contro la predestinazione; e il concetto di vita come sogno, che si può ritrovare nell’Induismo, nel Buddismo, in Eraclito, in Platone e, più a ridosso dei tempi di de la Barca, in Cartesio con il suo inquietante argomento del sogno, vale a dire: se nel sogno il mondo ci sembra reale e ci rendiamo conto che è irreale solo al risveglio, come facciamo a essere sicuri che quando siamo svegli siamo veramente svegli? Troppo complesso per lo spettatore comune? A giudicare dal successo del drama, il secolo d’oro della Spagna deve aver prodotto delle platee piuttosto sofisticate.

Ma torniamo ad Albuquerque e alle imprese dei narco. Breaking Bad è infarcito di incongruenze fin dall’inizio: Walt, da giovane, è stato un genio ma poi non è riuscito nella vita per motivi che non sono ben spiegati, o non sono spiegati affatto; suo cognato è, a favor di trama e di suspense, un agente della DEA; Walter Jr, il figlio adolescente di Walt e di sua moglie Skyler, soffre di paralisi cerebrale; Skyler rimane incinta a oltre quarant’anni e, sebbene la sua sia una gravidanza non programmata e sia lei sia Walt non siano affatto religiosi, non abortisce.

Confesso di essere rimasto affascinato da Pablo Escobar, una sorta di don Chisciotte malvagio, e di aver letto parecchi libri su di lui, principalmente in spagnolo, dato che i gringos sembrano del tutto incapaci di comprendere che tipo di personaggio fosse. Sebbene ciò che Escobar ha fatto nella vita sia più strano di uno stesso romanzo, all’inizio non c’era niente di insolito in lui o nella sua famiglia. Certo Escobar non era un futuro premio Nobel, tutt’altro; proveniva da una famiglia molto modesta, ma non moriva di fame; non era oberato da un figlio malato o da una gravidanza non voluta – la qual cosa rende la sua ricerca di ricchezze favolose a dispetto di tutto ciò che poteva opporglisi tanto più incomprensibile. In altre parole, a paragone della realtà, Breaking Bad sa di arbitrario. 

Skyler, la moglie da sempre sofferente, merita una menzione a parte. Innumerevoli spettatori hanno visto in lei l’archetipo della lagnona, della megera, della bisbetica. E per lagnarsi, si lagna eccome! Fortunatamente la funzione di avanzamento veloce mi ha risparmiato molta della sua petulanza. Ma questo è un problema comune ai polizieschi narco: non hanno spazio per le donne, le quali o piagnucolano, fino alla nausea, o scimmiottano gli uomini, in modo poco convincente. Le storie sul narco traffico sono chiaramente di stampo maschile; hanno come protagonisti buoni e cattivi, questi ultimi molto più avvincenti, e, tra di essi, una zona grigia popolata da anti-eroi o malavitosi con atipici crucci di coscienza.

Un extraterrestre che guardasse Breaking Bad concluderebbe che la cultura occidentale agli inizi del 21° secolo è diventata completamente atea. In cinque stagioni, per un totale di sessantadue episodi, e una durata di sessantadue ore, cioè due giorni e quattordici ore, Dio e la religione sono menzionati due sole volte: dopo la collisione di due aeroplani sopra Albuquerque, una ragazza della scuola di Walt chiede, parafrasando, “Come ha potuto Dio permettere che accadesse questo?” E la preside taglia corto esortando lei e altri studenti a rimanere nell’ambito della laicità; poi si vedono due sicari messicani strisciare per terra assieme ad alcuni contadini verso una capanna nel deserto che contiene simboli della Nuestra Señora de la Santa Muerte, una santa del cattolicesimo folk messicano. Oltre a ciò, niente. Questo campionario di umanità, l’extraterrestre relazionerebbe  ai suoi pari, non ha posto per gli dei o per la religione, salvo che per dei sicari e dei contadini che provengono da una società più primitiva.

In una storia la cui raison d’être è l’imminenza della morte e ciò che Walt può fare in risposta ad essa, non c’è Dio, né si prega, né c’è religione. In un contesto ideale per un’indagine ontologica ed escatologica, non c’è assolutamente niente del genere. Come inconsapevole, tardiva appendice all’esistenzialismo, l’uomo è ritratto nella sua vulnerabilità in un universo caotico e privo di significato. Cartesio, l’Illuminismo, Marx, Darwin, Wittgenstein e infine il Circolo di Vienna hanno lavorato alacremente all’annientamento della metafisica – con Rudolph Carnap che formalmente l’ha rifiutata come priva di senso poiché le affermazioni metafisiche, egli sosteneva, non potevano essere provate o confutate dall’esperienza – e hanno ottenuto un successo trionfale. Mentre la scienza, tra gli altri con Heisenberg – ironicamente, poiché questo è il nome di battaglia di Walt nella serie – che ha donato al mondo il suo principio d’indeterminazione, ha mostrato che le cose non sono così fisse in natura e che c’è molto più di ciò che si vede a occhio nudo (il che, incidentalmente, il coronavirus ha evidenziato molto vividamente con tutto il nostro frenetico lavarci le mani) la cultura convenzionale continua a basarsi su principi laici se non chiaramente atei, basati su costrutti occidentali arbitrari postulati da filosofi di tendenza aristotelica. Ancora oggi nel mondo occidentale una contraddizione è percepita come un grave faux pas in quasi ogni contesto. Ciò è dovuto alla legge di non contraddizione, o la seconda legge tradizionale, definita da Aristotele nella sua metafisica: “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”. Mentre tale “assioma” è utile in un tribunale e in molte altre applicazioni terra terra, non dovrebbe mai essere stato frainteso per una legge che governa l’universo. La natura, infatti, è piena di contraddizioni, e gli eventi più importanti nella vita sono quelli che vanno contro le statistiche.

Ho finito Braking Bad grato alla Apple TV per la sua funzione di avanzamento veloce, e con la sensazione che i suoi autori siano sprovvisti culturalmente e matafisicamente falliti.

 

 

“How many funerals pass our houses? Yet we do not think of death. How many untimely deaths?” Thus wrote Seneca two thousand years ago. Well before him, Plato, discussing Socrates’s death in Phaedo, stated that “the true philosophers are always occupied in the practice of dying.”

 

Death has been at the core of western philosophy, and of all religions and mythologies. We are all burdened with the memento mori, but most of us tend or try to forget it, until we are faced, directly or indirectly, with the inevitability of death. During a time of pandemic, the memento mori, having assumed the form of a virus, becomes acute, as we are all anxious about our wellbeing and that of our loved ones. Since the pandemic has also come with a lockdown, we have found ourselves with a lot of time on our hands. In addition to reading, writing, listening to music and cooking unusual recipes, I have been binging on a few TV series. Breaking Bad, which has won more awards than any other production ever, and which has been immensely popular, seemed like a good starting point. I can now argue that it can be viewed as a representation of western culture at the dawn of the 21st century.

 

Various are the themes in it that I find emblematic. The memento mori suddenly becomes very pressing in the mind of Walt, the high school chemistry teacher, as he is diagnosed with stage 3, inoperable lung cancer. About a hundred years before, Thomas Mann treated the problem of illness and impending death in Der Zauberberg (The Magic Mountain) in philosophical and metaphysical fashion, with each main character in the sanatorium impersonating a different philosophical strain. Early on in the 21st century, Vince Gilligan and the other creators of Breaking Bad handle the same theme of illness and impeding death with the resolve, on the side of Walt, of becoming a maker of methamphetamine.

 

American pragmatism—as the impecunious Walt intends to leave behind funds for his wife and two children—in lieu of ontological and eschatological reflections. To a lifelong student of comparative religion, mythology and philosophy, such a choice seems astonishing. But then, is it fair to compare Thomas Mann to Vince Gillian and his associates? The milieu of post WWI Europe to that of the US in the early 21st century? Is it even fair to compare a literary magnum opus of immense breadth to a TV series? Judging from what critics have written about the latter, I suppose it is, as they took Breaking Bad very seriously. Presumably also because there are elements in it of what nowadays is understood as “literary fiction” (my views on this subject are delineated in the essay The Decline and Fall of Literary Fiction”). The time dedicated to the methamphetamine motif—its production and distribution and all the unsavory yet colorful characters that such activities entail—is more or less equal to the time devoted to the dynamics of Walt’s family: his wife, two children, brother-in-law and sister-in-law. And such dynamics are developed in the style of what nowadays passes for literary fiction: plenty of angst and complications that aspire to the universality of Shakespeare or Cervantes, but rest on very inadequate shoulders. Walt and Hank, his brother-in-law, are no Hamlet or Don Quixote. Ordinary people cannot deal with philosophical problems simply because, well, they are unaware that philosophy exists, as the vast majority of Americans.

 

But then, isn’t philosophy intended just for an elite? Calderón de la Barca’s play La vida es sueño (Life is a dream), was extremely popular when it premiered in 1635 and has remained in the theater repertoire ever since as a timeless classic. Its main motifs are distinctly philosophical: the religious theme prevalent in people’s life at the time, which was free will versus predestination; and the concept of life as a dream, which can be found in Hinduism, Buddhism, Heraclitus, Plato and, closer to de la Barca’s times, in Descartes’s unsettling dream argument. Too high-flung for the ordinary spectator? Judging from the play’s success, Spain’s Golden Age must have produced some sophisticated audiences.

 

Back to Albuquerque and narco undertakings. Breakind Bad is larded with improbabilities from the beginning: Walt, as a young man, was a genius, but then turned out to be an underachiever for reasons that are not explained satisfyingly, or in fact at all; his brother-in-law is, conveniently for the plot’s suspense, a DEA agent; Walter, Jr., Walt’s and his wife Skyler’s teenage son, has cerebral palsy; Skyler gets pregnant in her forties, and although it is an unplanned pregnancy and both she and Walt are thoroughly irreligious, she does not get an abortion.

 

I confess to having been fascinated by Pablo Escobar, a sort of evil Don Quixote, and to have read my share of books about him, chiefly in Spanish, as the gringos seem uniformly unable to comprehend what he was about. Although what Escobar did in his life is proverbially stranger than fiction, and then some, at first there was nothing unusual about him or his family. Escobar was no promising Nobel Prize material, far from it; he came from a family of very modest means, was not starving; he was not burdened with an ill son or an unwanted pregnancy—which makes his pursuit of fabulous riches in the face of everything that stood in his way all the more inexplicable. In other words, compared to the real thing, Breaking Bad reeks of arbitrariness.

 

Skyler, the long-suffering wife, merits a separate mention. Countless viewers have seen in her the archetype of the whiner, the nag, the shrew. And whine she does! Mercifully, the fast-forward feature has spared me most of her petulancies. But this is a common problem in graphic crime stories: they have little room for women, who either whine ad nauseam, or ape men, not very convincingly. Crime stories about narco-trafficking are distinctly male; they feature heroes and villains, the latter far more engaging, and a grey zone in between.

 

An extraterrestrial watching Breaking Bad would conclude that western culture in the early 21st century has become entirely atheistic. In five seasons, for a total of sixty-two episodes and a cumulative duration of sixty-two hours, i.e., two days and fourteen hours, there are two mentions of God or religion: after the collision between two planes over Albuquerque, a girl in Walt’s high school asks, paraphrasing, How could God allow this to happen? And the principal cuts her short exhorting her and all other students to keep things secular; and two Mexican hitmen are shown slithering along with some peasants towards a hut in the desert that contains symbols of Nuestra Señora de la Santa Muerte, a female saint in Mexican folk Catholicism. Other than that, nothing. This sampling of humanity, the extraterrestrial would relate back to his peers, has no place for gods or religion, save for killers and peasants who hail from a more primitive society.

 

In a story whose raison d’être is the imminence of death and what Walt can do in response to it, there is no God, no praying, no religion. In a context ripe for ontological and eschatological probing, there is absolutely nothing of the sort. As an unwitting, belated appendage to existentialism, man is portrayed in his helplessness in a chaotic and meaningless universe. Descartes, the Enlightenment, Marx, Darwin, Wittgenstein and finally the Vienna Circle worked alacritously at the annihilation of metaphysics—with Rudolf Carnap who formally rejected them as meaningless because metaphysical statements, he stated, could not be proved or disproved by experience—and succeeded triumphantly. While science, inter alios with Heisenberg—ironically, since that is Walt’s nom de guerre in the series—who gave the world his uncertainty principle, has shown that things are not so fixed in nature and that there is much more than meets the eye (which, incidentally, the coronavirus has brought home very vividly with all our frantic handwashing), mainstream culture continues to hang on to secular if not outright atheistic principles based on arbitrary western constructs postulated by philosophers of an Aristotelian slant. To this day, in the western world a contradiction is perceived as a grave faux pas in just about any context. That is because of the law of non-contradiction, or the second traditional law, defined by Aristotle in his Metaphysics as, “One cannot say of something that it is and that it is not in the same respect and at the same time.” While such an “axiom” is useful in a court of law and in many other such pedestrian implementations, it should never have been misconstrued for a law governing the universe. In fact, nature is full of contradictions, and the most relevant events in one’s life are the anti-statistical ones.

 

I came away from Breaking Bad grateful to Apple TV for its fast-forward feature, and sensing that its authors are culturally underprovided and metaphysically bankrupt.

 

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Considerazioni su una pandemia

13 Maggio 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #il mondo intorno a noi

Cosa manca nella gestione di questa pandemia? Il buonsenso, quello che in passato abbondava.

E manca il concetto che la malattia e la morte sono fatti naturali. Se tutto questo fosse successo anche solo quaranta anni fa, le cose sarebbero andate diversamente. Forse non ci sarebbe stato neppure un lockdown.

In passato si sapeva che la morte e la malattia, pur orrende e spaventose, fanno parte della vita, sono normali. I bambini a volte morivano, per questo se ne facevano tanti. Il parto era un evento pericoloso e capitava che le donne ci lasciassero le penne. Ci si ammalava di morbillo, di parotite, di rosolia, di varicella. L’influenza magari portava via il nonno.

Ora no. Malattia e morte non sono più accettate. Bisogna vivere, sempre, a ogni costo, tutti. Anche chi ha quasi cento anni, anche chi non sa nemmeno più come si chiama ed è impiagato in un letto. E per vivere tutti, non dobbiamo più vivere nessuno.

Abbiamo fatto bene a stare in quarantena. Avremmo dovuto starci fin da subito, tutti, alle prime avvisaglie. Ma, all’inizio, lo stato aveva paura di prendere decisioni impopolari, mai prese prima. Persino chiudere i voli dalla Cina. Persino non far andare a scuola chi dalla Cina era appena tornato. Neppure non prendere un aperitivo. Poi è arrivato il vero lockdown e a scuola non c'è andato più nessuno. In realtà sempre troppo ridotto, sempre troppo limitato. A Ferragosto chiudono più aziende di quelle che da noi hanno continuato a lavorare anche durante la quarantena. Invece avremmo dovuto stare tutti fermi, paralizzati per quindici, venti, massimo trenta giorni, poi ripartire. Invece si è chiuso progressivamente e lentamente, non si è avuto coraggio, si è arrivati allo stallo giorno dopo giorno, mentre la gente moriva e, da questo stallo, dal pantano, ora non siamo più capaci di uscire.

Abbiamo fatto bene, dicevo, all'inizio. Poi, però, basta. 

Manca il buonsenso. Quello dei vecchi. Quello dei tempi che furono. Quale sarebbe adesso il buonsenso? Tenere chiusi i luoghi di aggregazione: cinema, teatri, discoteche, locali. Non fare feste, non organizzare processioni, concerti, comizi. Per il resto affidarsi al senso comune. Responsabilizzare la gente, trattare gli adulti da adulti. Ok alle mascherine, invito a non raggrupparsi, a non andare troppo in giro, a stare in casa se possibile, a tutelare se stessi e gli altri. Ma non più obbligo. Non più. Perché se questa malattia diventa endemica e continua a circolare per anni non ci si può trasformare in una società di stampo cinese-entomologico, dove lo stato va a impattare in modo paranoico, ossessivo, maniacale in ogni più piccola sfumatura del  vivere quotidiano. Dove lo stato mi dice chi devo vedere, quali sono i miei affetti, se sono stabili o no. Che significa stabili? Magari io odio stabilmente mia nonna ma sono innamorato della dirimpettaia. Che ne sa lo stato? Lo stato che misura i centimetri di distanza che devo tenere da mio marito, che immagina l’ossimoro delle spiagge libere organizzate, che mi fa fare il bagno con la mascherina. Lo stato assurdo, ridicolo, ingerente, ingombrante. Lo stato che rincorre il runner solitario e permette le folle accalcate sotto casa della ragazza rapita.

Lo stato che vuole conciliare l’inconciliabile: la salute pubblica con l’economia.

Lo stato decide che il ristorante non può aver più di quattro tavoli e lo fa fallire. Farebbe meglio a dire la verità, quella che non vuol dire neppure a se stesso. Che non si può avere tutto, che certi ristoranti sono destinati a chiudere. Non puoi tenere aperto il tuo locale, guarda in faccia la realtà, probabilmente la gente non verrà, continuerà giustamente ad avere paura, tu trovati un altro lavoro. Ma non sappiamo rinunciare a nulla. Lo stato ci vuole sani, chiusi in casa, ma anche pronti a spendere soldi per sostenere l’economia.

Lo stato decide che i bambini devono andare all’asilo col braccialetto per segnalare la troppa vicinanza al compagno. Così i bambini imparano che il compagno è pericoloso, che è cattivo, che è il male. Che la maestra non può abbracciarti, non può consolarti se piangi. Che siamo tornati al medioevo. I bambini da sempre si scambiano il ciuccio, mettono le mani nella terra, hanno i pidocchi e i vermi intestinali. È così che si fanno gli anticorpi.

Cosa si può rispondere a una madre che, per salvare la vita a un anziano in stato vegetativo, deve costringere suo figlio a crescere semi autistico e asociale? Prendi un bambino di un anno o due. Prendi mamma e papà che attuano “il distanziamento sociale”, ovvero scansano ogni essere umano, coprendosi il volto con la mascherina. Prendi questo gesto e ripetilo, ad ogni incontro, con ogni persona, anche i parenti stretti, per settimane, mesi, forse anni. Cosa imparerà questo bambino? Come crescerà, quale sarà il futuro della generazione Covid? Con quale coraggio, a fine epidemia, quei genitori potranno dirgli: “Vai, abbraccia il nonno, dagli un bacio”. Un bacio? Abbracciare il nonno? Il bambino li prenderà per matti.

Le cose non vanno bene, non si sta affrontando la situazione con naturalezza, con responsabilità, con normalità. Si sta impattando nella vita della gente in modo compulsivo, violento, assurdo, a colpi di centimetri, di plexiglass, di droni, di robot, di autocertificazioni e moduli risibili.

Una malattia è una malattia, gestiamola come le malattie del passato che sì, magari hanno fatto milioni di morti, ma la morte è naturale. Non siamo invincibili, non siamo eterni, non siamo esenti dalla sofferenza. Non sfuggiremo alla sofferenza nemmeno chiudendoci per due anni in casa con un sussidio statale, nemmeno distanziandoci col metro. Soffriremo, ci ammaleremo, moriremo, ma, almeno, lo faremo senza costrizioni, senza depressioni, senza schizofrenia e paranoia, senza la maledetta e impossibile voglia di controllare tutto. Senza delirio di onnipotenza.

  

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Dissipatio H.G. ai tempi del virus

1 Maggio 2020 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #recensioni, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Di Guido Mina di Sospiro

Tradotto da Patrizia Poli, originalmente pubblicato da New English Review

 

Immaginiamo un adolescente cervellotico che ha studiato troppa filosofia e troppo latino e, in generale, ha esercitato il cervello troppo per il suo bene. È diventato così maladattato al luogo e al tempo in cui vive che vorrebbe leggere un libro intitolato Contro la società: manuale di autodifesa per solipsisti. Invece s’imbatte in una nuovo testo Dissipatio H.G., di un certo Guido Morselli, pubblicato postumo. Morselli, come s’è venuto a sapere, era un collezionista di rifiuti; beatamente apolitico, sebbene gli editori conoscessero sia lui sia il suo considerevole talento, lo rifiutavano in serie poiché non apparteneva alla conventicola di sinistra.

Il titolo sta per Dissipatio Humani Generis, una frase estrapolata dagli scritti del filosofo neoplatonico Giamblico, uno dei più colti uomini del suo tempo, a cui si attribuivano anche poteri miracolosi; significa, la scomparsa dell’umanità.

Il narratore, un intellettuale lucido, ipocondriaco, “fobantropo” più che misantropo, decide di affogarsi in uno stagno dentro una caverna in alta montagna. Ma, una volta là, cambia idea, e ritorna al suo chalet.

Alla fine scoprirà che l’umanità, dopo che lui ha cambiato idea circa il suicidio, è svanita. L’umanità è ora rappresentata da l’unico componente rimasto, un uomo che stava per lasciarsela alle spalle e che non aveva mai sentito di farne parte.

Così ha inizio un monologo – filosofico, ontologico ed escatologico – in uno sfondo di assoluto silenzio, a parte pochi rumori causati dagli animali o da macchine che continuano a funzionare. Presto il suo monologo si trasforma in un dialogo con i suoi ricordi e poi con tutte le persone svanite.

Il supremo solipsista finisce a desiderare disperatamente gli esseri umani.

Questo fu l’ultimo libro di Morselli. Lo stesso, a differenza del protagonista di Dissipatio H. G, non cambìo idea all’ultimo momento ed effettivamente si suicidò poco dopo che anche questo manoscritto fu rifiutato.

Guido Morselli era stato rifiutato da tutti, compreso Italo Calvino quando quest’ultimo era editor per la casa editrice Einaudi. Tutti gli scrittori sanno che una lettera di rifiuto è una comunicazione laconica, al massimo due o tre righe. Gli editori non sono tenuti a motivare il rifiuto, né ci si aspetta che lo facciano. Calvino aveva rifiutato un altro romanzo di Morselli, Il comunista, con una lettera paternale che è stata conservata: a priori (a causa di un preconcetto ideologico che Calvino ammise espressamente), e anche perché non gli piaceva abbastanza. Infatti, stroncò il manoscritto, non senza toni condiscendenti: “Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli.”.

Dopo la morte di Morselli, le Edizioni Adelphi, la casa Editrice mainstream con gli orizzonti più vasti, fece uscire i suoi libri. Incontrarono il successo della critica e del pubblico. Io ero amico dei figli del leggendario editore Mario Spagnol. Mi ricordo che, al tempo, mi disse a proposito di Dissipatio H. G.: “Sebbene sia un buon libro, sta vendendo bene” *

Ora che siamo costretti a vivere nell’isolamento e nella paura, le sue pagine offrono un inquietante contrappunto alle nostre riflessioni, e alla difficoltà di addormentarsi la notte, quando pensieri non richiesti fanno capolino nella mente. Il grande solipsista, asociale, egocentrico e agorafobico, passa le sue giornate a cercare almeno un sopravvissuto come lui, mentre gli animali e le piante cominciano a riprendersi il pianeta abbandonato.

 

*Dissipatio H.G. di Morselli sarà pubblicato in inglese da New York Review Books Classics il primo dicembre 2020, col titolo Dissipatio H.G.: The Vanishing

 

Let’s imagine a brainy teenager, one who has studied too much philosophy and too much Latin and in general has exercised his brain too much for his own good. He has become so acutely maladapted to the place and time in which he lives, he wishes he could read a book entitled: Against Society: a Manual of Self-Defense for Solipsists. Instead, he stumbles upon a new release: Dissipatio H.G., by one Guido Morselli, published posthumously. Morselli, as it transpired, was a collector of rejections; blissfully apolitical, publishers knew of him and of his considerable talent, but rejected him serially because he did not belong to the left-leaning “clique”.

 The title stands for Dissipatio Humani Generis, a sentence excerpted from the writings of the Neoplatonist philosopher Iamblichus, one of the most learned men of his age, also accredited with miraculous powers; it means, the vanishing of humankind.

 The narrating protagonist, a lucid, hypochondriac, “fobanthropic” more than misanthropic intellectual, decides to drown himself in a pond inside a cave high up in the mountains. But once there, he changes his mind, and walks back to his cottage.

 He will eventually discover that humankind, after he changed his mind about committing suicide, has vanished. Humanity is now represented by its single remaining component, a man who was about to leave it behind and who never felt that he belonged in it in the first place.

 Thus begins a monologue—philosophical, ontological and eschatological—with nothing but absolute silence as a background, except for a few noises caused by animals or by machines that keep on working. Soon his monologue turns into a dialogue, with his memories and then with all the vanished people.

 The ultimate solipsist ends up longing desperately for humans.

 This was Morselli’s last book. Unlike the protagonist in Dissipatio H.G., he did not change his mind at the last moment and did commit suicide shortly after this manuscript, too, was rejected.

 Guido MorselliMorselli had been rejected by everyone, including Italo Calvino when the latter was an editor at the publishing house Einaudi. All writers know that normally a rejection slip is a laconic communication, two, three lines at best. Publishers are neither obliged nor expected to offer any reason for their refusal. Calvino rejected another novel by Morselli, The Communist, with a lecture of a letter that has been preserved: a priori (owing to an ideological bias to which Calvino explicitly admitted), and also because he didn’t like it enough. In fact, he buried the manuscript, and not without patronizing overtones: “Where every element of verisimilitude goes missing is when we are inside the Communist Party; let me tell you as much, I who know that world at its every level.”

 After Morselli’s death, Edizioni Adelphi, Italy’s mainstream publishing house with the greatest latitude, brought out his books. They met with critical and commercial success. I was friends with the two sons of the legendary publisher Mario Spagnol. I remember his telling me at the time apropos Dissipatio H.G.: “Although it’s a good book, it’s selling well.” *

 Now that we are forced to live in isolation and in fear, its pages offer an eerie counterpoint to one’s thoughts, and difficulty in falling asleep, at night, when unbidden vagaries intrude upon one’s mind. The preeminent solipsist, asocial, self-absorbed and agoraphobic, spends his every day looking for at least one fellow survivor, while animals and plants alike start taking over the abandoned planet.

* Morselli’s Dissipatio H.G. will be published in English by New York Review Books Classics on  December 1st, 2020 under the title Dissipatio H.G.: The Vanishing.

 

 

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Cinzia Diddi sostiene Prato

29 Aprile 2020 , Scritto da Claudio Belgiorno Con tag #cinzia diddi, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Raccolta alimentare del 1 Maggio 2020 all'insegna del tricolore italiano: dona pasta, passata di pomodoro e basilico e aiuteremo le famiglie più bisognose in questo difficile momento.

L’idea nasce sui social, proprio per il giorno della Festa dei Lavoratori, il nostro paese fondato sul lavoro, lavoro che in questo momento manca a tante famiglie a causa di questa pandemia. Il nostro piccolo gesto per regalare un sorriso e un aiuto a chi in questo momento ha bisogno.

“Ci siamo prefissati l’obbiettivo iniziale di 1 tonnellata, ma grazie alla generosità dei pratesi, dopo soli 5 giorni siamo arrivati a 1,5 tonnellate e le chiamate continuano ad arrivare. Siano entusiasti e molto orgogliosi di questo ottimo risultato, ma possiamo fare ancora di più.” Claudio Belgiorno

 

Le storie più belle di questi giorni: La Famiglia di Francesco Di Fiore, ex Campione Italiano, ha aderito all’iniziativa donando oltre 200 kg di Pasta e 100 kg di Passata di Pomodoro.

Una telefonata dalla Signora Carla, classe 1950, che, insieme ai condomini di via Caboto, quando siamo andati a ritirare, ha calato il cestino pieno di pasta e passata di pomodoro direttamente dal suo terrazzo, donazione fatta insieme a tutti i vicini affacciati con tanto di tricolore sui propri balconi, “è da 50 giorni che non usciamo ma abbiamo voluto contribuire alla raccolta alimentare Pasta Tricolore”.

La stilista pratese Cinzia Diddi, nota alla cronache non soltanto per il suo Luxury brand ma anche per essere la stilista dei vip, partecipa e sostiene questo progetto solidale con la donazione di pasta.

"Sono fiera di prendere parte a questa iniziativa. Donare rende migliori e fa bene al cuore." Queste le parole di Cinzia Diddi.

Gli alimenti raccolti entro il week end saranno divisi e consegnati all'Onls Stremao, alla Misericordia di Iolo, alla raccolta alimentare dei Giannini di Iolo, oltre a 20 parrocchie del territorio pratese, il tutto documentato da foto e video.

 

COME FARE A DONARE E A FISSARE LA CONSEGNA:

Per contribuire alla nostra raccolta, contattaci ai seguenti numeri telefonici per i punti raccolta:

 

Claudio Belgiorno 348.9106873 Carlo 339.5086543 Antonio  347.8237699 Emiliano 331.6559861 Alessio 347.3354662 Luca 345.7827998 Alessandro 338.7013295 Elena 339.5086543

 

Venerdì 1 Maggio, in occasione della consegna ufficiale degli alimenti, invitiamo anche il Sindaco a partecipare a tale iniziativa.

 

Claudio Belgiorno

 

 

 

 

 

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La vita (sempre più) agra

27 Aprile 2020 , Scritto da Otello Marcacci Con tag #otello marcacci, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

E’ passato ormai quasi mezzo secolo dalla morte di Luciano Bianciardi ma ancora oggi molti di noi, che lo considerano uno dei geni assoluti della nostra letteratura, fanno fatica a farsene una ragione. Capita così che torniamo a leggere le sue pagine non solo per il gusto che la sua prosa ricca e profonda riesce a darci, ma anche per trovare chiavi di lettura inedite che ci permettano di orientarci nella vita di tutti i giorni. Il caos e la paura che di questi tempi ci attanagliano le viscere, infatti, non riescono a trovare antidoti che ne leniscano il dolore. Difficile trovare un politico, religioso o filosofo che abbia davvero chiaro cosa ci vorrebbe per riuscire a sopravvivere a un mondo pieno di antinomie e non-sense. Soprattutto nessuno sembra in grado di essere luce per chi vuole ancora ribellarsi allo status quo dove la salvezza personale è venduta come qualcosa di totalmente slegato da quella dei propri simili.

Se è vero che il mondo in cui è vissuto Bianciardi è distante anni luce da quello che caratterizza questa epoca segnata dalla pandemia, da uno stato di polizia sempre più invasivo e dalla caccia all’untore da additare al pubblico ludibrio, paradossalmente, mutatis mutandis, è anche molto simile a quello che lui in qualche modo ha descritto nella sue pagine più note. La diseguaglianza sociale, ad esempio, che tanto gli stava a cuore non è sparita ma, anzi, è arrivata a livelli intollerabili e il gap tra ricchi e poveri si è ampliato a livelli di vergogna. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è qualcosa a cui abbiamo fatto l’abitudine al punto che non ci turba più quando qualcuno ci obbliga a farci i conti con qualche libro o reportage televisivo. La civiltà pare ancora oggi anestetizzata dal panem et circenses che il potere costituito continua a propinarci da millenni. Le persone sedotte dal potere di qualche elemosina che si crede possa mettere al sicuro il proprio orticello incurante se in quello dei vicini sta arrivando lo tsunami. Insomma, i temi ai nostri tempi sono sempre quelli dell’epoca bianciardiana, al punto che sembra quasi che l’essere umano cerchi di fare del proprio meglio per non riuscire ad imparare mai la lezione. L’evoluzione e il progresso non sanano mai il peccato originale che sta alla radice di ogni male. La ricostruzione industriale post bellica è stato un tempo di grande sviluppo economico e sociale dove bastava soltanto un po’ di buona volontà per poter riuscire ad emanciparsi da situazioni drammatiche. Eppure anche allora c’era chi per i più svariati motivi non ci riusciva e veniva lasciato ai margini della società capitalistica. I diversi e gli outsider considerati sfasati o buoni a nulla da mettere alla gogna. Oggi la situazione è diametralmente diversa in termini di condizioni di partenza, dato che il mondo occidentale è costretto ad accettare che il mercato non è più (se mai lo è stato) il DIO che comanda ogni cosa e che, con mano invisibile, mette a posto e in equilibrio tutto, come sosteneva Adam Smith. Ai nostri tempi riuscire a farcela è terribilmente più complicato di quando scriveva il grossetano ma le responsabilità dei governi nel non riuscire ad adottare misure efficaci per contrastare l’incremento incredibile di diseguaglianza sta generando centinaia di migliaia di nuovi poveri che si aggiungono alla massa di coloro che già vivono nell’indigenza da sempre, sono le stesse. Servizi essenziali che tutti diamo per scontati come sanità e istruzione sono ridotti ogni anno di più mentre le grandi multinazionali continuano a produrre ricavi proprio sfruttando queste inefficienze dello Stato spesso anche grazie a trattamenti fiscali privilegiati.

Sono passati cinquant’anni dai tempi di Bianciardi, dicevo, e, per la velocità con cui ha preso a viaggiare il mondo, si può dire senza temere di essere smentiti che trattasi di un’era geologica, eppure niente pare sia davvero cambiato nella sostanza, se non la rappresentazione dei fenomeni di come interpretiamo la realtà, avrebbe detto Kant. Questa considerazione è una delle cose che stanno alla base del mio romanzo Tempi supplementari, Ensemble, 2020. Ogni cosa è diversa, pure noi che abbiamo vissuto gli anni settanta e che credevamo negli ideali di allora, destra o sinistra che fossero, siamo diversi. Tutto ciò che ci viene detto in televisione o nei giornali, e pure il modo con cui ce lo comunicano, è diverso, ciò nonostante nella sostanza non è cambiato niente. Il gattorpardismo nella sua massima espressione. Sono certo che Tomasi di Lampedusa ne sarebbe orgoglioso. Noi che abbiamo una coscienza civica, o meglio, che crediamo di averne una, ci poniamo almeno delle domande che molti altri menefreghisti evitano come il peccato. Ma siamo poi davvero migliori di loro? Cosa facciamo per cambiare quello che ci circonda se non scuotere la testa per dire: “Questo non è giusto”?

Sono certo che questo punto sia stato quello che ha fatto fare corto circuito alla psiche di Bianciardi. In altre parole credo che si sia posto lo stesso problema che sto affrontando: cosa sto davvero facendo io? Scoprire che ci interessa più la nostra gloria personale e la salvezza dei nostri congiunti che quella dei nostri simili può essere devastante al punto che la sua risposta finale è stata nichilista ed autodistruttiva, come si addice a una persona di grandissima sensibilità e cultura. La presa di coscienza che è (quasi) impossibile uscire dalle antinomie alle quali accennavamo in precedenza ha portato alla follia menti eccellenti che hanno provato a guardare il demonio negli occhi.

Questo clima di “Si salvi chi può” che in inglese si dice “Run for your life”, ci rende tutti soltanto più cattivi ed egoisti e preoccupati soltanto di rubare una pagnotta per sfamare i nostri figli che ci aspettano a casa. Io allora dico, citando di nuovo Luciano Bianciardi, “Riapriamo il fuoco”, non corriamo come galline spaventate. Fermiamoci. Prendiamo coscienza che possiamo anche dire NO qualche volta. Possiamo ancora salvare qualcosa di quello in cui crediamo. Almeno la nostra anima.

Io ci credo. Io ci credo ancora.

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Tanti sassolini nella scarpa

7 Aprile 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #il mondo intorno a noi

Poiché è meglio un’autentica cattiveria che una falsa bontà, mi pare giunto il momento che qualcuno dica la verità. La verità scomoda, sgradevole, che pure Gesù c’è morto per dirla.

Oggi è esattamente il mio quarantesimo giorno di clausura. La mia quarantena autoimposta.

Da mercoledì 4 marzo, da prima di qualsiasi ingiunzione governativa, non metto il naso fuori del cancello del condominio, nemmeno un minuto, nemmeno per fare la spesa o “pisciare” il cane. A queste cose pensa mio marito.

All’inizio fu il focolaio in Cina. Io non mi preoccupai. Ho cinquantotto anni e di epidemie ne ho viste tante. Ho fatto l’Aids, Ebola, la Sars, la suina e l’aviaria. Persino la mucca pazza. Passerà, mi sono detta, la fermeranno come tutte le altre. Non è stato così. Ho cominciato a subodorare che qualcosa questa volta non andava, forse per intelligenza, forse per intuizione.

Il 22 di febbraio mando un messaggio a Tizia: “Pensi sia il caso di vederci stasera a cena?”

Risposta: “Non ci si può mica chiudere in casa.” Ok, la cena è prenotata, vado. Il ristorante è affollatissimo, c’è uno che tossisce e starnuta. Io sto con l’ansia.

Il 29 febbraio arriva una foto di un piatto di pappardelle al ragù di un ristorante di montagna. Tizia scrive: “Voi quarantena, noi queste”.    

 Il 4 marzo devo accompagnare mia madre a fare una tac in clinica. Vado, faccio la tac e torno a casa di corsa. Non ne uscirò più.

Il 6 marzo posto su fb uno dei primi disperati appelli di una rianimatrice che ci esorta a stare a casa perché la terapia intensiva sta già collassando. Caia mi dice, testuali parole, “è una psicopatica.” Quella sera mio marito va a cena dalla figlia e dalle nipotine. Io resto a casa. Ho mal di testa da tre giorni, non voglio eventualmente contagiare nessuno

Il 7 marzo ancora Caia: “Noi oggi bellissima passeggiata sul fiume e tortelli di XXX”.

Il 9 marzo il governo chiude La Lombardia e il giorno successivo, mi pare, chiude anche tutta l’Italia.

Io in casa, triste, mogia, soprattutto spaventata a morte dal virus. Mi telefona Sempronia: “Non c’è da preoccuparsi, è tutta una montatura dei giornalisti”..

Da allora sono passati tanti giorni e i decreti si sono succeduti ai decreti.

Io sempre ligia e sempre a casa, a cercare di dare un senso alle giornate, ad ascoltare le informazioni sempre più controverse e, alle 18, come tutti, il bollettino dei morti. E la fila dei carri al crematorio. E la gente che racconta il girone dantesco dell’intubazione, della pronazione. Ad ascoltare ogni più piccolo segnale del mio corpo per capire se sta per addentarmi il mostro. A fare da cameriera agli altri della famiglia. Perché, se manco io, qui si va a rotoli. A scrivere un intero romanzo, almeno per credere che tutto questo mi sia servito a qualcosa.

E altri giorni passano. E i provvedimenti si susseguono, sempre meno seri, sempre più isterici e ridicoli. E piovono da tutte le parti. Da Conte che, poveraccio, è sfinito, sta facendo quello che può per arginare una situazione che gli è sfuggita di mano e che non ha avuto il coraggio di bloccare quando era il momento. Perché, per carità, meglio che muoiano le persone piuttosto che qualcuno venga considerato, non sia mai, razzista. E piovono dai presidenti delle regioni, ché almeno ci si ricordi anche di loro, visto che prima manco ne conoscevamo il nome. E piovono dai sindaci, che diventano sceriffi e si atteggiano a salvatori della patria.  Assurdi, nevrotici. Non puoi portare il cane oltre cento metri da casa. E se io ho un muro davanti a casa mia? Non puoi sedere in auto a fianco di quello stesso marito con cui dividi il letto, la tazza del water e la tavola. Non puoi far prendere una boccata d’aria al bambino.

Ecco, io comincio ad agitarmi, a stare male, a pensare che stiamo esagerando, perdendo il cervello e il buon senso. Penso che il giusto sta sempre nel mezzo, che, se uno fosse equilibrato, non ci sarebbe bisogno di polizia e deliranti autocertificazioni che cambiano ogni giorno.

Ma il governo deve spostare la colpa da se stesso, dalla propria iniziale dabbenaggine, al comune cittadino. Così si fa la caccia alla mamma col passeggino, al signore che porta giù il cane, a quello che vuole respirare un po’ d’aria. Diventano loro gli untori, il pericolo pubblico. Gli assassini. E cominciano a circolare foto truccate di falsi assembramenti, prese ad arte in vicoli stretti e con l’obbiettivo schiacciato. Per dimostrarci quanto siamo stupidi, infantili e cattivi.

Ma c’è anche chi sta in un condominio che dà su una chiostra puzzolente piena di topi, c’è chi non ha uno straccio di balcone nemmeno per cantare l’inno di Mameli. C’è chi ha bisogno di un poco di respiro.

E il mio disagio cresce. E penso che non mi va di uscire due minuti, entro il raggio di cento metri, con una mascherina che mi toglie il respiro e mi appanna gli occhiali, col rischio che un poliziotto – categoria che non ho mai amato – mi chieda i documenti come fossi una delinquente.

E i giorni di prigionia aumentano e mi sento soffocare e comincio a capire che Cacciari e Crepet hanno ragione: la casa è un inferno. La convivenza forzata è un incubo, le stanze sono celle, le famiglie sono covi di serpi che non possono districarsi dal groviglio e scappare.

E comincio a desiderare la mia vita di prima, a sentire una straziante nostalgia per la mia libertà, la libertà di scegliere di rimanere a casa a scrivere il mio libro. Ma anche di uscire all’aria aperta, al sole, ad annusare l’odore del mare. Con la bocca e il naso liberi. Senza disinfettante.

Io pratico il distanziamento sociale da quando sono nata. La vita mondana non mi manca. Non mi mancano le cene forzate con le persone che non ho voglia di vedere. Non mi manca giocare a carte. Non mi manca nemmeno la retorica degli abbracci. Mai andata in giro ad abbracciare la gente e, quando mi baciavano sulle guance, di nascosto mi sono sempre pulita anche in tempi non sospetti.

Mi manca piuttosto prendere il mio cane, varcare il cancelletto del condominio e uscire sola, libera. LIBERA. Senza autocertificazioni, senza documenti in tasca. Libera di stare fuori quanto voglio, ben distanziata da gente che, comunque, in ogni caso non mi andrebbe di incontrare.

E quando il mio cane mi guarda incredulo, invitandomi a superare quel cancello che ormai è diventato una barriera psicologica, mi si strazia il cuore. Sì, si strazia per quello e non per i 16000 morti.  

Io non credo alla solidarietà, a quelli che, nel momento del bisogno, tirano fuori l’Italia migliore. Io credo alla verità e la verità è fatta di meschinità, di egoismi, di cattiveria. E ognuno pensa a se stesso. Io penso a me stessa. Alla mia vita che non c’è più. Al mare, all’aria aperta, a un aereo da prendere per andare all’altro capo del mondo.

Ed ecco che Tizia, Caia e Sempronia insorgono. Si fanno improvvisamente paladine dello stare in casa, della repressione di ogni libertà, della quarantena infinita e felice. Diventano accanite. Fanno la caccia al vicino che esce troppo, controllano quanti bambini sono fuori. Sì, proprio loro, quelle che andavano a cena al ristorante e che sono rimaste a casa solo perché ce le hanno costrette.

E allora, oltre alla tristezza per un futuro che non sarà mai più quello che avevamo, oltre alla paura di morire sola e intubata, il sentimento che adesso mi pervade è la RABBIA. Violenta, acre in bocca, verde come bile. Rabbia e senso d’ingiustizia per quello che mi è stato tolto, per questi arresti domiciliari che sconto incolpevole. Rabbia contro le imposizioni, i divieti a raffica, la polizia sotto casa, i droni, gli elicotteri e le persone che mi dicono di pensare a chi sta peggio.

C’è sempre chi sta peggio. Anche mentre voi andavate bellamente al ristorante ogni sacrosanto sabato sera, c’era chi stava peggio, chi moriva di cancro, straziato dai dolori, chi finiva sotto una macchina, e, magari, non aveva nemmeno 90 anni, non sbavava e si cacava addosso, magari era giovane e aveva figli piccoli. Ma questo non v’impediva di uscire a divertirvi, perche “non ci si può mica chiudere in casa”. Eh, no, certo.

Ah, e l’enfasi dei vecchi che stanno morendo nelle case di riposo, dove la mettiamo? Familiari disperati che non possono vederli. Ma se davvero ti stava a cuore il nonno, non lo abbandonavi, te lo tenevi in casa e gli cambiavi il pannolone piscioso, che si sa che in quei posti ci vanno a morire.

Però chi, come me, dice la verità ora è diventato ai vostri occhi un irresponsabile. E la verità è che ci sta capitando un trauma, una tragedia cosmica, e non esistono le famiglie della Vodafone, quelle alacri, attive e felici di incontrarsi su internet. O quelle che impastano gioiose perché, finalmente, hanno trovato il lievito per farsi il pane e la crostata. Quelle che non vedono l’ora di abbracciarsi. Quelle che fanno ginnastica e annaffiano i gerani. Quelle che sorridono alle telecamere dal divano. Telecamere, che, per inciso, sono le uniche ammesse là dove si muore da soli, dove a nessun congiunto affranto è permesso entrare.

Diciamola la verità. Che su quel divano bisogna pur starci e ci staremo finché dovremo, ma senza sorriso sulle labbra, senza aria da salvatori della patria. Che, secondo come andrà finire, dopo tutti questi sacrifici odiosi, manco la nostra di pellaccia salveremo.  

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Cinzia Diddi e Serena Baldaccini insieme a Nicola Giotti: parola chiave arte e Solidarietà

4 Aprile 2020 , Scritto da Antonella Daloiso Con tag #cinzia diddi, #arte, #il mondo intorno a noi

Cinzia Diddi e Serena Baldaccini insieme a Nicola Giotti: parola chiave arte e SolidarietàCinzia Diddi e Serena Baldaccini insieme a Nicola Giotti: parola chiave arte e Solidarietà

 

Uova aerografate con dipinti di Picasso e di Josè Van Roy Dalì. Omaggio anche a Fabrice Quagliotti.

I pezzi unici saranno messi all’asta, in un ideale gemellaggio, da “Insieme si può” fondo di raccolta  istituito dalla Stilista Cinzia Diddi in Toscana e dalla “Associazione Gabriel" a Bari per raccogliere fondi da donare agli ospedali di Firenze, Prato, Pistoia e Bari

 Queste le parole di Nicola Giotti.

Se qualcuno mi chiedesse se ci sia o meno un aspetto positivo in questo Covid 19, che sta flagellando il mondo, saprei cosa rispondere senza esitazione. Direi senz’altro di si. Quello che fa la differenza è, infatti, la corsa alla solidarietà, quella vera, quella che non ha confini. Quella che ci rende tutti cittadini di un unico cielo.

L’aerografo di Giotti, da Giovinazzo, si sposta a Nord con due donazioni: la prima è un uovo speciale che riporta il ritratto di Josè Van Roy Dalì insieme alla sua musa, Serena Baldaccini, holder del blog magazine Stay Star music blog and more. L’immagine è stata prestata dalla stilista fiorentina Cinzia Diddi e da una collezione di prossima uscita di T-shirt Limited Edition, dedicata al maestro.

L’uovo di Nicola Giotti verrà messo all’asta e devoluto a “Insieme si può”, la raccolta fondi attivata dalla stessa Cinzia Diddi, coadiuvata da Serena Baldaccini, con l’obiettivo di raccogliere fondi per acquistare macchinari e dispositivi di protezione a pazienti e operatori sanitari di strutture ospedaliere di Firenze, Prato, Pistoia.

Ma per questi tre ospedali e per “Insieme si può”, il contributo di Nicola Giotti non finisce qui, perché ha realizzato anche un secondo uovo, aerografando l’immagine di Fabrice Quagliotti, leader dei Rockets. E’ inutile sottolineare che l’uovo sta già spopolando soprattutto tra i fans della band.

Per saperne di più e per offrire il proprio contributo basterà cliccare sul link: www.gofundme.com/f/b5gb4-insieme-si-puo

E se si tratta di donare Nicola Giotti, pasticcere in Giovinazzo (Bari) - e autore di un magnifico libro dal titolo “Metamorfosi”, a ricordare una famosa mostra di Picasso – è in prima linea. La pubblicazione, racconta la sua arte: l’aerografia, una tecnica particolare, attraverso la quale riporta su uova di cioccolata dipinti dei maggiori artisti del Novecento. Vere e proprie opere d’arte alcune delle quali Giotti ha voluto offrire alla solidarietà. Serviranno, attraverso due aste eccezionali, messe in campo in Toscana da “Insieme si può” e a Bari dalla Associazione Gabriel, per acquistare, da Nord a Sud,  presidi ospedalieri, che in questo periodo non bastano mai. In una sorta di ideale gemellaggio, il cui fil rouge è rappresentato da questi “pezzi unici”, realizzati da Nicola Giotti.

Scendiamo a Sud con la collezione dedicata a Picasso, che consta di cinque uova a rappresentare altrettante opere dell’artista riprodotte con la tecnica indiretta speculare lucida, concepita da Giotti e donate dall’artista-pasticcere alla Associazione Gabriel di Bari, odv per l’umanizzazione delle cure in oncologia. Si tratta di opere di particolare pregio e di grande livello artistico.

La Gabriel, attraverso una asta, patrocinata dal Comune di Giovinazzo - alla quale si può partecipare collegandosi anche alla pagina Facebook “Progetto Gabriel di umanizzazione delle Cure in Oncologia”- raccoglierà fondi (iban:IT51R06909606100000077956) per l’acquisto di mascherine e presidi ospedalieri da donare all’IRCCS e al Policlinico di Bari.

Antonella Daloiso

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