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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Di spalle

31 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

“È tardi, Mario, lasciami andare”.
Si era buttata fuori dell’auto, aveva armeggiato con la serratura, per un attimo la luce aveva illuminato l’androne. Portava una maglia che le stava un po’ grande. Gli era rimasta impressa l’immagine delle sue spalle magre che sparivano dentro il portone.
Le aveva appena chiesto di sposarlo.
“Sabri, aspetta… dove corri? Dimmi almeno sì o no.”
“No.”
Erano gli anni ottanta, gli anni delle prospettive, del futuro ancora aperto. Non l’aveva più rivista.

Fino a questa domenica pomeriggio.
Sta con un’amica, una che lui non conosce, parlano sottovoce nell’intervallo del film. Per ironia della sorte, anche adesso la guarda di spalle. Il top elasticizzato la fascia, c’è uno sbuffo di carne attorno alle bretelline, e dei brufoli rossi sulla pelle.
Sua moglie si agita sulla sedia accanto, accavalla le gambe, poi le scioglie. Mario s’arrabbia, le dà una gomitata. “Smettila, Carla. Infastidisci tutta la fila.”
Carla sospira, s’irrigidisce, ma poi riprende subito le odiose contorsioni sulla sedia del cinema. Sotto le suole dei suoi sandali, bucce di noccioline scricchiolano, e il rumore gli trapana il cranio, mentre fissa Sabrina, senza staccare gli occhi dalle sue spalle ora appesantite, dal laccio del reggiseno che le segna la carne.

Si erano conosciuti ad una di quelle feste in casa, con le ragazze da una parte e i ragazzi dall’altra, le tartine fatte a mano, i dischi di vinile.
Allora non aveva seno, gli occhi si mangiavano tutta la faccia, le gambe erano due stecchi che sbucavano dal vestito. Gli era piaciuta subito, anche con l’ombretto blu sbaffato, anche se per tutta la sera aveva parlato solo di come in Groenlandia si ammazzano i cuccioli di foca a bastonate, anche se lo aveva costretto a setacciare il buffet alla ricerca di qualcosa che non contenesse carne animale. Siccome non c’era nulla, lui era sceso di corsa dall’ortolano all’angolo e aveva acquistato un mazzo di carote. Se lo era fatto incartare per bene - l’ortolano l’aveva guardato come fosse uno scappato dal manicomio - poi aveva rifatto i gradini a due a due. “Per te, Sabrina”, le aveva detto inginocchiandosi.
Si erano messi insieme subito, avevano girato in macchina per la campagna, avevano guardato il tramonto sull’Arno, avevano fatto l’amore nella mansarda di lei, sotto la finestra dalla quale si vedeva un pezzo della Torre Pendente.
Il biglietto che lei gli aveva scritto, non l’aveva capito. Gli era arrivato dopo che si era fatta negare al telefono, che aveva cambiato la serratura della mansarda. Non si parlava d’amore nel biglietto, non c’era scritto se gli volesse bene o no, ma si accennava alla ricerca della felicità, all’impossibilità di fermarsi nello stesso posto e con lo stesso uomo.
Gli erano sembrate frasi da esaltata, da femminista, da matta qual era.
“Una ragazza vale l’altra”, si era detto il giorno in cui aveva sposato Carla, e “un mestiere vale l’altro”, quando gli avevano offerto la cattedra d’inglese alle medie superiori.

Due file più in là, Sabrina alza un braccio per guardare l’orologio, si lamenta dell’intervallo troppo lungo.
Non ha la fede, pensa Mario, non si è mai sposata. O forse è divorziata. Al giorno d’oggi, un matrimonio che regge è raro.
Più tardi, quando escono dal cinema, la vede attardarsi insieme all’amica a leggere il cartellone di un “prossimamente”.
Mario aiuta la moglie a infilare il golfino e il suo profumo acuto gli dà la nausea. Carla è una brava donna, ma qualcosa, pensa, gli sta stringendo lo stomaco, qualcosa che, forse, ha a che fare con la nostalgia, con la gioventù, con tutto ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai più.
Sbatte lo sportello dell’auto con violenza.
“Ho diritto alla felicità”, c’era scritto nel biglietto. Chissà se adesso Sabrina è felice?
Ma…?
Cazzate... Una vita vale l’altra.
Già.
Mario mette in moto l’auto, mentre, intorno, si accendono i lampioni.

“Sabri, lo prendiamo un caffè?”
E Sabrina dice stancamente di sì, che lo vuole anche lei un caffè.
Lo bevono nel bar tabacchi d’angolo, in piedi vicino alla ricevitoria del totocalcio.
“Che facciamo stasera, Sabri? I ragazzi vanno tutti da Luana.”
Sabrina se li figura, i “ragazzi”, riempire il salotto di Luana con la loro allegria stucchevole. Ragionierotti sudati, tardone con l’ombelico scoperto e i gomiti grinzosi. Serate fra single attempati, che ridono sempre delle stesse battute e sembrano contenti, anche se si annoiano a morte.
Se andrà anche lei, fingerà di divertirsi alle solite battute di Giovanni sul sederone della Roberta - che è come riascoltare ogni volta lo stesso nastro - berrà fino a farsi venire il mal di testa, fumerà tutto il pacchetto di sigarette.
Se andrà, poi Giovanni l’accompagnerà a casa ed insisterà per salire. Lei, brilla, non gli dirà di no. Si lascerà toccare dalle sue mani umide, chiuderà gli occhi per non vedere la pancetta, i pantaloni sformati attorno alle ginocchia.
Le consuete voci, sul nastro dell’abitudine.
“No, Bea, non vengo da Luana, stasera, devo avere un po’ di febbre. Ti telefono per domani.”
Si avvia a piedi verso il suo appartamento. Abita al primo piano di un palazzo non lontano dal cinema.
A casa si toglie le scarpe e si distende sul divano. Accende solo la piccola lampada a lato.
Con la sigaretta in bocca, tenta di spiegarsi quel malessere che prova.
A volte, pensa, vorrebbe essere un’altra persona, una qualunque. Magari una bambina, con tutta la vita davanti. Oppure una vecchietta, con l’artrite e gli acciacchi dell’età, ma serena, sicura che i tutti i giochi ormai sono fatti, che non ci saranno più passi falsi, o difficili decisioni da prendere. Sì, una nonnetta di cui altri si facciano carico.
Ed invece è troppo vecchia per essere giovane e troppo giovane per essere vecchia.
La sua vita è un limbo di giornate tutte uguali, dove ci si alza e poi si va a dormire; dove si traducono fax che parlano di fatture e di rimborsi, che nulla hanno a che fare con Shelley o Keats.

Era a questo che si preparava nelle nottate passate a studiare con i compagni di università, lassù nella vecchia mansarda, con accanto il bricco nero del caffè, mentre Mario, seduto in terra, beveva vino e leggeva il manoscritto del suo romanzo a voce alta? Mario era convinto che tutti loro sarebbero diventati famosi, che avrebbero sfondato.
Perché non l’aveva sposato? Se lo era domandata molte volte.
Non che non lo amasse. Lo amava più di quanto poi avesse amato Fabrizio, e Lele e Franco. Certo più di Giovanni.
Era stata la paura a bloccarla. Temeva che, dopo il matrimonio, non ci sarebbe stato altro da aspettare, che l’amore si sarebbe trasformato in abitudine, che avrebbe finito per invidiare i propri figli, giovani, ancora con tutte le strade aperte.
Non aveva voluto più incontrare Mario, si era negata, era partita per Londra. Aveva scarabocchiato un biglietto in cui affermava che cercava la felicità, la libertà, che il matrimonio è borghese.
Balle. In realtà, lei, non voleva vivere.
Si era condannata ad un’eterna giovinezza che si vedeva invecchiare. Finché non avesse raggiunto nulla, finché lei stessa non fosse diventata nulla, s’illudeva di avere ancora una potenzialità di vita. Per non perdere la propria vita, l’aveva rimandata di giorno in giorno, anzi, vi aveva rinunciato per sempre.

Sabrina si accende un’altra sigaretta, poi chiude gli occhi assonnata. Ha un vivo ricordo degli anni dell’università, di come allora fosse avida di emozioni.
Ignora che fine abbia fatto Mario ed ormai non le importa più saperlo.
Non sa se ha agito bene o male, non sa se è mai stata davvero felice, non sa nemmeno cosa intende fare domani.
Probabilmente si alzerà presto, andrà in ufficio e la sera vedrà “i ragazzi”.
A dire la verità, il suo più grande desiderio, in questo preciso momento, ed anche per gli anni a venire, è di smettere di porsi domande come queste.

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Dead man walking

30 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Un penny per i tuoi pensieri.
Pensi alla tua ragazza? Pensi a cosa chiederci per cena? Pensi all’alba che ti ghermisce?
Vedo il tuo braccio, tatuato e forte, i tendini che s’induriscono quel tanto da permetterti di afferrare la bottiglia attraverso le sbarre. I tuoi occhi sono normali, non feroci, non ingenui, non buoni, né cattivi, solo di un comune azzurro infantile.
“Non prendere contatto”, mi hanno insegnato al corso preparatorio, “non personalizzare”, hanno detto gli psicologi.
Ti piscerai addosso, domani? Dovrò sentire l’odore delle tue e delle mie ascelle mescolarsi nel corridoio?
Ci sarà gente, ad assistere, di là dal vetro, gente motivata dall’odio, gente straziata dal dolore. Io non ti odio, tu sei il mio lavoro.
Allora, domani, nel corridoio, penserò alla bambina che hai bruciato viva, penserò a quando ti ha teso le braccia – come hanno detto i testimoni – e ha invocato “aiutami”, mentre tu le gettavi addosso la benzina. Mi chiederò, più e più volte, quanto avrà gridato, quanto avrà pianto e sofferto, me lo chiederò davanti alla tua faccia cianotica, mentre stringerò le cinghie sul lettino.
Ma quando lo stantuffo partirà, e le siringhe caleranno a una a una, io sarò uguale a te, sarò l’uomo che brucia la bambina.
Vorrei non avere pensieri stanotte, vorrei non sognare, vorrei che tu non mi rimanessi inciso per sempre nel cuore. Soprattutto, vorrei non chiedermi se, domani all’alba, quando tu sarai morto, io sarò ancora vivo.

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Vetri

29 Luglio 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #racconto

Percorre gli ultimi metri fino a casa incespicando sul ciottolato e guardandosi attorno con insofferenza. Conta i passi. Poi gira la chiave con le dita che tremano e appena è entrato tira un sospiro rumoroso e si lascia cadere con le spalle contro la porta. Sente il sollievo di essere finalmente al sicuro dagli sguardi e dai sorrisi della gente. Ha soffocato le lacrime per tutto il giorno e il groppo in gola si è trasformato in un dolore insopportabile; la vergogna di avere gli occhi umidi e doversi voltare dall'altra parte per nasconderli gli brucia ancora, ma non ha più voglia di piangere. O forse non ci riesce. La tensione c’è ancora e si è fossilizzata, fredda, come una pietra a metà trachea. Si strofina il viso fra le mani, fino a farsi male, ma non succede nulla.

Apre il frigorifero e prende una birra. La stappa con i gesti consueti, precisi, controllati. Prende un sorso, poi si ferma un attimo in attesa. Guarda la bottiglia, i riflessi di luce sul vetro umido, la gira lentamente fra le dita, la solleva e la scaglia contro il muro. Lo scroscio dei vetri lo fa trasalire e incassare istintivamente la testa. Ma non succede nulla. Il battito cardiaco lentamente riprende un ritmo normale, e la tensione scende.

Va in salotto, si avvicina al televisore. Un vecchio apparecchio col tubo catodico, grande e ingombrante. Ne accarezza docilmente la superficie e il dorso di plastica. Poi ferma la mano, piatta, all'altezza dei fori per l'aerazione, esercita una lieve pressione, una piccola spinta dal gomito e dalla spalla. Il televisore si rovescia lentamente in avanti, cade di faccia, sul pavimento, ed emette un lieve rumore di vetri spezzati, poi quello sottile dell'implosione. Il batticuore torna, ma più leggero e meno fastidioso di prima. Silenzio.

Per un po' rimane immobile al centro della stanza. Il groppo in gola c'è ancora e dalla finestra entra la luce di un crepuscolo grigio e silenzioso, quasi spettrale. Dietro la casa il sole sta lentamente tramontando. Si appoggia con entrambe le mani al tavolino davanti al divano, fa scivolare le dita sotto il ripiano e ne afferra il bordo da due lati. Lo solleva a fatica e lo scaraventa contro la finestra. Il vetro va in frantumi e le petunie sul davanzale cadono. Va a raccoglierle e le getta contro la parete dall'altro lato. Poi prende i cuscini dal divano e li lancia fuori dalla finestra, rovescia il divano contro il muro, strappa l'imbottitura da una poltrona e la getta fuori dalla porta, capovolge la poltrona. Si guarda intorno per qualche istante, prendendo fiato.

Prende tutti i soprammobili dalla libreria e, uno per uno, li scaraventa a terra, rovescia la libreria, e prende a colpirla insistentemente con una delle sedie, fino a spezzarne le gambe. Quindi esita un attimo, solleva la sedia e la sbatte con tutta la sua forza contro il lampadario che pende dal soffitto. Una pioggia di vetri e plastica tempesta il pavimento. Lascia cadere la sedia e rimane per qualche istante a contemplare la stanza. Una distesa uniforme e meravigliosa di oggetti fracassati, ammaccati, spezzati, mobili divelti, vetri, stoffa. Si sdraia in mezzo a quel piccolo paradiso nato dalle sue mani, sente lo scricchiolio dei frammenti di vetro sotto di sé e le fitte rapide quando gli entrano nella carne, poi, mentre da fuori si avvicina il suono di una sirena, sente le lacrime uscirgli dagli occhi e scorrere rapide lungo il viso, calde e inarrestabili. Sorride.

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Otello Chelli

28 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #Laboratorio di Narrativa, #racconto

Non è difficile immaginare “Il Rosso e Selica”, di Otello Chelli - di cui qui riportiamo solo l’inizio per motivi di spazio - accompagnato dalle note di Cavalleria Rusticana di Mascagni. La città in cui si svolge la storia è la stessa dove è nato il compositore, la trama ricorda l’intreccio della novella verghiana. È un racconto che scava nell’anima di una città, che s’insinua nei suoi quartieri antichi, tra le pietre il mare, il porto, le leggende. Narra una storia dalle tinte forti e delicate insieme, una novella con modulazioni da feuilleton nell’intreccio, ma costruita in prevalenza sulle atmosfere.

Da una coralità di figure scrutate quasi attraverso il velo di una malinconica nostalgia, si stagliano con forza i protagonisti: il Rosso, duro, sanguigno, insolito miscuglio di raffinatezza da intellettuale e primitività da “risi’atore”, uomo delle ciurme del porto di Livorno; e Selica, disperatamente travolta dalla passione, vissuta con l’innocenza del giovane animale fuggito dalla cattività. E attorno a loro, un’atmosfera rarefatta di cupa inquietudine, già il presagio triste dell’epilogo drammatico: sensazioni sottili, narrate a volte con un sincretismo di cronaca, altre col lirismo dei sentimenti.

Lei, lui, l’altro, l’eterno triangolo foriero di gelosie mortifere fin dai tempi di Paolo e Francesca. Eros e thanatos – fin troppo eros diciamo noi – e thanatos come indissolubile conseguenza della trasgressione, ma anche come riconquistata libertà, come fusione delle anime in una passione destinata a rimanere immortale, come unione nella morte e oltre di essa. Singolare finale consolatorio: passione e peccato, la “caduta”, trovano riscatto nella pietas di una religiosità primitiva che accoglie e non rifiuta, che è capace di sposarsi e non collidere col dna marxista del territorio.

Qui l’amore non è inteso come trepido sospiro del cuore ma come fuoco violento, inestinguibile, “una passione irrefrenabile, peccaminosa, quasi sacrilega, eppure tanto bella e candida.". Perché, un amore come quello fra i protagonisti non ha niente di consueto, va oltre il bene e il male, la vita e la morte, è un amore ossessione, come quello fra Cathy e Heathcliff. E se l’ambientazione non è nelle brughiere dello Yorkshire ma nel quartiere portuale della Venezia labronica, se l’atto d’amore non è solo vagheggiato ma concretamente e palesemente attuato, la potenza dei personaggi, il loro spirito titanico, sono gli stessi, come la stessa è l’atmosfera “infestata”, l’immagine degli amanti fantasmi che continuano a rimanere legati ai luoghi che hanno visto fiorire la loro passione e compiersi il loro tragico destino.

Quello che colpisce, e che affascina, è, infatti, la stupenda rievocazione di una Livorno che non c’è più, fra fossi, navicellai e risi’atori, con figure storiche come padre Saglietto. Un canto d’amore infinito per il quartiere della Venezia, tante volte ricreato nella narrativa di Chelli, un mondo popolare, fatto di gente rude e generosa, di forti passioni, di onore lavato col sangue, di solidarietà fra simili. La parte migliore è quella in cui si descrive la vita del rione, ricostruendo perfettamente il quadro del passato.

Il pezzo meno riuscito è quello centrale, nel quale viene messa in scena esplicitamente la passione brutale dei protagonisti. Il testo perde efficacia nell’eccessivo dilungarsi in amplessi fin troppo particolareggiati, descritti con immagini appesantite da troppi cliché, come “gli occhi di ghiaccio”. Nell’insieme, comunque, una lettura molto piacevole, una linearità classica del linguaggio, sostenuta da qualche arcaismo toscano che aggiunge gradevolezza al racconto.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Il Rosso e Selica

Era bastato uno sguardo tra il "Rosso" e Selica, durante una delle tradizionali e numerose cene collettive che nelle sere d'estate si consumavano sui larghi marciapiedi del viale Caprera, mettendo assieme tutto il pescato di una giornata, altri alimenti e gli indispensabili fiaschi di vino rosso del Chianti, contenuti nelle madie delle famiglie, più numerosi dei fili di pane. Si trascorreva una serata in allegria, mangiando, bevendo, cantando sfottenti stornelli, romanze d’amore e famose canzoni sovversive, il rione lo era da sempre, la gente aveva nell’anima sentimenti carbonari prima dell’Unità e nikilsocialisti subito dopo, soprattutto quando Vittorio Emanuele II aveva cancellato lo status di “porto franco” alla città più garibaldina d’Italia insieme a Brescia e Bergamo, gettando a spasso centinaia di facchini del porto, navicellai e barrocciai. In quegli anni era ancora attiva la “Mano Nera”, nata fra i veneziani per vendicare con il coltello i torti subiti dalla loro gente. Se la sera era umida si accendeva un bel fuoco e ci si sedeva tutti attorno consumando la cena, “buttando a pagliolo” i fiaschi , mentre il Topo, già alticcio, un bicchiere pieno a metà posato ai suoi piedi, dava il via alla festa in qualità di mago della chitarra, nonostante non conoscesse una nota musicale. Con le sue arie faceva cantare la notte e rendeva più brillanti le stelle, aiutato dalla voce di Renata, popolana tipica, tonalità d'angelo che, se educata e lanciata sui palcoscenici, sarebbe diventata più celebre delle più acclamate e corteggiate stelle del melodramma.

Il "Rosso” era una figura bizzarra, fuori fase in un quartiere tipico e popolare come quello della Venezia Nuova, anche se era nato in una delle antiche case della Tura, la zona che dalla chiesa di Crocetta si proiettava fino al Ponte di Santa Trinita, accucciato sotto la mole corrusca della Fortezza Vecchia. Tornato a casa dopo anni e anni di avventurose peregrinazioni, durante le quali aveva fatto fortuna, nel suo rione ritrovava ogni giorno i ricordi di una fanciullezza dura, ma allegra, indimenticabile. Giornalista e scrittore di larga fama, ad ogni uscita di un suo libro veniva osannato dalla critica. Eppure era uno di loro, nato fra questa gente povera e ostinata, generosa e impulsiva, discendente di una delle famiglie "storiche" di questo rione autentico angiporto, abitato da gente che all’orgoglio delle proprie idee, univa grande fierezza ed era facile alla zuffa, al coltello e al revolver, usati spesso per difendere il proprio onore o gli irriducibili ideali scaturiti dalla rivoluzione francese e dalle idee di Mazzini, Garibaldi e Carlo Marx. In gioventù il “Rosso” era stato un "risi'atore" tra i migliori, uno dei componenti la famosa carovana di Silenzio e faceva parte di quella ciurma leggendaria che a bordo di un gozzo mastodontico, prendeva il mare con qualsiasi tempo e a forza di remi si recava incontro ai legni diretti verso l'ansa sicura del porto di Livorno. Spesso questa barca possente oltrepassava anche la Meloria per contendere e strappare alle altre ciurme il diritto allo scarico e al carico delle merci, arrembando quasi le navi in arrivo, come facevano i saraceni. In questo modo conquistavano il diritto di pilotarle nel sicuro accosto della Darsena Vecchia e compiervi le indispensabili operazioni di manipolazione delle merci, fornitura d’acqua e viveri, soprattutto verdure, indispensabili ai marinai per combattere lo scorbuto.

Un modo periglioso e incredibile di guadagnare il pane quotidiano per la famiglia, ma in quei tempi il mestiere del “risi'atore" , seppure molto pericoloso, non dava solo il pane, ma anche un certo benessere, dignità, ammirazione e autorevolezza tra la gente, ben oltre i confini del quartiere.

Il "Rosso" non aveva parenti. Morti i genitori, dopo qualche anno i suoi due fratelli erano scomparsi in mare, una sorella, la sua prediletta, si era innamorata di un uomo sposato e gli aveva ceduto senza sapere della condizione di lui. Abbandonata e incinta, si era buttata giù dal ponte del Porticciolo e le fredde acque invernali dei fossi l'avevano deposta, dura come il marmo, ma sempre bella, là, ai piedi della Fortezza Vecchia, sulla sabbia del cantierino disteso sulla parte finale della Tura, laddove i calafati costruivano e riparavano i navicelli, quei barconi enormi, neri e silenti al passaggio tra le case, sui quali si caricavano le mercanzie per portarle dalle navi ai fondaci e viceversa, attraverso la fitta rete dei fossi fatti costruire appositamente dai Medici, una autentica ragnatela che s'intreccia nel famoso "Pentagono" del Buontalenti.

Il giovane, chiuso in se stesso, il volto scolpito come uno scoglio dalle onde, aveva seppellito la sorella nel sepolcreto della chiesa, Padre Saglietto, leggendaria figura di monaco trinitario, sempre schierato accanto ai suoi parrocchiani, anche ai “senzadio”, si era opposto alla volontà dei pii frequentatori della sua parrocchia di seppellire la bellissima Benedetta nello spoglio “campo dei suicidi” e aveva concesso questo privilegio alla sventurata fanciulla buona credente e caritatevole in modo evangelico. Rimasto solo al mondo, il giovane si era imbarcato su un legno di Marsiglia ed era scomparso. Sei mesi dopo il corpo di Amedeo, il facoltoso commerciante che, ingannandola, si era preso sua sorella per poi abbandonarla vilmente, venne trovato sotto la Voltina con un lungo coltello piantato in mezzo al cuore. Era un coltellaccio della Provenza, con una punta capace di forare la pelle d'un orso e un filo da autentico rasoio. "Un’arma micidiale" - aveva dichiarato il Delegato di polizia.

Si seppe qualche tempo dopo, ma la nave non si era registrata e nessuno poté provare niente, anche se furono in molti a sussurrarlo, che il brigantino di Marsiglia avesse fatto sosta per un'intera nottata a Bocca d'Arno, l'equipaggio aveva cenato dal Ghingheri, nella trattoria di legno costruita su palafitte piantate in riva al grande fiume, proprio sulla foce, rifugio di pescatori e contrabbandieri, ma l'oste smentì recisamente il fatto e del resto, nessuno in Venezia e in città, aveva visto il "Rosso". Quindi "si trattava di un evidente abbaglio" - concluse lo stesso Delegato che dalle autorità francesi aveva saputo come la nave, nella stessa notte dell’omicidio, si trovasse all’ancora nel porto di Bastia, da dove era salpata per Barcellona.

Viaggi in tutti i porti del mondo, esperienze incredibili e fantastiche, il giovane, intelligenza pronta, agile e forte, aveva trovato il tempo di imparare a leggere e a scrivere, apprendere una miriade di lingue e di dialetti e si era fermato per tre anni nelle terre algerine, viaggiando sulle roventi sabbie del Sahara fra predoni berberi e mercanti beduini, raggiungendo con le loro carovane e nelle loro scorrerie, i monti dell'Atlante e tutte le oasi fino al verde Niger. Si era arricchito e quando ritornò in Italia sbarcando a Genova, invece di recarsi a Livorno proseguì per Milano. Ad Algeri aveva conosciuto il proprietario del più importante giornale italiano e durante il viaggio verso il porto ligure era nata tra i due una duratura amicizia. Il "Rosso", aveva parlato delle sue peregrinazioni al potente uomo d'affari e questi, ascoltando le incredibili avventure narrate con sciolta parlantina e una vasta conoscenza, era rimasto affascinato e aveva proposto a quell’uomo ancora giovane, il volto bello, di cuoio per il sole assorbito sul mare e nel deserto, di scrivere alcuni lunghi reportage, iniziando a fare l'inviato all'estero per il suo giornale. Così il "risi'atore" veneziano si trovò a viaggiare per paesi lontani, frequentare uomini di stato, politici, industriali, inventori, capi di tribù mongole, indiane, cinesi e africane, ma sopratutto, entrò in contatto con molteplici culture e tradizioni, arricchendo ulteriormente un bagaglio di conoscenze già vasto.

A Milano si era invaghito, corrisposto, di una nobildonna di famiglia risorgimentale, si erano sposati, lei gli aveva dato due figli, ma le peregrinazioni del marito, le lunghe assenze, l'avevano infine decisa a chiedere la separazione. La sua ricchezza era tale, da non farle richiedere al "Rosso" nemmeno una lira per il mantenimento dei suoi figli che tenne lontani dal padre, per loro sempre più uno sconosciuto.

Alla fine di un lungo viaggio in Cina e in Mongolia, il famoso scrittore era ormai giunto al suo trentanovesimo anno di vita, stanco di viaggiare per tutti i continenti, aveva persino seguito la folle e stupenda corsa automobilistica “Parigi – Pechino”, si mise a scrivere, quasi per scherzo un libro di avventure e il successo fu strepitoso, di conseguenza egli ne scrisse altri e, in breve, divenne immensamente ricco, di quattrini e di fama. La ex moglie, il suo tentativo di riconciliarsi con lei era fallito, dopo alcuni mesi si era trasferita negli Stati Uniti, dopo aver sposato un ricco industriale dell’automobile ed i suoi figli erano ormai perduti nella società dorata degli “States”

A quel punto, evitando le allettanti offerte della ricca Milano, irrequieto e stanco di vivere la vita degli opulenti salotti intellettuali di grandi città europee, decise di ritornare a Livorno, nella sua Venezia, il che avvenne quando di anni ne aveva quarantatré. Eppure al "Rosso" non se ne davano più di una trentina e quel suo volto bruciato dal sole di cento paesi diversi, sembrava il volto di un fanciullo, soprattutto per la luce che illuminava i suoi occhi di ghiaccio.

Acquistò una bella casa al primo piano di un palazzo signorile sugli Scali delle Ancore e dalle sue grandi finestre dominava l'intero "fosso reale" dell'antico quartiere e poteva ammirare lo spaccato bellissimo delle vetuste case e dei palazzi seicenteschi. Alla finestra del suo studio, come un dipinto di grande artista, si mostrava ai suoi occhi il fosso dominato dalla Chiesa di Santa Caterina dei Domenicani, il palazzo granducale, detto de il Refugio, la cui facciata dava sul viale Caprera e la bellezza di Palazzo Rosciano. Se cambiava direzione al suo sguardo, il dipinto si trasformava e ad apparire era la mole familiare della Fortezza Vecchia, sovrastante l'intero rione con l’Erta degli Arrisi’atori, autentica terrazza lanciata sul porto e sul quartiere, mentre davanti a lui si ergeva l’edificio detto de il Paradisino e poteva vedere anche uno scorcio della chiesa di "Crocetta", quella cara al suo cuore dove spesso si recava per i suoi muti colloqui con l’amata “sorellina”. Dalle finestre della casa sentiva con piacere il brusio della vita operosa dei veneziani, il chiacchiericcio e le battute dei facchini del porto e dei navicellai che, seduti sulla spalletta del ponte sottostante che, dolorosamente, gli ricordava il suicidio della sorella, aspettavano una chiamata da qualche banco per recarsi a "fare la giornata". Ascoltava con sottile piacere l'argentino suono delle campane, soprattutto quelle di San Ferdinando, la sua “Crocetta”, la chiesa della sua fede fanciulla, cresciuta all'ombra della torre campanaria sotto la quale era venuto alla luce e spesso ascoltava il suono argentino di una canzone cantata da una delle donne affacciate alle finestre a chiacchierare o stendere lunghe file di panni ad asciugare. Nelle ore di quiete, mentre sedeva alla sua scrivania scrivendo qualche storia, sentiva il fruscio dolce del passaggio di qualche navicello e non sapeva resistere, affacciandosi ad ammirare il lento avanzare del grande barcone nero sulle calme acque del fosso reale, sospinto dalla pertica usata da un solo uomo che camminava in su e giù sul passatoio, spingendo quella flessibile, lunga pertica rotonda, capace di dimostrare la giustezza della frase di Archimede: “Datemi una leva e vi solleverò il mondo.”

Nel rione nessuno aveva dimenticato il figlio di Alceste e Filomena, il fratello della sventurata Benedetta e di quei due ragazzoni, uno morto alle Bocche di Bonifacio, l’altro a Capo Horn. Il "Rosso" venne quindi accolto con affetto, rispettato per ciò che era diventato, ma soprattutto, perché sul corpo della sorella aveva pianto silenziosamente, senza mostrare lacrime, mentre il dolore aveva invaso l'anima sua insieme alla glaciale calma con la quale aveva preparato la sua vendetta. Impassibile, nessuno lo aveva sentito profferire minaccia alcuna, chiara od oscura. Era un veneziano verace lui e aveva agito con l'intelligenza e la freddezza di un uomo vero e questo nessuno, nell'antico quartiere lo aveva dimenticato.

Quella sera, come dicevamo all'inizio di questa storia, bastò uno sguardo tra il "Rosso" e Selica, una splendida donna snella e flessuosa come un giunco e dal volto che con quegli occhi profondi come la notte, i capelli d’ebano e la pelle leggermente mora, la faceva discendere dal miscuglio di razze arrivate in questo quartiere nei secoli seguiti alla promulgazione delle leggi granducali, dette Livornine. Un amalgama dal quale era uscito il tipico livornese verace, nelle cui vene scorreva un misto di sangue arabo e nordico, orientale e anglosassone.

Fu come una scintilla che incendia una foresta e i due seppero immediatamente come le loro vite si fossero intrecciate senza scampo. Era sicuramente amore. Non il trepido e puro sentimento tante volte cantato nei libri e in moltissime leggende, no, il loro non era uno di quei sentimenti fatto di candore e nascosti tremori, quasi sempre platonici, vissuti su timidi sguardi e trepidi sospiri. I due, lo seppero subito, nei loro occhi non c’era niente di poetico, ma l'incontrarsi di due fuochi violenti e inestinguibili, lo scontro di due destini, quasi sempre distruttivo.

Si avvinghiarono in un abbraccio frenetico, non appena la serata ebbe termine, due ore dopo la mezzanotte, nel portone della casa di lei, in un casamento situato nella strettissima via delle Acciughe, di fianco al nobile Palazzo Rosciano. Selica si era avviata, sola, verso casa; lo Svelto, Remigio Saettini, suo marito, era uno dei più conosciuti capovoga della città ed era sceso in mare di buon'ora per raggiungere una "norvegina", che Pistola (la Venezia è sempre stata un quartiere dove abbondano i soprannomi), il suo avvistatore più bravo, gli aveva segnalato.

Quando Selica dette la buonanotte all'ormai assonnata compagnia, era l'ultima del suo casamento ad andarsene. Quegli occhi da zingara, neri come un cielo notturno senza stelle, si erano fermati per un attimo solo in quelli del "Rosso" e nessuno vide il messaggio ch'ella gli inviava. Anche lui salutò e si diresse al ponte, ma, dopo un rapido sguardo in giro, scantonò furtivamente verso palazzo Rosciano inoltrandosi nel buio della stradina dov’era la casa di lei.

….. continua

Otello Chelli

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Bugie e fantasie

27 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Cominciava con un prurito sulla guglia del naso. Era come una puntura di spillo che si allargava in onde crescenti di formicolio. La carne si arrossava, la pelle si tendeva e poi si arricciava in crespe e nodi legnosi.

Trentadue anni e mezzo erano passati da quando Pinocchio non era più un burattino di legno, però, ogni volta che mentiva, il suo naso - l’antenna impertinente che la natura protendeva fuori della sua testa - ancora si trasformava. Era sempre un evento spiacevole ed imbarazzante. L’ultima volta il fattaccio era accaduto sul locale Firenze-Prato e Pinocchio aveva fatto il viaggio chiuso nella toelette nell’attesa che gli passasse. Quel giorno, ricordava, aveva sparato una balla all’uomo seduto di fianco, esagerando l’abilità del proprio cane da caccia.

Ma perché succedeva qui, in questa fredda sera di Dicembre, mentre si pavoneggiava nel cappotto nuovo, specchiandosi in una vetrina gravida d’addobbi natalizi? Non aveva raccontato bugie a nessuno, era solo con propri pensieri. Cosa aveva pensato esattamente? Si sforzò di ricordare. Dunque, aveva osservato un nuovo modello di computer, infiocchettato come un pacco regalo, poi il palmare a fianco, e infine il piccolo robot parlante. Ah, ora rammentava. Lo aveva paragonato a un burattino. Ecco i burattini del terzo millennio, aveva pensato. Per fortuna io ormai sono un uomo in carne ed ossa. Sono a posto, sono arrivato.

Tornò a guardarsi nella vetrina. Vide un bell’uomo elegante sui quaranta. Era cambiato parecchio da quando le sue scorribande con Lucignolo mettevano a soqquadro il paese e facevano disperare il povero babbo. L’antica struttura di frassino, a ben guardare, si era conservata nelle giunture, un po’ rigide per la sua età, e nelle onde rade e scolpite dei capelli. Ma a tradirlo davvero era sempre e solo il naso. Indisciplinato e puntuto, pronto a trasformarsi in legno nei momenti meno opportuni. Come ora, con questo nevischio ghiacciato che ti tagliava la faccia.

Si guardò intorno. Nessuno si era accorto di niente, grazie al cielo. Era tardi, i negozi stavano chiudendo. Gli ultimi passanti rincasavano frettolosi col bavero alzato contro la tramontana. Calcò il cappello sugli occhi, poi si ficcò in un cinema di seconda visione. Al buio avrebbe atteso che tutto finisse.

Coprendosi il naso con la mano, chiese un biglietto. La cassiera alzò due occhi fissi e distratti insieme. Aveva un’aria triste, la bocca piena di briciole. Faceva tutt’uno col banco di formica dietro il quale nascondeva la sua cena. Pinocchio distolse lo sguardo, sempre più a disagio, e si rincalzò ancora di più nel cappotto. Il freddo gli gelava le ossa.

Entrò nella sala buia e si cacciò nell’ultima fila. Davano un film di guerra degli anni cinquanta. Vicino a lui c’erano un paio di pensionati intirizziti e una coppia di mezza età, che si baciava con bramosia clandestina.

Allungò le gambe, cercò di rilassarsi. Il naso non accennava a tornare normale, anzi, nel gelo della sala, era l’unica parte del suo corpo ancora calda.

Era la maledizione della fata, rifletté, la vecchia baldracca turchina che gli aveva fatto da madre. Se davvero gli avesse voluto bene come diceva, non l’avrebbe tormentato col ricatto della bontà. Ogni buon’azione, un pezzo di legno in meno. Aiutava una vecchietta ad attraversare nel traffico? Via un dito. Faceva l’elemosina sul sagrato della chiesa? Ecco che al posto di un orecchio di legno, si ritrovava della cartilagine molliccia. Per conquistarsi tutto un corpo aveva faticato l’intera infanzia, su su fino al terribile, meraviglioso, giorno in cui perfino il suo pene di frassino aveva distillato una bianca perla del tutto umana. Ma bastava un niente. Nell’attimo in cui alterava il reale anche solo di un piccolissimo scarto, doveva correre pentito a nascondere l’ingombrante frutto della sua colpa.

Eppure, davanti alla vetrina dei computer, l’ingegner Pinocchio non aveva detto nessuna delle sue solite bugie. Non aveva gonfiato la potenza dell’auto, le acrobazie del pene, le tette della segretaria. Non aveva soffiato il progetto ad un collega. Non aveva lusingato nessuno, non aveva fatto complimenti ad arte per ingraziarsi i superiori. Non riusciva proprio a capire dove poteva aver sbagliato.

Però cominciava a sentirsi stranamente bene. La sala di proiezione era come un utero accogliente. Lui era immerso nel lago di bagliori che piovevano dallo schermo ed il calore gli si stava propagando dal naso al resto del corpo. Strinse il pezzo di legno fra le dita. Era come avere fra le mani una tazza di caffè caldo, una stufa accesa. Chiuse gli occhi.

Rivide una bottega di falegname, lontana nel tempo, profumata di trucioli e con un tappeto di morbida segatura. Un uomo anziano intagliava un ciocco. Canticchiava, allegro.

“Ti farò gli occhi e tu vedrai. Ti farò la bocca e tu parlerai. Ti farò il cuore e tu amerai.”

Era stato un desiderio, un dono d’amore, una formula magica.

Quattro lunghe ciglia di legno avevano sbattuto stupite, una gamba era balzata giù e si era avvicinata ciottolando, impaziente di riunirsi al resto del corpo.

“Ti chiamerò Pinocchio.”

Il burattino di legno aveva sorriso, i tondi occhi illuminati di malizia. Era un burattino allegro, terribile, vivacissimo. Geppetto, suo padre, lo amava proprio per le sue marachelle.

I primi anni della sua vita erano stati spensierati, poi era venuta la consapevolezza della diversità, il bisogno di apparire un altro. L’innumerevole sfilza di bugie.

Raccontava ai burattini di Mangiafoco che lui era figlio di un sultano. Vendeva l’abecedario per andare a vedere il teatro. Magico teatro, pieno di maschere, trasformista e bugiardo, fantastico, innocente. Raccontava a Lucignolo che loro due non erano asini, bensì nobili cavalli da corsa, mentre, preoccupati, si tastavano le orecchie pelose nel tetro luna-park del Paese dei Balocchi.

In quella vita aveva portato vestiti di carta fiorita e cappelli di mollica di pane, s’era bruciato i piedi e se n’era fatti intagliare un paio nuovi di zecca da Geppetto, aveva imparato a mangiare bucce e pan di feccia, aveva conversato col grillo parlante. Ed aveva sempre Lucignolo con sé.

Lucignolo. Naso all’insù, occhi di pece, una ne fa e cento ne pensa. Lucignolo attore, bugiardo, unico amico.

Quando Lucignolo era uscito dalla galera, tutti in paese gli avevano voltato le spalle. Pinocchio per primo, perché ormai dai suoi pantaloni spuntavano rosee ginocchia di ciccia e tutti gli consigliavano di star lontano dalle cattive compagnie. Pensa a studiare, gli dicevano, pensa a tuo padre, pensa a farti una posizione ora che sei un bambino vero, che non hai più la testa di segatura. Così si era trasferito a Firenze e Lucignolo era morto d’overdose nel cesso di un bar.

Ecco dov’era il punto.

La più grossa delle bugie l’aveva detta a se stesso. La bugia era il suo desiderio di apparire per forza come gli altri. Perché uguale è bello, uguale è normale, uguale è vero. Ma lui non era come gli altri. No, lui non era un essere umano, era un burattino di legno. E non era un ingegnere, era un attore. Doveva stare sul palco, insieme agli altri burattini come lui.

Amava il teatro, amava Lucignolo e persino il Gatto e la Volpe. Amava anche la fata, ma solo quando gli si mostrava sottoforma di lucida lumaca o di capretta azzurra.

Dallo schermo piombò su di lui una luce blu, che circondò di un alone le sue mani. La presa divenne una morsa, le dita si contrassero e formicolarono. Pinocchio le guardò a lungo, stupito. Poi sorrise.

Erano tornate di legno.

Uscì dal cinema con l’andatura guizzosa e scricchiolante della sua gioventù. Cantava. “Ti farò il cuore e tu amerai”

Passò davanti alla cassiera. Si guardarono: un grosso burattino di legno dall’aria contenta, infagottato in un cappotto di Versace, e una donna di mezza età, con un ammiccante baluginio turchino fra i capelli.

Trentadue anni e mezzo erano passati da quando Pinocchio non era più un burattino di legno, però, ogni volta che mentiva, il suo naso - l’antenna impertinente che la natura protendeva fuori della sua testa - ancora si trasformava. Era sempre un evento spiacevole ed imbarazzante. L’ultima volta il fattaccio era accaduto sul locale Firenze-Prato e Pinocchio aveva fatto il viaggio chiuso nella toelette nell’attesa che gli passasse. Quel giorno, ricordava, aveva sparato una balla all’uomo seduto di fianco, esagerando l’abilità del proprio cane da caccia.

Ma perché succedeva qui, in questa fredda sera di Dicembre, mentre si pavoneggiava nel cappotto nuovo, specchiandosi in una vetrina gravida d’addobbi natalizi? Non aveva raccontato bugie a nessuno, era solo con propri pensieri. Cosa aveva pensato esattamente? Si sforzò di ricordare. Dunque, aveva osservato un nuovo modello di computer, infiocchettato come un pacco regalo, poi il palmare a fianco, e infine il piccolo robot parlante. Ah, ora rammentava. Lo aveva paragonato a un burattino. Ecco i burattini del terzo millennio, aveva pensato. Per fortuna io ormai sono un uomo in carne ed ossa. Sono a posto, sono arrivato.

Tornò a guardarsi nella vetrina. Vide un bell’uomo elegante sui quaranta. Era cambiato parecchio da quando le sue scorribande con Lucignolo mettevano a soqquadro il paese e facevano disperare il povero babbo. L’antica struttura di frassino, a ben guardare, si era conservata nelle giunture, un po’ rigide per la sua età, e nelle onde rade e scolpite dei capelli. Ma a tradirlo davvero era sempre e solo il naso. Indisciplinato e puntuto, pronto a trasformarsi in legno nei momenti meno opportuni. Come ora, con questo nevischio ghiacciato che ti tagliava la faccia.

Si guardò intorno. Nessuno si era accorto di niente, grazie al cielo. Era tardi, i negozi stavano chiudendo. Gli ultimi passanti rincasavano frettolosi col bavero alzato contro la tramontana. Calcò il cappello sugli occhi, poi si ficcò in un cinema di seconda visione. Al buio avrebbe atteso che tutto finisse.

Coprendosi il naso con la mano, chiese un biglietto. La cassiera alzò due occhi fissi e distratti insieme. Aveva un’aria triste, la bocca piena di briciole. Faceva tutt’uno col banco di formica dietro il quale nascondeva la sua cena. Pinocchio distolse lo sguardo, sempre più a disagio, e si rincalzò ancora di più nel cappotto. Il freddo gli gelava le ossa.

Entrò nella sala buia e si cacciò nell’ultima fila. Davano un film di guerra degli anni cinquanta. Vicino a lui c’erano un paio di pensionati intirizziti e una coppia di mezza età, che si baciava con bramosia clandestina.

Allungò le gambe, cercò di rilassarsi. Il naso non accennava a tornare normale, anzi, nel gelo della sala, era l’unica parte del suo corpo ancora calda.

Era la maledizione della fata, rifletté, la vecchia baldracca turchina che gli aveva fatto da madre. Se davvero gli avesse voluto bene come diceva, non l’avrebbe tormentato col ricatto della bontà. Ogni buon’azione, un pezzo di legno in meno. Aiutava una vecchietta ad attraversare nel traffico? Via un dito. Faceva l’elemosina sul sagrato della chiesa? Ecco che al posto di un orecchio di legno, si ritrovava della cartilagine molliccia. Per conquistarsi tutto un corpo aveva faticato l’intera infanzia, su su fino al terribile, meraviglioso, giorno in cui perfino il suo pene di frassino aveva distillato una bianca perla del tutto umana. Ma bastava un niente. Nell’attimo in cui alterava il reale anche solo di un piccolissimo scarto, doveva correre pentito a nascondere l’ingombrante frutto della sua colpa.

Eppure, davanti alla vetrina dei computer, l’ingegner Pinocchio non aveva detto nessuna delle sue solite bugie. Non aveva gonfiato la potenza dell’auto, le acrobazie del pene, le tette della segretaria. Non aveva soffiato il progetto ad un collega. Non aveva lusingato nessuno, non aveva fatto complimenti ad arte per ingraziarsi i superiori. Non riusciva proprio a capire dove poteva aver sbagliato.

Però cominciava a sentirsi stranamente bene. La sala di proiezione era come un utero accogliente. Lui era immerso nel lago di bagliori che piovevano dallo schermo ed il calore gli si stava propagando dal naso al resto del corpo. Strinse il pezzo di legno fra le dita. Era come avere fra le mani una tazza di caffè caldo, una stufa accesa. Chiuse gli occhi.

Rivide una bottega di falegname, lontana nel tempo, profumata di trucioli e con un tappeto di morbida segatura. Un uomo anziano intagliava un ciocco. Canticchiava, allegro.

“Ti farò gli occhi e tu vedrai. Ti farò la bocca e tu parlerai. Ti farò il cuore e tu amerai.”

Era stato un desiderio, un dono d’amore, una formula magica.

Quattro lunghe ciglia di legno avevano sbattuto stupite, una gamba era balzata giù e si era avvicinata ciottolando, impaziente di riunirsi al resto del corpo.

“Ti chiamerò Pinocchio.”

Il burattino di legno aveva sorriso, i tondi occhi illuminati di malizia. Era un burattino allegro, terribile, vivacissimo. Geppetto, suo padre, lo amava proprio per le sue marachelle.

I primi anni della sua vita erano stati spensierati, poi era venuta la consapevolezza della diversità, il bisogno di apparire un altro. L’innumerevole sfilza di bugie.

Raccontava ai burattini di Mangiafoco che lui era figlio di un sultano. Vendeva l’abecedario per andare a vedere il teatro. Magico teatro, pieno di maschere, trasformista e bugiardo, fantastico, innocente. Raccontava a Lucignolo che loro due non erano asini, bensì nobili cavalli da corsa, mentre, preoccupati, si tastavano le orecchie pelose nel tetro luna-park del Paese dei Balocchi.

In quella vita aveva portato vestiti di carta fiorita e cappelli di mollica di pane, s’era bruciato i piedi e se n’era fatti intagliare un paio nuovi di zecca da Geppetto, aveva imparato a mangiare bucce e pan di feccia, aveva conversato col grillo parlante. Ed aveva sempre Lucignolo con sé.

Lucignolo. Naso all’insù, occhi di pece, una ne fa e cento ne pensa. Lucignolo attore, bugiardo, unico amico.

Quando Lucignolo era uscito dalla galera, tutti in paese gli avevano voltato le spalle. Pinocchio per primo, perché ormai dai suoi pantaloni spuntavano rosee ginocchia di ciccia e tutti gli consigliavano di star lontano dalle cattive compagnie. Pensa a studiare, gli dicevano, pensa a tuo padre, pensa a farti una posizione ora che sei un bambino vero, che non hai più la testa di segatura. Così si era trasferito a Firenze e Lucignolo era morto d’overdose nel cesso di un bar.

Ecco dov’era il punto.

La più grossa delle bugie l’aveva detta a se stesso. La bugia era il suo desiderio di apparire per forza come gli altri. Perché uguale è bello, uguale è normale, uguale è vero. Ma lui non era come gli altri. No, lui non era un essere umano, era un burattino di legno. E non era un ingegnere, era un attore. Doveva stare sul palco, insieme agli altri burattini come lui.

Amava il teatro, amava Lucignolo e persino il Gatto e la Volpe. Amava anche la fata, ma solo quando gli si mostrava sottoforma di lucida lumaca o di capretta azzurra.

Dallo schermo piombò su di lui una luce blu, che circondò di un alone le sue mani. La presa divenne una morsa, le dita si contrassero e formicolarono. Pinocchio le guardò a lungo, stupito. Poi sorrise.

Erano tornate di legno.

Uscì dal cinema con l’andatura guizzosa e scricchiolante della sua gioventù. Cantava. “Ti farò il cuore e tu amerai”

Passò davanti alla cassiera. Si guardarono: un grosso burattino di legno dall’aria contenta, infagottato in un cappotto di Versace, e una donna di mezza età, con un ammiccante baluginio turchino fra i capelli.

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Asili

26 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Ora sai che faccio, mi metto il cappottino e il berretto, siedo sulla panca nello spogliatoio, e aspetto mamma. Ti prego, ti prego Signore, fa’ che mamma venga a prendermi. Almeno per mangiare. La pasta è molle, l’uovo fa schifo. Ieri ho vomitato, mi hanno fatto alzare, mi hanno portato al centro della stanza, mi hanno lasciato lì in piedi, da sola, mentre andavano a prendere qualcosa per pulirmi perché avevo tutto il grembiule sporco di vomito. Chiamavo mamma, ero bagnata, mi vergognavo perché tutti mi fissavano, mi puntavano contro il dito, ridendo con quelle boccacce sdentate.

Perché mamma non viene a prendermi? Così vado a casa e mangio almeno il purè, che mamma lo fa buono, e poi guardo la tv dei ragazzi.
Stamani mi hanno dato un foglio e una matita. “Disegna, Gina”, mi hanno detto. Ho puntato la matita sul foglio, ho tracciato un arco con una mano sola. Quella che mi aveva dato il foglio ha chiesto: “Cos’è, Gina?”. “È un ponte, va bene?” ho detto io. Così, se non altro, la piantava di obbligarmi a disegnare. A me non riesce disegnare, a me non piace disegnare. Vorrei che mi lasciassero leggere tutti i libri che hanno in quella stanza di là. Ma forse non so leggere.
Ieri ci hanno fatto sedere in cerchio. “Gina, raccontaci qualcosa di te”, hanno detto. Non mi è venuto niente da dire, mi sembrava di avere una scatola da scarpe al posto della testa. Ero tutta sudata.
“Non temere, Gina, qui hai tante nuove amiche.”
Mamma mi ha spiegato che due persone diventano amiche quando si conoscono da tanto tempo e si vogliono bene. Non so quanto è che sono qui, ma queste non sono mie amiche e non voglio bene a nessuno. No, davvero, queste non sono mie amiche, queste puzzano e si pisciano addosso. Se mi avvicino, mi danno le spinte. Una mi ha detto: “Vai via, puttana.” Mamma non vuole che dica certe parole, non vuole nemmeno che le ascolti.
Mamma, ti prego, vieni.
***


“Ci fumiamo una sigaretta, Giovanna?”
“Sì, Angela, ma facciamo presto che fra poco rientra la direttrice.”
Giovanna e Angela si appoggiano al vetro esterno e fumano in fretta, aspirando a grandi boccate. L’aria sta rinfrescando, il sole cala e si va a nascondere dietro le colline. Una terza infermiera passa loro vicino spingendo una sedia a rotelle vuota. “Sbrigatevi, la vipera è in arrivo.”
“Come le hai viste, oggi?” chiede Giovanna.
“Insomma… al solito, qualcuna tranquilla, altre meno.”
“È assurdo quanto riescono a essere cattive alla loro età. Ce l’hanno con Gina, poverina, la isolano.”
“Gina non lega con nessuno, parla poco, non si apre, non è collaborativa... ”
“Già, oggi ho provato a farla disegnare, ma niente.”
Suona un campanello, le due infermiere spengono in fretta le sigarette sotto la suola delle scarpe. “Dai, al lavoro.”
Tornano nella grande stanza comune. “Svuoti tu le padelle?” dice Angela, a voce alta, per farsi sentire dalla direttrice che, proprio in quel momento, sta scendendo le scale dai piani superiori.
“Sì, e tu vai a prendere i pannoloni, taglia media e grande, mi raccomando.”
La direttrice si è fermata ai piedi della scala. “Giovanna, Angela”, dice con un sorriso da serpe, “le nostre ospiti hanno bisogno di voi. Non siete qui per divertirvi. Questo non è un asilo, ragazze, ricordatevelo, è una casa di riposo.”

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Luisa Sordillo

25 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Questo racconto di Luisa Sordillo ti graffia dentro, ti fa male a leggerlo.

La “mano caina” di chi non ha cuore, ma solo “un ignobile muscolo”, ha spezzato la vita di una creatura gentile. Chicca rimane bloccata, spaurita, trafitta da un destino inaspettato e crudele. Ci vuole coraggio ad affrontare questo dolore, narrandolo, nella speranza, purtroppo vana, che non accada mai più.

Storia di un grande amore, è la memoria struggente di un legame interrotto. Se si è avuta la sorte di incontrare un piccolo essere, un dolce animale dagli occhi “senza orizzonte”, le tracce del suo passaggio non ti abbandonano più, anche quando diventano solo frammenti di ricordo. Luisa Sordillo riesce a costruire immagini che scavano l’animo, sin dalla prima dolorosa descrizione dell’ultimo guaito della cagnolina “pancia all’aria, a ricercar la stella infausta”… E l’angoscia, per contrasto, riporta ai momenti di gioia, “con i rituali frenetici” del giornaliero ritrovarsi, con la “tiepida e svelta leccata sulla mano”, a quel tacito parlarsi, che è promessa d’amore eterno.

Tenero e delicato racconto, dove la pena per la perdita e per l’assenza si avverte non solo dalle dolenti parole, ma anche dal ritmo della narrazione, talvolta spezzato, quasi a trattenere il singhiozzo di un dolore mai spento.

Patrizia Poli e Ida Verrei

UNA FREDDA GIORNATA D'INVERNO

Giaceva immobile, come una giostra nel bel mezzo di un black out, braccata all’improvviso da un buio non annunciato e non prevedibile, senza messaggero tramonto. Pancia all'aria, a ricercar la stella infausta; le zampette indurite, come strette da una morsa di cemento, si presentavano senza direzione, sperduta la bussola, in ordine sparso. La coda, oscurato il sole, era come una foglia d’autunno, migrante e spaesata, senza consapevolezza alcuna.

Gli occhi aperti ma vuoti, lasciavano però filtrare la paura, il contorno infame dell’agguato in cui era caduta, l’incredulità, il tentativo vano di sottrarsi al destino.

L’avevo portata su di un palmo di mano una fredda giornata di inverno, premio ambito dei miei reconditi sogni di bambina, più volte domandato e più volte negato.

Anche io, in fondo, ero stata per lei un anelato premio: tutti conquistati dalla sua vivacità e dalla sua tenerezza di fiocco di vita, ma nessuno sufficientemente pronto a farne parte integrante delle proprie giornate e delicato bersaglio dei propri sentimenti.

Entrambe perciò ci facemmo l’occhiolino al primo sguardo, contraccambiando un affondo nel pelo incolto con una tiepida e svelta leccata sulla mano.

Era Chicca, questo il suo nome, un tenero incrocio tra un confusionario e allegro yorkshire ed un raffinato e scorbutico pechinese, di un colore talmente bello da sembrare una spiga di grano baciata dai raggi del sole, dipinta in un quadro d’autore, spennellato da dorate meches e lucenti e chiari colpi di sole, sogno di attrici e donne di classe. Il suo musetto vispo con il tartufo schiacciato, tipico del pechinese, la rendeva sufficientemente civettuola e femmina ed i suoi occhioni senza orizzonte, penetravano senza permesso dentro l’anima, facendo di quel castagno intenso un invincibile passepartout per strappare concessioni e sorrisi.

I primissimi giorni non si distingueva da un cricetino e trovava rifugio e diletto in una scarpa n. 45 che le era stata regalata come parco giochi a suo esclusivo dominio, dove esercitare ogni tipo di acrobazia e allenamento muscolare e dentario.

Ricordo ancora il primo cappottino di velluto rosso, cappa di marmo sulle sue fragili zampe e il collarino in tinta, con un campanellino che ne segnalava sempre la presenza, onde evitare misfatti indesiderati.

I momenti con lei sono indimenticabili. Rientrare a casa e vederla saltellare di gioia, irrefrenabile e con un tamburo battente al posto del cuore, assistere ai suoi rituali frenetici e alle sue inarrestabili corse per scaricare l’ansia e la paura del mio non ritorno, i suoi balletti da primadonna della Scala, leggiadra e piroettante come una trottola di seta.

In una parola, vita.

Quella che le venne miseramente portata via ancora in una fredda giornata d’inverno, cupa e piovosa, da quel destino scritto con inchiostro di uomo, brutale, impietoso, con un macigno nel petto, arido e grigio.

Un boccone avvelenato la prese per la gola, assatanandola, invadendola di fiele, logorandola fin dentro l’anima. Un addio cruento, vigliacco, insolente.

Una lacrima che ancora scorre, la mia , nel fragore di un gesto insensato, nella mano caina che restò in silenzio, nell’ignobile muscolo di qualcuno che al battito riconduce un cuore, nella cecità di una notte subdola, in un’assenza che scava e consuma, in un amore incondizionato inciso nel cuore, in un giorno d‘inverno che non porterà all‘estate, in quell‘ultimo gemito che non dimenticherò.

Luisa Sordillo

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Giuseppe Guerrini

24 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Si legge che è un piacere il delizioso “La nuvola di Matteo” di Giuseppe Guerrini, compiuto e gentile racconto, scritto con un’essenzialità stilizzata e visiva allo stesso tempo.

Parla della strana comunicazione che s’instaura fra un bambino e una nuvola, amica immaginaria, sorta di primo amore, metafora di amicizie uniche, labili e preziose, capaci di attenuare per un momento lo sconfinato senso di solitudine, simbiosi d’amore, in un mondo fatto di animismo e fantasie, emozioni di un’infanzia che sogna.

C’è un’infinita dolcezza in quel “guardare il cielo”. Matteo gioca con le nuvole, dialoga con loro, le chiama per nome, si solleva oltre il suo mondo e sceglie “l’amica”, quella nuvola, “la sua nuvola”. I due amici hanno una lingua segreta, fatta di “pedalate, rettilinei, ampi cerchi disegnati sui sentieri fra il grano” e “risposte arcane fatte di riccioli, turbini, lembi di vapore” in un codice segreto, decifrabile solo con gli occhi di un cuore bambino. Nascono così “giorni fatti della stessa sostanza dell’amicizia”, destinati a finire come tutte le cose belle. La morte della nuvola, presagita da “piccoli vortici tristi” è la fine del sogno, dei misteri del cuore di un bambino e il passaggio alla vita normale. Si diventa “normali” quando si cessa di volgere gli occhi al cielo, o quando, sollevando nostalgicamente lo sguardo, non si riesce più a scorgere la “propria nuvola”.

Senza artifici linguistici, né ricerche di effetti speciali, con un linguaggio classico, lieve, l’autore, in questo racconto bello e commovente, dipinge immagini piene di poesia e riesce a regalare una visione suggestiva del mondo infantile.

Patrizia Poli e Ida Verrei

La nuvola di Matteo

Matteo aveva otto anni e guardava le nuvole. Guardava sempre le nuvole. Gli piacevano proprio quelle cose lontane, informi e mutevoli sospese nel cielo. Era capace di passare interi pomeriggi steso sull’erba, perduto a guardarle nascere, trasformarsi, dissolversi o correre via portate dal vento. Se gli avessero chiesto cosa voleva fare da grande, avrebbe risposto “il meteorologo”. In verità Matteo non era tagliato per le scienze esatte, cose come “temperatura di rugiada” o “entalpia di condensazione” non erano per lui. Il suo interesse non era scientifico: per Matteo le nuvole erano amiche, compagne di strada a cui rivolgere un saluto, raccontare storie.

I suoi genitori erano preoccupati. Avevano cresciuto il loro bambino con amore, accompagnati dalle ansie consuete – i rischi di troppa televisione, i videogiochi violenti, i pericoli di Internet… Invece era loro toccato in sorte un bambino contemplativo, sognatore, che non impazziva per la Playstation, si stancava subito di televisione, non era attirato da Internet, e preferiva scorrazzare per la campagna con la sua bicicletta rosso vivo, sempre da solo, inseguendo chissà quali fantasie. Oppure guardava il cielo. Tanto bastava a farlo contento. Amava soprattutto certi pomeriggi estivi, quando, quasi dal nulla, si materializzano cumuli che crescono in altezza, netti e bianchissimi contro l’azzurro, poi lentamente scuriscono e si sfrangiano sulla cima allargandosi come un fungo minaccioso. Matteo sapeva che quelle torri di vapore ospitavano temporali, e poterle godere da lontano nella loro interezza gli dava un’ebbrezza strana, come se fosse capace di abbracciarle, come se gli appartenessero.

Matteo aveva inventato una classificazione tutta sua per le nuvole. C’erano le “cavalcatrici”, che correvano portate dal maestrale accavallandosi e mutando forma in continuazione, le “ritagliate”, che sembravano brandelli di bianco tenue spezzati dai venti d’alta quota, le “tremoline”, attraversate da strisce di piccole onde fitte, e naturalmente le “pecorelle”, e tante altre. C’erano anche le “sentinelle”. La famiglia di Matteo abitava in campagna, nella pianura che terminava ai piedi di una montagna appuntita. Attorno a quella cima si formavano a volte delle nubi sommitali, che anziché essere portate via dalle correnti sembravano indugiare sul versante sopravento come se ci abitassero. Erano quelle le “sentinelle”. Matteo pensava che quelle fossero nubi speciali, vive, perché parevano opporsi al vento che le avrebbe dovute allontanare. Non poteva sapere che era proprio il vento atlantico a generarle spingendo in alto lungo il pendio l’aria umida, e che sembravano ferme perché in realtà si rigeneravano in continuazione, evaporando da una parte e condensando dall’altra. Quando si formava una nuvola di quel tipo Matteo la osservava a lungo per vedere se si stancava di sostare nei paraggi della cima e magari le veniva voglia di muoversi verso di lui o curiosare lì attorno. Non era mai accaduto, ma questo non lo scoraggiava affatto.

Un giorno d’inizio estate era comparsa una di quelle nubi, e Matteo, al solito, l’aveva tenuta d’occhio per tutta la mattina, naso per aria mentre pedalava tra i campi di grano. La nuvola sembrava all’inizio starsene raccolta, appallottolata timidamente presso il monte. Più tardi però parve prendere coraggio, si allargò e sfilacciò un poco, infine protese un lembo verso la pianura, proprio nella direzione di Matteo. Quando si fece ora di pranzo Matteo si diresse verso casa. Giunto sulla soglia, gettò ancora un’occhiata verso la cima. Fu allora che si accorse che dalla nube usciva un piccolo ricciolo di vapore, che si dissolse rapidamente. Un saluto! La nuvola lo stava salutando! Matteo ne fu felice, ma non tanto sorpreso, gli parve anzi del tutto naturale rispondere al saluto. Agitò le braccia rivolto verso il monte ed entrò in casa contento. Mangiò in fretta e furia e tornò subito fuori, ignorando le raccomandazioni della mamma e rispondendo “C’è la nuvola!” alle sue obiezioni preoccupate. Lei lo lasciò andare, sospirando rassegnata e domandandosi ancora una volta cosa mai avessero da rimproverarsi lei e suo marito come genitori.

La nuvola era ancora là, appoggiata alla cima. Matteo iniziò a pedalare tra il grano nella sua direzione, e lei emise due propaggini che Matteo interpretò come un segno di benvenuto. Ne fu felice: ormai erano diventati amici. Rispose al saluto correndo su e giù per i sentieri. Trascorse così tutto il pomeriggio, parlando alla nuvola di cose che non avrebbe saputo spiegare, nel misterioso codice fatto di pedalate, rettilinei, ampi cerchi disegnati sui sentieri tra il grano con la sua bicicletta scarlatta, e decifrando risposte arcane fatte di riccioli, turbini, lembi di vapore. Al tramonto la nuvola si colorò di rosa sfumato in viola, e parve ritirarsi presso la cima. Matteo lo interpretò come un gentile segno di congedo, così la salutò e rientrò in casa, felice come non mai. Prima di andare a dormire volle darle un’ultima occhiata discreta. Sbirciò cautamente dalla finestra per non disturbarla. La nuvola ricopriva la cima con un manto uniforme che si distendeva placido sul pendio, risplendente di luce lunare. Sembrava pulsare piano, come per un lento respiro. “Sta dormendo”, pensò Matteo rassicurato, e si coricò sereno.

I giorni che seguirono furono per Matteo i più felici mai vissuti, giorni di gioia, meraviglia, scoperta. Giorni fatti della stessa sostanza dell’amicizia. Corse infinite sui pedali, disegni tracciati con le ruote nelle stoppie del grano appena mietuto, a dialogare con la sua amica nella loro lingua segreta, un dialogo fatto del piacere di conoscersi, dell’affetto, di cose piccole come il suo cuore bambino, troppo grandi per essere raccontate. La nuvola pareva capire, ora aprendosi, ora arrotolandosi; sorrideva in piccoli vortici di vapore, lo accarezzava da lontano allungando un lembo candido. Era il suo modo di rispondere a Matteo, o così lui credeva, chi può dirlo?

Qualche giorno dopo, appena alzato, Matteo sentì in televisione le previsioni del tempo. Il clima stava per cambiare, il meteorologo alludeva a un “anticiclone” che avrebbe portato aria secca e vento di bora. Matteo non aveva idea di cosa fosse un anticiclone, ma sapeva che la bora dissolveva le nubi sentinelle. La sua nuvola era in pericolo! “Mamma, cos’è l’anticiclone?” chiese angosciato, come se conoscere la risposta gli conferisse il potere di cambiare le cose. “Non lo so, Matteo. È aria, credo. Chiedilo al babbo quando torna”. Matteo però non aveva tutto quel tempo: doveva avvertire la sua amica, salvarla! Corse fuori lasciandosi alle spalle i rimproveri sconsolati e inutili della mamma. Inforcò la bicicletta e iniziò a tracciare linee spezzate, angoli acuti a rappresentare la minaccia. La nuvola inizialmente gli sembrò sorpresa, confusa, attraversata com’era da sottili ombre grigie. Matteo continuò, inventando nuovi segni: “Scappa, nuvola, scappa o morirai!” scriveva nelle stoppie, “Fatti portare via dal vento, non restare qui!”. Ma la nuvola non si muoveva, non poteva allontanarsi. Allargava lembi sfilacciati di bianco tenue mentre si sgonfiava al centro, come a giustificarsi per non poter andare via. Matteo capì che alla sua amica non era concesso altro che rimanere lì, vicino alla cima, a dissolversi sotto i suoi occhi. Intanto l’aria stava già cambiando. Il vento aveva iniziato a girare, e l’azzurro del cielo diventava più carico, più cupo. Il profilo delle colline si faceva netto, i colori più marcati. La nuvola iniziava a sfumarsi nei contorni, e piccoli vortici tristi la attraversavano. “Non sparire, povera nuvola mia” tracciava Matteo sulla pianura, ma lei diventava ogni minuto più tenue. Allora Matteo lasciò un ultimo ampio cerchio, come un abbraccio, e si fermò a guardare, piangendo e singhiozzando. I lembi ormai pallidi della sua amica sembravano ancora volerlo accarezzare, consolarlo e cercare conforto, sempre più labili. Restò infine un piccolo ricciolo di vapore, come un ultimo saluto, che si arrese al vento disperdendosi. “Addio nuvola mia, addio!” gridò Matteo tra le lacrime. Rimase ancora a lungo a guardare la montagna completamente sgombra. Il cielo terso, di un blu profondo, e l’orizzonte lontanissimo e netto rivelavano l’immensità del mondo. Matteo sentì una solitudine sconfinata.

Passò la bora e arrivò il maestrale, accompagnato da nubi frettolose, candide e mutevoli. In altri tempi Matteo avrebbe passato ore ad ammirarle, ma adesso non gli dicevano molto: non erano come “quella” nuvola. Ogni tanto guardava ancora la cima, ma era sgombra.

Passò anche il maestrale, tornò il vento atlantico, caldo e umido. Si formò una nuova nube sentinella. Ma non era “quella” nube. Matteo si accorse di avere perso gran parte dell’interesse per le nuvole. Prese ad annoiarsi, e così cominciò a frequentare i suoi coetanei. Dovette condividere i loro interessi, e dopo un po’ iniziarono anche a piacergli. I suoi genitori erano contenti: finalmente avevano un figlio “normale”, dicevano. Ogni tanto però Matteo gettava ancora uno sguardo alla montagna. Spesso c’era una nube presso la cima, talvolta anche molto bella. Ma non meritava attenzione: non era “la sua nuvola”. Quella non sarebbe tornata mai più.

Giuseppe Guerrini

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Pia Deidda

22 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Abbiamo deciso di riproporre in questa sede i migliori racconti di tre anni di attività del Laboratorio di Narrativa

Cominciamo con Pia Deidda e il suo "Di queste notti insonni"

In “Di queste notti insonni” Pia Deidda ricostruisce in modo magistrale un ambiente arcano e rurale. Una piccola, minuscola, donna è la protagonista di questo racconto delicato, incentrato su un “femminile” d’altri tempi e altri luoghi, ma ancora vivo nella memoria di società patriarcali.

In una camera, in uno spazio notturno illuminato solo dalla luce fioca di un lume a olio e dal rosseggiare delle carbonelle di un braciere, si consuma un’esistenza grama, un’inconsapevole rassegnazione, simbolo di un’antica rinuncia al riscatto. Nastassia e Bartulu, una donna e un uomo: lui, solo una massa umidiccia e maleodorante sotto la trapunta, sui tre materassi del letto a baldacchino… un russare, un gorgoglio, uno sbuffo, un grosso naso rosso solcato da capillari… Lei, quasi evanescente, con i piccoli piedi freddi, raggomitolata tra la preziosa biancheria profumata di lavanda, unica consolazione in quel suo povero mondo fatto di coercizione e di dominio. Ed un pensiero… quasi un ambito sogno, in quel presente oscuro e senza prospettive: la morte come soluzione, come cambiamento. Ma è solo una fugace idea, un balenio nella mente… “Per tutto c’è tempo”.

Il lettore sente il freddo dello stanzone, delle lenzuola ghiacce, dei piedi illividiti, la ruvidezza della camicia da notte, l’umidità delle calzette di lana appese ad asciugare.

Al centro del racconto, troneggia la descrizione del letto a baldacchino, “alto e regale”, simbolo di un amore gelido e mancato, di “incolori e ghiacce notti”. La protagonista, tuttavia, lo riveste di “pizzo e frangette a pippiolini”, di ricami e racemi, seguendo il volo della sua fantasia, della sua arte, della sua vitalità tarpata.

Il braciere, che compare all’inizio del racconto, torna nella chiusa, a completare un cerchio che tiene in sé tutta la vita della protagonista, fino a un desiderio di morte che non è neanche un vero impulso a farla finita, ma è solo un’assenza di azione, di slancio, è un vuoto totale per il quale, ahimè, c’è sempre “tempo”.

Il linguaggio mescola parole semplici, ripetute a rafforzare la concretezza di oggetti comuni, come il legno, la tela, la brace, ad altre più desuete e scelte.

Patrizia Poli e Ida Verrei

DI QUESTE NOTTI INSONNI

Nastassìa si china e, sollevando la lunga camicia da notte di pesante tela, osserva i piccoli piedi scalzi poggiati sull'impiantito di legno. Sono violacei e freddi, tanto freddi. Punta il peso sui talloni e inarca le lunghe dita, qualche gelone già s'intravvede.

Davanti al camino della grande cucina sono stese, su un filo legato teso fra due sedie, ben quattro paia di calzette di lana ruvida. Ma sono ancora umide e Nastassìa ha i piedi nudi.

Non riesce ancora ad organizzarsi nel bucato; fa difficoltà a calcolare la quantità di panni da lavare ogni volta e i tempi fra lavaggio, asciugatura e stiratura.

Ė per questo che i suoi piedi quella sera sono freddi. Anzi gelidi. Bisogna considerare anche che il suo Bartùlu, dopo il tramonto del sole, non mette più ceppi di legna nel camino, che piano piano si spegne lasciando poche braci rossastre e polvere fine grigia ormai fredda.

Lei raccoglie, prima che si spenga tutto il fuoco, quei tizzoni di brace ardente e li mette nel braciere di rame collocandolo al centro della stanza da letto.

Nastassìa si strofina le braccia cercando un po' di calore e guarda in alto sul letto. Gli arriva il suono grasso, cadenzato da un sibilo intermittente più acuto, del russare del suo Bartùlu.

Si prospetta un'altra notte quasi insonne, pensa, mentre mette il piede sul primo gradino della scaletta. Guarda in alto e si tiene ben salda con le mani. Quell'operazione le mette sempre apprensione ogni notte. Anzi, due volte al giorno. Al mattino quando deve rigovernare il letto e alla sera quando si appresta a dormire.

Soffre di vertigini Nastassìa da quando è piccola. Ricorda ancora molto bene di quando con i bambini del paese, eludendo la sorveglianza del vecchio sacrestano Peppineddu, si saliva furtivi sulla torre campanaria. Lei arrivava solo alla prima rampa e, mentre una strana ansia la prendeva, non riusciva ad andare oltre il primo pianerottolo. Era sempre la prima ad essere presa da Peppineddu mentre gli altri più svelti già suonavano la campana con rintocchi stonati.

Il suo è un letto da veri signori; fatto costruire dal suo Bartùlu su modello di uno continentale visto in una vecchia stampa arrivata fino a Ittiri da chissà dove e appesa da chissà chi su un vecchio muro scrostato della taverna del cambio postale.

Ė un alto letto a baldacchino di legno che sfiora il basso soffitto di travi di legno. Bartùlu ha voluto che il ripiano che accoglie i tre alti materassi fosse sollevato da terra per proteggere la sua sposina dal freddo che proviene dal pavimento e dai topi che vi scorrazzano indisturbati durante la notte.

Non sa Bartùlu che Nastassìa sa, perché glielo ha detto la vecchia Mariedda, la paura che aveva provato da bambino quando era rimasto rinchiuso per sbaglio tutta la notte dentro il grande magazzino dietro il mulino. L'avevano trovato all'alba che ancora saltava da una gamba ad un'altra pallido come un cencio.

La scaletta l'ha voluta lei perché quel letto gli è sembrato, già dalla prima volta, invalicabile. Minuta, senza forza nelle magre braccia, non aveva avuto l'agilità per saltarci sopra la prima notte che da sposina entrò in quella grande camera. Bartùlu capì da subito che forse sarebbe stato il caso di far costruire una piccola scaletta per la sua piccola sposa.

Nastassìa sale lentamente gli stretti scalini e i piedi freddi e magri dolgono un po' ad ogni passo. Insomma è una impresa titanica arrampicarsi lassù ogni notte. Poi a lei duole la schiena la sera perché non è ancora abituata a fare i lavori di casa. Bartùlu le aveva promesso prima delle nozze l'aiuto di una serva, ma, ad un anno dal matrimonio, non ne aveva visto nemmeno l'ombra.

Ogni notte salendo la scaletta ammira i tessuti che ricoprono gli alti materassi e il baldacchino. E' il suo orgoglio di sposa quel tripudio di filati e ricami. Quando arrivano le comari o le amiche per farle visita lascia sempre la porta semi aperta affinché s'intravveda il suo capolavoro.

Ha lavorato alacremente per mesi per poter trasformare quello spoglio legno e quella scheletrica impalcatura in una alcova calda e accogliente. Se deve esistere che sia almeno bello, aveva detto timida sposina a capo chino e ad occhi semichiusi appena l'aveva intravisto mentre Bartùlu si stava spogliando dagli abiti nuziali.

Aveva subito pensato ai grandi teli che avrebbero coperto il baldacchino. Sarebbero stati cuciti insieme pezzi di leggero tulle rosato che lei nel frattempo aveva ricamato a punto pieno nei risvolti in vista e rifinito con un pizzo a frangette e pippiolini fatto all'uncinetto. Non aveva copiato un disegno preciso, a lei piaceva anche improvvisare. Erano motivi geometrici che seguivano un ordine sparso un po' casuale. Alla fine era risultata un'opera che aveva una sua caotica armonia.

Per coprire il ripiano di legno aveva invece usato una tela grossa di canapa anch'essa rosata tessuta con motivi in rialzo di asfodeli e pavoni affrontati di un rosa intenso. Il primo materasso l'aveva rivestito di un tessuto bianco di lino a motivi tono su tono a nodini che seguivano un disegno a rombi alternati convessi e concavi. Era stato un lavoro molto impegnativo riuscire a contare al telaio trama per trama, ordito per ordito, e non sbagliare nemmeno un passaggio.

Il secondo materasso l'aveva ricoperto con un tappeto di lana dai colori rosso, giallo e blu squillanti su fondo chiaro. Uomini e donne si tenevano per mano in un ballo tondo che non sarebbe finito mai. E qui sospirò Nastassìa pensando che il suo Bartùlu l'unico ballo che aveva fatto in vita sua era stato il giorno del loro matrimonio quando era stato preso con la forza dai compari di anello. Non avrebbe ballato mai più Bartùlu. Ma neanche Natassìa.

Il terzo e ultimo materasso era ancora coperto da una nera coltre pesante di orbace. La bella coperta all'uncinetto filè era ancora dentro la cassapanca e non era stata ancora completata. Nastassìa riusciva però a ricavarsi molte ore di lavoro per ultimare la sua opera rubandole al governo della casa e alla cucina. Bartùlu più volte se ne era lamentato, specialmente quando tornava dal mulino alla sera stanco e affamato e trovava il desco vuoto ma la giovane mogliettina al telaio.

A completare l'opera c'era la finissima biancheria del suo ricco corredo. Le lenzuola e le quattro federe le aveva riccamente ricamate con orli a giorno e punti pieni e a catenella. Fiori, fogliette e racemi giravano leggeri lungo i contorni per dirigersi verso il mezzo, mentre pizzi sottili e delicati realizzati al tombolo ne ornavano i bordi.

Bartùlu dorme alla grande. La bocca aperta ora emana un gorgoglio come l'acqua che passa nelle condutture che azionano la macina del mulino. No, non si è proprio abituata a quei suoni mutevoli che accompagnano il trascorrere delle sue notti. S'infila piano piano dentro le lenzuola fredde, anzi gelide. Si raggomitola per riscaldarsi con quel poco calore che emana il suo corpo. Bartùlu no, non lo tocca; il suo corpo è caldo ma lo trova umidiccio ed emana un odore che sa di farina e fuliggine; neanche la lavanda che mette dentro le federe lo riesce a mitigare.

E, mentre pensa questo, le arriva una zaffata del suo alito pesante. Lo osserva alla luce tremula della lampada ad olio. Riuscirà con il tempo ad accettare questo uomo che le è stato imposto come marito? Pensa che sarà difficile riconoscere quest'uomo di vent'anni più grande di lei come l'uomo della sua vita. Si gira dall'altra parte e si copre le orecchie con il cuscino e sprofonda il naso nelle federe profumate.

Oh, no! Ha lasciato la lampada ad olio accesa sul tavolino. Se Bartùlu si svegliasse in questo momento sarebbe un rimbrotto che durerebbe per giorni. Deve ridiscendere, rifare il percorso intrapreso. Si dà della stolta, si scopre e mette i piedini sugli stretti gradini della scaletta. Si avvicina al tavolino e guardando la fiamma soffia sullo stoppino. La lampada si spegne di colpo. E adesso? Ripercorre la strada a tentoni, urta la sedia che cade. Bartùlu manda uno sbuffo come la pentola quando bolle con la carne di pecora dentro. Sbatte più volte sui gradini; sa che al mattino si ritroverà con lividi violacei sulle gambe. Salita si risistema nelle ghiacce lenzuola, si accovaccia stretta stretta abbracciandosi le ginocchia. Quanto è stupida; povero Bartùlu ad avere una moglie così incapace. Poverino.

Adesso il russare di Bartùlu è diventato un miagolio. E no, non riuscirà mai ad abituarsi. Come sarebbe stato bello sposare Gavino, il giovane servo pastore della sua famiglia. Ma i suoi genitori appena subodorato l'idillio si erano premurati di combinare in tutta fretta quel matrimonio che avrebbe dato lustro e dignità alla loro adorata bambina. Ed eccola qui con il suo Bartùlu a fianco in questo alto e regale letto; concepito più per appassionati e amorevoli incontri d'amore piuttosto che queste incolori e ghiacce notti, pensa Nastassìa vergognandosi delle sue fantasie nel momento in cui il suo cuore le formula. E si scopre a guardare il suo Bartùlu: naso grosso e rosso solcato da una miriade di piccoli capillari, la barba irta e sempre incolta, i denti giallognoli e marci.

Ma come fa a vederlo? Oh no! Ha dimenticato il braciere ancora acceso in mezzo alla stanza! Ma che stolta che è! Che donna fatua! Ecco cosa succede a perdersi in simili peccaminose fantasie!

Scende veloce e prende il braciere. Mai lasciarlo nella stanza per tutta la notte. L'aria diventerebbe mefitica e pericolosa. Potrebbero anche morire.

Già morire. Ma è solo un breve pensiero. Fugace, leggero, passa così come è arrivato. Tarlo invisibile che ogni tanto s'insinua nei suoi pensieri. Lei o lui non importa, sarebbe comunque un cambiamento.

Si dirige in cucina e posa il braciere dentro il camino, lo svuoterà al mattino. C'è tempo. Per tutto, c'è tempo.

© Pia Deidda 2010

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