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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Federica Cabras, "Dannata"

9 Aprile 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Dannata

Federica Cabras

O.D.E. Edizioni, 2023

pp 250

 

 

Come ormai sappiamo, i generi preferiti della scrittrice ogliastrina Federica Cabras sono il chicklit brioso e conversazionale e l’horror cupo e tormentato. Dannata, la sua più recente fatica per la O.D.E. Edizioni, appartiene a quest’ultimo canone.

Maddalena Sirigu è bella, dinamica e con un buon lavoro. Si è da poco separata da un marito infantile, sposato solo perché incinta, il quale, però, l’ha tradita. Ha una figlia di due anni che è la luce dei suoi occhi, amata follemente fin dal concepimento. Durante la festa del compleanno della piccola, la bambina, momentaneamente affidata alla nonna paterna, ingurgita una tartina al würstel e si strozza. Muore in un istante, senza che nessuno possa far nulla per salvarla. Prima c’era ora e non c’è più, prima sorrideva, faceva il broncio, correva sulle gambette paffute e ora giace in una bara a decomporsi.

Devastata da un dolore sovrumano e innaturale, Maddalena non ha più motivo di continuare a respirare e a farsi battere il cuore, a meno che… a meno che non riesca a riavere ciò che ha perso, a riportare in vita la bambina deceduta. Per farlo, per non sentire più la lancinante sofferenza e il mostruoso vuoto, è disposta a tutto, anche a seguire la via più oscura e orrida, a scendere a patti col Male assoluto.

Quanta cattiveria c’è in ognuno di noi, anche nella persona più semplice e perbene? Quanto è facile per Satana far breccia nelle nostre difese, nei nostri rimorsi, nei nostri sensi di colpa, nei nostri desideri, e indurci a compiere atti impensabili?

C’è un riscatto da tutto questo? Forse sì, ancora una volta nell’amore. Quello della protagonista per Satana nel romanzo è un po’ “di maniera” e, infatti, non regge il confronto con l’amore materno, con quel sentimento atavico e primigenio che è l’essere madre, quello che ti fa rinunciare anche alla tua stessa vita in favore del sangue del tuo sangue.

Senza svelare il finale, posso dire che Maddalena e il suo rapporto col diavolo incarnano anche il contrasto fra amore materno e amore sessuale, quanto spesso la donna preferisca la maternità al rapporto di coppia, quanto possa sentirsi sottilmente in colpa e lacerata in entrambi i casi.

La Cabras riesce, come suo solito, a farti provare tutta la desolante disperazione del lutto, cosa nella quale è bravissima, ma anche lo spaventoso procedere verso l’orrore e il male. Talmente inquietante, realistica e coinvolgente a sua penna che, nel rileggere il testo per recensirlo, ho dovuto fermarmi, fare delle pause per non soccombere all’angoscia. 

In questo horror ci sono tutti i topoi del genere: la bambina in stile bambola assassina, il patto di sangue, l’accoppiamento con l’essere sovrannaturale. Ma ci sono anche, ben rappresentati, i risvolti psicologici di una situazione terribile come la perdita di un figlio. Si passa attraverso ogni stadio del lutto, dall’incredulità, alla rimozione del senso di colpa tramite attribuzione della stessa ad altri, alla ricerca di una via d’uscita, d’un rimedio che non ci può e non ci deve essere.

Insomma, ci insegna l’autrice, i morti è meglio lasciali lì dove stanno.

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Giuseppe Benassi, "Una favolosa eredità"

8 Aprile 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

Una favolosa eredità

Giuseppe Benassi

Extempora Edizioni, 2024

pp 324

16,00

 

Una cavalcata nel disgusto, sempre più esplicito, sempre meno mitigato dal sublime dell’arte o dal lirismo del paesaggio, quest’ultima fatica di Giuseppe Benassi. In Una favolosa eredità ritroviamo l’immancabile avvocato labronico Borrani alle prese con un caso pieno di cavilli legali oltre che penali, un’ingente eredità contesa fra quattro persone, con altrettanti testamenti a favore ora dell’uno ora dell’altro. Ci scappa il morto, come viene preconizzato dalla prima vittima nell’incipit del romanzo, anzi, i morti ammazzati sono due, e non è facile districarsi fra i vari personaggi, che hanno tutti più o meno un motivo per delinquere. L’ambiente in cui ci si muove non è più Livorno bensì Fauglia, dolce e perversa campagna toscana, fatta di arte, di vecchie ville polverose, di odi e risentimenti inconfessabili. Le eredità sono contese, la gente muore in circostanze misteriose, gli avvocati si scannano, c’è di mezzo persino un autentico Michelangelo, l’arte alla fine vince su tutto e beato chi può goderne a pieno, riscattando persino il male commesso in una sorta di Parnaso.

La vicenda gialla è, come negli altri romanzi di Benassi, un pretesto per indagare nell’animo umano, con sempre maggiore schifo e insofferenza. Ma, si sa, dove c’è disprezzo c’è invidia. O forse c’è un malcelato mettersi a nudo, oggettivarsi, alienarsi per poter sguazzare nella melma tenendo a bada il senso di colpa.

Borrani insiste sulla vita sessuale e privata dei personaggi che incontra, addentrandosi in particolari scabrosi che evidentemente lo affascinano e insieme repellono, mostrandone sempre maggiore conoscenza e dimestichezza. Inalterato è anche il disdegno per gli altri avvocati, legulei untuosi e avidi come avvoltoi, che si avventano sui testamenti dei defunti. Come al solito non si fa sconto a nessuno.

Rispetto alle altre opere di Benassi c’è molto meno esoterismo, meno intellettualismo culturale e molto più resoconto dell’ambiente legale, fatto di tribunali, perizie, giudici e portaborse. Un ecosistema che l’autore conosce bene, essendo avvocato.

Qualcuno ha paragonato Benassi a Federigo Tozzi. Non so se il paragone sia calzante ma l’oggettivazione dello squallore c’è tutta, e insistita, spesso neppure finalizzata alla trama. Ed è presente anche l’alternanza fra realismo e lirismo.

La morte è vista dall’autore come un contrappasso alla depravazione, di tutti i protagonisti indistintamente, persino dei più insospettabili. Nessuno è esente da peccati, da vizi nascosti, da pervertimenti. Alla fine la colpa per eccellenza rimane sempre “l’omosessualità”, vagheggiata e insieme disprezzata, sublimata e insieme esperita nel peggiore dei modi.

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Doc nelle tue mani

28 Marzo 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Sono arrivata alla fine della terza stagione di Doc nelle tue mani, medical drama strepitoso – probabilmente ce ne sarà una quarta, visto il successo – ma l’ultimo episodio mi ha molto scontentata. Dopo una “puntatona” grandiosa come la sesta, quella del terremoto per capirci, degna delle migliori serie americane e del capostipite E. R., sono rimasta delusa dal finale.

Nelle altre puntate si era creata una suspence incredibile, tutti lì ad aspettare di conoscere i motivi per cui Doc aveva lasciato la moglie, e gli intrighi di potere che lo coinvolgevano insieme alla sua ex e a un politicante senza scrupoli, per avere alla fine una spiegazione debole e acquosa.

E poi, diciamolo, tutti parteggiavamo per Giulia Giordano (alias Matilde Gioli), da sempre innamorata di Doc (al secolo Luca Argentero). Per tre stagioni aveva atteso che lui si rammentasse della loro storia d’amore cancellata dall’amnesia, e che si liberasse del fantasma della ex moglie (non considerata per niente ex da lui) ed ecco che, quando finalmente i due si ritrovano, Doc si riavvicina ancora una volta alla moglie, minacciata da una mortale recidiva di un vecchio tumore. Ma povera Giulia! Il suo sguardo nell’ultima inquadratura è tutto un programma.

Peccato, dicevo, che il finale sia così insoddisfacente, perché questa fiction ci ha tenuti incollati allo schermo – tv, tablet o telefonino che sia– per tre stagioni, a seguire difficili e intriganti casi sanitari ma, soprattutto, le vicende di straordinari personaggi impersonati da straordinari attori. Medici preparati, professionali, innamorati del proprio mestiere, che si prendono a cuore le vicende di ogni malato come fosse un loro parente. Una squadra giovane, affiatata, fatta di bella gente dall'enorme carica emotiva, con sulle labbra sempre la parola adatta a tirarti su il morale e farti ritrovare la strada, non solo della salute ma anche della vita.

Fra tutti spicca il grande successo di pubblico e di carriera di Pierpaolo Spollon, che interpreta il dottor Riccardo Bonvegna, con una protesi di metallo al posto della gamba e un pezzo d’oro fuso al posto del cuore. Ma, soprattutto, in primo piano c’è lui, il protagonista principale, Andrea Fanti, ispirato a una vicenda realmente esistita.

Bello, sexy e dal sorriso dolce, sogno erotico di sane e malate, Fanti è un prefrontale, costretto a dire sempre la verità a causa di un incidente, capace di entrare in empatia anche col tubo dell’ossigeno. Da un microscopico dettaglio – da come gratti la punta del naso o sbatti le ciglia – ti fa all’istante una diagnosi salvifica. Insomma, il medico che chiunque vorrebbe trovare sul suo cammino.

Impossibilitati a pensare di non rivederlo ancora all’opera, attendiamo fiduciosi il riscatto, nella prossima stagione, di un finale decisamente appiccicaticcio.

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Lost in Space

21 Gennaio 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #fantascienza

 

 

 

 

Che dire di Lost in Space –  serie remake dell'omonimo telefilm americano degli anni '60 ispiratore di un film del 1998 (che all’epoca ho visto e mi è piaciuto) e risalente ai  romanzi di Johann David Wyss prima e Jules Verne poi – dopo aver visto tutte e tre le stagioni, se non che si tratta (finalmente!) di buona fantascienza in stile anni 80, alla vecchia maniera, molto ben confezionata, con tanto di navi intergalattiche, robot, pianeti alieni, avventure mozzafiato, rischi inverosimili da cui i protagonisti si salvano per un pelo all’ultimo secondo, effetti speciali superlativi, ottimi attori  e personaggi molto ben caratterizzati ed amabili, se non che il rapporto fra Will Robinson, il più piccolo e il più coraggioso dei protagonisti, con il suo Robot, è veramente un elemento eccezionale e vale l'intera storia?

Will Robinson, novello Crusoè naufragato con la famiglia su pianeti alieni, è un antieroe, per la giovanissima età che lo rende naturalmente timoroso e perché non ha nemmeno passato la selezione per intraprendere il viaggio verso la colonia Alpha Centauri. Veniamo a sapere che è stata sua madre, Maureen, formidabile scienziato, a imbrogliare per farlo ammettere. Il piccolo crescerà durante le tre stagioni, di statura e di dimensione etica, fino a divenire il salvatore dei mondi, l’anello di congiunzione fra le specie, colui che, liberando i robot alieni dalla schiavitù dei programmi, farà loro capire che possono scegliere di non combattere gli umani ma di collaborare in un rapporto che non è più di schiavitù bensì paritario.

Robot” è un meccanismo alieno creato da una razza che si è poi estinta proprio a causa dell’intelligenza artificiale. Viene salvato da Will, bambino indifeso, e ne diviene il paladino. Dapprima lo serve per riconoscenza, poi ne diventa amico e lo ama, e questa emozione lo affranca. Scopre che amare vuol dire sacrificarsi per l’altro, volere il bene dell’altro, non per interesse o condizionamento, non per un algoritmo, ma per scelta.

Interrogativi etici, avventura e molti buoni sentimenti, tra i quali non spicca l'innamoramento se non in modo fugace e poco coinvolgente, lieto fine assicurato per tutti, persino per la “cattiva” di turno, dottor Smith. I legami familiari sono strettissimi e fondamentali, ma anche la nuova amicizia con Robot ha accenti elegiaci e commoventi. Insomma, un bel prodotto che mi sono goduta dal primo all’ultimo episodio.

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Emma Fenu, "In cerca di te"

28 Dicembre 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

In cerca di te

Emma Fenu

PubMe 2023

 

La parte (ampia e nascosta) di me che ha mensilmente allagato di un pianto silenzioso il Mar Rosso mestruale, che ha temuto d’invidiare gravidanze altrui, finendo poi per amare svisceratamente i prodotti di quelle gravidanze, considerandoli un risarcimento e un regalo tardivo, quella parte, dicevo, si riconosce nella sofferenza di Emma Fenu in questo suo “In cerca di te”.

La persona, l’entità ricercata, è il Bambino – che poi si trasforma in Bambina, man mano che gli interessi culturali dell’autrice s’incentrano sul mondo femminile – tanto desiderata, e perseguita con ogni mezzo economico e sanitario, ma mai arrivata.

Con un linguaggio che è oro colato, una meravigliosa poesia in prosa, l’autrice sarda racconta il suo percorso di ripetute fecondazioni assistite, di esami invasivi, di cure ormonali, di pellegrinaggi attraverso l’Europa, di delusioni feroci, disperazione silente e rabbia malcelata. E la commozione mi contorce le viscere sterili e mi attanaglia il cuore freddato con la sola forza di volontà.  

Alla fine di questi capitoli – tutti “Lettere a un bambino mai nato” – la Fenu non ha ottenuto nulla, non si è nemmeno rassegnata e continua a covarsi la propria costernazione da sola, sapendo che la sua parte più vera non è poi nemmeno quella che ci ha appena raccontato, o, almeno, non è solo quella, ma che le ferite del corpo e dell’anima comunque non si rimargineranno mai. Scontrarsi con il rifiuto del proprio utero a procreare non è facile, così come sentirsi chiedere “perché insisti?” e “ne vale la pena?”. Domandarsi se la determinazione non stia trascolorando in testardaggine è parimenti doloroso.

Di fatto, Emma Fenu è una donna felice e risolta, piena di interessi, di cultura, di fascino, di amore per il suo uomo, per la madre malata (diventata quasi una figlia), per il padre, per la sorella e per la nipotina Laura, surrogato di maternità.  La voglia di vivere, di gioire, di ballare, di volere bene non le è venuta meno, nonostante questa gravidanza mancata che è come una menomazione. Lei non ha bisogno di essere madre per sentirsi completa, ma sarebbe stata una gran madre e avrebbe fatto dei figli meravigliosi, autonomi e luminosi. È un peccato, ci viene da dire, che queste entità Bambini esistano solo nel sopramondo delle idee, perché avrebbero avuto una vita semplice ed eccezionale. Perché già esistono e non lo sanno.

Ma non è detta ancora l’ultima parola. E, soprattutto, si è comunque e sempre madri. Madri delle proprie madri, madri di se stesse, madri di progetti e di romanzi, madri di figli mai nati per scelta ponderata o per disgrazia, madri di figli morti, madri di figli che se ne sono andati. Si è madri di figli pensati, immaginati, sognati, temuti.

Quel

Ti troverò. Ti ho già trovato.

Con immenso amore

Mamma.”

vale anche per me.

Grazie Emma.

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Riverdale

1 Dicembre 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv

 

 

 

 

Benché Riverdale sia molto ben confezionata e per certi versi pure iconica, non pensavo di scriverci due righe sopra. Soprattutto non lo pensavo dopo le ultime stagioni, la sesta e la settima, così anomale e confuse. Ma l'episodio finale mi ha fatto ricredere. Ho sentito tutto il fascino di questa serie tv tratta dai fumetti della Archie Comics. E fumettistica Riverdale lo è, in modo patinato e glamour. Personaggi belli, elegantissimi e colorati. Chiaroscuri, macchie di rosso sul nero, poche location azzeccate, numeri musicali di alto livello, attori superlativi, rendono questa storia – anzi queste storie intrecciate, arzigogolate, (appunto “full Riverdale” si dice negli States) ripescate e riscritte da capo più volte – una gioia per gli occhi e per le orecchie. La trama oscilla fra il mistero, il giallo, il fantasy, l’horror quasi splatter, la gangster e la teen story.

Riverdale High ricorda un poco la Rider di Grease e nella serie ci sono vari accenni a molti musical famosi. Da una parte le feste della scuola, le solite immagini americane di Halloween, dei balli di fine anno, del giorno dei diplomi, così cari ai telespettatori da dover, credo, riportare indietro i personaggi ai tempi del liceo nell’ultima stagione dopo averli fatti crescere e diventare adulti nella penultima. Dall’altra oscure foreste, magioni spaventose, cimiteri, serial killer, autopsie e cadaveri.

Personaggi molto ben caratterizzati: Archie il buono, Betty la brava ragazza con un’anima noir, Veronica la femme fatale. Il mio preferito è Jughead, lo scrittore e fumettista, la voce narrante.

Non c’è una vera storia d’amore perché gli amori si accavallano, si scambiano e s’intrecciano. E non c’è nemmeno una vera definizione di genere perché anche gli eterosessuali sono un po’ queer e non disdegnano incursioni nell’altra sponda.

A Riverdale, tranquilla – si fa per dire – cittadina americana, il male cova e cresce fino a esplodere: L’omicidio di Jason Blossom, il re Gargoyle, il serial killer Blackhood, l’arrivo del diavolo in persona, la cometa catastrofica. Alla fine, però, ci sarà un rovesciamento e un riscatto, o, meglio, una seconda possibilità. Ci si potrà mondare del male dimenticandolo, rivivendo un’altra vita, tornando al passato e mettendo a posto le cose, facendo del bene, lavorando per superare i pregiudizi.   

L’ultimo episodio, tutto di commiato (come era già stata la puntata commemorativa per la scomparsa di Luke Perry che impersonava il padre di Archie), con l’addio ai personaggi ormai morti, con quel “lasciamoli lì, dove avranno sempre 17 anni”, mi ha fatto spuntare un malinconico nodo alla gola.

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The Tailor

14 Novembre 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione, #serie tv

 

 

 

 

Mi piacciono molto le serie tv turche, per la bellezza degli attori, per il pathos dei rapporti umani (enfatizzati da una certa recitazione sopra le righe) e per gli splendidi scenari di una Istanbul moderna e patinata.

La serie The Tailor, il sarto, nonostante sia stata male accolta dalla critica, mi ha conquistata fin dalla prima scena. Se molte vicende mi sono rimaste oscure, e forse andrebbero sviluppate in un'ulteriore stagione che purtroppo non si farà, la storia di Peyami Dokumaci, stilista di fama, del suo amore proibito per Esvet, moglie del suo migliore amico, e di quest’ultimo, Dimitri, mi ha tenuta incollata allo schermo.

La love story è bella e palpitante ma, se questa è centrale nella prima stagione - insieme al problema del padre minorato di cui il protagonista si vergogna - nella terza giganteggia invece il rapporto fra Dimitri e Peyami, trasformando la soap in una specie di bromance.

Scopriamo che Dimitri è cattivo solo perché ha subito continui abusi dal padre, ma è capace di slanci di generosità e sentimenti profondi. Dal triangolo amoroso emergono i due uomini, la loro fratellanza. Esvet, che spiccava nella prima stagione per la sua empatia e compassione nei confronti del padre di Peyami e per i soprusi patiti dal futuro marito, qui rimane sullo sfondo, passiva e schiacciata fra i due, una sorta di semplice oggetto del contendere. Dimitri è geloso di Esvet, vuol essere amato da lei in modo esclusivo, ma, soprattutto, vuole l’amore dell’amico e l’idea che egli possa dimenticarlo dopo la sua morte lo sconvolge più del tradimento della moglie, di cui sembra essere invaghito e non innamorato. Quando pare che stiano per morire tutti e tre, sono i due uomini ad avvicinarsi, ad abbracciarsi, a rivedere il passato e l’infanzia, ad aspettare la fine insieme. Lei rimane da sola, in un angolo, quasi inutile e dimenticata.

Certo questa serie ha i suoi bei difetti. Lascia aperti molti interrogativi che diventano vicoli ciechi, enfatizza in modo grottesco la malattia mentale di Mustafà, allunga a dismisura certe scene ed estremizza sentimenti troppo urlati. Ma alcuni elementi hanno un fascino indiscutibile che ha segnato il successo di pubblico, se non di critica. Il primo è senz’altro la nascita del forbidden love fra Esvet e Peyami. La solita favola della ragazza buona e gentile – qui badante sotto mentite spoglie – che riesce a conquistare il burbero e ricco padrone di casa. Un classico romantico che non delude mai. Il secondo elemento è il rapporto fra Peyami e suo padre, intenso, controverso, tenero (forse improbabile), capace di trasformare un essere abbrutito e animalesco in un genitore quasi normale. Il terzo è il legame fra Peyami, musulmano sufi, e Dimitri, cristiano ortodosso. Alla fine, quello che più ha dato e più ha amato è proprio lo scapestrato e apparentemente incorreggibile Dimitri. «Sei la persona che più ho amato al mondo», dice rivolto a quello che lui chiama “fratello di sangue”.

Peccato che gli sceneggiatori abbiano deciso di chiudere. Peyami Dokumaci, (al secolo Çağatay Ulusoy) bello e tenebroso al punto giusto anche se un tantino sovrappeso, mi mancherà.

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Aldo Dalla Vecchia, "L'occhio magico"

28 Ottobre 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione, #saggi

 

 

 

 

L’occhio magico

Aldo Dalla Vecchia

Graphe.it, 2023

 

Un amore lungo una vita quello fra Aldo Dalla Vecchia – scrittore e autore televisivo – e la tivù, magica scatola nata prima che lui ed io venissimo al mondo, e che adesso non è più solo schermo posato su un mobiletto – magari un vecchio carrello con la lucina sopra “perché altrimenti fa male agli occhi” – ma è declinato in molte versioni: dal tablet, al telefonino, al monitor del pc.

Alla vigilia del settantesimo compleanno di mamma Rai, in questo saggio, sottotitolato “Breve storia della televisione italiana”, l’autore ripercorre i decenni che vanno dagli anni cinquanta ai giorni nostri: la nascita delle trasmissioni, i primi programmi con un’audience oggi impensabile, la funzione di alfabetizzazione oltre all’intrattenimento, il passaggio alla tv colorata e la nascita delle reti alternative alla Rai, la fine del duopolio, il proliferare delle piattaforme e dello streaming. Persino gli anni della pandemia, con gli studi televisivi in lockdown e Sanremo senza pubblico in platea. Fino a oggi la televisione ha sempre trovato, e forse troverà ancora, un modo per sopravvivere.  

Storia di programmi, questa di Dalla Vecchia – ché molti solo a sentirli nominare sbloccano ricordi – ma anche di eventi storici dall’enorme risonanza mediatica, e di vicende interne alla gestione e direzione del mondo televisivo stesso. La tv come specchio della società, capace di testimoniarne, ma anche di anticiparne e orientarne, i cambiamenti.

Si è passati dalle trasmissioni come Lascia o raddoppia, che creavano veri e propri gruppi di ascolto raccolti attorno al focolare tv, alle serate infinite allungate da interminabili pubblicità solo per seguire una puntata di Elisa di Rivombrosa, alla fruizione attuale di una, o persino mezza, puntata alla volta della serie tv preferita, magari seguita sullo schermo di un telefonino.

Si racconta l’essenziale, in questo piacevole testo, addirittura “in pillole”, senza analisi cervellotiche ma con un linguaggio chiaro e agile, capace di attrarre sia boomer, che quei programmi hanno seguiti e amati, sia millennials, abituati alla fruizione veloce e sintetica di ogni contenuto.

Un’operazione culturale, nostalgica – come sempre in Dalla Vecchia – ed educativa verso le giovani generazioni, che conoscono solo gli anni Duemila e non sanno da dove siano sbocciati certi generi e certe pietre miliari in grado di condizionare la produzione successiva, oltre al costume dell’epoca.

Forse, sarà grazie anche a questo saggio, se certi programmi come Techetechetè, non saranno considerati solo come tristi e barbosi necrologi.  

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Patrizia Poli, "La pietra in tasca"

9 Settembre 2023 , Scritto da Maddalena De Leo Con tag #maddalena de leo, #recensioni, #poli patrizia

 

 

   

 

 

 

LA PIETRA IN TASCA

di Patrizia Poli

Literary Romance, 2023

 

 Recensione a cura di Maddalena De Leo (Referente Italiana della Brontё Society)

 

 

     Il piccolo libro La pietra in tasca di Patrizia Poli (Literary Romance, 2023) si divide in due parti in cui nella prima leggiamo un’attenta riproposizione della biografia Brontё dal punto di vista di Emily e, nella seconda, una sintesi particolareggiata e pedissequa della trama del suo unico romanzo Wuthering Heights (Cime Tempestose).

     L’idea di base, cioè quella di far parlare Emily Brontё dall’al di là facendole ripercorrere a ritroso la propria vita e rivivere l’ambiente e i paesaggi che l’hanno vista interagire con la natura, risulta originale e contribuisce a creare la giusta prospettiva in cui inquadrare un’autrice misteriosa e così poco comprensibile ai tanti ammiratori postumi. Questo stesso filo conduttore porta a descrivere nella seconda parte del libro con minuzia la trama del romanzo che, pur scontata per il lettore informato e addirittura eccessivamente puntuale per lo studioso brontёano, viene comunque riscattata dalle frasi finali che riportano alla visione retrospettiva che Emily Brontё sta operando su sé stessa dall’oltretomba.

     Anche il titolo del libro è da leggere in questa chiave perché, come spiegato fra le pagine del testo da Patrizia Poli in riferimento a Heathcliff, la pietra tenuta nascosta equivale a una vendetta a lungo covata che non appartiene solo al protagonista ma anche a Emily, detentrice della fama postuma che ha di gran lunga superato quella di tanti altri autori e detrattori passati e presenti.

     Sono da segnalare purtroppo i numerosi refusi presenti nella proposizione dei nomi di persone e luoghi: ‘Elisabeth’ invece di Elizabeth, l’ibrido ‘Brussel’ invece di Brussels (in inglese) o almeno e più correttamente Bruxelles (in francese), ‘Raw Hill’ invece di Law Hill, il reiterato ‘Edgard’ quando viene nominato Edgar Linton, e i mancati crediti per le sette evocative illustrazioni che ben riproducono i due protagonisti nei momenti più salienti del romanzo.

   

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Aldo Dalla Vecchia, "Le tre parche"

3 Agosto 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

Le tre parche

Aldo Dalla Vecchia

Pegasus Edition, 2023

 

 

Vita pubblica e privata coincidono negli scritti di Aldo Dalla Vecchia, giornalista e autore televisivo fra i più conosciuti, cosicché questa sua nuova fatica mescola l’affresco di costume con la saga familiare, i personaggi noti a tutti con le figure che popolavano la provincia veneta di tanti anni fa. Fra estati sonnolente in campagna, zii che salvavano dalla noia di un lavoro in cantiere imposto dal padre, fumetti e fotoromanzi letti avidamente il giovedì appena usciti in edicola, si snodano queste lettere dedicate a qualcuno che un tempo c’era e ora non c’è più.

Una serie di quadri raffiguranti figure fondamentali nella vita di Dalla Vecchia, legate da un filo rosso, o meglio nero, la morte. Delle tre parche è Atropo a vincere sempre, anche se le altre due, Cloto e Lachesi, si danno un bel da fare a ingarbugliarci l’esistenza, a riempirla d’incontri casuali e di coincidenze che si riveleranno importanti. Ma la morte, democratica e dispettosa, arriva per tutti. E di morti sono  costellate l’infanzia, l’adolescenza e la maturità dell’autore, in questo “romanzo” che va all’indietro nel tempo, dove l’inizio è la fine e viceversa.

Tutti questi lutti, queste scomparse, queste lacerazioni dell’anima, anticipano e prefigurano l’altra, la più importante, quella che ha segnato l’esistenza dello scrittore, ovvero la perdita del padre Michele, perito improvvisamente per un incidente in montagna quando Dalla Vecchia era bambino.

Le persone defunte sono definite solo con il loro nome; alcuni sono familiari, come gli zii, i nonni, altri sono amici, altri ancora figure famose, i personaggi televisivi granitici come Mike (Bongiorno) o storici e giganteschi come Carol (Wojtyla).

Non mancano cani e gatti, primi grandi amici persi, primi dolori sofferti, e persino un personaggio fittizio, il cane Argo dell’Odissea. Con Argo, Dalla Vecchia ci riporta d’un balzo indietro, ricrea un piccolo quadro d’epoca, lo vediamo insieme alla nonna guardare quelli che erano i grandi sceneggiati televisivi di allora, lo immaginiamo singhiozzare disperato sulla morte del fedele animale. Questo bozzetto ha riacceso in me il ricordo di un mio inconsolabile e straziante pianto, dopo la visione di un cartone animato nel quale un disgraziato pinguino moriva di freddo e di stenti perché incapace di abbandonare l’uovo che non si schiudeva e che in realtà era stato sostituito con un sasso. Ancora, se ci penso, provo lo stesso strazio di Aldo e il magone mi chiude la gola.

La nostalgia allegra dei primi testi di Dalla Vecchia, per me che li ho letti tutti, si sta facendo vieppiù amara, sta perdendo la briosità della giovinezza per divenire struggente e dolorosa, quasi crudele. Libro dopo libro il tempo passa. Forse per chi è sensibile come Aldo passa ancora di più, lascia un segno, riannoda e disfa i fili dell’esistenza e del destino.

Tutto si perde e tutto torna, la fine e l’inizio combaciano. Atropo apre le sue forbici e aspetta.

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