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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Franco Rizzi, "... scrivimi"

31 Ottobre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #franco rizzi, #recensioni

 

 

 

 

…scrivimi

Franco Rizzi

La Paume, 2017

 

Franco Rizzi ha fatto quello che farei io se ne avessi i mezzi: ha aperto una sua casa editrice, La Paume, e si è pubblicato. Al contrario di molti, non trovo nulla di disdicevole in questo: se l’autore per primo non crede nella bontà del suo lavoro, chi deve crederci? Eppure, quando mi è arrivato per posta …scrivimi, non pensavo di avere fra le mani un libro così. Un libro bello.

Una narrazione d’altri tempi, intrisa di passione, dolcezza, romanticismo, ma anche realistica e cruda nel dipingere lo squallore di certe situazioni nelle quali ci troviamo nostro malgrado ingabbiati. Un racconto in cui la Storia con la esse maiuscola non fa da sfondo, è parte stessa degli eventi, eppure non ingombra ma, anzi, grazie al ritmo veloce e divulgativo, avvince e crea un tessuto unico con lo svolgersi della trama intrisa di sentimenti, di nostalgia, di sottigliezza psicologica.

Ambientato fra Livorno e Brooklyn – parrebbe liberamente ispirato a una storia vera - il romanzo vede svolgersi in parallelo le vicende storiche che hanno come protagonisti questi luoghi e, allo stesso tempo, le vite dei due personaggi principali, Nino e Maria Grazia. Essi s’incontrano a Livorno, passeggiano nei giardini della Fortezza Nuova, s’innamorano perdutamente l’uno dell’altra, bruciano di passione ma non hanno i mezzi per sposarsi. Allora lui parte  in cerca di fortuna, lei rimane ad attendere le sue lettere e la possibilità di raggiungerlo in America. Ma il destino si mette di mezzo sotto forma di una malefica zia impicciona e i due saranno separati, dall’oceano, dal tempo, da matrimoni tristi e pieni di rimpianto per ciò che non è stato e poteva essere. Ma l’amore resta, cova come amarezza apparentemente immotivata, grigiore, sensazione di vita sprecata, di caduta ineluttabile verso ciò che non doveva essere, di prigione che si chiude alle spalle, che soffoca, che istupidisce. A riprova di “quanto poco”, come dice l’autore stesso, “l’uomo riesca a governare la propria vita”. Poi, però, la svolta, che non posso svelare.

Lo stile è asciutto, accattivante e poetico: “a volte Nino aveva l’impressione che i grattacieli spingessero il cielo sempre più lontano.” (pag 119)

Peccato solo per qualche rado refuso e qualche ripetizione di troppo. (E da livornese non posso perdonare a Rizzi di aver scritto cacciucco con quattro c invece di cinque.)

 

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Il cor gentil

24 Ottobre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #storia, #personaggi da conoscere, #poesia

 

 

 

Cacciato dal Comune di Firenze in seguito alle lotte tra diversi gruppi cittadini, Dante non tornò più nella sua città. Durante l’esilio scrisse un libro, nel quale racconta un viaggio meraviglioso, fatto con la fantasia: la Divina Commedia. Dante attraversa l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso, dove sono punite le anime dei malvagi e sono premiate quelle dei buoni. Accanto ai santi e ai dannati, agli angeli e ai diavoli, Dante parla sempre della sua Fiorenza, con le cento torri merlate, che egli ama più di qualsiasi altra cosa e che ha dovuto abbandonare. Anche nella Divina Commedia, come nelle opere di Giotto, troviamo la descrizione del modo di vivere degli uomini medievali e dei loro sentimenti che, alla fine, sono anche i nostri.

A nove anni Dante conosce Beatrice (Bice) Portinari, la rivede poi a diciotto anni, prima che vada sposa a Simone de Bardi. Lei muore prematuramente e Dante la piange tutta la vita, nonostante si sia fatto una famiglia, sposando Gemma Donati, dalla quale avrà quattro figli. Il ricordo di Beatrice è racchiuso ne la Vita Nova, e nel Paradiso si trasforma in simbolo, in guida spirituale. Lei è l’esempio dell’amor cortese, l’amore clandestino dei trovatori, ma anche la donna angelicata dello stilnovismo, in un contesto più intellettuale. La figura femminile evolve verso la una "donna-angelo", intermediaria tra l'uomo e Dio, capace di sublimare il desiderio maschile, purché l'uomo dimostri di possedere un cuore gentile e puro, cioè nobile d'animo; amore e cuore gentile finiscono così con l'identificarsi totalmente.

 

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia, quand'ella altrui saluta,

ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,

e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d'umiltà vestuta,

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che 'ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d'amore,

che va dicendo a l'anima: Sospira

 

E al “cor gentil” “ratto si apprende amor” anche in Paolo e Francesca, nel celeberrimo Canto V de L’Inferno, quando i due, galeotto fu un libro, si abbandonano alla passione. L’amore può esplodere solo nei cuori predisposti perché sensibili e nobili, sia dell’uomo che della donna.

 

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona. 

Amor condusse noi ad una morte.

 

Una curiosità: a far rivivere l’Alighieri ha contribuito, nel 1946, Il romanzo di Dante, di Luigi Ugolini (1891 –  1980) nato anche lui a Firenze. Egli collaborò a alla rivista Nuova Antologia, insieme a Giovanni Papini, e divenne nonno della romanziera Wanna Bontà.

 

 

 

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Marcos Chicot, "L'assassinio di Socrate"

20 Ottobre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

L’assassinio di Socrate

Marcos Chicot

Traduzione di Andrea Carlo Cappi

 

Salani Editore, 2017

pp 729

19,90

 

La guerra del Peloponneso che per più di trent’anni contrappose Sparta e Atene.

Il tramonto di Atene, dai gloriosi giorni di Pericle al declino. 

La peste, l’oracolo di Delfi e quello di Olimpia, i giochi Olimpici.

E poi Pericle, Socrate, Euripide, Aristofane, Platone, Santippe, una carrellata di personaggi famosi, resi vivi e attuali ne L’assassinio di Socrate, del madrileno Marcos Chicot. A tutti gli effetti un romanzo storico, in gran parte basato su Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide, ma anche su quasi cinquantamila pagine di documentazione. Oggigiorno si ha paura di dire pane al pane e si preferisce usare i termini thriller e giallo, che vanno tanto di moda fra i lettori di bocca buona. Se di giallo mai si trattasse, sarebbe incentrato su un omicidio non ancora commesso bensì da commettere.

L’impianto di conoscenze dispiegate in questo romanzo è ponderoso e impressionante, ben settecento pagine di battaglie, costruzioni, topografia, eventi storici. Grazie a Chicot rivivono l’arte della ceramica, l’architettura dell’Acropoli, l’alimentazione, gli abiti, le pestilenze, gli usi e costumi greci del V secolo a.c.. Se gli scrittori di romanzi storici possono peccare di pignoleria, L’assassinio di Socrate riesce, comunque, ad alternare capitoli descrittivi e didascalici ad altri squisitamente narrativi, catturando l’attenzione con personaggi ben disegnati, con una trama avvincente e con una bella atmosfera d’epoca.

Perseo si crede ateniese, discendente del ceramista Eurimaco. È nato con gli occhi talmente chiari da apparire trasparenti. In realtà è spartano, figlio di Deianira e del truce Aristone, il quale lo ha condannato a morte alla nascita e non sa che  il bambino è stato, invece, salvato e portato ad Atene, dove è cresciuto forte e bello, fino a divenire un campione olimpico. Perseo è innamorato di Cassandra, figlia del drammaturgo Euripide e amica di Santippe, la moglie di Socrate. Perseo e Cassandra si amano profondamente fin da bambini, di quell’amore che dura tutta la vita.

Perseo è anche amico di Socrate, il pensatore che “sa di non sapere” e che si diverte a mettere in difficoltà saccenti concittadini, attirandosi molte inimicizie. Un’oscura profezia lega la possibile morte del filosofo proprio a Perseo, “l’uomo dallo sguardo più chiaro.”

Verità storica e finzione si fondono in un libro divulgativo ma anche cinematografico, un colossal che sposta eserciti e smuove sentimenti, con un paio di memorabili figure di cattivi. Aristone, in particolare, è talmente ben disegnato che, quando la moglie Deianira tenta di liberarsene, siamo tutti con lei.

Questo è uno di quei romanzi che piacciono a me, inutile dire che si è dovuto tradurlo dall’estero, nella fattispecie dallo spagnolo. Non si sa perché da noi sia impossibile, a parte i lavori di Pierluigi Curcio e di Sergio Costanzo, trovare dei romanzi così: di ampio respiro, di grande atmosfera, capaci di insegnare narrando e di farci immergere completamente in una trama e in un mondo secondario ricostruito nei minimi particolari.

Seguendo Chicot ci addentriamo lungo la via panatenaica, saliamo all’Acropoli per ammirare il frontone del tempio e le cariatidi dell’Eretteo, c’inoltriamo nel sepolcreto del Ceramico, partecipiamo alle Olimpiadi e a grandi battaglie terrestri e navali.  Insomma, come afferma l’autore medesimo, qui non si assassina nessuno, qui non c’è nessun thriller, casomai si resuscitano personaggi e questa è la volta di Socrate.

Peccato solo che le settecento pagine siano funestate da troppi  - incomprensibili dato il pregio della casa editrice – refusi ed errori tipografici.  

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Acqua sotto e sopra i ponti

26 Settembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

 

 

 

 

È passata tanta acqua sotto i ponti e non solo in senso figurato. La mia città ha subito quella che credeva impossibile, cioè un’alluvione, dalla quale, per mia fortuna, sono uscita indenne.

Prima ci sono state passeggiate nei prati con le mucche, frizzanti ruscelli di alta montagna e il mio cane che scorrazzava felice; ci sono stati mulini sul fiume, cigni sul lago e parenti ritrovati. E, al rientro, una nuova gattina. Così la famiglia è aumentata.

A me piace quando ci si avvicina a san Remigio, l’orgia estiva si acquieta, si dà principio a qualcosa di nuovo o si ritrovano vecchie abitudini, ci si riappropria del tempo ordinario. Ah, la magnifica vita normale! Le giornate scorciano, diventano freddine e piovose, e, mentre riscopriamo il gusto di stare in casa e di riaccendere la tv, lentamente si comincia a pensare al Natale.

Con gli ultimi scampoli di saldi ho comprato tanto, al punto che, per parlarvi degli  acquisti, devo raggrupparli per categorie.

Ecco le canotte, a spalla sottile da portare sotto, e a spalla larga, in stile premaman, per nascondere la pancia.

Ecco una serie di camice a maniche lunghe, leggere, eleganti, impalpabili, in tutti i colori e le fantasie possibili, in particolare deliziosa quella abbottonata davanti.

Ecco le scarpine blu elettrico. Io, in questa stagione, porto sempre e solo ballerine, forse non slanciano ma ingentiliscono il piede.

Ecco i pantaloni fantasia leggeri e ancora decisamente estivi e poi quelli in tinta unita, da signora.

Ecco una collanina a tre strati per ravvivare qualunque maglietta anonima.

Poi il vestito a righe marroni, lungo alla caviglia e signorile.

Aggiungete a questo due tute da ginnastica, una grigia e una nera, ché la buona volontà in questo periodo non manca e mi sono iscritta in palestra.  

****

 

There has been so much water under the bridges and not just figuratively. My city has suffered what it thought impossible, that is, a flood, from which, fortunately, I was not touched.

Before, I had been walking in meadows with cows, along sparkling high-altitude streams, where my dog ​​roamed happily; there were mills on the river, swans on the lake, I rediscovered relatives. And, when I returned, I got a new kitten. So, the family has increased.

I like it when you approach San Remigio, and you get rid of the summer orgy. Something new starts, or you rediscover old habits, and the ordinary time. Oh, The magnificent normal life! The days roll over, they become cold and rainy, and, as you taste the pleasure of staying home again, and to turn on the TV, slowly you start thinking about Christmas.

With the latest discounted sales, I bought so much that, to talk about my purchases, I have to group them by categories.

Here are the tops with a thin shoulder, as underwear, and a wide shoulder, premaman style, to hide your belly.

Here's a whole set of long-sleeved shirts, lightweight, impalpable, in all colors and fantasies possible, particularly delicious the one buttoned in front.

Here are the blue electric shoes. In this season, I  always wear ballerina shoes, maybe they do not make me seem taller, but they make my feet prettier

Here are the fancy pants, that are light and still very summery, and then those in solid color, much ladylike.

Here's a three-tier necklace to revitalize any anonymous t-shirt.

Then there's the brown striped dress, long on the ankle and very chic.

Add to this two gymnastic suits, a gray and a black one, because goodwill at this time is not missing and I joined the gym.

Acqua sotto e sopra i pontiAcqua sotto e sopra i pontiAcqua sotto e sopra i ponti
Acqua sotto e sopra i pontiAcqua sotto e sopra i pontiAcqua sotto e sopra i ponti
Acqua sotto e sopra i pontiAcqua sotto e sopra i pontiAcqua sotto e sopra i ponti
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Aldo Dalla Vecchia, "Abracadabra"

19 Settembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

Abracadabra

Aldo Dalla Vecchia

 

Pegasus Edition, 2017

pp 117

 

Aldo Dalla Vecchia, più che scrittore o autore televisivo, è principalmente giornalista, il mestiere che voleva fare fin da piccolo. E con Abracadabra torna alle origini: venti interviste a personaggi noti del mondo dello spettacolo. Le domande hanno a che fare con la rivista Mistero, di cui Dalla Vecchia è collaboratore, e  riguardano il paranormale, la spiritualità, la religiosità. Vanno, insomma, a scandagliare il lato più privato della mente umana, dove risiedono le verità personali e nascoste di ognuno di noi, ciò che pensiamo della vita, della morte, di Dio.

Colpisce – come anche in Piccola mappa della nostalgia – la capacità di trasformare piccoli accadimenti, piccoli ricordi, piccole (ma anche grandi, visto i temi trattati) realtà in qualcosa di mitico che, non sappiamo nemmeno noi perché, ci catapulta indietro, in un passato quasi favoloso. Così come quando Enrico Beruschi ricorda il passaggio dalla televisione di stato a quella fantasmagorica di Mediaset. Nel libro si parla di trasmissioni allora d’avanguardia e cult come Non Stop e Drive In, ma anche di rapporto con Dio, di colloqui con papi, di superstizione, di dogmi, di ricerca profonda di fede e spiritualità, come nel caso di Al Bano colpito dal grave lutto familiare o di Diego Dalla Palma, sempre più isolato e meno mondano. Ci sono anche personaggi a mio parere antipatici e criptici – che forse non nascondono nulla se non il bisogno di fare qualche soldo e acquistarsi un po’ di fama- come Lory Del Santo, o assolutamente sopra le righe e insopportabili come il Divino Otelma. Ma in tutti appare un bisogno comunque di ricerca, di speranza e di qualche cosa che non sia solo la materia. E per molti sensibilità equivale a sofferenza.

Il tutto è esposto con la consueta delicatezza e leggerezza di tocco, tratti che riescono a rendere gradevole, non pesante ma nemmeno futile, qualunque argomento. Lo stile è sciolto, piacevole, molto scorrevole, il libretto si legge in fretta, presi, come sempre nel caso di Dalla Vecchia, da un interesse che non sappiamo neppure da dove scaturisca, forse proprio dal suo modo di scrivere elegante e ingenuo insieme. Anche il titolo stesso, Abracadabra, ammanta di levità e magia argomenti profondi come la metempsicosi, il ruolo della chiesa cattolica o l’omosessualità.

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Il Cristo di Giotto

12 Settembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #storia, #pittura, #personaggi da conoscere

A sinistra il crocifisso di Cimabue, in Santa Croce, a destra quello di Giotto, in Santa Maria NovellaA sinistra il crocifisso di Cimabue, in Santa Croce, a destra quello di Giotto, in Santa Maria Novella

A sinistra il crocifisso di Cimabue, in Santa Croce, a destra quello di Giotto, in Santa Maria Novella

The city people, in the end, were tired of struggles. It happened then that a merchant - or a banker or a nobleman - richer and more powerful than the others, allied himself with the small people, after promising better conditions of life, and became master of the city. In this way the Municipalities were transformed into Lordships. Citizens no longer chose their leaders.

It is not easy to be free, the citizens of the Municipalities tried to do it from 1200 to 1400 AD, but their attempts resulted in a failure. However, during these turbulent centuries, some great Italians stood out for their spirit and their works.

One of these was Giotto di Bondone (1267-1337). Even today the walls of some churches in Florence, Assisi and Padua are covered with paintings that tell the life of St. Francis and Jesus. They are all paintings by Giotto or, at least, it is thought that they are or that he contributed considerably. The restoration of the crucifix of the Opificio delle Pietre dure in 2001 seems to have dispelled all doubts.

If the cycle of San Francesco is uncertain, it is certainly the splendid Scrovegni chapel in Padua.

Who does not remember the Giotto brand drawing albums sold in the 60s? Giotto is portrayed on the cover, while drawing a sheep on a stone, observed by Cimabue who, according to legend, thus became his master. It also seems that the Tuscan painter knew how to draw an O without compass, and that he painted a fly so realistic that Cimabue tried to chase it away.

Legends aside, Giotto modernizes painting, abandons the still images and golds of Byzantine art, recovering contact with reality and nature. The figures are no longer flat but become concrete, surpassing those of Cimabue. This leaves behind the "Greek" conventions, followed until a few years earlier by Cimabue and all the other painters. Dante Alighieri writes:

 

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura. (Purgatorio Canto XI)

 

 

Giotto's Christ is no longer a Byzantine icon but a crucified man, with blood flowing from his side. Giotto, in fact, abandoned the iconography of the Jesus arched to the left, with the halo still similar to that of the Pantocrator, to paint it with the figure sinking downwards and the head forward, with the arms no longer parallel to the ground but flexed by weight and suffering. We move from a merely spiritual and mystical image to a more concrete one, from centuries drenched in faith and a search for transcendence - from the upward push given by Gothic architecture - to a period in which man, his figure and its carnality, will be central. There is even a hint of light that, over time, will take us to Caravaggio.

This is how we move slowly but surely from the Middle Ages to the Renaissance.

 

 

 

 

Il popolo delle città, alla fine, fu stanco di lotte. Accadde allora che un mercante - o un banchiere o un nobile - più ricco e potente degli altri, si alleasse col popolo minuto, dopo aver promesso migliori condizioni di vita, e diventasse padrone della città. In questo modo i Comuni si trasformarono in Signorie. Non erano più i cittadini a scegliere i loro capi.

Non è facile essere liberi, i cittadini dei Comuni cercarono di farlo dal 1200 al 1400 d.c., ma i loro tentativi si risolsero in un fallimento. Tuttavia, durante questi secoli pieni di fermento, alcuni grandi italiani si distinsero per il loro spirito e le loro opere.

Uno di questi fu Giotto di Bondone (1267-1337). Ancora oggi le mura di alcune chiese di Firenze, Assisi e Padova sono coperte di pitture che raccontano la vita di San Francesco e Gesù. Sono tutte pitture di Giotto o, almeno, si pensa che lo siano o che egli vi abbia contribuito notevolmente. Il restauro del crocifisso dell’Opificio delle Pietre dure nel 2001 pare aver fugato tutti i dubbi.

Se il ciclo di San Francesco è d’incerta attribuzione, sicuramente sua è la splendida cappella degli Scrovegni a Padova.

Chi non ricorda gli album da disegno di marca Giotto venduti negli anni 60? Vi è ritratto in copertina, appunto, Giotto che disegna una pecora su un sasso, osservato alle spalle da Cimabue che, dice la leggenda, in questo modo ne divenne maestro. Pare anche che il pittore toscano sapesse disegnare un O senza compasso, e che abbia dipinto una mosca talmente realistica che Cimabue cercò di scacciarla.

Leggende a parte, Giotto modernizza la pittura, abbandona le immagini fisse e gli ori dell’arte bizantina, recuperando il contatto con la realtà e la natura. Le figure non sono più piatte ma diventano concrete, superando quelle di Cimabue. Si abbandonano così le convenzioni "alla greca", seguite fino a pochi anni prima da Cimabue e tutti gli altri pittori. Scrive Dante Alighieri:

 

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura. (Purgatorio Canto XI)

 

Il Cristo di Giotto non è più un’icona bizantina ma un uomo crocifisso, col sangue che sgorga dal costato. Giotto, infatti, abbandonò l'iconografia del Gesù inarcato a sinistra, con l’aureola ancora simile a quella del pantocratore, per dipingerlo con la figura che sprofonda verso il basso e piega il dorso e la testa in avanti, con le braccia non più parallele al terreno ma flesse dal peso e dalla sofferenza. Si passa da un’immagine solo spirituale e mistica a una più concreta, da secoli intrisi di fede e di ricerca di trascendenza - dalla spinta verso l’alto data dall’architettura gotica - a un periodo in cui l’uomo, la sua figura e la sua carnalità saranno centrali. C’è persino un accenno di luce pastosa che, attraverso il tempo, ci porterà fino a Caravaggio.

È così che si passa, lentamente ma inesorabilmente, dal Medioevo al Rinascimento.

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Stefano Colli, "La diaspora del senso"

18 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

La diaspora del senso

Stefano Colli

 

Edizioni Helicon, 2017

pp 78

11,00

 

Ancora un altro poeta, ancora un’altra silloge, La diaspora del tempo, di Stefano Colli, scritta con estrema fluidità e semplicità. Poesie non ermetiche, suddivise in tre sezioni, la prima dedicata allo scrivere versi, la seconda agli orrori della storia odierna, la terza più intima e personale.

Le liriche di Colli non rinunciano mai a soffermarsi su di sè, sull’atto stesso del poetare, sul parto delle sillabe, che è irrinunciabile, consolatorio ma spesso inutile. L'autore dialoga con Alda Merini, con Dino Campana, i riferimenti classici sono espliciti e voluti, quel non chiedere la parola di montaliana memoria ci impone di riflettere su cosa serva poetare, se debba o meno essere legato alla vita: “perché non hanno un pubblico i poeti?/se i versi non si aprono alla vita/e il poetare è questione di castelli privi di un ponte levatoio? E ancora: Un giorno senza versi è come vivere una seconda morte.

Se scrivere parole è gesto intimo, personale, liberatorio, è comunque anche un ponte, un occhio sulla realtà che ci circonda, come i naufragi nel mediterraneo, come i paesi distrutti dal terremoto o dalla guerra. Così lo scrivere assomiglia al tradurre, non da un altro mondo ma da questo, non da un iperuranio ma dalla bruta realtà che ci circonda, fatta di scene terribili, del piccolo Aylan arenato su una spiaggia, di sofferenza ma anche di una natura distaccata, a volte matrigna, sempre contemplativa e da contemplare, una natura alla quale ispirarsi per raggiungere una sorta d’indifferenza che ci protegga dal dolore. C’è un vano tentativo di comprensione, subito abbandonato a causa della diaspora del senso, che coincide con la perdita di umanità in generale ma anche con la solitudine e incomunicabilità del singolo. Il male del mondo - gli occhi dei bambini vittime della guerra - non si può redimere, il dolore sarebbe forse un poco lenito dall’amore, servirebbe il sorriso di una donna, ma anche quello ormai è negato, lei è lontana, fisicamente o moralmente, e scrivere diventa il surrogato di amare.  

Lo stile è molto scorrevole e misurato, alcuni versi, però, denotano poco sforzo e potrebbero, con maggiore approfondimento, risultare meno banali, come , ad esempio “all’ineffabile angoscia del nulla”. Non basta usare parole poetiche e indefinite, come notte, luna, stelle o mare, per ottenere i risultati di Leopardi. Forse, la cosa più interessante di questa raccolta è proprio, come dicevamo prima, quel rimasticare versi già digeriti di un comune patrimonio poetico: Venne la morte e aveva occhi di follia, piegandoli ad esprimere l’indicibile orrore di momenti come l’11 settembre, anch’essi, non casualmente, parte di una storia che ci accomuna tutti.  

Ci sono però picchi di splendore in alcune poesie, sia sociali che introspettive, come in Ragazza di Kobane e  Surrogato di amare, di cui riportiamo alcuni versi.

 

Ogni mattina pregherò per rivedere

quel bagliore nello sguardo di ragazzi

ignari del tempo che impiega

una sigaretta a consumarsi, lenta

tra le rovine di una città assediata

E la vita che scorre, indomita

Con il fumo confuso tra i capelli

E in tasca soltanto la speranza. (Da Ragazza di Kobane)

 

***

Esposti a questo strano vento

di un ottobre malato, si levano

i tuoi capelli verso il cielo grigio

come storni impauriti

in cerca di una timida gioia.

Riempio il bianco della pagina

solo per sopravvivere, ma so

che stasera scrivere

può essere soltanto il surrogato di amare. (Da Surrogato di amare)

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Stefano Labbia, "I giardini incantati"

10 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

 

 

I giardini incantati

Stefano Labbia

 

Talos Edizioni, 2017

 

Una raccolta di liriche discorsive, persino dialoganti a volte, che raccontano momenti di vita, soprattutto coniugale, o comunque un difficile rapporto con se stessi e le donne di oggi e di ieri. Un uomo insoddisfatto, il protagonista di queste poesie, che rimpiange il passato e teme un futuro troppo simile al presente.

L’interlocutore, l’altro da sé, è quasi sempre la donna: moglie, amante, arpia, nemica. Un sentimento che non è generica misoginia ma fastidio nei confronti di alcune persone specifiche, di una donna, in particolare, alla quale il protagonista si è legato con squallide catene, cosicché vive la vita per modo di dire, come purtroppo capita a molti di noi: non sentirsi più vivi, provare astio, rabbia e rancore per chi ci sta a accanto, sentirsi artefici del proprio male e chiusi in gabbia, sognando al contempo tutte le possibilità di un’altra esistenza, più piena, più ricca di emozioni autentiche, e un domani luminoso che non arriva mai.

Lo stile è semplice, crepuscolare, le ripetizioni rafforzano i concetti e illanguidiscono il verso, le domande insistenti, spesso retoriche, cercano di fare chiarezza là dove, ahimè, forse tutto è già chiaro e immobile. E c’è anche, a tratti, un sottile amaro sarcasmo (se solo pagassi tu) che ci mostra il risvolto meschino di una realtà che sarebbe tragica se non fosse anche ridicola.   

Concludiamo questi brevi cenni con una delle migliori poesie

 

 

A Rina

 

Decantavi il valore di ogni singolo respiro,

ogni istante,

ogni fugace momento,

colla tua piccola insenatura,

al lato della bocca

ed il tuo piccolo difetto

dietro al collo.

Petali rossi

si dischiusero

per assaporare il vento...

Poi un tintinnio,

lontano,

ti fece voltare

dalla parte sbagliata.

 

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Diego Collaveri, "La bambola del Cisternino"

7 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #luoghi da conoscere

 

 

 

La bambola del Cisternino

Diego Collaveri

 

Fratelli Frilli Editori, 2017

pp 297

12,90

 

I noir dei Fratelli Frilli editori si caratterizzano per il loro essere quasi guide turistiche della provincia italiana. Che si parli della Genova di Alessio Piras o della Livorno di Diego Collaveri, ci addentriamo nei meandri di città poco conosciute ai più, o, comunque, in zone non familiari di centri abitati famosi. Almeno nel caso di Collaveri, alcune insistite digressioni turistico- informative, però, proprio nel bel mezzo dell’azione, sono abbastanza improbabili.         

Questa è, comunque, nonostante tutto, la principale virtù di La bambola del Cisternino, del livornese Collaveri. Il suo protagonista si muove nei bassifondi di una città che ama e conosce per averne studiato la storia e i monumenti. Livorno, infatti, la fa da padrona in tutti i suoi aspetti, con i rumori, le esalazioni e i colori, con quel traffico caotico indifferente e ingorgato dalle nuove rotatorie, coi gabbiani che stridono irriverenti al tuo dispiacere, qualunque esso sia, con l’odore dei Fossi, degli scalandroni e dei cunicoli sotto il Voltone, sotto il Mercato delle Vettovaglie, sopra e sotto le campagne a nord e a sud, negli acquedotti di Colognole e di Filettole, nelle Cisterne grandi e piccole.  

Per il resto siamo alle prese con la solita storia intricata, per metà gialla e per metà di azione, e con gli stereotipi del genere. Ecco, dunque, la belle dame sans mercì,  cui attribuire nel finale gran parte della colpa, ecco gli oscuri poteri occulti, che restano occulti per favorire un eventuale seguito, ecco, soprattutto, un commissario come ce ne sono a centinaia nei libri e negli sceneggiati televisivi, tutti più o meno fotocopie sbiadite del nostrale Montalbano, con qualche ammiccamento a Dashiell Hammett e Raymond Chandler.

Alcolista al punto giusto, tormentato e sofferente, con una sovrabbondanza di demoni da combattere, Mario Botteghi fa continuamente i conti con un passato oscuro, con una moglie morta e una figlia estraniata. Come amica ha l’immancabile ostessa della trattoria, come colleghi un paio di agenti convenzionali che maltratta bonariamente, giù giù fino a tutti gli altri cliché del genere, dal medico legale irritante alla collega sexy e bellicosa.

Una vecchia prostituta viene trovata morta al Cisternino, antico serbatoio dismesso nei pressi di un centro di tiro al piattello. Più avanti nella storia spunta un nuovo cadavere, quello di un costruttore edile conosciuto in città. Botteghi indaga, riuscendo a non farsi sottrarre il caso della prostituta. Per lui “uno vale uno”, e un’anziana donna di strada ha la stessa importanza di un notabile. Alla lucciola defunta sono collegati ricordi del passato, un’altra morte altrettanto violenta cui Botteghi ha assistito da bambino. A far da colonna sonora il refrain di una famosa canzone di Patty Pravo degli anni sessanta.

Tutti i personaggi del romanzo, da quelli principali ai comprimari, sono prigionieri di se stessi, dei loro impulsi, dei loro caratteri che li portano ad agire in un certo modo, e la vita non ti fa sconti, mai, nemmeno quando hai già pagato e hai già sofferto. Chi nasce vittima, lo resta per sempre.

La morale è che ognuno è schiavo della vita che fa, del suo karma, o che dir si voglia, come se appartenesse ad una casta dalla quale non può sfuggire.

 

Vittima di quella vita che le aveva chiesto pure il conto, come se non fosse bastato quanto aveva passato”  (pag 283)

 

Ma se ho apprezzato questo libro, è, indubbiamente, per la descrizione della mia città, tanto controversa, tanto bella e brutta allo stesso tempo. I ricordi di Collaveri sono anche i miei, anzi, ai suoi si sommano i miei, ché sono nata quindici anni prima. Anch’io rammento il paninaro vicino al porto, la piazza Attias affollata di giovani e di auto, le vecchie baracchine sul lungomare, le cose che erano là da sempre e, ora che non ci sono più, ci mancano, come ci manca la solidarietà fra la gente di un tempo, la stessa rievocata dai racconti di mia nonna, la stessa che canta Otello Chelli nei suoi romanzi, la stessa che qui rimpiange Mario Botteghi mentre cammina, fumando assorto, lungo i fossi di acqua salata.

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Angela Caccia, "Piccoli forse"

4 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #angela caccia, #recensioni, #poesia

 

 

Piccoli forse

Angela Caccia

 

LietoColle, 2017

 

La poesia sembra appartenere a un mondo che c’è già, ecco il senso di quella lettera minuscola all’inizio di ogni lirica nella silloge Piccoli forse di Angela Caccia. Il poeta opera un’azione di maieutica e tira giù le parole da dove esse vivono di vita propria, da un altrove che è già iniziato prima che leggessimo.

Piccoli forse, dunque, piccole possibilità che si traducono in poesie dedicate al padre, alla madre, all’arte, al poetare stesso, inteso come bisogno incontenibile ma anche rifugio. Il vizio di scrivere parole/è solo un mio punto di riparo. E ancora, affidarsi a un foglio/come a un ventre. La poesia protegge e genera allo stesso tempo.

Cerchi concentrici dove la stazione di partenza è quella di arrivo, fatti di cose qualsiasi, di giardini, di aiuole, di pioggia, di sole, di rose, di terra, di porti e di navi, descritti con piccola grammatica per gente semplice. Anche l’amore, inteso come un tutto noi, ma anche come amore materno, schianto di tenerezza. Eppure, accanto a queste cose ordinarie - non nel senso di banali ma nel senso di comuni - ci sono anche le grandi tragedie, come l’attentato di Nizza, ormai, ahimè, divenute  anch’esse quotidianità.

I forse sono le possibilità ma anche le incertezze del destino, gli scarti da ciò che pensavamo dovesse essere e invece, probabilmente, non sarà. La morte è una continua sottrazione, un’assenza cui ci si deve assuefare. Perché bisogna prepararci all’assenza perenne che preannuncia anche la nostra, perché i gesti sono piccoli ma il significato è grande, perché la vecchiaia non dà scampo, prima o poi tutto ci mancherà e i ricordi non basteranno a disperdere quel velo di malinconia da indossare con disinvoltura ogni giorno. La nostra bocca non si slargherà mai più in un pieno riso giovanile, ormai ne siamo certi, neppure di fronte al miracolo di una vita che nasce, di un seno che allatta.

Rispetto a Il tocco abarico del dubbio, si è persa un po’ di scorrevolezza che non guastava, si è aggiunto un po’ di ermetismo in più. Alcune parole cadono nella cacofonia o nella banalità, come ad esempio minuzzoli, ruzzolante, seno turgido. Altri momenti, però, raggiungono apici lirici non indifferenti come più di me fu l’albero oppure un santo senza chiesa o nella bella poesia dedicata alla madre invecchiata che riportiamo per intero

 

e sarò io domani a doverti

partorire in qualche modo,

su ogni post-it alle tre la pillola,

la conta delle gocce, un tuo necrologio

maglia a maglia disferò

l’ansia di quegli appuntamenti,

ognuno una trafittura nel petto,

da parte a parte

cancellarti da ogni giorno

inesorabilmente

inizierò così ad allattare

il tuo ricordo in un rumore

di ciabatte che

mi cammina dentro

 

 

 

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