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poli patrizia

Giuseppe Benassi, "Occhi senza pupille"

21 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Giuseppe Benassi, "Occhi senza pupille"

Occhi senza pupille

Giuseppe Benassi

Vertigo

pp. 95

Gli “Occhi senza pupille” del titolo sono quelli ritratti da Amedeo Modigliani, occhi che non guardano all’esterno bensì all’interno. È ciò che fa l’avvocato Leopoldo Borrani, che opera nella città dove Modì nacque, Livorno, odiandola e amandola allo stesso tempo. Borrani si sposta fra un ufficio in Via Borra e un caffè in piazza Cavour. Peccato solo per quei protagonisti i quali, più che livornese, parlano fiorentino. Giuseppe Benassi, l’autore del romanzo, è infatti livornese solo di adozione e la mimesi linguistica non gli riesce del tutto.

Borrani ha nel sangue la sua città ma ne sente “il lezzo”, ne percepisce il degrado, fatto di personaggi che sembrano a loro volta usciti da un quadro di Sickert, per rimanere nell’ambito pittorico. Personaggi per i quali la vita è già finita, le illusioni sono morte, la disperazione è in agguato. Così è Corinna Repetti, antiquaria, che ricorda la portinaia de “l’Eleganza del riccio”, sciatta, pisciosa, ma con una sua dignità nascosta a illuminarla dall’interno, a procurarle, al contrario del personaggio della Barbery, un meritato lieto fine. Così è Eustachio Bernardi, commendatore sudato, sgraziato spasimante di Corinna, così è lo squallido Mafhuz, giovane marocchino marito di Corinna.

Attorno alla figura di Corinna, già a partire dal suo nome che riporta a quello della cugina di Modigliani, ruota un mondo “altro”, fatto di coincidenze, di rimandi, di intrecci misteriosi, di richiami.

“Stava muovendosi in un mondo misterioso, dove tutto quel che accadeva era inesplicabile, inatteso, e dove tutto poteva succedere. Attorno a lui, tutto era visibile eppure inafferrabile.” (pag. 45)

Gli occhi senza pupille sono anche gli occhi di vetro delle bambole di Corinna – che tanto richiamano le bambole elettriche di Marinetti - gli stessi occhi che le indicheranno la via, permettendole di trarsi d’impiccio; ma anche gli occhi spenti della cieca indiana, e ancora gli occhi cantati da Lautrémont, il poeta che Modigliani amava e che esercitò un’influenza fondamentale sul surrealismo. Questo rimandare ad altro, a un universo parallelo, coincide per Borrani col guardarsi dentro, scendere agli inferi, scoprire i propri lati misteriosi, il rapporto con la morte, con l’aldilà, ma anche con la donna che frequenta, Marianna Messori, amata e non amata, tollerata e non tollerata, la quale, a sua volta, rivelerà angoli inesplorati, introducendolo nel mondo misterioso e splendente dell’arte di Modigliani capace di scintillare solo “attraverso la tenebra”.

Una buona metà del romanzo si svolge a Parigi, dove Modigliani visse un’esistenza maledetta, finendo seppellito al Père Lachaise a soli trentacinque anni. Modigliani “dipingeva in trance, spesso sotto l’effetto di alcool o di droghe. La tela bianca era come il muro su cui Lautrémont vide proiettato un profilo” (pag. 67). Farsi ritrarre da lui era come farsi spogliare l’anima.

“All’inizio del novecento, Parigi era un covo di maghi, di occultisti, di gente che passava il tempo a far sedute spiritiche” (pag 67) E, per associazione d’idee, ci vengono in mente i cupi scenari de “Il cimitero di Praga” di Eco.

A Parigi, nei primi vent’anni del novecento, nascono tutte le avanguardie, là dove operano gli alchimisti, i cabalisti, ma anche i cubisti, i futuristi. La pittura di Modì mescola gli elementi dell’alchimia: la terra, la pietra, l’acqua, il fuoco, il colore. Una delle sue amanti è allieva di Madame Blavatski, i suoi quadri sono pieni di simboli - come le tele di Leonardo secondo Dan Brown. Le sue annotazioni richiamano l’androgino, l’unione del maschile e del femminile, le sigizie gnostiche, Ermete Trismegisto, il numero della Bestia e dell’Apocalisse, la sezione aurea. In particolare, quest’ultima è “la cosa più simile a Dio, unico e incommensurabile”. La sezione aurea contiene il segreto dell’armonia, si ritrova nella natura e in tutte le opere dei più grandi artisti, dalla piramide di Giza alle sculture di Fidia, dal Partenone a Piero della Francesca.

Modigliani, ebreo livornese, imbevuto di esoterismo e di cabala, sta cercando, suggerisce Benassi, d’interpretare Dio attraverso la propria opera.

La trama ci avvince quasi nostro malgrado, s’intreccia e si dipana fino alla conclusione non ovvia che “la fortuna arride a chi non la cerca”, il tutto in uno stile che alterna un modo di narrare tradizionale ad altri più stringati, moderni, fatti di dialoghi veloci, di battute, di descrizioni che sembrano appunti di taccuino.

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Da "Twilight" a "Cinquanta sfumature di grigio", dissoluzione di un mito

20 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #saggi

Per fanfiction s’intende la continuazione di una storia cult da parte degli appassionati. I lettori affamati di altro materiale possono proseguire la storia, colmare le lacune, resuscitare i loro beniamini, creare sequel o prequel. Nel caso della fanfiction di “Twilight” di S. Meyer, ovvero il famigerato, inflazionato, “Fifty Shades of Gray” - dove Gray sta per Grigio ma anche per il cognome dell’algido, imbalsamato, stoccafissico protagonista - più che di una continuazione si tratta, a quanto pare, di una parodia che ha preso la mano alla scrittrice Erika James.

Nell’introduzione viene spiegato che ella “dreamed of writing stories that readers would fall in love with”. Bene, ci pare che sia proprio ciò che non ha fatto, mentre l’operazione era perfettamente riuscita alla Meyer. E tuttavia, quando un caso editoriale assume tale portata, quando ogni persona che incontri, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi studio dentistico o vagone ferroviario, tiene in mano una copia del romanzo incriminato, quando ogni libreria, ogni vetrina, ogni stand di autogrill trabocca di copertine tutte nere con un anodino groppo di cravatta, quando gli alberghi americani hanno sostituito la vecchia Bibbia con le Cinquanta Sfumature, allora non si può liquidare il fenomeno senza nemmeno tentare di capirci qualcosa.

Facciamo un passo indietro, torniamo all’originale, alla saga di Twilight, rivisitazione moderna ma ancora fascinosa del mito della Bella e la Bestia, dove la protagonista, appunto Bella Swan, è una ragazza qualsiasi, una Cenerentola capace di conquistare il principe dei vampiri, Edward, bello fino all’impossibile (cui l’attore del film omonimo non rende giustizia) non incenerito dal sole ma scintillante sotto di esso come un cristallo rifratto, puro di cuore, “vegetariano”, romanticamente lacerato fra i suoi istinti e l’input morale che lo spinge a sublimare il desiderio. Bella lo attira perché il suo sangue ha per lui il più dolce dei richiami, è nettare e delizia, è fragranza e rimorso. Pur di amarla, pur di starle vicino, soffocherà l’istinto omicida, lo trasformerà in protezione, che è poi quello che ogni maschio fa con la sua donna, tenendo a bada l’impulso sessuale, avvolgendolo di tenerezza. Bella Swan è vera, con problemi familiari tangibili, emozioni adolescenziali comuni a molte ragazze della sua età e una naturale propensione alla solitudine, alla malinconia.

Che resta di questi due personaggi in Fifty Shades? Edward Cullen diventa Christian Grey, privo di allure, sexy quanto un manichino da vetrina, maniaco sessuale sadico che si diverte a frustare le sue donne, ad appenderle al soffitto, a flagellarle, a inserire nella loro vagina sfere di piombo, a far loro firmare pedantissimi contratti sul ruolo Dominante/Sottomessa. Al contrario di Edward, Christian non sorride, ghigna, non è tormentato, non è romantico, “I do not make love”, dice, “I fuck hard”, ed è buono solo perché il suo maggiordomo compiacente ci dice che lo è. Christian Gray è un divoratore di fanciulle innocenti, come il suo ispiratore Alec Stoke in “Tess dei d’Urbeville” di cui, a quanto pare, la James è intenditrice. Christian regala alla sua vittima preziosissime edizioni del romanzo di Hardy forse per convincere lei (e pure noi) che nelle sue perversioni c’è qualcosa di letterario.

L’indomita, coraggiosa, Bella Swan diventa la brutta copia Anastasia Steele, un personaggio che non vediamo, che non ha volto, che è sempre tutto un bollore costante, che passa i suoi giorni ad arrossire, a mordersi il labbro e “andare in pezzi” per orgasmi multipli e stellari.

Quasi tutte le scene principali dell’originale Twilight sono fotocopiate nella fanfiction, stravolgendole e togliendo loro dignità. Non c’è trama, non c’è sviluppo, solo un susseguirsi di atti sessuali porno soft, sempre più ripetitivi al punto che, già al quarto o quinto, ci viene da sbadigliare: “oddio, no, lo fanno ancora.”

Bella Swan scopre, attraverso Edward Cullen e la sua gente, un mondo diverso, magico, sotterraneo, parallelo, dove vampiri e lupi mannari sono credibili e coerenti con questa nostra realtà moderna, con la realtà di tanti adolescenti americani.

La visita di Bella/Anastasia alla famiglia Cullen/Gray è un esempio di come l’inventiva, la fantasia e l’ironia della Meyer vengano trasformate dalla James in volgarità e pochezza. Persino i nomi dei padri dei protagonisti maschi si somigliano, Carrick, il padre di Gray, riecheggia Carlisle, il medico vampiro padre di Edward. Ma dove è finita la tensione morale, la lotta contro l’istinto che trasforma un vampiro potenzialmente letale in chirurgo compassionevole, sempre pronto ad aiutare chi soffre? Mentre Bella affronta con coraggio e ironia la famiglia vampira, sperando di non diventare lei la cena, confidando sull’istinto che le indica quelle persone come buone e capaci di proteggerla dal male, Anastasia Steele si presenta all’incontro senza mutande, fa piedino sotto il tavolo al suo dominante e sgattaiola appena può nella dependance per consumare l’ennesimo atto sessuale. Il divertimento è assente, il gioco è più osceno che erotico, la trama è solo un pretesto. Non c’è passione vera, solo l’iniziazione al sesso di una ragazzina che dice di volere di più dal suo mentore ma che, in realtà, ha in testa solo una cosa. Anastasia precipita in una spirale di perversione crescente, vittima consenziente di uno stalker, un uomo che gode a prenderla a cinghiate e la fa sentire umiliata e paga allo stesso tempo. Per riflettere, ella colloquia in continuazione con il suo subconscio e con la sua dea interiore, buona coscienza l'uno, cattiva l'altra, che sono, paradossalmente, forse i personaggi più vivi del libro, sebbene ce li immaginiamo come genietti saltellanti con un fumetto fuor dalla bocca.

Laddove l’originale vampiro sapeva commuovere, creare atmosfera, oscurità, amore, e dare corpi, volti e gestualità ai personaggi di una saga indimenticabile, qui tutto è narrato con un linguaggio ripetitivo, infarcito di una serie di mail soporifere, condito delle medesime esclamazioni infantili, “oh my”, dei medesimi aggettivi ed espressioni per descrivere scene ed emozioni sempre identici.

Quale sarà il motivo dell’incommensurabile successo planetario di una fanfiction, di una semiparodia nata su commissione? Per il primo libro la parte del leone la fa certamente la curiosità, stimolata dal passaparola, dalla sovrabbondanza di copie visibili ovunque, ma per arrivare a comprare il secondo e il terzo bisogna forse chiamare in causa lo stimolo sessuale cui si sottopongono le pruriginose lettrici, il voyerismo, il sadomasochismo latente in ognuno di noi. Oppure la voluta indeterminatezza della protagonista - la quale più che essere in realtà non è, non è bellissima, non è intelligentissima, non è brillantissima – fa sì che con lei si possano identificare milioni di donne anonime, desiderose di immaginarsi sessualmente irresistibili e capaci di catturare un bello-ricco-superfigo?

Non sappiamo la ragione di tanto furore e vorremmo che chi è arrivato alla fine della saga ce lo spiegasse perché, se errare è umano, perseverare fino al terzo libro pensiamo sia davvero diabolico.

 

By fanfiction is meant the continuation of a cult story by fans. Readers hungry for other material can continue the story, fill in the gaps, resurrect their favorites, create sequels or prequels. In the case of the fanfiction of "Twilight" by S. Meyer, or the infamous, inflated, "Fifty Shades of Gray" - where Gray stands for Gray but also for the surname of the icy, embalmed, stockfish protagonist - more than a continuation it is, apparently, a parody that took the hand of the writer Erika James.

The introduction explains that she "dreamed of writing stories that readers would fall in love with". Well, it seems to us that it is precisely what she did not do, while the operation was perfectly successful witht Meyer. And yet, when an editorial case takes on such significance, when every person you meet, at any latitude, in any dental office or railway wagon, holds a copy of the novel in your hand, when every bookstore, every showcase, every autogrill stand overflows of all black covers with an anodyne lump of a tie, when American hotels have replaced the old Bible with the Fifty Shades, then the phenomenon cannot be dismissed without even trying to understand.

Let's take a step back, go back to the original, to the Twilight saga, a modern but still fascinating reinterpretation of the myth of Beauty and the Beast, where the protagonist, precisely Bella Swan, is an ordinary girl, a Cinderella capable of conquering the vampire prince, Edward, beautiful to the impossible (to which the actor of the homonymous film does not do justice) not incinerated by the sun but sparkling beneath it like a refracted crystal, pure in heart, "vegetarian", romantically torn between his instincts and the moral input that pushes him to sublimate desire. Bella attracts him because his blood has for him the sweetest of calls, it is nectar and delight, it is fragrance and remorse. In order to love her, even to be close to her, she will suffocate the murderous instinct, transform it into protection, which is what every male does with his woman, keeping the sexual impulse at bay, enveloping him with tenderness. Bella Swan is true, with tangible family problems, adolescent emotions common to many girls of her age and a natural propensity for solitude, for melancholy.

What remains of these two characters in Fifty Shades? Edward Cullen becomes Christian Gray, free of allure, as sexy as a window mannequin, a sadistic sexual maniac who enjoys whipping his women, hanging them from the ceiling, scourging them, inserting lead balls into their vagina, making them sign very pedantic contracts on the Dominant / Submissive role. Unlike Edward, Christian does not smile, he grins, he is not tormented, he is not romantic, "I do not make love", he says, "I fuck hard", and is only good because his compliant butler tells us that he is. Christian Gray is a devourer of innocent maidens, like his inspirer Alec Stoke in "Tess of d'Urbeville" of which, apparently, James is an expert of. Christian gives his victim precious editions of Hardy's novel, perhaps to convince her (and we too) that there is something literary about his perversions.

The indomitable, brave, Bella Swan becomes the draft Anastasia Steele, a character we don't see, who has no face, who is always a constant boil, who spends her days blushing, biting her lip and "going in pieces ”for multiple and stellar orgasms.

Almost all the main scenes from the original Twilight are photocopied in the fanfiction, distorting them and taking away their dignity. There is no plot, there is no development, only a succession of soft porn sexual acts, more and more repetitive to the point that, already in the fourth or fifth, we are yawning: "oh god, no, they make sex again."

Bella Swan discovers, through Edward Cullen and her people, a different, magical, underground, parallel world, where vampires and werewolves are credible and consistent with our modern reality, with the reality of many American teenagers.

Bella / Anastasia's visit to the Cullen / Gray family is an example of how Meyer's inventiveness, imagination and irony are transformed by James into vulgarity and littleness. Even the names of the fathers of the male protagonists are alike, Carrick, Gray's father, echoes Carlisle, the vampire doctor who is Edward's father. But where is the moral tension, the fight against instinct that transforms a potentially lethal vampire into a compassionate surgeon, always ready to help those who suffer? While Bella faces the vampire family with courage and irony, hoping not to become their dinner, trusting the instinct that indicates those people as good and capable of protecting her from evil, Anastasia Steele shows up at the meeting without underwear, she caresses a foot underneath the table to its dominant and sneaks as soon as she can in the annex to consume yet another sexual act. Fun is absent, the game is more obscene than erotic, the plot is just an excuse. There is no real passion, only the initiation into sex of a young girl who says she wants more from her mentor but who, in reality, has only one thing in mind. Anastasia falls into a spiral of growing perversion, a willing victim of a stalker, a man who enjoys to make her feel humiliated. She continuously talks with her subconscious and with her inner goddess, good conscience, bad conscience, who are, paradoxically, perhaps the most alive characters of the book, although we imagine them as jumping little geniuses with a comic out of the mouth.

Where the original vampire knew how to move, create atmosphere, darkness, love, and give bodies, faces and gestures to the characters of an unforgettable saga, here everything is narrated in a repetitive language, stuffed with a series of soporific emails, topped with the same childish exclamations, "oh my", of the same adjectives and expressions to describe always identical scenes and emotions.

What is the reason for the immeasurable worldwide success of a fanfiction, of a semi-parody born on commission? For the first book, the lion's share certainly is curiosity, stimulated by word of mouth, by the overabundance of copies visible everywhere, but to get to buy the second and third, it is perhaps necessary to call into question the sexual stimulus to which the itchy readers undergo, and the voyerism, latent sadomasochism in each of us. Or the intentional indeterminacy of the protagonist – who, more than being, she “is not”, she is not beautiful, she is not extremely intelligent, she is not brilliant. This means that millions of anonymous women can be identified with her, eager to imagine themselves sexually irresistible and capable of to capture a handsome-rich-super-cool?

We do not know the reason for such fury and we would like those who arrived at the end of the saga to explain it to us because, if to err is human, to persevere until the third book we think is truly diabolical.

 

 

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Davide Puccini, "Renato Fucini opere"

18 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Davide Puccini, "Renato Fucini opere"

di Patrizia Poli

Renato Fucini – Opere

A cura di Davide Puccini

Edizioni Le Lettere

Davide Puccini, saggista, fine studioso, ma soprattutto appassionato di letteratura italiana ha curato questa nuova edizione delle opere di Renato Fucini. L’operazione, spiega, deriva dalla necessità di riproporre un autore ormai dimenticato, di cui non si trovano più le opere.

L’unico libro ancora in circolazione contiene circa 5000 errori su 1000 pagine. I testi di Fucini sono stati mal compresi, rovinati dai parenti, dagli stampatori, di edizione in edizione. Puccini ha dovuto risalire ai manoscritti, contenuti nelle biblioteche fiorentine, e compiere un’opera certosina di ricostruzione dell’originale.

Il volume è ponderoso, consta di circa 700 pagine e raccoglie tutte le opere pubblicate in vita da Renato Fucini, non le postume, ritenute inferiori. Comprende cento sonetti in vernacolo pisano più altri in lingua, tutte le novelle raccolte ne Le veglie di Neri (1882), All’aria aperta (1897) e Nella campagna toscana (1908) e il saggio Napoli ad occhio nudo (1878).

Davide Puccini ha dedicato cinque anni di lavoro all’opera di Fucini e, come abbiamo detto, ha affrontato la materia soprattutto dal punto di vista filologico. Spesso gli stampatori non comprendevano i vocaboli del vernacolo pisano. Sceglievano la lectio facilior, correggevano bimbino con bambino, sterzatori (chi puliva un albero su tre) con sterratori, rovinando un testo che aveva valore proprio per la precisione etnografica: Fucini, infatti, non sceglieva mai i suoi termini a caso, ma li usava perché erano tipici del luogo di cui stava narrando o poetando.

Nel volume sono contenute molte pagine di bibliografia, Davide Puccini ha rintracciato tutte le edizioni – al punto che è stato in grado, al termine dell’esposizione, di valutare al primo sguardo un libriccino di nostro possesso e datarlo agli inizi del novecento come edizione contenente almeno una trentina di errori.

Ma Puccini ha compiuto anche un’opera di rivalutazione contro quella critica che, dopo la morte di Renato Fucini, ne decretò la lenta decadenza e il ridimensionamento a esponente “minore della letteratura.”

In vita, Fucini ebbe grande successo. A Firenze, allora capitale d’Italia, al caffè Michelangelo, meta di artisti come Edmondo de Amicis (che ha scritto la prefazione proprio all’edizione in nostro possesso) la lettura dei sonetti in vernacolo, che scriveva per divertirsi, ebbe il successo che oggi hanno gli interventi di Benigni. Poi li pubblicò a sue spese e fu un best seller.

Fucini era consapevole dei propri limiti, sapeva di non avere il respiro lungo del romanziere, bensì il fiato corto del novellatore e, tuttavia, una volta pubblicate, le sue opere ebbero risonanza anche fuori della Toscana, furono adottate nella scuola fino agli anni trenta e Croce ne scrisse in modo lusinghiero. Ma dopo, lentamente, su Fucini calò l’oblio e non solo, fu oggetto delle critiche di molti personaggi famosi come Cassola, che lo stroncò nella prefazione ad un edizione BUR. Nel sessantotto fu considerato reazionario, poco attento alla questione sociale, laddove, invece, egli fu mazziniano e garibaldino, impregnato degli ideali risorgimentali che vedeva traditi. Nei sonetti, ma soprattutto in novelle come “Vanno in Maremma”, si sente tutta la sua dolente partecipazione alla miseria degli umili, la comprensione del fenomeno dall’interno, evitando il difetto della letteratura popolaresca (come quella, ad esempio, di Lorenzo il Magnifico).

Fu accusato anche di aver scelto una lingua troppo facile, il toscano, non si capisce cosa avrebbe dovuto fare, visto che le sue novelle sono ambientate principalmente in maremma.

I sonetti sono classici come struttura ma originali come contenuto, perché dialogati, mossi, con battute e vari personaggi fra i quali Neri Tanfucio, lo pseudonimo adottato da Fucini per pubblicare, che ritroviamo ogni volta come personaggio differente. Le poesie sono d’ambiente pisano e fiorentino, popolate di caratteri umili, beceri, degradati; sono spassose, ferocemente allegre ma sempre con una nota amara e triste. (Vedi La mamma, il bimbo e l’amia)

La lingua è un vernacolo che, spesso, ha più del livornese che del pisano. Puccini cita i fenomeni del labdacismo (la elle che diventa erre) e dell’ipercorrettismo (dove si sbaglia per paura di sbagliare).

Renato Fucini nacque nel 1843 a Monterotondo, nella Maremma grossetana, dove il padre David, medico, si era stabilito per la cura delle febbri malariche, ma era livornese di famiglia e si sentiva molto legato alla nostra città, dove frequentò le scuole elementari dei Barnabiti. Visse a Livorno dal 1849 al 1853 - nella città appena riconquistata dagli austriaci dopo i moti del 48 - e, proprio leggendo un poemetto manoscritto in vernacolo livornese, ebbe l’idea di compiere la stessa operazione con quello pisano. Fucini frequentava i macchiaioli a Castiglioncello, dove possedeva una casa, e, in particolar modo, fu amico di Giovanni Fattori al quale fornì ispirazione per il quadro “Lo staffato”. Ma le sue frequentazioni sono più ampie e non riguardano solo l’ambito toscano. Oltre al già citato Edmondo de Amicis, fu amico anche di Verga, di cui assorbì il naturalismo.

Un discorso a parte merita “Napoli ad occhio nudo”, reportage commissionatogli da P.Villari, il primo in Italia a far conoscere l’esistenza di una “questione meridionale”. Senza dilungarci, diremo che Fucini seppe cogliere al primo sguardo l’essenza della città, con la quale entrò subito in empatia, comprendendo il fenomeno della camorra in modo non superficiale e raccontando gli aspetti più crudi, dai “talponi” (confronta il livornese tarpone), cioè le pantegane che affollavano fogne e vicoli, al cimitero con 365 fosse, una per ogni giorno dell’anno, in cui i morti erano gettati dall’alto con una carrucola, senza tante cerimonie.

In conclusione, se il saggio sull’umorismo di Pirandello è ancora di là da venire, possiamo affermare, tuttavia, che quella di Fucini fu senz’altro una comicità che “fa pensare”.

Fucini morì a Empoli, nel 1921 per un cancro alla gola.

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Folco Terzani, "A piedi nudi sulla terra"

17 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Folco Terzani, "A piedi nudi sulla terra"

di Patrizia Poli

A piedi nudi sulla terra

di Folco Terzani

Mondadori, 2011

Pp. 232

18,00 €

“I valori dipendono dal punto di vista. Per esempio, per i mass media, per il pubblico, un sahdu è rovinato, è un poveretto perché rinuncia agli attaccamenti, alle case, alle cose. Mentre un sahdu, un fachiro, pensa che sono rovinati quelli che rimangono nel samsara. Sono loro che rinunciano alla conoscenza, alla dimensione di grandezza che può essere dio, per perdersi nelle storie materiali nell’illusione”. (pag. 229)

Quando si parla di quest, di cerca, vien subito da pensare al Santo Graal e a Frodo che deve distruggere l’anello del male, ma esiste anche un altro tipo di ricerca, quella interiore, dell’uomo che vive un perpetuo richiamo alla trascendenza.

Folco Terzani, figlio di Tiziano, in A piedi nudi sulla terra, ci racconta l’inquietudine che l’ha condotto a conoscere, nei suoi pellegrinaggi, un uomo votato a questo genere di ricerca, il sahdu Baba Cesare. Terziani conosce Baba Cesare in India, luogo eletto della ricerca spirituale. Per gli indù, la trascendenza è, in verità, immanenza, poiché tutto è dio e conoscere dio significa rendersi conto di questo suo essere ogni cosa. Curiosamente, però, Baba Cesare non è indiano bensì italiano, figlio di un commercialista. Egli ha abbandonato la moglie, una serie di compagne più o meno amate, e alcuni figli mai dimenticati. Il suo percorso è quello tipico del sahdu, dalla vita mondana a quella ascetica, dalla famiglia alla rinuncia. Rinuncia che è il corrispettivo di ricerca.

“Se sei in rinuncia, rinunci a tutti i valori sociali, metti tutto sullo stesso piano: l’oro, i diamanti, una pietra, un cavallo, una foglia, tutto fa parte della composizione del pianeta, no? Di cui siamo parte anche noi. Siamo tutti granelli che compongono il pianeta. Non è una teoria, è proprio così. Dobbiamo avere coscienza di quello che realmente siamo. Appena non dai dei valori sociali alle cose, realizzi che tutto è la creazione del creatore.” (pag. 127)

Solo attraverso la rinuncia a qualsiasi bene materiale – persino ai capelli se diventano oggetto di curiosità e simboli di uno status – come anche a qualsiasi attaccamento affettivo, l’asceta può affinare la sua ricerca interiore, per capire dio, per afferrarne il concetto, per rendergli grazie di averci creato, soprattutto per servirlo. Appena sveglio, il sahdu saluta il sole e riconosce dio, gli fa la puja, l’offerta rituale, la cerimonia. Ungendo di ghee il lingam di Shiva, offrendogli una collana di gelsomini, mantenendo acceso il dhuni, il fuoco sacro, con la cenere sterile e benedetta, egli dà concretezza a dio, lo materializza nella pietra, nell’idolo, nell’oggetto.

Senza contare i ciarlatani, ci sono tanti tipi di asceti in India, dagli aghori che vivono nei crematori, bevono urina dai teschi e assaggiano carne umana, ai fakir, i sahdu musulmani, a coloro che vanno sempre nudi, a quelli che usano il fallo come uno strumento, a chi tiene sempre un braccio sollevato finché non si atrofizza, a chi dorme in piedi. Più generalmente, un sahdu è un uomo scalzo, che vive di semplicità, delle uniche cose davvero possedute, il suo corpo e la sua mente, ed è pronto a rinunciare anche ad esse. Il corpo va mortificato nei suoi bisogni e così pure il cuore, se si vuole davvero trovare l’unione con dio.

“La mortificazione della carne è la liberazione dall’ego. Mortifichi questo ego, lo porti sotto la pioggia o non ti curi di te e di quello che ti può succedere, perché sei parte del tutto. Quindi hai un’idea più ampia, che ti viene dal perdere l’identità, dall’andare oltre gli attaccamenti dell’ego. Perché l’ego cos’è? L’ego è quello che ti dà le paure, no? “Io ho paura?”. Se non ci sei, di cosa hai paura? Sei uno zombie, e uno zombie non ha paura di niente. Non ha paura di essere distrutto, di non essere più “io”, di scomparire, cioè di morire. “Lasciatemi morire!” Il punto è la liberazione dell’io, in nome di dio. E se ci riesci e non ci sei più come entità separata, allora vai oltre la vita e la morte. Sei il Tutto, e il Tutto né nasce, né muore.” (pag. 146)

Baba Cesare è un santo, ma della speciale santità indiana; non lo è per il mondo occidentale. Baba Cesare entra ed esce di galera, proviene dalla cultura post beat generation, freak, psichedelica. È uno degli hippie che negli anni settanta mollavano casa e famiglia e si mettevano in viaggio via terra, senza passaporto, verso l’India, convinti di far parte di un movimento la cui essenza era peace and love. Giunti a destinazione, giravano per gli ashram, finendo poi, inevitabilmente, per affollare le spiagge di Goa, in quelli che oggi chiameremmo rave parties, feste in cui si ballava, si praticava l’amore libero, si fumava il chilum, si assumevano acidi e droghe più o meno pesanti.

“Provi questo, l’altro, provi il peyote, la mescalina, l’erba, i funghi, il veleno degli scorpioni e prendi conoscenza della natura, di quello che cresce sul pianeta, no? Alimentarsi non significa solamente alimentare la parte fisica, significa alimentare anche la mente di conoscenza. […] È dall’inizio del pianeta che l’umanità scopriva le piante, cos’era nutrimento, cos’era medicina, cosa dava un effetto particolare.” (pag. 56)

Anche in questo c’è chi si ferma allo sballo e chi va oltre, continuando la ricerca, usando la droga come esperienza per superare i confini sensoriali, per espanderli, per sentirsi parte della natura, in comunione con l’universo e con dio. Dall’incontro con Baba Cesare e con molti altri sahdu, Folco Terzani trae un insegnamento di vita senza precedenti, un’esperienza che solo l’India e la sua spiritualità può offrire.

“Ho riscoperto la bellezza degli elementi – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria. Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi dell’Himalaya, stando accucciato accanto alle fiamme di un fuoco, respirando spazio.” (pag.14)

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Lorenzo Spurio, "Jane Eyre Una rilettura contemporanea"

16 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Lorenzo Spurio, "Jane Eyre Una rilettura contemporanea"

di Patrizia Poli

Se una caratteristica distingue l’odierna critica letteraria è la multimedialità e l’accostamento della letteratura “alta” a mezzi espressivi non convenzionali e non immediatamente ad essa correlati, dalla narrativa di genere, al cinema, fino ai giochi di ruolo. La smitizzazione del mother text è accompagnata da un’estrema semplificazione del linguaggio critico e da un utilizzo di veicoli non tradizionali quali, ad esempio, le interviste virtuali.

In “Jane Eyre, una rilettura contemporanea”, Lorenzo Spurio si avvicina al testo originale di Charlotte Bronte, per poi allontanarsene, compiendo un excursus su una serie di rewriting successivi e adattamenti anche cinematografici e televisivi, a partire dal famoso prequel del 1966, “Wide Sargasso Sea”, per finire con la parodia mash up del 2010, “Jane Slayer”, dove la protagonista si trasforma in ammazza vampiri.

Invece di puntare sugli aspetti classici e tipici del romanzo della Bronte, come la travagliata infanzia di Jane a Lowood e l’amore romantico per il tenebroso Rochester, Spurio mette in evidenza caratteristiche secondarie, ma interessanti, amplificate dalle riscritture successive.

La prima di queste peculiarità è l’aspetto gotico del testo, con continui richiami a “Northranger Abbey” di Jane Austen.

L’altra è senz’altro l’importanza focale data al personaggio minore di Bertha Mason. Laddove la Bronte non ci spiega le ragioni della pazzia che affligge la prima moglie di Rochester, nei prequel e sequel presi in esame da Spurio, Bertha giganteggia con tutto il suo passato tropicale. Si ha compassione, e c’è addirittura rivalutazione, del personaggio. In ogni versione, Bertha presenta aspetti diversi ma è sempre connessa col riso demoniaco-animalesco e col fuoco, entrambi simboli del male, così come con la natura vampiresca del suo morso.

Nel suo saggio, Spurio prende in esame il colonialismo e si spinge fino a concludere che la Bronte ha inteso punire con la cecità Rochester per il suo razzismo, più che per l’inganno e l’amore adulterino nei confronti dell’ingenua Jane.

Mettendo in risalto la generica benevolenza della Bronte verso gli schiavi e le donne, Spurio tocca temi alternativi e affascinanti. Si parte dal Codice Nero, promulgato nel 1685, a sancire il concetto di schiavo come oggetto, si continua con “A Vindication of the Rights of Women”, dove Mary Wollstonecraft (Shelley), in polemica con Rousseau, rivendica i diritti delle donne, per finire con la magia nera Obeah, trapiantata in America dall’Africa, e simile al Voodoo di Haiti, patria degli zombie.

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Andersen a Livorno

15 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere, #luoghi da conoscere

Andersen a Livorno

A cura di Vibeke Worm e Patrizia Poli

Hans Christian Andersen (1805 – 1875) è famoso in tutto il mondo per le sue fiabe, fra cui “La principessa sul pisello”, “La sirenetta”, “I vestiti nuovi dell’imperatore”, “Il Brutto anatroccolo”, “La piccola fiammiferaia”, “Il soldatino di stagno”, “La regina delle nevi”

Non tutti sanno che fu anche un instancabile viaggiatore e durante i suoi numerosi spostamenti scrisse molti diari di viaggio.

Nella Biblioteca reale di Copenhagen è possibile consultare le pagine che riguardano il suo passaggio nella nostra città.

La danese Vibeke Worm ha rintracciato per noi le pagine dedicate al soggiorno di Andersen nella nostra città e le ha tradotte dal danese ottocentesco in inglese. Noi abbiamo provveduto a ritradurle in italiano per voi. Lo stile è veloce, guizzante, incisivo.

1833 dal diario

6 ottobre. Abbiamo affittato un vetturino e guidato allegramente le sei miglia verso Livorno. Abbiamo incontrato parecchi cacciatori e ci siamo imbattuti in una bella foresta di querce e in filari di aranci.

Gli Appennini avevano un paio di picchi elevati, per il resto la zona era piatta, e a Livorno è stato tutto un po’ noioso. Una città sporca, con un bel porto dall’acqua verde. Abbiamo visto le coste della Corsica e dell’Elba, è capitato un vapore da Genova, abbiamo parlato con due svedesi e avuto un asino per Cicerone, che ci ha preso 4 franchi e non ci ha mostrato nulla. Ci ha detto cose come: “Ci dovrebbe essere un mercante turco, ma il suo negozio è chiuso, c’è una chiesa con un bel dipinto ma il dipinto manca.”

Il duomo non è niente di speciale, un soffitto carino, ma è tutto sudicio. La chiesa greca era chiusa. Il cimitero inglese fuori la città era tutto tombe di marmo di Carrara, abbiamo trovato anche un paio di sepolture Svedesi.

Per strada abbiamo visto molti greci. La sinagoga, che doveva essere una delle più belle e ricche d’Europa, mi ha fatto una brutta impressione. La gente saliva una scala in un albergo e nella chiesa che sembra la Borsa, tutti avevano il cappello e spettegolavano sulla bocca degli altri. Sudici bimbi ebrei stavano ritti sulle sedie e un Rabbi, su una sorta di pulpito, rideva e scherzava con degli anziani. Per avanzare, Tappernaklet si fece largo a gomitate come se dessero i biglietti per il teatro, nessuno pensava alla devozione. Sopra di noi, nella galleria, sedevano le donne nascoste da una grande griglia, qui dovevano essere trattate come in Spagna ed erano molto timide.

Al porto c’è una statua di marmo di Ferdinando I°, quello sopra il figlio Cosimo II°, con 4 schiavi di bronzo incatenati alla statua, uno, un negro, aveva uno sguardo molto malinconico, era orribile da vedere e sarebbe un onore aiutarlo!

La nostra finestra guardava il mare, il sole era piacevole, giù dietro il faro, era come una nave sull’orizzonte. Le colline erano grigio blu, e delle strane nuvole strappate erano appese in cielo come lance d’oro in cielo. Livorno è brutta, piatta e sporca, ma il cielo, il mare e le belle colline sono una cornice che rende degna la pittura, potrebbe anche essere piacevole stare qui un po’ di tempo.

La gente: specialmente le donne camminano per le strade in tale quantità che sembrano una processione, ho visto dei turchi con teste caratteristiche e bei ragazzi greci. Una spagnola, con neri occhi di fuoco e un velo sottile, mi è passata vicina, com’era bella!

Sul pavimento abbiamo tappeti brillanti, divani orientali, ma ci vogliono dai 5 ai 9 franchi per pranzare, siamo andati in trattoria e abbiamo mangiato con due franchi.

Non si sa se è più bello il cielo limpido e azzurro, il mare blu, o le montagne cerulee. È uno stesso colore in diverse espressioni, è come l’amore pronunciato in tre lingue differenti. (Oggi il nostro vetturino ha cantato una aria d’opera mentre ci guidava fuori strada.)

Lunedì 7 ottobre.

Questa mattina mi sono vegliato al rumore di catene, erano incatenati a due a due, uno rosso e uno giallo. […]

Siamo usciti sul porto. Il molo è coperto da blocchi di pietra color terra. A pranzo eravamo a Pisa. Sono andato alla torre e alla chiesa. Le strade erano un mortorio, mi sono ficcato in vicoli così stretti e silenziosi che mi era presa l’ansia, finalmente mi sono ritrovato in uno spazio verde, c’era una statua colossale di marmo del granduca Leopoldo I° con in mano uno scettro dorato.[…]

Martedì 8 ottobre.

Da Pisa a Firenze. Davvero un’ottima strada, guidavano come matti, siamo arrivati a Firenze in otto ore. Nell’Arno c’era poca acqua...

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I versi Livornesi di Giorgio Caproni

14 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #saggi, #luoghi da conoscere

I versi Livornesi di Giorgio Caproni

di Patrizia Poli

“Livorno, quando lei passava,

d’aria e di barche odorava”

Giorgio Caproni (1912 – 1990) è nato a Livorno e da noi ha ambientato le sue poesie più belle, quelle dedicate alla madre, Anna Picchi, Annina, denominate Versi Livornesi nella raccolta Il seme del piangere del 1959.

Dal 22 si trasferisce a Genova, e poi a Roma. Fa il commesso, l’impiegato e il maestro elementare. Le sue prime prove sono rifiutate dagli editori, gli viene detto di “aver pazienza”, gli si fa capire che la poesia non è cosa per lui. Ma insiste, oltre alle poesie scrive critica letteraria, recensioni e traduce dal francese “Il Tempo ritrovato” di Proust, “I fiori del male” di Baudelaire, “Bel-ami” di Maupassant e, ancora, Celine e Apollinaire.

Anche quando la fortuna letteraria gli arriderà e vincerà numerosi premi importanti, si terrà sempre appartato e lontano dai salotti, chiuso nel suo dolore esistenziale frutto di numerosi traumi, come la morte per setticemia della prima fidanzata e le sciagure della guerra.

Scrive anche saggi e opere narrative ma la sua produzione più alta si concentra nella poesia. Le sue raccolte più famose sono Cronistoria (43), Le stanze della funicolare, (52), Il passaggio di Enea, (56), Il seme del piangere (59)

Ci sono tre tempi nella poesia di Caproni, il primo è macchiaiolo, carducciano, contiene una traccia dei primitivi toscani e di certi modi cavalcantiani e stilnovistici privi, però, d’idealizzazione spirituale. Ne è un esempio la poesia che segue:

LA GENTE SE L’ADDITAVA

Non c’era in tutta Livorno

un’altra di lei più brava

in bianco, o in orlo a giorno.

La gente se l’additava

vedendola, e se si voltava

anche lei a salutare,

il petto le si gonfiava

timido, e le si riabbassava,

quieto nel suo tumultuare

come il sospiro del mare.

Era una personcina schietta

e un poco fiera (un poco

magra), ma dolce e viva

nei suoi slanci; e priva

com’era di vanagloria

ma non di puntiglio, andava

per la maggiore a Livorno

come vorrei che intorno

andassi tu, canzonetta:

che sembri scritta per gioco

e lo sei piangendo: e con fuoco.

C’è poi una fiammata lirica e neoclassica in Cronistoria e ne Il passaggio di Enea ed infine una progressiva scarnificazione e perdita di lirismo, come se, col passare degli anni, la parola fosse ormai un peso.

“Il rumore della parola, ad un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio”

La ricerca è tesa alla semplificazione, il verso s’impasta di aulico e prosastico insieme, oscilla fra cantato e parlato (e in questo richiama la linea ligure, in particolare Sbarbaro.) Si rifà comunque a un filone preermetico, alla musicalità descrittiva di Saba e alla metrica di Pascoli. Consapevolmente antinovecentesco, Caproni rifiuta i giochi puramente sintattici e concettuali. Vuole una poesia fatta di bicchieri, di stringhe, di cose della vita quotidiana, il suo è un impressionismo che evita l’idillio e il compiacimento elegiaco, anche la sintassi si riduce all’essenziale mentre sono gli oggetti a prendere corpo.

L’architettura e il controllo della metrica entrano in contrasto con l’urgenza vitalistica, espressa spesso dagli esclamativi iniziali, il periodo non si esaurisce nel verso ma deborda nell’enjambement, il versificare si fa spezzato, rispecchiando l’anima del poeta che tenta di afferrare una realtà sfuggente. Caproni ricorda in questo i Virginia Woolf, il suo senso di crescente insoddisfazione, la sfiducia nella possibilità che la parola riesca a rappresentare davvero le cose.

“Nessuno è mai riuscito a dire

Cos’è, nella sua essenza, una rosa.”

Detesta la logorrea, i versi lunghi. “L’ideale”, afferma, “sarebbe arrivare a scrivere una parola sola, o meglio, andare oltre la parola”. La parola ha per lui valenza negativa, perché limita, è simulazione della realtà. La parola è oggetto essa stessa e, ammesso che la realtà esista, non si può conoscere un oggetto con un altro oggetto.

Caproni usa la rima, l’allitterazione, l’assonanza, l’anafora (ripetizione di parole o espressioni), la prosopopea (quando si fanno parlare animali, oggetti, defunti) e la punteggiatura con valore ritmico. La sua resta un’operazione letteraria e l’assoluta identità fra vita e poesia rimane un’aspirazione, anche se egli tende più narrare che a poetare, rifuggendo dalla sublimazione lirica.

PER LEI

Per lei voglio rime chiare,

usuali: in -are.

Rime magari vietate,

ma aperte: ventilate.

Rime coi suoni fini

(di mare) dei suoi orecchini.

O che abbiano, coralline,

le tinte della sue collanine.

Rime che a distanza

(Annina era così schietta)

conservino l’eleganza

povera, ma altrettanto netta.

Rime che non siano labili,

anche se orecchiabili.

Rime non crepuscolari,

ma verdi, elementari.

I temi ricorrenti sono la guerra; il dolore; l’esistenza come viaggio - anche in senso chiuso e circolare, un viaggio che riporta indietro, al punto di partenza, al nulla, al non essere, e che è simbolico del passaggio fra un’epoca e l’altra e fra la vita e la morte; la ricerca dell’identità che sfocerà nell’immedesimazione con personaggi mitologici come Enea e che è intesa come modo per trovare gli altri attraverso se stessi; il rapporto con i genitori; la vita popolare di Genova e Livorno. La sua è un’epopea casalinga, una fuga dalla storia che caratterizza molti poeti dell’epoca come Penna, Luzi, Sereni, spaventati dal passare del tempo, dalla distruzione della civiltà contadina.

Nel 1949 torna nella nostra città alla ricerca della tomba dei nonni e la riscopre, ma, ormai, anche Livorno è popolata di fantasmi.

ULTIMA PREGHIERA

Anima mia, fa’ in fretta.

Ti presto la bicicletta,

ma corri. E con la gente

(ti prego, sii prudente)

non ti fermare a parlare

smettendo di pedalare.

Arriverai a Livorno,

vedrai, prima di giorno.

Non ci sarà nessuno

ancora, ma uno

per uno guarda chi esce

da ogni portone, e aspetta

(mentre odora di pesce

e di notte il selciato)

la figurina netta,

nel buio, volta al mercato.

Io so che non potrà tardare

oltre quel primo albeggiare.

Pedala, vola. E bada

(un nulla potrebbe bastare)

di non lasciarti sviare

da un’altra, sulla stessa strada.

Livorno, come aggiorna,

col vento una torma

popola di ragazze

aperte come le sue piazze.

Ragazze grandi e vive

ma, attenta!, così sensitive

di reni (ragazze che hanno,

si dice, una dolcezza

tale nel petto, e tale

energia nella stretta)

che, se dovessi arrivare

col bianco vento che fanno,

so bene che andrebbe a finire

che ti lasceresti rapire.

Mia anima, non aspettare,

no, il loro apparire.

Faresti così fallire

con dolore il mio piano,

e io un’altra volta Annina,

di tutte la più mattutina,

vedrei anche a te sfuggita,

ahimè, come già alla vita.

Ricordati perché ti mando;

altro non ti raccomando.

Ricordati che ti dovrà apparire

prima di giorno, e spia

(giacché, non so più come,

ho scordato il portone)

da un capo all’altro la via,

da Cors’Amedeo al Cisternone.

Porterà uno scialletto

nero, e una gonna verde.

Terrà stretto sul petto

il borsellino, e d’erbe

già sapendo e di mare

rinfrescato il mattino,

non ti potrai sbagliare

vedendola attraversare.

Seguila prudentemente,

allora, e con la mente

all’erta. E, circospetta,

buttata la sigaretta,

accostati a lei soltanto,

anima, quando il mio pianto

sentirai che di piombo

è diventato in fondo

al mio cuore lontano.

Anche se io, così vecchio,

non potrò darti mano,

tu mòrmorale all’orecchio

(più lieve del mio sospiro,

messole un braccio in giro

alla vita) in un soffio

ciò ch’io e il mio rimorso,

pur parlassimo piano,

non le potremmo mai dire

senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:

suo figlio, il suo fidanzato.

D’altro non ti richiedo.

Poi, va’ pure in congedo.

Annina, fine e popolare come i versi del figlio, non c’è più, non ci sono il suo odore di cipria, la catenina, il tumulto del cuore, la camicetta. Ella, ormai, non si può destare.

IL CARRO DI VETRO

Il sole della mattina,

in me, che acuta spina.

Al carro tutto di vetro

perché anch’io andavo dietro?

Portavano via Annina

(nel sole) quella mattina.

Erano quattro i cavalli

(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo

di notte era morta, e d’inverno.

Fuori c’era il temporale.

Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina

allora, anche quella mattina,

perché si mise a suonare

la sveglia militare?

Era la prima mattina

del suo non potersi destare.

Riferimenti

Romano Luperini, Il Novecento, Loescher editore

Walter Cremonti, “I versi livornesi di Giorgio Caproni” dal sito www.latramontanaperugia.it

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Giuseppe Benassi, "L'omicidio Serpenti o l'enigma del bosco sacro"

13 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 Giuseppe Benassi, "L'omicidio Serpenti o l'enigma del bosco sacro"

di Patrizia Poli

“L’omicidio Serpenti o l’enigma del Bosco Sacro”

di Giuseppe Benassi

Bastogi, 2010

15,00

Come sempre in Benassi, il giallo è un pretesto per parlare di cultura esoterica, di percorsi alchemici, ai quale egli si accosta non da adepto ma da studioso, affascinato seppur disincantato. In questo romanzo – secondo di una serie che ha per protagonista l’irriverente avvocato Borrani – più che negli altri due, i personaggi restano sullo sfondo, sono incolori come la vicenda attorno a cui ruota la trama, cioè l’omicidio del bel Rosario Serpenti, orafo ex salumiere, che, già dal suo nome, è più di ciò che appare. E tutto davvero si gioca sul contrasto fra ciò che sta dietro alle cose e l’apparenza, fra l’onirico e il reale.

“Pensò nel sogno la sua vita come un’infinita e sempre mutevole galleria di visi o di musi, di volti e di ghigni che si affacciano, salutano, dicono qualcosa o non dicono niente, e poi svaniscono nel nulla.” (177)

Non ci interessa poi tanto – e non interessa neanche all’autore – scoprire perché Serpenti sia stato ammazzato e, in questo secondo romanzo, non ha gran posto nemmeno l’interiorità del protagonista alter ego dell’autore. Tutto lo spazio è occupato dalla speculazione artistico - filosofica che porterà allo scioglimento (nemmeno poi tanto) dell’enigma del Bosco Sacro. Senza svelare troppo, diciamo che, se un filo conduttore c’è nella storia, è quello che parte dal paganesimo rinascimentale e porta fino al surrealismo di de Chirico.

“La psicoanalisi e il surrealismo”, ci spiega Borrani/Benassi, “hanno riaperto la mente dell’uomo, l’hanno ripopolata delle divinità pagane, dopo che, alla fine del cinquecento, Riforma e Controriforma si son date la mano per spegnere la capacità immaginativa di cui il rinascimento, attingendo alla classicità, è stato l’esempio più alto.” (pag 120)

Di questa capacità immaginativa è paradigma concreto il fantastico giardino di Bomarzo, o Sacro Bosco, con le sue forme bizzarre, improbabili, con i suoi mostri, i tempietti e le case inclinate, simboli forse alchemici, congiunzioni di opposti. In questo bosco Rosario Serpenti ha un’esperienza da iniziato, tramite l’olandese Dietrich, suo “maestro”, sorta di Dorian Gray che lo corrompe e, insieme, gli apre la mente. Rosario Serpenti viene ucciso quasi per espiare la colpa di essersi evoluto, trasformato da salumiere in anima libera, in gnostico che non conosce più i confini fra maschile e femminile, fra dentro e fuori, ma diventa una figura androgina, emancipata da convenzioni e moralismi. Oltre all’esperienza mistica-sessuale nel sacro bosco, fondamentale per lo sviluppo di Rosario (che nel cognome già prefigura una specie di uroboro) è la visione dei quadri di De Chirico.

“De Chirico, all’inizio del ‘900, legge le pagine di Nietzsche su Dioniso, e, illuminato da quelle letture, capendo all’improvviso che la rimozione del paganesimo fu uno dei più tragici errori della storia delle idee.” (pag120)

Sono di De Chirico, infatti, le tele che vengono ritrovate in possesso di Serpenti dopo la sua morte. De Chirico apre la mente, sposta i confini di là dal bene e del male e per questo Serpenti dovrà pagare, e, attraverso lui, l’autore punire se stesso ed esplicitare il proprio senso di colpa latente.

Lo stile del romanzo è quello, escatologico/scatologico, tipico di Benassi, che alterna citazioni colte con volgarità da bar sportivo. Traspare come sempre la poca simpatia che l’autore ha per i suoi simili, che sono solo comparse in sogni surreali, che hanno ghigni e non volti, fisicità da sfruttare sessualmente più che anime da abbracciare. Le parti più belle sono quelle, quasi inconsapevoli, dove Benassi dimentica per un momento di voler essere antipatico a tutti i costi e si lascia andare a descrizioni liriche e sentite del paesaggio toscano, con la sua luce, il suo mare, le punte dei cipressi illuminate dal tramonto.

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Uno sporco lavoro

11 Gennaio 2013 , Scritto da Franca Poli Con tag #Laboratorio di Narrativa, #franca poli, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

La protagonista di “Uno sporco lavoro” di Franca Poli, è una poliziotta come se ne vedono tante nei telefilm americani: è tosta, è scabra, è maschia nei modi di fare. Però è italiana e si ritrova alle prese con la triste, purtroppo ben nota, realtà degli sbarchi clandestini a Lampedusa. Si chiama Rachele e questo la dice lunga sull’ambiente in cui, probabilmente, è cresciuta, sulla sua ideologia di fondo. Compie il proprio dovere considerandolo dall’ottica del pre-giudizio, inteso come giudizio antecedente, a priori. Il lavoro che è costretta a fare non le va, subisce l’immigrazione, vive a disagio il contatto con il diverso, con l’altro da sé, sente insofferenza per la divisa che la infagotta, non sopporta i continui e improvvisi cambiamenti di programma, i colleghi maschi che ironizzano sulla parità pretesa dalle donne. E sfoga il proprio malumore con un “linguaggio da caserma”: “È un lavoro del cazzo…”, quasi si rammarica di aver vinto il concorso.La spediscono a Lampedusa, ad accogliere la massa di disperati che lei non accetta. È imbevuta di pregiudizi, Rachele, di rabbia e intolleranza verso i “diversi” che arrivano a gonfiare le fila della malavita organizzata e che considera dei “rompicoglioni”. Ma quando si trova a dover soccorrere un gruppo di clandestini, “stremati, le guance incavate, gli occhi fuori dalle orbite, per la prima volta non brontola nel fare il proprio lavoro, e quando, poi, il caso la conduce ad affrontare l’emergenza di assistere una partoriente di colore, Rachele sente vacillare le proprie certezze, sente crollare difese e pregiudizi, e riscopre, attraverso le lacrime, la propria umanità negata. Sarà proprio a causa della prossimità con ciò che non conosce e non le piace, che capirà quanto il fenomeno immigrazione sia impossibile da contenere in un solo sguardo e in un solo parere. Il mondo con cui viene a contatto forzato è fatto, sì, di uomini dalla mentalità maschilista, arretrata - non molto diversa, tuttavia, da quella dei suoi stessi colleghi - ma comprende anche donne dall’aspetto elegante, dagli occhi tristi, dal coraggio animalesco, istintivo.La donna nera partorisce una creatura indifesa, piccola, che ci sfida con l’audace caparbietà del suo stesso venire al mondo in mezzo a chi la rifiuta, addirittura dalle mani di chi la rifiuta. La mamma le imporrà il nome Rachele, legandola a chi l’hai aiutata a nascere, compiendo a ritroso un percorso inconsapevole che lega la nuova bimba a vecchi echi, fatti di guerre d’Africa, di regine nere, di veneri abissine. La madre stessa, da oggetto di derisione, assurgerà al ruolo di prima Madre, di Madonna col Bambino. È un racconto ben strutturato e dal contenuto attuale che rende perfettamente le diffuse resistenze all’accettazione di realtà che ancora provocano rifiuto e diffidenza. Ci sono la rabbia, l’ansia, la paura, il sospetto che spesso dilagano di fronte al “diverso” sconosciuto, ma c’è anche la pietas, l’insopprimibile impulso al “dono di sé”, che va oltre il pregiudizio, oltre ogni irrazionale chiusura di mente e cuore. La storia è compiuta nel suo insieme, procede da un punto all’altro, da un inizio a una conclusione, lasciando intendere che esiste un prima e ci sarà un dopo, uno sviluppo, una trasformazione. Lo stile è funzionale alla narrazione, con qualche immagine forte che colpisce, come la vagina che sembra “inghiottire il bambino” invece di espellerlo.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Uno sporco lavoro

“È uno sporco lavoro. Porcaccia Eva io non ci vado laggiù. Senza nemmeno interpellarmi poi… Non ci vado. No!”Rachele si stava annodando la cravatta, era la cosa che più odiava della sua divisa. Si era già infilata i pantaloni e, come sempre, li aveva trovati larghi, deformi. La camicia era un po’stropicciata e con la giacca addosso, poi, si sentiva un sacco di patate.“È un lavoro del cazzo!” imprecava mentre stava uscendo dallo spogliatoio femminile del reparto di Polizia dove era stata distaccata. Da quando si era arruolata, aveva acquisito anche il comportamento e il linguaggio tipico “da caserma”, glielo rimproverava sempre sua madre.In mattinata aveva ricevuto l’ordine e sarebbe partita per Lampedusa. Sbarchi continui di immigrati imponevano rinforzi e, a turno, tutti i colleghi erano andati in missione per una quindicina di giorni. Ora toccava a lei.Renato, il suo compagno di pattuglia, la vide uscire come una furia e subito capì quanto fosse arrabbiata: “Avete voluto la parità? Eccovi accontentate!” Rachele non rispose, alzò semplicemente il dito medio e lo sentì allontanarsi mentre nel corridoio risuonava la sua risatina ironica.“Stronzo! È colpa di quelli come te se ogni giorno di più mi pento di aver vinto il concorso” pensò. Lei non si sentiva adatta a quell’incarico. Amava le indagini, era arguta e attenta a ogni particolare quando seguiva un caso, ma andare al centro di accoglienza per occuparsi di quelli che considerava dei “rompicoglioni” che dovevano restarsene a casa loro, lo riteneva insopportabile. Arrivata suo malgrado a destinazione l’umore non migliorò. Al contrario vedersi attorniata da nordafricani che le lanciavano occhiate lascive, la infastidiva. La mandavano in bestia i sorrisini e le battute in arabo a cui non poteva replicare. “State qui a gozzovigliare alle nostre spalle, col cellulare satellitare in mano, tute nuove, scarpe da tennis, magliette, cibo in abbondanza: ovviamente dieta rigorosamente musulmana, e pure la diaria giornaliera!” mentre si incaricava della distribuzione rimuginava e si rendeva conto senza vergognarsene che non era affatto umanitaria nello svolgimento del suo compito e non voleva assolutamente esserlo. Era sempre stata piuttosto convinta che non si potesse accogliere chiunque. La delinquenza in Italia era aumentata. I clandestini non erano prigionieri al centro, spesso alcuni se ne andavano e molti di loro finivano a rafforzare le fila della malavita organizzata. E, se era vero che non tutti i mussulmani erano terroristi, era pur vero che tutti i terroristi erano musulmani!“È un cazzo di sporco lavoro! Ma datemene l’occasione e vi faccio pentire di essere venuti fin qua.” Pensava mentre uno di loro le faceva l’occhiolino.Durante la notte segnalarono la presenza di un barcone in difficoltà al largo delle acque territoriali italiane e si doveva intervenire a portare soccorso. “Perché, dico io? Lasciateli affogare o che rientrino in Africa a nuoto…” Arrabbiata più che mai a causa di questa emergenza durante il suo turno di lavoro, salì sulla nave per obbedire agli ordini e, quando fu il momento, instancabile come sempre, aiutò chi ne aveva bisogno. Avevano soccorso un barcone con 80 clandestini per lo più somali fra cui anche alcune donne. Li avevano aiutati a salire a bordo, passavano loro coperte e acqua. Alcuni erano stremati, le guance incavate, avevano gli occhi fuori dalle orbite e, per la prima volta, Rachele non brontolò nel fare il proprio lavoro.Fu chiamata con urgenza dal medico di bordo. Una donna incinta stava partorendo e gli serviva l’aiuto di una donna.“Lo sapevo io… Solo questa ci mancava. Proprio ora hai deciso di mollare il tuo bastardo?” E imprecò, come sempre, contro i superiori e contro la scarsa volontà politica di risolvere questo annoso problema.Quando si trovò di fronte la donna con le doglie vide che era piuttosto bella. Alta, nera, ma con i lineamenti fini e delicati. Occhi grandi e scuri come la notte, sgranati per la paura e per il dolore , la fronte imperlata di sudore. Aveva gambe d’alabastro, lunghe e sinuose che si intravedevano da un caffetano di colore azzurro sgargiante aperto sul davanti, soffriva molto.Il medico si doveva occupare di alcuni feriti e le chiese di stare vicino alla donna, di controllare la distanza fra una doglia e l’altra e di chiamarlo se l’avesse vista spingere. “Calma Naomi!” le disse Rachele prendendola in giro per la sua leggera somiglianza con la bella indossatrice, “Non ti mettere a spingere proprio ora, capito?” le inumidiva le labbra con una pezzuola bagnata e quando la donna in preda a una doglia forte e persistente le strinse la mano, lei provò quasi un senso di ripulsa e voleva divincolarsi, ma la stretta era forte e allora strinse anche lei, mentre la donna emetteva un rantolo roco e continuo.A un certo punto la partoriente inarcò la schiena e cominciò a spingere. Era quasi seduta con le gambe allargate e si teneva alle sue spalle con tutta la forza.“Aiuto dottoreee! Presto venga, questa non aspetta più!!” chiamò Rachele cercando di attirare l’attenzione del medico.La donna urlava e spingeva e Rachele, guardando fra le cosce allargate, vide spuntare la testa del bambino. Compariva e scompariva a ogni respiro. Un ciuffetto di capelli neri, che spingeva e allargava quel sesso deforme, arrossato, quasi a sembrare una bocca affamata che lo stava ingoiando e non espellendo.“Dottore!! Presto...” la voce le morì in gola. Non c’era più tempo. Il bambino stava uscendo e allora Rachele prese la testina fra le mani e provò a tirare piano piano per agevolare lo sforzo della donna. Niente da fare, urlava la poveretta e parlava nella sua lingua chiedendo aiuto o chissà cosa altro. Allora si fece coraggio, infilò una mano dentro la donna, afferrò il bambino per le spalle e tirò con forza. Fu un attimo e tutto il corpo del piccolo, rosso e viscido di sangue scivolò fuori e la donna, stremata, si lasciò cadere all’indietro con un ultimo profondo sospiro. Rachele si ritrovò con quell’esserino fra le mani e lo guardò: era una bambina. Nera come la pece e con gli occhi sgranati e grandi come quelli della madre. La prese e gliela poggiò delicatamente sul petto.“Dottore!! Cazzo quando si decide a venire qua?” aveva ritrovato la voce e urlò con tutta la forza.Il medico arrivò, si occupò della madre e della figlia, mentre Rachele, rapita, continuava a fissare gli occhi di quelle due creature. Così grandi e vuoti, così imploranti e tristi. Per la prima volta non era arrabbiata con loro, con i diversi, era solidale. Una donna come loro sola e arrabbiata e si sentì percorrere da un brivido di tenerezza e commozione.“È un maledetto sporco lavoro” disse questa volta senza convinzione.Stavano caricando la donna su una barella, erano al porto e un’ambulanza col lampeggiante la stava aspettando per condurla all’ospedale. Rachele si sentì prendere per una mano. Era la giovane mamma che la guardava e le faceva cenno, indicandola con l’indice puntato e con una muta domanda negli occhi.“Non capisco… Cosa vuoi ancora?” le chiese infastidita e poi d’improvviso, un lampo d’intesa fra loro e capì. “Rachele… Mi chiamo Rachele “ rispose.Allora la donna che, fino ad allora, aveva solo urlato e pianto, sorrise illuminando la notte con i suoi denti bianchissimi. Sollevò la sua piccola bambina, puntandola verso di lei e stentando ripeté: “Rachele.”Fu allora che le lacrime sgorgarono finalmente anche sul suo viso, Rachele piangeva a dirotto e cercando invano di asciugarsi il viso bofonchiò:“È un cazzo di sporco lavoro.”

Franca Poli

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