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poli patrizia

Otello Chelli, "Rizio"

4 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Otello Chelli, "Rizio"

Rizio

Otello Chelli

MdS Editore, 2015

pp 164

12,00

Rizio appartiene alla “stirpe dei Morgiano”, è giovane, avvenente, povero. Rizio è un comunista duro e puro, dall’animo nobile, solidale, quasi evangelico. Vive nella baraccopoli, sorta sui prati della fortezza Nuova a seguito dei bombardamenti che hanno devastato Livorno. Benvoluto dai vertici del partito, sta facendo carriera come politico, mantenendo indipendenza di giudizio e coscienza personale. S’imbatte in Valeria Righi, esponente di spicco della Democrazia Cristiana. Valeria è più grande di Rizio, è fervente cattolica, anticomunista, sposata con prole. Ma è bella, dolce, innocente, pura quanto il giovane labronico. S’innamorano e la vita li travolge.

Rizio, di Otello Chelli, è un vero e proprio romanzo storico, ambientato nel dopoguerra, con vicende reali e personaggi famosi, come Enrico Berlinguer e Ilio Barontini, mescolati ad altri di fantasia.

La parte migliore del testo non è la trama, non è l’afflato politico, non è nemmeno il grande amore descritto con enfasi e linguaggio d’altri tempi. Il momento in cui Chelli raggiunge il suo apice è, come sempre, nella descrizione accorata del suo quartiere, La Venezia, di cui già avemmo a parlare leggendo il suo Gente della Venezia.

La Venezia rappresenta, per Chelli, quello che, per un uomo anziano ma ancora innamorato, è la sposa invecchiata. Solo lui, nel chiuso della memoria, sa vederla com’era, giovanetta in fiore, senza rughe né crepe. Quella che racconta con toni accorati, è la Venezia di prima dei bombardamenti, il luogo magico dove è cresciuto.

Ho vissuto i miei primi dieci anni in una fiaba, il quartiere della Venezia, circondato, come sai, da una rete di canali dove navigano e vengono ormeggiati i navicelli, quei barconi che, trascinati da un uomo armato di una lunga pertica, scivolavano silenziosi, carichi di merci da e per il porto.” (pag 49)

È da notare a margine come l’ateo Chelli riesca a descrivere sentimenti religiosi con quasi più emozione di chi religioso lo è davvero ma forse in modo scontato. Si tratta di quell’anelito verso il soprasensibile che accomuna i non credenti dotati di animo poetico e non puramente materialista.

Quel “ragazzo era un uomo diverso da tutti gli altri, egli sembrava un antico, individuava e inseriva nel suo universo i segni forniti dalla Creazione e aveva rapporti trascendenti, non sapeva con chi.” (pag 68)

Anche l’amore è un mezzo per raggiungere la trascendenza. Puro, sublime, di una carnalità scevra di ogni bassezza. È l’unione mistica di due corpi, ma soprattutto di due anime, capace di superare ogni ostacolo, di sopravvivere oltre la morte.

Anche la politica è intesa in questo stesso modo: come lotta eterna e titanica fra Bene e Male, come combattimento corpo a corpo fino alla morte, ma anche come pietà, giustizia, compassione. Contempla persino la stima del nemico, quando sia mosso dagli stessi, seppur opposti, ideali.

In “questo tempo ho conosciuto uomini di tale levatura, anche tra quelli della maggioranza, che in un futuro non troppo lontano non avranno successori degni di tanto valore e ciò mi fa temere per il destino del nostro paese.”

Al di là delle convinzioni di ciascuno, come dargli torto?

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Aldo Dalla Vecchia, "Vita da giornalaia"

2 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione

Aldo Dalla Vecchia, "Vita da giornalaia"

Vita da giornalaia

Aldo Dalla Vecchia

Murena editrice, 2015

pp 47

8,00

Ci siamo occupati ampiamente di questo testo, quando era ancora un brogliaccio di un’opera teatrale che stava per andare in scena. Vi rimandiamo perciò alla lettura della precedente e dettagliata recensione. Possiamo solo aggiungere che adesso questo atto unico è diventato un libro vero, con una copertina deliziosa, che richiama, appunto, la Vita da giornalaia, trascorsa dentro un'ipotetica, coloratissima edicola, piena di tutte le testate care all’autore.

Rispetto al copione teatrale, la voce fuori scena si è trasformata in un personaggio che pone domande. Sorge il dubbio che intervistato e intervistatore siano la medesima persona. È se stesso che Aldo Dalla Vecchia interroga, è dentro la sua memoria che fruga alla ricerca di pezzetti di vita dolceamari.

Gli argomenti sono quelli trattati abitualmente dall’autore: la gavetta come giornalista, la carriera in ascesa, che lo ha portato a lavorare come autore di importanti programmi televisivi e collaboratore di note testate, il contatto diretto con i più importanti e glamour personaggi dello spettacolo. Possono sembrare temi non particolarmente rilevanti o impegnati, ma a vivificarli ci sono la dolcezza e il garbo con cui Dalla Vecchia ne parla. La sua passione è profonda, tutto è permeato di nostalgia, dolce ma non zuccherosa, tenera e delicata come il suo animo da eterno ragazzo perbene.

Attraverso i ricordi, ripercorriamo tempi televisivi ormai scomparsi, divenuti quasi epici, incontriamo personaggi forse sopra le righe ma sempre signorili. Ci appaiono più attraenti, più puliti, più affascinanti di quelli di oggi. Oppure, chissà, magari è solo il rimpianto a farci sembrare bello tutto quello che ormai è solo reminiscenza. Come le puntate de La casa nella Prateria, come gli sceneggiati, i quiz del giovedì, il pappagallo di Portobello. Come tutto quello che ci ricorda come eravamo e come non saremo mai più.

Fondamentale il passaggio dalla tv di stato a quella sbarazzina delle reti commerciali. E ciò è tanto più significativo in questo momento in cui tutto sta di nuovo mutando in modo epocale, con l’arrivo dei canali digitali, della tv on demand e interattiva.

La fine degli Anni Settanta segnò, almeno per me che ero bambino e appassionato di televisione, un passaggio epocale e uno choc benefico, con l’arrivo dei programmi a colori e la nascita delle tivù private, una su tutte Telemilano 58, la futura Canale 5, dove ritrovai molti dei miei beniamini.”

Che rimane di quei tempi pionieristici? Il mondo catodico che conoscevamo sta sparendo, i grandi del passato se ne vanno, a uno a uno, ormai solo illustri fantasmi in Techetechetè, più simile ad un triste necrologio che ad un vivace preserale.

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La corale Costanza e Concordia

29 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica

La corale Costanza e Concordia

Tutti conoscono la corale Pietro Mascagni, non tutti sanno che porta questo nome dal 1945, anno della morte del compositore labronico, ma si è evoluta dalla precedente Corale Costanza e Concordia.

Quest’ultima, a sua volta, era nata nel 1877 dalla fusione di due corali maschili, la Costanza e la Concordia appunto. Il nuovo complesso era formato da circa quaranta elementi e come emblema adottò l’immagine di due dame che si danno la mano.

Il primo direttore fu Oreste Carlini, morto a Livorno nel 1902, direttore di banda e compositore. La corale Costanza e Concordia contribuì al successo di Cavalleria Rusticana al Goldoni, alla presenza di Mascagni stesso.

La sede iniziale era nel Teatro San Marco, poi distrutto dai bombardamenti.

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Laboratorio di Narrativa: Mari Nerocumi

27 Giugno 2015 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #racconto, #Laboratorio di Narrativa, #ida verrei, #poli patrizia

Laboratorio di Narrativa: Mari Nerocumi

Monologo, dialogo, flusso di coscienza: sofisticate strategie narrative attraverso le quali l’autrice ricostruisce la storia dolente di una donna. Un cerchio che si apre e si chiude sulle stesse parole, su un nome che riporta al passato. Un loop fra ciò che è e ciò che è stato, dove tre donne e un uomo si muovono attraverso dialoghi serrati, riannodando il filo della memoria per ricostruire la trama. Queste quattro persone sono “Le variabili del cerchio” di Mari Nerocumi: Delphine, malata di cancro, Roxane, sua ex compagna, David, fratello dell’una e marito dell’altra, Cécile, madre di Delphine, moribonda in un letto d’ospedale. Un cerchio fatto di omosessualità, di famiglia, soprattutto di affetti intrecciati e intersecati.

L’amica “speciale” di un passato ormai lontano, l’eterno senso di abbandono che accompagna ricordi dolce-amari, una verità mai svelata e poi, l’ultima beffa della vita, la scoperta della malattia. È questo che e convince Delphine, la protagonista, a riprendere la ricerca di una madre mai conosciuta e, nella scoperta del segreto rivelato, ritrovare la vita che proprio la madre morente ancora una volta le regala. Delphine rintraccia Cécile quando sembra essere troppo tardi, quando è in procinto di pederla ma, invece, tardi non è, perché proprio questa donna che per salvarla ha rinunciato a lei, sta per offrirle nuovamente se stessa con una donazione di organi.

Qullo che colpisce Delphine, più che la possibilità di salvezza insperata, è l’idea di essere stata burattino sul palcoscenico, manovrato a sua insaputa da Cécile prima e da David e Roxane poi, essere stata, appunto, “variabile del cerchio”. “È come se non avessi mai vissuto la mia vita, è come se mi fosse stata negata la capacità di scegliere e agire.” Ma anche lei, anche Delphine, mente sulla malattia, e il gioco del non detto si moltiplica come in un labirinto di specchi.

È forse la figura della madre il punto debole del racconto. Una “madre-eroina” disposta a rinunciare alla figlia per preservarla dalla violenza di un padre aggressivo e pericoloso, è in verità, oggi, poco probabile. L’abbandono, il distacco, appare piuttosto come la scelta di una donna debole, incapace di ribellarsi e di costruirsi un’ esistenza autonoma, lontana dal dominio maschile, libera con la propria creatura. L’altro punto è, forse, il non aver saputo ben integrare l’interessante antefatto del collegio - con la ribellione saffica delle due ragazze - al resto della storia.

È un racconto scritto con grande delicatezza di linguaggio, ma anche con forza, con un ritmo serrato che arricchisce tutta la narrazione di pathos. Lo stile è molto pulito e questo, al giorno d’oggi, è già tanto.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Le variabili del cerchio

Mari Nerocumi

Nel buio della stanza d'ospedale le parole della donna risuonano come un’eco interminabile.

D’impulso le chiedo come si chiama.

–Renée, ma il mese prossimo sarò Suor Teresa.

Un tuffo al cuore mi porta su una giostra irrefrenabile mentre la mente cerca di rallentare, ha paura dei vari buchi in cui può incappare, sparsi qua e là.

Uno di questi è proprio il nome della suora cui mi affidasti ancora prima che nascessi. I ricordi mi riportano alla disperazione di due mesi fa, quando ho saputo della malattia e ai tentativi fatti per accettarla. Mi sono illusa di recuperare la mia dignità mantenendo un segreto bugiardo. Un altro buco in cui sono inciampata. Per accettare quello che mi stava succedendo, sono arrivata persino a registrare la mia voce, nel tentativo di acquisire quelle poche sicurezze che ora tu, immobile in questo letto, stai demolendo a una velocità insostenibile.

Ma sei stupida!– mi urla il cuore ora – Quale altro segno dovevi ancora darmi? Seduta, con le braccia conserte, avverto il tumulto dal di dentro. Come ho fatto a non capire?

Sono diventata così cieca da non comprendere che stai morendo per me, per darmi nuovamente la vita.

Affondo la faccia nelle mie lacrime, ma stavolta non hanno a che fare con la disperazione: è il tuo amore che mi assale. Sfinita mi arrendo e scelgo finalmente di credere che tutto questo non sia frutto del caso. Accasciata sul tuo corpo mi addormento mamma, ora che so che non voglio più lasciarti e che tu, non mi lascerai più.

–Ho bisogno di tornare a Le Mans e vorrei che tu venissi con me. È un favore che ti chiedo!

–Le Mans?...Ma come ti salta in mente, tornare lì è da pazzi, dopo tutto quello che abbiamo passato.

Non contare su di me. Io ho deciso di metterci una pietra sopra.

–Io no, Roxane, non posso –

Sento la vita che mi sfugge dalle mani e mi sembra l’unica alternativa alla pazzia.

Ho mentito a me stessa troppo a lungo e ora è arrivato il momento di fare ordine.

–Perché? Non capisco. Sono anni che ci vediamo solo per le feste comandate, raramente affrontiamo discorsi diversi da che tempo fa oggi e dal nulla mi chiedi un favore così grande.

Mi stai nascondendo qualcosa … Cosa ti avrà riportato a quel periodo?

–È vero, è strano che io lo chieda proprio a te.

–Soprattutto dopo quello che è successo. Era questo che stavi per dire?

–Roxane, in ballo c'è la nostra amicizia. Non conta niente che te lo chieda io?

–La nostra amicizia? La nostra storia la chiami… “amicizia”? Ma ti ricordi come sono andate le cose? Come ci siamo lasciate te lo ricordi?

–Non volevo riferirmi a questo.

–Che mi hai lasciato per un uomo, lo ricordi?

Sembra tu stia parlando di un’altra persona e di un’altra vita.

– A quel tempo eravamo molto confuse.

– No, tu eri quella confusa.

– Sì io ero molto confusa. Ero un’adolescente con le idee poco chiare sulla propria sessualità, in un collegio di sole donne ...

–Che faccia tosta … Continui a infierire?

–Ma se David me l'hai presentato proprio tu.

–Non mettere in mezzo mio fratello!

–Ma è possibile che dopo tanti anni ce l’hai ancora con me? Hai la tua vita adesso e pensi ancora a quello che è successo tra noi?

–Alcune delusioni sono difficili da superare e basta!

–Lo vedo.

–E poi… Eravamo confuse, lo so, ma nonostante tutto una parte di me l’ho lasciata in quel collegio e certe volte provo ancora nostalgia.

– Già, è vero, allora ci torni con me? Voglio liberarmi dai rimpianti una volta per tutte.

– Che intendi? C’entra ancora la ricerca di tua madre?

Era questo che mi nascondevi?

– Sì, è così. Ma c'è dell'altro. Il Saint Julien è stato il luogo che ha visto le nostre menti in subbuglio, io con la mia ansia, tu con i tuoi complessi, dare una svolta significativa ai falsi perbenismi e moralismi che imperavano chissà da quando. Siamo state capaci di smontare i castelli di conformismo che ci circondavano, abbiamo seminato perenne agitazione in quel convento.

– Ricordo come sbiancavano le suore quando sentivano odore di guai, la nostra unione sfidava la loro legge naturale e più si sentivano minacciate e più ci divertivamo.

– E ti ricordi il periodo in cui volevano tenerci a distanza? Suor Celine dopo la predica serale ci chiudeva a chiave ognuna nella sua cella di punizione. Rimanevamo l’intera notte sveglie a parlare e il muro che ci divideva diventava invisibile.

– Tutto diventava una sfida! Il Saint Julien è stato il nostro castello incantato.

– In quel periodo solo grazie a te sono riuscita a cambiare ciò che ero, facendo spazio alla parte migliore di me ma mi sono illusa di aver finalmente cancellato tutte le mie angosce.

– Già, e poi …

– Avevamo fatto un patto, ricordi?

Lo sapevo che tiravi fuori il patto.

No.

– Ci siamo impegnate a rimanere sempre legate. E invece cosa abbiamo fatto? Cosa ne è stato delle ragazze del Saint Julien, dove sono state nascoste per tutti questi anni?

– Abbiamo semplicemente smesso di fare la guerra. Eravamo delle ragazzine, Delphine!

– Abbiamo smesso di sognare, Roxane.

I portici del Saint Julien erano la nostra finestra sul mondo. Lo squarcio di cielo che accoglieva quel chiostro era il nostro sguardo rivolto alla libertà. Quelle mura se potessero parlare scriverebbero poemi di solitudini sconfinate.

– Ma tutto questo è successo prima della nostra storia.

Lo sapevo che mi facevi piangere.

– Perché non recuperiamo quello spirito tornando lì? Non ho altra scelta Roxane, sento che solo tu mi puoi stare accanto in questa che potrebbe essere la mia ultima sfida

– Ma cosa dirai a David? E ai ragazzi? Come giustificherai la tua assenza ai tuoi corsisti?

E poi hai già provato tempo fa a cercare tua madre e i risultati non sono stati così incoraggianti. Non vorrei che rimanessi di nuovo male.

– Ora più che mai devo trovarla e la troverò.

Non ho pensato ancora bene cosa dire a David, vorrei raccontargli la verità mezza verità, come sto facendo con te vorrei che sapesse che ritorniamo Le Mans, io e te per fare una gita in nome dei vecchi tempi e per ritrovare… mia madre.

Avevo dimenticato l’effetto che mi fai, sei vento leggero che mi accarezza la faccia e che mi fa respirare aria pulita dopo la pioggia.

Avevo dimenticato quanto senso pratico avesse Roxane.

I suoi bagagli sono già pronti in macchina quando bussa alla porta.

Scende David ad aprirle. Li osservo dalle scale, si abbracciano con una strana aria negli occhi...come se sapessero qualcosa che non so.

Faccio per scendere, ne voglio capire di più, ma Matt ha bisogno di me, prima di partire.

Matt ha la mia stessa sensibilità di quando ero bambina e sono sicura che la mia partenza lo rattrista parecchio.

Ricordo come mi sono sentita quando Suor Teresa se n’è andata. Sono rimasta settimane senza scambiare una parola con nessuno e temo che anche Matt possa provare le stesse sensazioni per poi rinchiudersi in se stesso. Al mio ritorno spero di avere ancora occasioni per farmi perdonare per questa ed altre mille mancanze.

Forte è la spinta che mi impedisce la resa e ora come ora non ho la possibilità di tornare indietro.

Forte è il bisogno di cercare quella parte di me che mi è sempre mancata. Ma forte è anche l’ansia che mi assale...

Chi cerco a Le Mans adesso che è passato così tanto tempo?

Chi troverò? Qualcuno che ha il mio stesso sangue? Una madre affettuosa disposta a starmi vicino? Mi sento stupida ed egoista a pormi queste domande, forse è l'istinto di sopravvivenza di chi è malato mi rispondo. E se non vivesse più a Le Mans?

Di lei so che mi ha negato il suo affetto, la sua presenza, ma ora che sto male non può più continuare a ignorarmi né posso continuare a ignorarla io.

– Pronta?

– Sì eccomi...

– Povero cucciolo, te la riporterò presto quest'impiastro di madre.

– Sì ma è l'unica madre che ho, risponde un po' imbronciato Matt.

L'unica madre che ho è la risposta di un figlio

– Mamma mi porti un profumo francese?

Non mi sorprende la richiesta di Becky che invece è contenta di liberarsi per un po' di me.

– Certo. Hai qualche preferenza?

– Sì voglio Chanel n.5, l’original, mi raccomando.

– Stai attento ai ragazzi.

– E tu starai attenta a te? – mi chiede David con la solita dolcezza.

Gli rispondo di sì con un sorriso, cercando di infondergli sicurezza, ma dal suo sguardo non ne traspare tanta.

Mi chiude lo sportello della macchina e vuole che apra il finestrino prima di andare, per sussurrarmi all'orecchio il suo ti amo.

Gli stringo la mano mentre con l’altra saluto i ragazzi seduti sugli scalini, sono tutto quello che ho, mi dico soffocando le lacrime per la paura di perderli.

Ci dirigiamo verso il porto e mi suona strano ora stare in macchina con Roxane. Guardo fuori dal finestrino e mi sento in imbarazzo, come se avessi il dovere di porgerle delle scuse ma non certo la volontà.

E nemmeno lei a quanto pare ha voglia di parlare, assorta in chissà quali pensieri, guida in silenzio, incurante di tutto ciò che la circonda.

A un certo punto il suo silenzio mi incuriosisce così tanto che mi dimentico del mio imbarazzo e sono io a voler rompere il ghiaccio.

– Tutto ok Roxane? Ci hai ripensato?

– No, al contrario... mi ci voleva un bel viaggio, certo non avrei mai pensato di farlo a Le Mans, ma avevo bisogno anch'io di staccare la spina.

– Era a questo che stavi pensando?

– Sì anche... un po' di cose messe assieme.

– Non mi hai detto come l'ha presa Anne.

– Beh la conosci no? La sua diffidenza è proverbiale e nemmeno questa volta si è smentita, dati i nostri precedenti.

– Dipende da cosa le hai raccontato.

– Dici?

– Sì dico.

– Lei pensa che la storia che abbiamo vissuto abbia ancora importanza per me.

Sono sicura che questo è quello che pensi tu

– E poi ci sono diverse cose che mi frullano in testa e soprattutto una che ancora non ti ho detto: Anne ha espresso il desiderio di avere un figlio e mi ha proposto di adottarne uno.

– Gesto coraggioso, è davvero ammirevole da parte vostra, e tu? Condividi il suo stesso entusiasmo?

– Ecco è proprio questo il nodo della questione, io non so se ho tutto questo coraggio. Diventare madre mi spaventa, sento che è un ruolo che non mi si addice.

– Forse dovresti dirlo ad Anne, dovresti parlarle chiaro.

L'arrivo al porto interrompe il nostro discorso. Il mio sguardo si perde all'orizzonte e mi lascio pervadere dall'odore salmastro del mare. Era da tempo che non ci venivo.

Il traghetto per Le Havre sta per partire per cui decidiamo di non tornare sull'argomento.

Ci affrettiamo a raggiungere la banchina per l'imbarco e mentre ci avviciniamo sento l'aria che mi accarezza la faccia e torno a quindici anni fa quando affrontai il viaggio di sola andata verso Portsmouth.

L'immaginazione mi riporta a quei momenti e mi restituisce una pace interiore che non pensavo di poter più provare. Quell'orizzonte era una nuova vita per me e avevo cercato di abbracciarlo in tutta la sua immensità.

– Una volta arrivate a La Havre, prenderemo un taxi per arrivare alla stazione, mi informa Roxane, interrompendo il percorso dei miei ricordi.

Realizzo solo ora che si è occupata del viaggio nei minimi dettagli, ricordandosi soprattutto che io non amo volare.

– Avremmo impiegato molto meno tempo con un volo aereo, le chiedo guardandola.

Lei sorride a occhi bassi.

– Grazie Roxane, le dico con il viso traboccante di sincerità, mentre riponiamo i bagagli nel vano.

Nel ringraziarla avverto la sensazione che aspettavo da quando ci eravamo messe in macchina. Lei mi guarda stavolta e sono io ora a sorriderle. La mia gratitudine è riuscita a rompere il velo che sembrava annebbiare la vista e impedire di guardarci negli occhi. L'imbarazzo di prima è svanito, ritrovo finalmente la persona cui avevo donato il mio cuore un tempo, una persona affidabile, a cui confidavo i miei pensieri più oscuri, che mi sapeva capire senza fare tante domande, ora so che il forte affetto che ci legava non si è mai spento. Sono contenta di averlo ritrovato, come lo è anche Roxane.

– Pronto? David, ci siamo appena imbarcate sul traghetto. Ho lasciato Delphine in bagno e sono corsa a chiamarti.

– Calmati, andrà tutto bene.

– Spiegami come? Non so se ce la faccio a resistere. Sono anni che le nascondiamo la verità. I sensi di colpa mi stanno divorando e non ho il coraggio di guardarla negli occhi. Non riesco a sopportare più questo peso che porto da quindici anni sulla coscienza.

– Ricordati che se abbiamo scelto di non dirle la verità è perché è stata sua madre a volerlo.

– E credi che questo basti a far tacere la mia coscienza?

– Ascolta Roxane, io non so perché Delphine abbia deciso dopo quindici anni di ritornare a Le Mans e ritrovare sua madre, ma se è quello che desidera noi non possiamo impedirglielo. Cécile mi ha fatto promettere di non dirglielo e cavolo si tratta di mia moglie! Non credere che non mi sia costato nasconderle la verità per tutti questi anni.

– Allora devi dirglielo, David! Io non posso continuare a vivere questa farsa,

mi sono tenuta alla larga apposta, ma nonostante questo lei è me che ha cercato per questo viaggio.

Ma come credi che reagirà quando saprà che la madre ha sacrificato la sua vita, il suo amore per tenerla lontana da un padre drogato e manesco e soprattutto che noi ne eravamo al corrente?

– Non lo so. Non riesco a immaginare quali possano essere le conseguenze.

Delphine è sempre stata così imprevedibile.

– Allora raggiungici. Ho la sensazione che il momento giusto sia arrivato e non si possa più rimandare. Se non vuoi dirglielo tu, glielo dico io.

– Roxane, non essere impulsiva. Va bene, prendo un volo e vi raggiungo alla stazione. Aspettatemi lì.

Delphine, spero solo tu ci possa perdonare.

Mi ricordo di lei come se la vedessi adesso...con le dita nelle grate del giardino del Saint Julien, quasi a volerle strappare...

ti osservava durante la ricreazione, gioiosa al vederti e così triste al lasciarti.

Spero non dubiterai della nostra buona fede, volevamo solo proteggerti e quando decidesti di venire a vivere a Portsmouth ci sembrò il momento meno opportuno per rivelarti una verità che si presentava così scomoda a tutti.

– David? Cosa ci fai qui? È successo qualcosa ai ragazzi?

– No, i ragazzi stanno bene. Li ho accompagnati dai nonni.

– E perché? Tu lo sapevi, Roxane?

– Beh…Sì, mi ha avvisato che avrebbe preso un volo per raggiungerci.

– Delphine devo parlarti…

– Io vi lascio da soli. Vi aspetto al caffè di fronte all'edicola.

– Ma come? Dove vai, Roxane?

– Delphine, vieni, troviamo un posto per sederci.

– Ma si può sapere cos’è tutto questo mistero?

– Nessun mistero, cara. O meglio, voglio che non ci siano più misteri sulla tua vita a Le Mans.

Ora che siamo qui scoprirai la verità, quella che cercavi quando ci siamo conosciuti. Non so come la prenderai e mi sento un codardo per non avertene mai parlato.

– Ma di che stai parlando?

– Quindici anni fa ero giovane e soprattutto innamorato perso di te. Avrei fatto qualsiasi cosa per proteggerti ed è quello che feci. In cuor mio sapevo di negarti un diritto ma l'istinto di proteggerti ebbe il sopravvento.

Delphine, quindici anni fa ho conosciuto tua madre e non te l'ho mai detto. Roxane è stata mia complice nel cercare informazioni su di lei dopo che mi riferì che il tentativo di rubare il tuo fascicolo personale era fallito. Ci servimmo di un investigatore privato che in poco tempo ci fornì le notizie che cercavamo. Scoprimmo che tua madre si chiamava… si chiama Cécile Le Blanc,

originaria di Nantes, e che abita nei pressi di Place de Jacobines. Rue Wibur Wright per la precisione.

– Cosa?

– Calmati Delphine, fammi finire.

Allora aveva quarantotto anni. La sua storia è molto diversa da quella che tu hai immaginato per anni. Quando bussammo alla sua porta ero arrabbiato quanto te, ma quando la vidi apparire all'uscio, senza che avesse ancora aperto bocca, sfumarono tutte le mie più agguerrite intenzioni.

Era una donna minuta e la somiglianza con te era incredibile. Il viso era scavato da una tensione perenne più che dal peso degli anni. Aveva i capelli del tuo stesso colore, raccolti alla nuca, ma ciò che tradiva più di tutto la somiglianza con te era la bellezza disarmante, di chi seduce senza rendersene conto. Forse era la sua perenne aria di tristezza ad aumentare il suo fascino.

Rimanemmo fermi e freddi sulla porta io e Roxane. Non fece cenno di farci entrare.

Capite le nostre intenzioni, uscì lei. Si chiuse la porta alle spalle e ci portò all'altro lato della piazza vicino al fiume Sarthe. Lì seduta su una panchina si sciolse in un pianto e ci rivelò il suo grande segreto. Era come se ci stesse aspettando da tempo. Iniziò a parlare con la sua voce calda e sia io che Roxane ci abbandonammo a quella familiarità estemporanea. Ci raccontò di averti avuta giovane, a ventidue anni. Aveva sposato tuo padre da un paio d'anni, durante i quali aveva già avuto modo di conoscere il suo lato oscuro e di pentirsi dell'errore commesso sposandolo.

Lui si era dimostrato un insoddisfatto che non riusciva a realizzare le proprie ambizioni e che sfogava con la violenza la propria inadeguatezza. Abusava dei farmaci che maneggiava per lavoro e che gli servivano più per stordirsi che per reale dipendenza.

Varie volte era finita in ospedale, e un po' per paura, un po' per mancanza di alternative non aveva mai avuto il coraggio di liberarsi di lui. Si sentiva una vittima ma era giovane e non aveva perso ancora le speranze che le cose potessero cambiare. Lunghi periodi di assenza, dovuti al lavoro, tenevano via tuo padre, dandole una finta tregua e l’illusione di riprendersi la sua vita, fino al successivo ritorno. Io e Roxane la guardavamo increduli senza avere il coraggio di interromperla.

– Continua...

– Ci raccontò che fu proprio durante uno di questi viaggi che si accorse di essere rimasta incinta. Era al secondo mese quando già prese la decisione di affidarti al Saint Julien. Conosceva suor Teresa della quale si fidava e con lei prese accordi.

Alla tua nascita non raccontò niente a nessuno, era tornata a casa dei suoi,

dove tua nonna era morta e tuo nonno era diventato ormai così vecchio da non rendersi più conto del mondo che lo circondava.

Le sembrò un segno del destino, avere la possibilità di vivere un'esperienza solo sua: te. Pensò di fuggire per sempre lontano da lui, ma il peso della fuga continua, l'angoscia di vivere con la paura di essere inseguita e scoperta la fece tornare alla realtà. Il Saint Julien era la scelta più giusta, valeva la pena di starti lontana ma saperti sana e protetta. Mi fece promettere di non dirti la verità. Sarebbe stata lei un giorno a dirtela. Ogni tanto ci scriviamo, io l'aggiorno su di noi, sui ragazzi, e lei è contenta di saperti felice con noi.

Non avercela con Roxane, la decisione di tacerti i fatti è stata mia.

So di essermi comportato da egoista ma ti ho vista felice e non me la sono sentita. Non volevo ostacoli al tuo desiderio di liberarti del passato.

– Cosa ti chiese esattamente?

– Mi chiese di non rivelarti la sua identità, era importante che lo facesse lei al momento giusto.

– Sei stato un vigliacco.

– Delphine cerca di capirmi, ti ho nascosto la verità per tutto questo tempo al solo scopo di evitarti una sofferenza.

– O per egoismo David?

– Non sopportavo l'idea di vederti infelice, finalmente la vita sembrava sorriderti e l'ossessione della ricerca delle tue origini sembrava ormai acqua passata.

– Perché non hai cercato un altro modo per risolverla? Perché vedo un tuo tornaconto in tutto questo?

La tua protezione mirava alla tua tranquillità non alla mia. Il tuo tacere non ha fatto altro che aumentare il mio senso di inadeguatezza. Ho passato la mia vita a cercare di sentirmi bene con me stessa e in mezzo agli altri ignorando che ci fosse qualcuno come mio marito a tirare i fili dall'alto. Prima mia madre, poi Roxane, poi tu, tutti con l’intenzione di proteggermi senza nemmeno avvisarmi quale pericolo potessi correre. È come se non avessi mai vissuto la mia vita, è come se mi fosse stata negata la capacità di scegliere e agire.

– Mi rendo conto solo adesso di aver fatto male i conti, certe cose non si possono rimuovere con un colpo di gesso dalla lavagna, e ora che stai per ritrovare tua madre ti chiedo solo un favore: ricordati di quello che siamo stati e di quello che siamo. Cerca di capirmi ti prego.

– Non so cosa dire David, mi sento ingannata da te e non riesco a perdonare niente adesso, ti prego torna a casa dai ragazzi e lasciami in pace.

– Ok, ti lascio sbollire la rabbia, ma pensa a quello che ti ho detto, ti prego.

– Dove è andato David?

– Gli ho detto di tornare a casa. Non ho bisogno della sua protezione adesso e tanto meno della tua!

– Che cosa stai dicendo?

– Cosa ci fai con quel registratore in mano? Ridammelo e non osare più frugare nella mia borsa.

– Non ho frugato, avevo mille cose in mano tra cui la tua borsa, mi è caduta in terra e...

– Eh cosa?

– Ho ascoltato parte della registrazione Delphine. Quando hai saputo della malattia? Non posso crederci, perché non me l'hai detto subito?

– Cosa avrei dovuto dire? Che posso morire? Tutti possiamo morire da un momento all'altro, e poi dirlo a chi... a te?

– Che intendi con “a te”? E a David e ai ragazzi non ci pensi?

– È proprio perché penso a loro che non l'ho detto!

– Ma hanno il diritto di saperlo.

– Come io avevo il diritto di sapere chi era mia madre?

– Sì, te lo ha detto David?...finalmente!

– Quindici anni di menzogne, come avete potuto?

Siete stati dei vigliacchi, nascondermi la verità sapendo quello che significava per me.

– Abbiamo cercato di proteggerti, era solo questo il nostro scopo credimi. Pensavamo fosse il momento sbagliato, tua madre lo pensava.

– E quando sarebbe stato il momento giusto? Quando lo decidevate voi? E se fossi già morta, non avrei mai potuto sapere che mia madre MI AMAVA così tanto da sacrificare la sua stessa vita per me?

– Non piangere ti prego.

– Lasciami stare...non mi toccare, lasciami da sola!

– No, non posso, mi sento così in colpa e in più adesso che so della tua malattia, vorrei solo scomparire.

– Ecco brava scompari.

– No, non dirmi così, dobbiamo mantenere la calma e riflettere, quando torneremo a Portsmouth, David prenderà contatti con il dottor Milestone, chiederemo il parere di altri medici e stabiliremo il da farsi.

– Basta! Sono stanca del “vostro da farsi”, non l’ho detto a David appunto per questo motivo e non osare farlo tu, altrimenti….altrimenti

– Va bene smettila di piangere, lasciati asciugare le lacrime. Farò come dici tu ma calmati adesso.

– Non c'è molto da fare...morirò e non voglio Roxane, non voglio…

L’afa della città aumenta il mio stato di confusione. Il sole sta calando, dovrebbero essere le quattro ma il mio orologio? L’ho dimenticato e vorrei averne la certezza. Ho la testa frastornata. La confessione di David mi ha messo ko. Sono combattuta. Vorrei comprenderlo ma la rabbia è troppa. Lui che ha sempre predicato la verità come principio indiscusso alla base della nostra vita insieme. Me lo sarei potuto aspettare da chiunque ma non da lui. Eppure lo conosco, lui è uno che se fa una promessa cascasse il mondo la mantiene.

Il taxi preso al volo alla stazione si dirige di corsa a Rue Wibur Wright.

Roxane è accanto a me col viso preoccupato. La guardo mentre il pensiero di mia madre si sostituisce a quello di David.

Non mi aspettavo di poterla conoscere in così breve tempo.

L'immaginazione non indugia a partire. Nei miei sogni è sempre stata una donna di bell'aspetto, dai tratti gentili e remissivi, un non so che di rosso nell’abbigliamento, i capelli raccolti, orecchini di perle e tacco alla francese. Ora ne ha 63 di anni. Chissà se sente il peso dell’età. Chissà come ha fatto a vivere col pensiero di dover sacrificare l’amore di una figlia per saperla in vita.

Rue Pierre Mendès France, siamo quasi arrivate.

Ecco la prossima dovrebbe essere Rue Wibur Wright.

Il taxi si ferma davanti a un palazzo enorme grigio con le finestre bianche, mentre scendo le gambe mi tremano. Roxane mi ha parlato di un appartamento al piano terra, potrebbe essere questo o quello laggiù. Mi fa segno di seguirla, avanziamo verso l’interno dove si apre un ampio giardino con al centro una piccola fontana, la statua di un putto offre acqua dalla bocca, dovrebbe essere quello lì facendomi segno con la mano.

Vedo fiori, tanti fiori sul davanzale della finestra, le cui tende a righe lasciano intravedere poco dall’esterno. La porta di ingresso è quella con gli scalini, ricorda Roxane. Cécile Le Blanc e Philippe Dupont riporta la targhetta affissa sulla porta. Roxane suona il campanello che io non oso toccare. Il cuore mi balza in gola.

Non avverto alcun movimento, né si percepiscono rumori…

Roxane si sporge per suonare di nuovo, ma nessuno viene ad aprire.

Il cigolio di una finestra dall’altro lato del palazzo attira la nostra attenzione, la vecchina che si affaccia ci chiede:

– Chi cercate?

Trattengo il respiro e la voce stenta ad uscire, come quando mi nascosi sotto la scrivania di Suor Celine in cerca dei documenti sulla mia identità.

– Cerchiamo la Signora Le Blanc, sa dov’è?

– Ah Cécile, la mia amica, è in ospedale la povera Cécile al Centre Hospitalier.

– E come mai? Le è successo qualcosa?

– Siete parenti?

– Sì ehm sì, questa donna è una sua parente…

Il respiro non si ferma stavolta.

– Ah ma come…? Ma avvicinatevi vi prego io non vedo bene.

Cécile è sempre stata sola, come me, povera donna.

Il marito l’ha lasciata, un mesetto fa si è trasferito a Parigi quel farabutto. Lei era così contenta di essersene finalmente liberata, non le sembrava vero, diceva di voler partire anche lei per andare lontano da qui, voleva raggiungere una persona, ma non mi ha mai detto chi fosse questa persona. E si stava preparando a lasciare tutto quanto quando è successo quello che non doveva succedere.

Io ero con lei sapete, un improvviso malore…alla testa, non so dire il termine che i medici hanno usato, apo...qualcosa ma quello che so è che da quel momento non si è più svegliata.

Io ho fatto tutto quello che potevo fare, ho raccolto le poche cose che aveva preparato in borsa e ho fatto chiamare l’ambulanza dalla signora Lacroix.

Povera Cécile, la circolazione le ha sempre dato problemi.

È successo tutto così velocemente.

– Quando signora, quando è successo? Le chiedo con la voce affannata.

– Nel primo pomeriggio di ieri, saranno state le tre.

Mi aveva chiamata per dirmi delle piante, quando innaffiarle in sua assenza, ho visto le valigie preparate ma non ha fatto in tempo a dirmi tutto la povera Cécile.

Le infermiere dell’ospedale mi hanno consigliato di parlarle.

La mia voce avrebbe potuto risvegliarla…mi hanno detto, lo credete vero?

Soprattutto se ero una persona a cui voleva bene, ma lo sapevo che l’episodio della spazzatura se l’era legato al dito. Io non volevo farlo, è stata la signora Lacroix a dirmi di attaccarle un cartello per la spazzatura fuori la porta.

– Va bene signora la ringraziamo. Ha detto il Centre Hospitalier?

– Si signorina sì, può darsi che riuscirete a svegliarla voi Cécile, così la riportate a casa.

Roxane mi osserva con sguardo interrogativo …

La ruga in mezzo alla sua fronte tradisce la stanchezza e la tensione.

Ho bisogno di sedermi le dico.

Raggiungiamo l’altra parte della strada, mi siedo su una panchina.

– Perché? Perché le cose non possono mai andare come voglio? Mi sento la testa girare in un vortice.

– Calma Delphine, vado al bar a prenderti qualcosa da bere.

– No per favore, non ti muovere da qui. Non lasciarmi sola, ho paura di sentirmi male.

– Che intendi fare adesso?

– Non lo so, mi ritrovo a conoscere l’unica madre che ho in ospedale, al suo capezzale.

E per dirle cosa? Che sono la figlia che cercava di raggiungere? Che fare? Andare lì e sperare che si svegli come dice la vicina? Povera me, povera stupida, che pensavo di ottenere? Di colmare finalmente il vuoto di una vita spesa a pensare a come sarebbero state le cose se fossi vissuta con lei?

Che strazio Roxane! Che strazio! Mi sento il cuore scoppiare.

Le lacrime mi inondano il viso e i singhiozzi diventano sempre più rumorosi.

Roxane mi stringe la testa con le mani accostandola al suo corpo sudato, un passante mi guarda stranito e rattristato.

Il destino mi ha beffato ancora una volta.

In preda a un torpore generale, non riesco più a decidere e lascio che Roxane lo faccia per me.

Saliamo di nuovo su un taxi diretto al Centre Hospitalier.

– Che io ricordi è un buon ospedale, vedrai che la rimetteranno in sesto, cerca di rincuorarmi Roxane.

Salire le scale non mi è mai pesato così tanto. Guardando il marmo degli scalini, sento risucchiarmi dal basso come se fossero sabbie mobili. Cerco di distrarmi ma la pesantezza del mio corpo me lo impedisce.

Arrivate nel reparto di neurochirurgia, l’infermiera ci indica la stanza.

D’improvviso risento il cuore che comincia a battere così forte da non poterlo controllare, come se prima avessi potuto farlo. La porta è aperta, intravedo un letto. Sono circa due metri distante da te, ora il cuore mi si ferma.

Roxane mi sorregge e sento che mi spinge a camminare verso l’interno della stanza.

Arriviamo all’uscio e ho voglia di fuggire. Faccio per voltarmi ma Roxane mi afferra per un braccio – siamo venute per lei – mi ricorda con sguardo duro.

Sei da sola in questa stanza, hai gli occhi chiusi, le mani stese lungo il corpo, il viso pallido.

Mi siedo accanto al tuo letto, gli ospedali hanno tutti lo stesso odore: alcol misto a polvere.

La vetrata della finestra è ampia e la luce del sole si propaga avvolgendo completamente il tuo corpo.

Il bianco è accecante e si espande fino a me seduta al lato opposto sulla punta della sedia.

Mi alzo. Forse perché il riflesso del sole mi impedisce di vedere chiaramente il tuo viso o forse perché presa da una smania non riesco a crederci ancora… che sei qui davanti a me.

Respiri come se stessi dormendo.

Nemmeno il colorito tradisce il tuo stato di salute.

La vicina ha detto di parlarti e io ti parlo con il cuore in mano e col desiderio che tu davvero possa sentirmi.

Le tue dita sono lunghe e affusolate, le so riconoscere le dita giuste per suonare l’arpa mi dico.

Guardo le mie per vedere se somigliano alle tue. Forse sì, ma le lacrime iniziano a riempire gli occhi e a stento riesco a osservarti come voglio. Mi giro per cercare Roxane ma non vedo più nemmeno lei.

Al collo non hai una collana di perle, ma una piccolissima croce, di diamanti, credo.

Forse riponi speranze in un Dio che non ti ha mai aiutata, non ha mai esaudito il tuo desiderio più grande.

Porti ancora la fede, segno della tua integrità morale e della tua fedeltà a un uomo che ti maltrattava, tradiva e ingannava. Come hai fatto a resistere tutti questi anni?

Non avresti mai potuto abbandonarmi di tua volontà, sapevo che non era un’attenuante che volevo a forza concederti. Quante volte ho pensato che qualcosa o qualcuno ti costringesse a stare lontana da me e che un giorno sarebbe poi scomparso come per magia.

Mi avvicino al letto.

Ora in controluce è la mia ombra a stendersi sul tuo corpo.

Tento di sfiorare il tuo viso, rugoso e vellutato, le tue ciglia lunghe, i tuoi capelli bianchi e le ciocche ancora castano grigio.

Avverto il calore del tuo corpo che riscalda le mie mani fredde e scioglie il mio cuore ormai colmo di preghiera e d’affetto per te.

Mi stringo al tuo petto inalando il tuo profumo sconosciuto.

Il tuo respiro è a tratti irregolare forse per il peso del mio corpo su di te.

Avvicino il mio viso al tuo mentre le lacrime ti bagnano con l’ingenua speranza di poterti svegliare.

Oh se mi potessi stringere, se le tue braccia potessero cingermi la vita, il collo,

se mi potessi baciare la fronte con le tue labbra, se tu potessi abbandonare la tua testa sul mio petto. Mamma, oh mamma non riesco a non pensare al tempo che ci è stato tolto, quanto desiderio di te nell’anima che questo momento sta colmando, quanti abbracci sognati che ora sembrano realtà.

– Delphine, David non è partito, è fuori e vorrebbe entrare.

– No, non ora Roxane, non so che dirgli.

– Hai qualcosa da dirgli Delphine.

– Ha aspettato quindici anni per dirmi di mia madre, ora spero non si dispiaccia se non uso la cortesia di dirgli subito ciò che mi ha spinto a venire qui.

– Ascolta, devo parlarti di una cosa importante.

– Non so di cosa tu voglia parlarmi ma non trovo ragioni più importanti che stare qui accanto a lei adesso.

– Delphine, posso solo immaginare come ti senti. Cécile ha affrontato una vita di sofferenze e il coraggio di questa donna difficilmente l’ho conosciuto in vita mia.

Anzi no…lo vedo solo ora, lo riconosco in te, che per anni hai lottato contro i tuoi stessi sentimenti cercando di trovare una giustificazione valida a quello che ti succedeva senza cedere a commiserazioni sterili e senza cercare colpevoli a tutti i costi.

Ma ora siamo alla resa finale e non possiamo tornare indietro.

I medici ci hanno appena riferito che Cécile non ha speranze, le sue condizioni non sono migliorate da ieri e si aspettano che possa lasciarci da un momento all’altro.

Abbiamo scoperto anche che tra la documentazione medica di Cécile c’è il suo consenso alla donazione degli organi.

So che può sembrarti una mostruosità da parte mia pensare a una cosa del genere,

ma… tua madre può salvarti la vita e per quanto possa avere dell’incredibile questa storia, non sembra affatto un caso che tu sia arrivata qui proprio in questo momento.

– No, non continuare ti prego, non riesco e non voglio pensare a niente in questo momento.

– Tua madre può salvarti la vita una seconda volta e non puoi rifiutarti di considerarlo, non sei qui per caso.

– Non avrei mai potuto pensare che il sostegno che ero venuta a chiederle potesse essere un sacrificio pari alla sua stessa vita.

– Nessuno poteva immaginarlo, ma è opportuno che ora ci pensi. Tra poco farà buio. Vado a prendere qualcosa da mangiare. Porto David con me, nel frattempo aspettami qui.

La luce che entra nella stanza è diventata soffusa, non vedo il tramonto dalla finestra, ma raggi lontani timidamente illuminano le pareti.

Ti guardo ancora incredula e con la testa piena di se. Tante le domande, nessuna ha risposta.

Una voce proveniente dalla porta sospende i miei pensieri, provo a ignorarla evitando di distogliere lo sguardo da te, ma quel tono quasi familiare cattura inevitabilmente la mia attenzione.

– Salve, volevo avvisarla che tra poco l’orario delle visite termina.

Guardo l'ora dell'orologio appeso sopra l’uscio, sono le sette, questa volta non mi manca la certezza, anzi forse preferirei tornare a prima, a quando non ne avevo di certezze su di te.

– A che ora esattamente? – chiedo, con ingenuità e forse speranza di poter avere più tempo.

– Alle sette e mezza viene richiesto ai familiari di lasciare la stanza.

– Solo mezz’ora – bisbiglio quasi senza rendermi conto.

– Mi dispiace, so che la signora Le Blanc sta molto male. Volevo proporle una preghiera prima di andarsene, se per lei va bene.

– Ecco io non saprei o forse non sono in animo di fare preghiere in questo momento.

– Permette che lo faccia io in silenzio?

– Lei è una suora?

– No, sono una novizia volontaria qui al Centre Hospitalier.

– Ah capisco.

– È sua madre?

– Sì, si chiama Cécile e l’ho conosciuta solo oggi.

– Ah... mi scusi non si offenda se mi vede sorridere ma la trovo proprio una bella storia: riuscire a sentire la voce della propria figlia prima di lasciare per sempre questa vita ha del miracoloso.

– Un miracolo sarebbe se si svegliasse.

– Vede, al contrario di quanto si possa pensare i miracoli non hanno nulla di sensazionale.

– Che intende?

– È facile avere fede se otteniamo quello che chiediamo senza problemi, è difficile avere fede quando ci viene chiesto di abbandonarci a circostanze che sembrano inconciliabili con la nostra vita.

– Ho ritrovato mia madre nel momento in cui non potrò vederla mai più, nel momento in cui ho saputo di avere una malattia grave e lei non potrà mai essermi di sostegno. Questa le sembra una circostanza conciliabile con la vita di qualcuno?

– In alcuni momenti della nostra vita non è importante come andranno le cose, se le riteniamo giuste o no. Non sta a noi agire, c’è chi lo fa per noi. Conosce quella pratica di lasciare andare il proprio corpo all’indietro sapendo che c’è qualcuno che ci prenderà?

Basta fare questo e credere che nulla avviene per caso.

Le svelo un segreto di chi è credente: sentirsi amati permette alla nostra anima di fluire dal nostro respiro e arrivare agli altri.

Sua madre ha la possibilità di sentire il suo respiro prima di morire, ed è il regalo più bello che lei potesse farle. Pensi se fosse morta da sola, qui, senza nessuno.

– Vogliono che mi prenda il suo fegato per salvarmi la vita e io non so se posso farlo.

– Ascolti il respiro di sua madre, solo così percepirà la sua anima e il suo amore; sono sicura che tutte le sue domande avranno una sola risposta.

Ora la lascio alla sua preghiera.

– Grazie… non credo di aver sentito il suo nome…

– Renée, ma il mese prossimo sarò Suor Teresa...

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Questa sera alla Feltrinelli di Pisa

25 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

Questa sera alla Feltrinelli di Pisa

Questa sera, negli spazi della Libreria Feltrinelli, in Corso Italia, 50 a Pisa, all'interno della manifestazione Giugno Pisano, Marchetti Editore è lieta di presentare il romanzo "L'uomo del sorriso" della scrittrice Patrizia Poli.


Il romanzo è stato segnalato al XXVI Premio Calvino "per la struggente rivisitazione laica della vicenda di Gesù nella prospettiva di Maria di Migdal".

Un libro potente, "bello, fruibile, godibile, divorabile" (dalla prefazione di Sergio Costanzo).

Interverranno:
Elena Marchetti (editrice)
Sergio Costanzo (scrittore)
Patrizia Poli (autrice del romanzo).

Letture a cura dell'attrice Daniela Bertini.

Un evento da non perdere. Vi aspettiamo numerosi!

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Vincenzo Calò, "In un bene impacchettato male"

23 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

Vincenzo Calò, "In un bene impacchettato male"

In un bene impacchettato male

Vincenzo Calò

deComporre Edizioni, 2014

pp 80

8,00

Rispetto a “C’è da giurare che siamo veri”, in “In un bene impacchettato male”, Vincenzo Calò, classe 1982, opera un tentativo di uscita dal sé, sebbene un autore che ringrazia se stesso nel libro non sia propriamente centrato sull’esterno. Qui, tuttavia, lo sguardo è sul mondo, sulla società moderna, consumistica, arida, meccanizzata, sulla politica corrotta che non dà risposte ai bisogni di un’umanità imprigionata “nel presente bancario”.

La cosa più tremenda e pericolosa è essere normali, quindi non si può neanche poetare in modo comprensibile o lirico. Non ci si può amalgamare alla massa che non si pone domande. Ma nei versi di Calò non ci sono nemmeno simboli surreali, piuttosto un realismo esasperato e disperato, fatto di oggetti della vita quotidiana e vocaboli mutuati dal linguaggio dell’informazione: “con la forza sovrumana degli esodati”, “alla minima curiosità del precario”.

Il privato della prima silloge rimane, ma spalmato sul pubblico. Rimane la “solitudine votata a nessuna spiegazione”, rimane l’amore. “Mi torni in un saluto/di cui non si scusa il ritardo”.

Anche l’impegno civile è considerato da una prospettiva angolare, vissuto in una stanza, attraverso uno schermo.

Come afferma Roberto Baldini nella prefazione, le “sue parole devono scorrere liberamente, se le analizzerete una per una capirete la frase ma non il suo discorso, comprenderete la grammatica ma non il suo pensiero. Vi sembrerà di guadagnare qualcosa, quando invece perderete tutto.”

I versi diventano sempre più lunghi, gli enjambement si susseguono e le poesie, diciamolo, alla fine stancano. Questo profluvio di parole e concetti finisce per nascondere i rari guizzi di poesia autentica sparsi qua e là, come “gli occhi spettri” e “il silenzio tattile”.

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Buffalo Bill a Livorno

13 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere, #luoghi da conoscere

Buffalo Bill a Livorno

Il 17 marzo del 1906, alle sette del mattino, una strana carovana si ferma alla stazione San Marco di Livorno.

Comprende carri, cavalli, diligenze. Il circo, perché di circo si tratta, è il grandioso, celeberrimo, “Wilde West Show” di William Frederick Cody (1846 - 1917), meglio conosciuto come Buffalo Bill. Dopo la sua vita avventurosa, infatti, Buffalo Bill ha fondato un circo di successo nel 1883, che ha intrapreso una grande tournèe in Europa.

Lo spettacolo si ferma a Livorno fino al 20 marzo, con due rappresentazioni il giorno, una alle quattordici e una alle venti e attira grandi folle che fanno la fila per prenotare i biglietti. I livornesi rimangono affascinati dall’imponente spiegamento di mezzi: 700 uomini, di cui 100 pellerossa, 500 cavalli. È tutto un vorticare di costumi, di penne, di frecce, di lance, viene riproposta la battaglia di Little Big Horn, con la mitica resistenza del generale Custer, e persino un attacco alla diligenza con sparatorie e inseguimenti in puro stile western.

Pare anche che, durante il soggiorno livornese, il rude avventuriero sia entrato in un bar, abbia ordinato un ponce e, spavaldamente, abbia cercato di buttarlo giù tutto di un fiato, ma si sia dovuto immediatamente ricredere e sorseggiarlo con calma, pena i lucciconi agli occhi.

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Mario Borgiotti

12 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

Mario Borgiotti

Il creatore del Premio Rotonda, che dal 52 allieta l’estate labronica, è Mario Borgiotti (1906 – 1977)

A tredici anni è messo a bottega da un liutaio, dove impara a conoscere il violino. Suo padre è un portuale artista, che declama Dante. Passa poi a lavorare dal barbiere Filocrate Falli, dove si ritrova l’intellighenzia livornese. Qui conosce i post macchiaioli (Liegi, Nomellini, Ghiglia) che lo introducono all’amore per la macchia. Diventa pittore ma, soprattutto, appassionato fin nel midollo dei macchiaioli prima maniera - in particolare del grande Fattori - che amerà, collezionerà, divulgherà e sprovincializzerà, facendoli conoscere in tutto il mondo.

Imbevuto di pittura, sviluppa il suo stile senza frequentare alcuna scuola. Autodidatta, riceve solo una lezione da Giovanni March, che lo porta a dipingere alla Torre del Marzocco.

Si specializza in ritratti, dove riproduce fedelmente i lineamenti ma dà anche uno spessore psicologico al soggetto. Oltre a dipingere i pittori suoi contemporanei e da lui conosciuti, come Liegi, ritrae anche personaggi famosi e artisti, fra i quali Mascagni, De Chirico, Papini, Annigoni, Carrà e Ardengo Soffici.

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Il teatro Goldoni

10 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere

Il teatro Goldoni

Il teatro Goldoni di Livorno nasce nella prima metà dell'ottocento, durante il governo dei Lorena. L'architetto che lo idea, Giuseppe Cappellini, è improntato allo stile neoclassico. Occorrono quattro anni di lavori e il primo nome che viene imposto è "Imperiale e Regio Teatro Leopoldo" in onore del granduca Pietro Leopoldo II°. Ha una cupola luminosa in cristallo che permette anche spettacoli diurni e persino circensi, cupola che si colloca nella storia dell'architettura in vetro e ferro. L'opera viene inaugurata il 24 luglio 1847.

Gli inizi non sono facili perché la concorrenza è troppa da parte del teatro Avvalorati, del San Marco, del Rossini e poi del Politeama. Nel corso degli anni la struttura conosce alti e bassi, degradi e rinascite, nonché alcuni passaggi di proprietà. Solo nel 1860 assume il nome definitivo di "Regio Teatro Goldoni". Nel 1890 tocca il suo apice con la rappresentazione di Cavalleria Rusticana di Mascagni che attira molte personalità dell'epoca.

Durante la seconda guerra mondiale è requisito dagli alleati per organizzarvi rappresentazioni, fra le quali la più famosa è quella che vede protagonista Frank Sinatra.

Sopravvissuto ai bombardamenti, è poi dichiarato inagibile a metà degli anni ottanta e infine espropriato nel 90. Ora è patrimonio del Comune e custodisce al suo interno anche alcuni cimeli di Mascagni.

Il Goldoni ha ospitato, e continua a ospitare, grandi cantanti, compositori e attori delle migliori compagnie: Galliano Masini, Pietro Mascagni, Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Mario del Monaco, Eleonora Duse, Ermete Zacconi, Paolo Stoppa, Enrico Maria Salerno, Giulio Bosetti. Vi sono state rappresentate opere di Verdi e di Puccini: Macbeth, la Boheme, Manon Lescaut, Tosca, Madame Butterfly. Ha accolto anche le prime proiezioni cinematografiche.

Nel 1920/21 è stato sede del congresso socialista da cui si è staccata la minoranza che, abbandonando il Goldoni per il teatro San Marco, ha poi dato vita al partito comunista.

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Angela Caccia, "Il tocco abarico del dubbio"

8 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia, #angela caccia

Il tocco abarico del dubbio

Angela Caccia

FaraEditore

pp 93

10,00

Non aver paura delle emozioni, dei sentimenti e della bellezza è una buona cosa, troppo spesso considerata fuori moda.

Il tocco abarico del dubbio” è una silloge di Angela Caccia che riesce ancora a commuoverci. Il titolo si rifà a quel punto - il punto abarico - a gravità zero, dove l’attrazione della terra e della luna si annullano. Lì risiede il dubbio, che ci permette l’indagine, la quale, a sua volta, istrada verso il sé, verso un esserci nel mondo, un Dasein di heideggeriana memoria.

Queste poesie, divise in sezioni e precedute da brevi introduzioni in prosa lirica, toccano argomenti universali che ci accomunano tutti.

La morte, in primis. “Gli occhi di una lapide mettono sempre malinconia: non guardano più nessuno”, “il sangue resta tiepido dei tanti sogni interrotti.” Da una parte essa ci limita, dall’altra, come in Heidegger, ci rende più liberi, permettendo di ripensare la nostra vita e sceglierne una più autentica.

Altro tema è il rapporto filiale, inteso come distacco dal genitore defunto, memoria dolce inasprita dall’assenza, ma anche continuazione di sé nei figli, progetto. Ma i figli, scopriamo, sono altro da noi, sono alterità e futuro, pur portandosi dietro i geni e il ricordo delle generazioni passate. Un ulteriore motivo è la nostalgia di tutto ciò che era e che non torna.

“Nei tuoi occhi

i resti di una assenza

che tu ignori e

io non perdono

-non l’ho pianta né sepolta

È lì in una leggenda

E annotta oltre le mie croci.”

Grande spazio è dato alla poesia stessa, all’atto del poetare vissuto come imprescindibile, come sfogo ma anche ricerca, genesi difficile di ogni parola: distillata, irrinunciabile, capace d’incarnare un singolo pensiero e solo quello.

“- Non serve lavorare in sottrazione –

incedono chiari i versi

si prendono per mano

le parole esatte”

“bisognerà che scavi

nelle consonanti

tra le vocali

associare al suono

odori canto immagini”

Ma la parola è comunque insufficiente (“parola che non sani”).

Le poesie nascono da riflessioni, osservazioni, quadri, accadimenti: una vita che si spezza, un funerale, una bambina che non ha conosciuto il nonno, un giorno in ospedale, lo sbarco dei migranti a Lampedusa, un cane morente, una rimpatriata con i compagni di scuola. Eventi spiccioli che diventano ispirazione poetica per un animo sensibile. La Caccia non si accontenta di viverli, ma vuole analizzare le emozioni che essi suscitano, esperirle, ricrearle con fine gnoseologico. Le poesie arginano l’emozione, la incanalano, fenomenologicamente avvalorano l’esistente perché sono scorciatoie intuitive.

Uno solo

il vocabolo giusto che

aderisce all’attimo

e trova il bandolo

di un groviglio lanoso

in petto”

Una parte non minore ha la ricerca religiosa, il bisogno di superare la morte nella fede.

C’è poi una storia antica che parla di vita oltre, di resurrezione, di eternità. Racconta che nessuno riposa nella morte, ma procede imperterrito nel suo slancio vitale, più vivo che mai. A volte questa è la risposta più adeguata.”

Concludiamo riportando una poesia, semplice e molto bella, dove l’autrice, più che trasfigurare gli eventi, è capace, attraverso la sua sensibilità, di coglierne l’aspetto poetico e la non scontata commozione.

Per i tuoi occhi

Resisti Nina

resisti da sola

così curva

in questa pozza di dolore

ci fosse un dio dei cani…

Non ho parole sacre

per i tuoi occhi

stelle senza capanna

sullo stesso meridiano dell’umano:

privilegio di chi vive

è la morte!

Laghi castani

appannati da un fondale

che la sabbia sconvolge

atolli

dove il mio amarti

ha perso le chiavi

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