poli patrizia
Questa sera alla Feltrinelli di Pisa
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Questa sera, negli spazi della Libreria Feltrinelli, in Corso Italia, 50 a Pisa, all'interno della manifestazione Giugno Pisano, Marchetti Editore è lieta di presentare il romanzo "L'uomo del sorriso" della scrittrice Patrizia Poli.
Il romanzo è stato segnalato al XXVI Premio Calvino "per la struggente rivisitazione laica della vicenda di Gesù nella prospettiva di Maria di Migdal".
Un libro potente, "bello, fruibile, godibile, divorabile" (dalla prefazione di Sergio Costanzo).
Interverranno:
Elena Marchetti (editrice)
Sergio Costanzo (scrittore)
Patrizia Poli (autrice del romanzo).
Letture a cura dell'attrice Daniela Bertini.
Un evento da non perdere. Vi aspettiamo numerosi!
Vincenzo Calò, "In un bene impacchettato male"
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In un bene impacchettato male
Vincenzo Calò
deComporre Edizioni, 2014
pp 80
8,00
Rispetto a “C’è da giurare che siamo veri”, in “In un bene impacchettato male”, Vincenzo Calò, classe 1982, opera un tentativo di uscita dal sé, sebbene un autore che ringrazia se stesso nel libro non sia propriamente centrato sull’esterno. Qui, tuttavia, lo sguardo è sul mondo, sulla società moderna, consumistica, arida, meccanizzata, sulla politica corrotta che non dà risposte ai bisogni di un’umanità imprigionata “nel presente bancario”.
La cosa più tremenda e pericolosa è essere normali, quindi non si può neanche poetare in modo comprensibile o lirico. Non ci si può amalgamare alla massa che non si pone domande. Ma nei versi di Calò non ci sono nemmeno simboli surreali, piuttosto un realismo esasperato e disperato, fatto di oggetti della vita quotidiana e vocaboli mutuati dal linguaggio dell’informazione: “con la forza sovrumana degli esodati”, “alla minima curiosità del precario”.
Il privato della prima silloge rimane, ma spalmato sul pubblico. Rimane la “solitudine votata a nessuna spiegazione”, rimane l’amore. “Mi torni in un saluto/di cui non si scusa il ritardo”.
Anche l’impegno civile è considerato da una prospettiva angolare, vissuto in una stanza, attraverso uno schermo.
Come afferma Roberto Baldini nella prefazione, le “sue parole devono scorrere liberamente, se le analizzerete una per una capirete la frase ma non il suo discorso, comprenderete la grammatica ma non il suo pensiero. Vi sembrerà di guadagnare qualcosa, quando invece perderete tutto.”
I versi diventano sempre più lunghi, gli enjambement si susseguono e le poesie, diciamolo, alla fine stancano. Questo profluvio di parole e concetti finisce per nascondere i rari guizzi di poesia autentica sparsi qua e là, come “gli occhi spettri” e “il silenzio tattile”.
Buffalo Bill a Livorno
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Il 17 marzo del 1906, alle sette del mattino, una strana carovana si ferma alla stazione San Marco di Livorno.
Comprende carri, cavalli, diligenze. Il circo, perché di circo si tratta, è il grandioso, celeberrimo, “Wilde West Show” di William Frederick Cody (1846 - 1917), meglio conosciuto come Buffalo Bill. Dopo la sua vita avventurosa, infatti, Buffalo Bill ha fondato un circo di successo nel 1883, che ha intrapreso una grande tournèe in Europa.
Lo spettacolo si ferma a Livorno fino al 20 marzo, con due rappresentazioni il giorno, una alle quattordici e una alle venti e attira grandi folle che fanno la fila per prenotare i biglietti. I livornesi rimangono affascinati dall’imponente spiegamento di mezzi: 700 uomini, di cui 100 pellerossa, 500 cavalli. È tutto un vorticare di costumi, di penne, di frecce, di lance, viene riproposta la battaglia di Little Big Horn, con la mitica resistenza del generale Custer, e persino un attacco alla diligenza con sparatorie e inseguimenti in puro stile western.
Pare anche che, durante il soggiorno livornese, il rude avventuriero sia entrato in un bar, abbia ordinato un ponce e, spavaldamente, abbia cercato di buttarlo giù tutto di un fiato, ma si sia dovuto immediatamente ricredere e sorseggiarlo con calma, pena i lucciconi agli occhi.
Mario Borgiotti
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Il creatore del Premio Rotonda, che dal 52 allieta l’estate labronica, è Mario Borgiotti (1906 – 1977)
A tredici anni è messo a bottega da un liutaio, dove impara a conoscere il violino. Suo padre è un portuale artista, che declama Dante. Passa poi a lavorare dal barbiere Filocrate Falli, dove si ritrova l’intellighenzia livornese. Qui conosce i post macchiaioli (Liegi, Nomellini, Ghiglia) che lo introducono all’amore per la macchia. Diventa pittore ma, soprattutto, appassionato fin nel midollo dei macchiaioli prima maniera - in particolare del grande Fattori - che amerà, collezionerà, divulgherà e sprovincializzerà, facendoli conoscere in tutto il mondo.
Imbevuto di pittura, sviluppa il suo stile senza frequentare alcuna scuola. Autodidatta, riceve solo una lezione da Giovanni March, che lo porta a dipingere alla Torre del Marzocco.
Si specializza in ritratti, dove riproduce fedelmente i lineamenti ma dà anche uno spessore psicologico al soggetto. Oltre a dipingere i pittori suoi contemporanei e da lui conosciuti, come Liegi, ritrae anche personaggi famosi e artisti, fra i quali Mascagni, De Chirico, Papini, Annigoni, Carrà e Ardengo Soffici.
Il teatro Goldoni
Il teatro Goldoni di Livorno nasce nella prima metà dell'ottocento, durante il governo dei Lorena. L'architetto che lo idea, Giuseppe Cappellini, è improntato allo stile neoclassico. Occorrono quattro anni di lavori e il primo nome che viene imposto è "Imperiale e Regio Teatro Leopoldo" in onore del granduca Pietro Leopoldo II°. Ha una cupola luminosa in cristallo che permette anche spettacoli diurni e persino circensi, cupola che si colloca nella storia dell'architettura in vetro e ferro. L'opera viene inaugurata il 24 luglio 1847.
Gli inizi non sono facili perché la concorrenza è troppa da parte del teatro Avvalorati, del San Marco, del Rossini e poi del Politeama. Nel corso degli anni la struttura conosce alti e bassi, degradi e rinascite, nonché alcuni passaggi di proprietà. Solo nel 1860 assume il nome definitivo di "Regio Teatro Goldoni". Nel 1890 tocca il suo apice con la rappresentazione di Cavalleria Rusticana di Mascagni che attira molte personalità dell'epoca.
Durante la seconda guerra mondiale è requisito dagli alleati per organizzarvi rappresentazioni, fra le quali la più famosa è quella che vede protagonista Frank Sinatra.
Sopravvissuto ai bombardamenti, è poi dichiarato inagibile a metà degli anni ottanta e infine espropriato nel 90. Ora è patrimonio del Comune e custodisce al suo interno anche alcuni cimeli di Mascagni.
Il Goldoni ha ospitato, e continua a ospitare, grandi cantanti, compositori e attori delle migliori compagnie: Galliano Masini, Pietro Mascagni, Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Mario del Monaco, Eleonora Duse, Ermete Zacconi, Paolo Stoppa, Enrico Maria Salerno, Giulio Bosetti. Vi sono state rappresentate opere di Verdi e di Puccini: Macbeth, la Boheme, Manon Lescaut, Tosca, Madame Butterfly. Ha accolto anche le prime proiezioni cinematografiche.
Nel 1920/21 è stato sede del congresso socialista da cui si è staccata la minoranza che, abbandonando il Goldoni per il teatro San Marco, ha poi dato vita al partito comunista.
Angela Caccia, "Il tocco abarico del dubbio"

Il tocco abarico del dubbio
Angela Caccia
FaraEditore
pp 93
10,00
Non aver paura delle emozioni, dei sentimenti e della bellezza è una buona cosa, troppo spesso considerata fuori moda.
“Il tocco abarico del dubbio” è una silloge di Angela Caccia che riesce ancora a commuoverci. Il titolo si rifà a quel punto - il punto abarico - a gravità zero, dove l’attrazione della terra e della luna si annullano. Lì risiede il dubbio, che ci permette l’indagine, la quale, a sua volta, istrada verso il sé, verso un esserci nel mondo, un Dasein di heideggeriana memoria.
Queste poesie, divise in sezioni e precedute da brevi introduzioni in prosa lirica, toccano argomenti universali che ci accomunano tutti.
La morte, in primis. “Gli occhi di una lapide mettono sempre malinconia: non guardano più nessuno”, “il sangue resta tiepido dei tanti sogni interrotti.” Da una parte essa ci limita, dall’altra, come in Heidegger, ci rende più liberi, permettendo di ripensare la nostra vita e sceglierne una più autentica.
Altro tema è il rapporto filiale, inteso come distacco dal genitore defunto, memoria dolce inasprita dall’assenza, ma anche continuazione di sé nei figli, progetto. Ma i figli, scopriamo, sono altro da noi, sono alterità e futuro, pur portandosi dietro i geni e il ricordo delle generazioni passate. Un ulteriore motivo è la nostalgia di tutto ciò che era e che non torna.
“Nei tuoi occhi
i resti di una assenza
che tu ignori e
io non perdono
-non l’ho pianta né sepolta
È lì in una leggenda
E annotta oltre le mie croci.”
Grande spazio è dato alla poesia stessa, all’atto del poetare vissuto come imprescindibile, come sfogo ma anche ricerca, genesi difficile di ogni parola: distillata, irrinunciabile, capace d’incarnare un singolo pensiero e solo quello.
“- Non serve lavorare in sottrazione –
incedono chiari i versi
si prendono per mano
le parole esatte”
“bisognerà che scavi
nelle consonanti
tra le vocali
associare al suono
odori canto immagini”
Ma la parola è comunque insufficiente (“parola che non sani”).
Le poesie nascono da riflessioni, osservazioni, quadri, accadimenti: una vita che si spezza, un funerale, una bambina che non ha conosciuto il nonno, un giorno in ospedale, lo sbarco dei migranti a Lampedusa, un cane morente, una rimpatriata con i compagni di scuola. Eventi spiccioli che diventano ispirazione poetica per un animo sensibile. La Caccia non si accontenta di viverli, ma vuole analizzare le emozioni che essi suscitano, esperirle, ricrearle con fine gnoseologico. Le poesie arginano l’emozione, la incanalano, fenomenologicamente avvalorano l’esistente perché sono scorciatoie intuitive.
“Uno solo
il vocabolo giusto che
aderisce all’attimo
e trova il bandolo
di un groviglio lanoso
in petto”
Una parte non minore ha la ricerca religiosa, il bisogno di superare la morte nella fede.
“C’è poi una storia antica che parla di vita oltre, di resurrezione, di eternità. Racconta che nessuno riposa nella morte, ma procede imperterrito nel suo slancio vitale, più vivo che mai. A volte questa è la risposta più adeguata.”
Concludiamo riportando una poesia, semplice e molto bella, dove l’autrice, più che trasfigurare gli eventi, è capace, attraverso la sua sensibilità, di coglierne l’aspetto poetico e la non scontata commozione.
Per i tuoi occhi
Resisti Nina
resisti da sola
così curva
in questa pozza di dolore
ci fosse un dio dei cani…
Non ho parole sacre
per i tuoi occhi
stelle senza capanna
sullo stesso meridiano dell’umano:
privilegio di chi vive
è la morte!
Laghi castani
appannati da un fondale
che la sabbia sconvolge
atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi
Lamartine a Livorno
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“Perché balzate sulla spiaggia spumeggiante,
Onde in cui nessun vento ha scavato solchi?
Perché agitate la vostra schiuma fumante
In leggeri turbinii?
Perché dondolate le vostre fronti che l’alba asciuga,
Foreste, che stormite prima dell’ora del risveglio?
Perché dai vostri rami spargete come pioggia
Quelle lacrime silenziose di cui vi bagnarono la notte?
Perché rialzate, oh fiori, i vostri calici pieni,
come fronte chinata che l’amore risolleva?
Perché nell’ombra umida esalare questi primi
Profumi che il giorno respira?”
Alphonse de Lamartine (1790 – 1869), scrittore, storico e politico francese, autore tra l’altro de Le meditazioni poetiche, aveva dei cugini a Livorno e venne a visitarli. Ancora una volta è Pietro Vigo a riportarci le sue parole.
“Abitavo presso Livorno nella villa Palmieri sulla strada di Montenero; a sinistra vedevo le cime selvose dei Monti di Limone, a dritta il mare, di faccia Montenero. Sulla sommità di questo capo, addossato allo scoglio ed a verdi querce s'innalza una chiesa come un tempio greco in vista del mare, ed è un pellegrinaggio pei naufraghi scampati dalle procelle pei voti innalzati alla stella del mare. Mi piaceva tanto questo luogo che vi ascendevo sovente. Sulla strada è la villa, un tempo splendida, allora deserta dove Lord Byron si trattenne una o due estati qualche tempo prima della mia dimora in Livorno.
Ero solito fermarmi col cavallo dinanzi alla porta del suo giardino, come per cercarvi l'assente figura del gran poeta che in certo modo consacrò quella solitudine. Poco più oltre lasciavo la strada guidando i cavalli verso la locanda di Montenero per inoltrarmi solo nei boschi d'onde scorgesi il mare. Là passavo intere giornate in compagnia dei miei pensieri, con un libro in mano, nel cui margine, andava scrivendo le poesie ispiratemi dal cielo e dal mare. I cespugli a piè delle verdeggianti querce di Montenero conservarono per qualche tempo le pagine strappate dai libri e dagli album, dove mi provai a notare alcuni canti, spesse volte interrotti dal sonno, dal capriccio, e dal tramonto del dì, e che lasciava in brani sull'erba o sulla sabbia in ludibrio del vento ».
Vigo afferma che tre dei componimenti delle “Armonie poetiche e religiose” siano stati scritti nei nostri boschi. Pare che una folata di tramontana abbia fatto volare gli appunti de L’Inno al mattino, al punto che il poeta li aveva ormai dati per persi. La mattina dopo, però, una bambina scalza, figlia di un arsellaio, glieli riconsegnò inzuppati d’acqua di mare. Sembra che il padre li abbia ripescati e fatti leggere a dei frati Cappuccini che gli consigliarono di riportarli all’autore francese. Come ricompensa, Lamartine offrì all’uomo tanti scudi quante erano le pagine e comprò alla bimba un vestito nuovo.
Riferimenti
Pietro Vigo, Montenero www.infolio.it
Ida Verrei, "Arràssusìa"
Arràssusìa
Ida Verrei
Fabio Croce Edizioni, 2015
pp. 166
15,00
“Lei è ancora con noi, Santino. Nei profumi e nelle voci del tuo vicolo antico, nelle crepe dei muri di tufo della tua casa, nel canto della risacca sugli scogli di Mergellina, nel colore del glicine scordato. Nel riso di figli non suoi.” (pag 166)
Se Napoli oggi ha un cantore, è Ida Verrei, un’autrice che s’identifica con la sua città, anzi, è la sua città.
Non è la Napoli di Gomorra, la sua, ma nemmeno quella delle cartoline illustrate col pino, il Vesuvio e Pulcinella, è una città sotterranea, cimiteriale, scavata nel tufo. È una città che, anche in superficie, conserva lo stesso mistero, lo stesso collegamento arcano fra vita e morte. È, semmai, la Napoli del rione Sanità di Antonio De Curtis, e, soprattutto, di “Questi fantasmi” di Eduardo de Filippo, fatta di palazzi bellissimi e fatiscenti, di nobiltà decaduta, di collegi, di porticati, di meravigliosi scaloni opera dell’architetto Sanfelice, di parati scoloriti, di stucchi, di librerie raffinate, polverose e blasè, frequentate da vecchie glorie letterarie. Anche di popolo, però, di bassi affacciati su strade che costituiscono un ecosistema aparte, una cultura nella cultura. Una Napoli che c’era prima e ci sarà anche dopo Scampia e Gomorra, perché fatta di radici, di sangue, di archetipi culturali, “il nutrimento, ‘o sanghe, Manù, il sangue.”
Il collegamento fra la vita e la morte è il filo conduttore del libro. La morte non fa paura ai napoletani, anzi, ha una funzione consolatoria. Come avviene per Maruzzella, la coprotagonista, e le sue visite al cimitero delle Fontanelle, luogo incredibile, straordinaria cava di tufo con le sue cataste di teschi vittime della peste, oggetto di devozione e cura da parte dei cittadini di ieri e di oggi. Come avviene anche per Manù e la sua amicizia con il fantasma del piccolo Oreste, che appare nei momenti di passaggio, di trasformazione, di perdita, pronto a confortare e rincuorare.
Il protagonista è Vittorio Emanuele, detto appunto Manù, un ragazzo degli anni settanta. Ma la storia rimane al margine, le contestazioni studentesche sono vissute dal giovane con una sorta di isolamento scontroso. Inutile cercare nel testo la resa di una Napoli proletaria e problematica, sarebbe una forzatura ideologica. Manù appartiene, piuttosto, a una Napoli astorica, accettata così com’è senza giudizio e senza riserve, fatta non di accadimenti ma di emozioni: la paura del distacco e della perdita, l’amore filiale, l’amicizia, il perdono, la passione, i turbamenti del cuore e del corpo.
Altro tema è la nostalgia. Il tempo fugge, rotola via, lo si capisce anche dagli sbalzi temporali dati nei capitoli, ci trasforma fino a quando non ci voltiamo indietro e ci accorgiamo di quanta vita sia passata, di come le cose siano cambiate senza che nemmeno ce ne rendessimo conto. Il passato appare pieno di fascino e daremmo tutto pur di tornare indietro. È ciò che accade a Manù quando ripensa alla vita in collegio, dura, difficile, ma pur sempre collegata alla giovinezza, a tutto quello che non può riavere.
“Molti progetti del passato avevano perso d’un tratto il loro fascino. Il loro posto pareva essere stato preso dal desiderio che il tempo si fermasse, che non corresse troppo, dalla paura che qualcosa potesse andare perso, senza che lui avesse avuto il tempo di assaporarne il gusto fino in fondo” (pag 145)
Quello della Verrei è uno stile connotato, poetico, che indulge nell’aggettivazione, che non ha paura dei sentimenti e della bellezza, che unisce parole e cose, alto e basso, sublime e plebeo. C’è un uso nobile della lingua napoletana.
“Arràssusìa è’ na parola napulitana bella assaje, vuol dire “lontano sia”, “non sia mai” o anche “caso mai”. E ha origini antiche. Vedi, Manù, i dialetti sono la storia dei popoli, il loro passato, non bisogna mai dimenticarli. E il nostro, in particolare, ha dentro tutto il bene e il male della terra partenopea. L’arte di arrangiarsi, per esempio, o la necessità del risparmio. Visto che simmo tutti puverielle, tutti poveri, noi facimme economia pure e ‘nu scioscio, anche di un soffio. Un solo vocabolo ci basta per raccontare un mondo, e una lettera, ‘na vocale ha il vigore di un’orazione. Impara bene la lingua italiana, sissignore, guagliò, ma pienza e suonna c’o napulitano, pensa e sogna in napoletano”. (pag 31)
Un libro ricco di fascino e di atmosfera, che ha un sapore antico, che riconcilia con la lettura e fa ritrovare quel gusto raro e quasi dimenticato di perdersi nei luoghi e nella trama di un racconto, di accarezzare personaggi ai quali voler bene come a una parte di noi stessi, come alle povere anime “pezzentelle” del rione Sanità.
“Anime sante, anime purganti
Io sono sola e voi siete tanti.
Andate avanti al mio Signore
E raccontategli il mio dolore.
Prima che oscuri questa santa giornata,
da vuje e da dio voglio essere cunzulata.”
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Fabio Croce Edizioni, 2015 Se Napoli oggi ha un cantore, è Ida Verrei, (di cui Michele Rainone ha già recensito "Le primavere di Vesna") un'autrice che s'identifica con la sua città, anzi, è la...
http://www.criticaletteraria.org/2015/06/ida-verrei-arrassusia.html
Massimiliano Nuzzolo, "La felicità è facile"
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La felicità è facile
Massimiliano Nuzzolo
Italic Pequod
pp 115
14,00
Un bravo scrittore è come un attore, interpreta, non ti dà per forza la sua visione, s’immedesima nei personaggi anche quando la pensano in modo opposto. E Massimiliano Nuzzolo è un bravo scrittore, le sue novelle hanno una lingua precisa e studiata, “sorvegliata” come si usa dire, di grande effetto, ed hanno anche una buona impalcatura e degli argomenti originali. “La felicità è facile” è una raccolta che riconcilia con il genere del racconto breve, accantonato negli ultimi anni, oppure usato come espediente da chi non riesce a esprimersi con un respiro più ampio. Qui, invece, ci sono contenuti - persino messaggi convogliati in modo subliminale - c’è sviluppo strutturato e armonico della trama, c’è, infine, uno stile caustico e divertente ma anche lirico.
“una rugiada sottile pronta a fissarsi alle ossa e a raschiar via una notte anonima come mille altre, in graduali variazioni di luminosità e colore che, avvicinandosi senza alcuna fretta al mattino, sembravano seguire l’incerto cammino di Gio, impegnato a tornare a casa dopo una notte a dir poco bianca.” (pag 13)
“Quando sto là da solo, cioè praticamente trecentocinquantasei giorni netti quest’anno, tolta la settimana a Cuba, guardo il muro del cimitero, le lucine che scintillano nella notte e penso a quanti cazzo di morti ci stanno in un cimitero, a quanta gente è morta in tutti questi anni, da quando hanno fatto il cimitero di Mestre ad oggi, a quando quelle tombe fatiscenti e semi sprofondate erano nuove e pronte per l’inaugurazione, penso a quanti cadaveri e resti umani più o meno grandi possa contenere un metro cubo di terra grassa, a quanti milioni di vermi scivolino lenti e bonari alla ricerca di carne fresca… Poi arriva Marika e mi fa un pompino. Grazie a Dio” (pag 32)
I motivi ricorrenti in questi racconti sono vari, spiccano tra gli altri l’emarginazione del diverso, la malattia e la morte. La morte è un tema che percorre tutta la narrativa contemporanea e anche la poesia. Mai come adesso i giovani la sentono vicina, con l’incremento dei tumori e degli incidenti stiamo tornando alle aspettative di vita dell’ottocento e la fine ridiventa compagna. La morte è scelta ne “Il volo”, è pensiero inquietante ne “Il parcheggio accanto al cimitero”, è assenza straziante in “Economia di parola”, è riflessione in “Ma e pa sdraiati sepolti morti”
“cosa può avere un senso qui? Parlare con il Nulla? Parlare a una foto? A una pietra? Forse ha più senso dire qualcosa all’erbetta o ai fiori”. (pag 40)
Il messaggio, l’ideologia, il contenuto sono spalmati su tutte le storie e lasciati emergere per contrasto. La situazione stessa fa scaturire le idee, l’etica e le emozioni. Ecco quindi la ragazza che si suicida per non diventare come gli adulti che disprezza, per non venire assimilata al sistema. Ecco il down, il tossico e lo psicolabile che ci mostrano la realtà dalla loro angolazione, capace di far apparire la nostra “normalità”, persino la nostra religione, come distorta.
“Poi mi sono seduto davanti all’altare insieme agli altri bambini e a metà funzione ho ricevuto il corpo di Cristo per la prima volta. Era una cosa bianca sottile che mi si è appiccicata al palato e io ho pensato ma come è fatto Cristo di carta?” (pag 51)
Alcuni racconti sono molto belli, come "Siamo tutti uguali davanti a dio (basta pagare il canone), dove una apparentemente insignificante nota d’ambiente – la televisione accesa su una televendita – fa risaltare due situazioni sociali opposte.
I contenuti risentono del bagaglio culturale dell’autore, dei suoi gusti letterari, musicali, cinematografici. Nei racconti si parla di film come “Alien” ed “E.T.”, ma anche di musica elettronica, di Pavese, Wilde, Baudelaire, Camus, Hemingway, e queste forme d’arte servono per discettare, in accostamenti virtuosistici, di amore, campi di concentramento, pregiudizi, emarginazione.
Le parole di Nuzzolo non sono mai casuali, sono scelte con una pazienza che ripaga di ogni sforzo e regala un’impressione di scorrevolezza. Ma, dietro, intuiamo tutto il certosino lavoro di lima e ricerca. Si noti, ad esempio, la mancanza di punteggiatura in “Mestre tossica”, a mimare la confusione mentale e il ritardo motorio del personaggio imbottito di droga. L’alcol bevuto per dimenticare le assenze, la droga che stordisce e ottunde, gli antidepressivi del racconto finale, rappresentano l’unica possibilità di sfuggire ad una facile, facilissima, infelicità costante e diffusa.
Il puro raccontare comunque prevale, com’è giusto che sia in narrativa, la riflessione è lasciata al lettore, l’autore si limita a mostrare, e anche a divertirsi un po’ alle nostre spalle, sempre, però, con una partecipazione emotiva tenuta a freno, sottesa e tuttavia imprescindibile. Viva il raccontare, dunque, viva la narrativa.
Mayer e le carte foscoliane
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Enrico Mayer (1802 – 1877) - livornese di padre tedesco e madre francese, membro dell’Accademia Labronica, pedagogo e fondatore di scuole, amico di Mazzini, del Vieusseux, di Angelica Palli, di Byron - insieme a Gino Capponi e Piero Bastogi, acquistò a Londra, per 60 lire, delle carte appartenute a Ugo Foscolo.
La sfortunata figlia del poeta, Lady Floriana, che con il padre aveva condiviso gli ultimi anni di stenti, peregrinazioni e miserie, per poi morire di mal di petto subito dopo, le aveva lasciate in consegna al canonico Riego, suo protettore dopo che Foscolo, affetto da manie di grandezza, l’aveva ridotta sul lastrico.
Le carte costituivano un prezioso corpo critico di commenti alla Divina Commedia che Mayer consegnò all’Accademia livornese e sono tuttora conservate nella Biblioteca Labronica.