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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Inside out

27 Gennaio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Con oggi sono tre anni, ormai, che sto dentro. Il mondo fuori comincia un poco a sbiadire. Mi hanno chiuso qui quando l’ho deciso io, mi sono fatto prendere. Non che si stia proprio male, ma lo spazio è molto limitato. Pochi metri quadri, tanta gente di tutti i colori, un bagno sempre intasato e un lavandino che cola e ci tiene svegli la notte. Il vitto è un po’ scadente, il caffè una ciofega, però si mangia tre volte il giorno, abbiamo pasti caldi, televisione, infermeria, connessione a internet, un piccolo cinema per la domenica. Questa prigione non è peggiore di tante altre ed era quella più a portata di mano.

Sto in carcere perché me lo merito, mi sono guadagnato questa cella. Anche gli altri compagni. Ne parliamo spesso quando ci incontriamo nel corridoio, in biblioteca e nella sala comune, dove la televisione è sempre accesa su telegiornali che riportano orrendi fatti di cronaca. Madri che strozzano i figli, mariti che accoltellano le mogli, medici che ammazzano i pazienti, e poi corruzione, tangenti, malaffare, omicidi, stupri, rapine a mano armata, risse. Non seguiamo nemmeno, non vogliamo più sapere niente, siamo qui per dimenticare quella vita.

Anche lo psicologo che incontriamo una volta la settimana ci aiuta molto a comprendere la portata della nostra situazione e a viverla al meglio. Parla di accettazione, di serenità ritrovata, di far buon viso a cattivo gioco. Me lo merito di stare qui, ripeto, per come mi sono sempre comportato fin dal primo giorno della mia vita, con i colleghi di lavoro, con i miei genitori, gli amici, mia moglie e i miei figli. Sono sicuro che qui è dove devo stare.

La vita fuori, quando ci ripenso, mi spaventa, anche se mantiene un certo fascino romantico: libera, sempre sul filo del rasoio, piena di azzardi e pericoli. Qui è tutto un po’ troppo uguale, troppo piatto dall’alba al tramonto. Ma la consapevolezza di meritare questo posto e questo genere di esistenza aiuta a superare i momenti di nostalgia. Come dice sempre il mio compagno di cella, che fuori faceva l’avvocato: “Ognuno raccoglie ciò che ha seminato”.

Ed io, questo ho seminato e questo raccolgo.

Nell’anno 2069 il tasso di criminalità era ormai a livelli così alti da rendere impossibile una vita normale. La corruzione, il malaffare, gli omicidi di mafia, gli stupri, le violenze dentro e fuori la famiglia, erano cresciuti a un livello intollerabile, rendendo le città invivibili e provocando l’esplosione delle carceri. Ciò costrinse i governi ad una rivoluzione copernicana. I pochi cittadini onesti ormai rimasti sulla terra ottennero la possibilità di entrare in carcere al posto dei detenuti, i quali furono rimessi in libertà. Chi lo desiderava, poteva far domanda per essere imprigionato, in modo da vivere protetto da quattro mura sorvegliatissime e non correre più rischi. Le file per entrare si allungavano di giorno in giorno, e, alla fine, solo i migliori, quelli che con interminabili certificazioni potevano comprovare una vita specchiata, meritarono l’ambito posto dentro.

I've been inside for three years now. The world outside begins to fade a little. They closed me here when I decided, I got caught. Not that it feels bad, but space is very limited. A few square meters, many people of all colors, a bathroom always clogged and a sink that runs and keeps us awake at night. The food is a bit poor, the coffee is a “ciofega”, but we eat three times a day, we have hot meals, television, infirmary, internet connection, a small cinema for Sunday. This prison is no worse than many others and was the most handy.

I'm in prison because I deserve it, I earned this cell. Even the other companions. We often talk about it when we meet in the corridor, in the library and in the common room, where the television is always on on news programs that report horrible news. Mothers who choke their children, husbands who stab their wives, doctors who kill patients, and then corruption, bribes, malfeasance, murders, rapes, armed robberies, fights. We don't even follow, we don't want to know anything anymore, we're here to forget that life.

Even the psychologist we meet once a week helps us a lot to understand the extent of our situation and to live it to the fullest. It speaks of acceptance, of newfound serenity, of making the best of our new life. I deserve to be here, I repeat, because of how I have always behaved since the first day of my life, with work colleagues, with my parents, with friends, my wife and children. I'm sure this is where I have to be.

Life outside, when I think about it, scares me, even if it maintains a certain romantic charm: free, always on a tightrope, full of risks and dangers. Everything is a little too equal here, too flat from sunrise to sunset. But the awareness of deserving this place and this kind of existence helps to overcome the moments of nostalgia. As my cellmate, who was a lawyer outside, always says: "Everyone reaps what he sowed".

And this I sowed and this I reap.

 

By 2069 the crime rate was at such high levels that a normal life was impossible. Corruption, malfeasance, mafia murders, rape, violence inside and outside the family, had grown to an intolerable level, making cities uninhabitable and causing prisons to explode. This forced governments into a Copernican revolution. The few honest citizens now left on earth were given the opportunity to enter prison instead of prisoners, who were released. Those who wanted it could apply to be imprisoned, so as to live protected by four closely guarded walls and not take any more risks. The queues to enter lengthened day by day, and, in the end, only the best, those that with endless certificates could prove a life beyond reproach, deserved the coveted place inside.

 

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Valentino Appoloni, "Ombre"

25 Gennaio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #valentino appoloni, #recensioni, #racconto

Valentino Appoloni, "Ombre"

Ombre

Valentino Appoloni

Ilmiolibro.it

pp 256

10,90

ebook 0,99 su La Feltrinelli e Amazon.

“Ombre”, ventisette racconti sorprendenti, non tanto per il contenuto, quanto per l’aura ottocentesca che li pervade. Sembrano scritti da Tolstoj, da Gogol e di certo Appoloni è debitore verso i maestri russi che così ben conosce e sa analizzare, ma anche verso il primo novecento, di Kafka prima e Calvino poi.

Seppure alcune novelle traggano ispirazione dalla storia (ad esempio la Rivoluzione francese) mantengono tutte un sapore fiabesco, ambientate in tempi e luoghi dove sogno e inconscio intrecciano trame fantastiche ma con una morale di fondo. Surrealismo, insomma, o meglio, realismo magico.

Allegorie con fine pedagogico, in un ambiente che, seppur rarefatto, non è solo simbolico. La bellezza delle storie non è nella trama e nemmeno nello stile, pur elegante e raffinato, quanto proprio nella vivezza fiabesca di certe ricostruzioni sceniche e nella maestria con cui sono descritte. Paesi, colline, boschi, regni, contee, chiese di campagna, castelli, vicoli, piazze e palazzi. Oggetti che hanno un’anima, libri, statue, ponti, una ghigliottina, buchi nel terreno, muri che acquistano una loro vita segreta per vendicarsi della malvagità, dell’incuria o dell’incredulità degli uomini. Spesso è il diavolo a metterci di nascosto lo zampino e a punire chi rifiuta la sua esistenza. Ogni storia mette in evidenza le storture dell’animo umano, l’ipocrisia, l’avidità, la cattiveria cieca della folla, degli uomini di potere e della politica, come “Il santo”, dove viene ucciso chi brama il potere ma anche chi se ne tiene lontano. “Le statue” ricorda il Marcovaldo di Calvino; qui non è la natura a sopravvivere alla cementificazione ma l’arte, i monumenti, le vestigia del passato violentate dalla modernità che si riappropriano del loro spazio. Le ombre del titolo ricorrono nel tema del doppio e del sosia. La parte oscura, il rimosso ma anche, forse, il moltiplicarsi del possibile, del reale, lo specchio, il labirinto.

Alcuni racconti hanno il passo lento e morale dei testi dei maestri russi o di Dickens, altri la lieve ironia, la satira dei difetti umani propria di una fiaba come “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Andersen. La narrazione è supportata da uno stile di notevole respiro. Forse non è un caso se fra i personaggi minori sono citati proprio due fratelli che si chiamano Grimm.

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Il nostro nuovo forum, più un piccolo inedito.

20 Dicembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #redazione, #unasettimanamagica, #poli patrizia, #racconto

Il nostro nuovo forum, più un piccolo inedito.

Salve a tutti dalla Redazione e da me che sono l'amministratrice del blog

Vi segnaliamo l'apertura di un nuovo forum, collegato a questo sito.

Potete iscrivervi, partecipare alle discussioni o crearne di nuove. Gli argomenti trattati saranno attinenti ai post del blog ma non solo.

In questo periodo non potevano mancare alcune riflessioni sul #Natale.

Come sarà il vostro? Deprimente, economico, da disoccupati, allegro, solitario, religioso, ateo? Siete allergici alle feste o vi fate contagiare dalla corsa ai regali e dalla magia del vecchietto con le renne? Avete già pensato al menù e a chi invitare? Preferite il presepe o l'albero? Il panettone o il pandoro?

Raccontatecelo, aspettiamo i vostri contributi. I più interessanti saranno pubblicati sul blog.

A noi di signoradifiltri piace immaginare un Natale semplice ma ricco di valori e di atmosfera, senza centri commerciali e file alle casse ma con il buon odore del muschio e delle pigne, con il calore di un ciocco che scoppietta in un camino a illuminare le facce di bambini felici per cose piccole piccole.

Avendo deciso di dedicare la settimana ad argomenti che, appunto, richiamano il Natale - con il nostro mitico hastag #unasettimanamagica - ho pensato anch'io di proporvi un piccolo brano tratto da un inedito che sto scrivendo. Eccolo:

"Ha chiesto di voltare il letto, Loris, non gli interessa più l’albero che sua madre ha finito di addobbare meglio che ha potuto. Lei ha fatto l’albero di Natale come fa tutte le cose, senza passione e per dovere. E lui non lo vuole vedere, preferisce il cielo lattiginoso di queste giornate corte, le cime degli alberi che si muovono nel vento. Gli piacerebbe che fosse già estate, poter scendere al mare, immergerci le caviglie. Ora sa che non sarà più possibile, l’ha capito dal dolore che gli mozza il respiro e si fa sempre più insopportabile soprattutto la notte. E l’ha capito da tante piccole cose, dagli occhi di mamma, dal pomo di Adamo di babbo che va su e giù, dalla mano di Zia Rosi che lo accarezza in silenzio. Il suo corpo rifiuta il cibo, lo stomaco rigurgita, di tornare a scuola non se ne parla più.

Loris prova a immaginare come sarà da morto ma non ci riesce. Pensa che ritroverà il nonno ma non ne è poi tanto sicuro. Vorrebbe chiedere aiuto a mamma e babbo, vorrebbe che non fosse proibito parlare di morte. Sarebbe un conforto, si sentirebbe meno solo, meno spaventato. È come affrontare un esame e non poterlo dire a nessuno, non poter dire ad un amico o alla famiglia, ehi, sai, domani ho l’esame di storia e me la faccio sotto perché non sono preparato. Lui non è preparato a morire. Ha paura che il dolore sia fortissimo, ha paura di soffocare, ha paura di rimanere solo e sperduto chissà dove. E non vuole rinunciare alla vita, nemmeno a questa vita. Anche da lì, anche dal riquadro della finestra vede grandi gazze bianche e nere saltare sull’orlo sbreccato del muro, vede la grandine rimbalzare in chicchi bianchi sul davanzale, vede le cime dei pini, delle tamerici e dei quercioli che si piegano nel vento, e, soprattutto, sente il rumore del mare. Non può vederlo ma sa che c’è, basta aprire la finestra ed arriva un salmastro salato ad intridere le coperte, i capelli, a sporcare i vetri. Non lo vede ma sa immaginarne tutte le sfumature, il celeste chiaro dei giorni belli, il fango della tempesta, il blu cobalto delle sere invernali al tramonto con qualche nuvolone nero in controluce. E le onde, piccole, grandi, fragorose, con le creste bianche e spumeggianti, a seconda se tira vento di libeccio o di scirocco o se, invece, c’è la tramontana che spiana l’acqua e la trasforma in un cristallo di rocca. Loris vuole rimanere vivo solo perché c’è il mare, lì a due passi, e un mondo dove c’è una cosa così bella non si può lasciare. E poi c’è Bingo, arrotolato accanto a lui, col suo pelo arancione, gli occhi gialli che capiscono, le orecchie dritte che ascoltano. Non vuole lasciarlo, non vuole che si senta abbandonato, che stia male come lui adesso sta male per il nonno.

Muove le mani abbastanza bene ancora ed è sempre stato bravo a costruire. Sta ritagliando un pezzo di cartoncino per farci la capanna. In casa non si è mai fatto il presepe, babbo e mamma non credono in Dio. Ma lui vuole la capannuccia, vuole il bue, l’asinello, Gesù. Li ha disegnati su un foglio bianco, li ha colorati e vuole incollarli dritti. Prende in mano la figurina del bambinello dentro la mangiatoia. È contento di come ha saputo disegnarla. La maestra lo ha sempre elogiato per i suoi schizzi. La tiene in mano fra pollice ed indice, tiene in mano Dio fra pollice ed indice. Un Dio fatto di carta da disegno.

“Fammi guarire, Gesù. Gesù, tu puoi, ti prego, ti prego, ti prego.”

“Cosa stai facendo, Loris?”

“Il presepe, qui non c’è mai stato.”

“Potevi chiedere.”

“Avete sempre detto che Dio non esiste. Ma a me ora serve.”

Suo padre si siede accanto al letto. “Loris io lo so che… che hai paura.”

Loris alza la testa, il cartone gli scivola dalle mani, la tempera macchia di verde il lenzuolo. È la prima volta che suo padre ammette una cosa del genere. E ora che sono al bivio, Loris non sa cosa dire. “Questo è il muro di dietro della capanna e quello è il tetto.” Poi le lacrime traboccano.

Francesco si china sui di lui, lo abbraccia come dovrebbe abbracciarlo la mamma, lo stringe forte. “Ti voglio bene, Loris, porca miseria, te ne voglio tanto e scusami se non te lo dico sempre, ad ogni minuto.”

Loris adesso singhiozza. “Babbo, non voglio morire, aiutami!”

“No, no… non pianger amore mio, ti aiuto io, ti accompagno, sono con te, ne parliamo se vuoi.”

Loris tira su col naso. “Sì, babbo, voglio che ne parliamo. Non lo diciamo alla mamma, però, è il nostro segreto.”

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Marco Saverio Loperfido, "Claude Glass"

3 Dicembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Marco Saverio Loperfido, "Claude Glass"

Claude Glass

Marco Saverio Loperfido

Annulli Editori, 2014

pp. 159

12,00

Il paesaggista si piazza alle spalle a ciò che vuole ritrarre e proprio grazie allo specchio convesso lo vede tutto racchiuso davanti a sé. Non trovi che ci siano delle similitudini con il tuo modo di guardare l’Italia, ovvero attraverso la lente del mio sguardo, posto dietro di te nel tempo? Pag 73)

Coloro i quali nel settecento ritraevano paesaggi ad acquarello, usavano il claude glass, il cui nome ricorda Claude Lorraine. Il claude glass era un piccolo specchio convesso e annerito, da usare posizionandosi con le spalle rivolte verso ciò che si voleva dipingere. Lo specchietto creava una migliore inquadratura della scena e un ammorbidimento dei colori che prendevano così una sfumatura languida. Era usato anche dai viaggiatori dell’epoca.

Claude Glass” è anche il titolo del romanzo d’esordio di Marco Saverio Loperfido, per la Annulli editori. Il romanzo si rifà alla tradizione della “simulazione del vero” con l’espediente del ritrovamento del manoscritto o delle lettere. Nello specifico, Claude Glass è il nome di un negozio di robivecchi nel quale il protagonista, Sebastiano Valli, trova, chiusa nel cassetto di un mobile, una lettera scritta da Robert Grave, giovanotto inglese, giunto in Italia nel 1792 per fare il Gran Tour, cioè quel giro d’istruzione finanziato dai genitori che erano soliti compiere i ragazzi della buona società anglosassone. Spinto da un impulso bizzarro, Sebastiano risponde alla lettera. Inizia così un favoloso carteggio fra due uomini che vivono a distanza di duecento anni l’uno dall’altro. Robert e Sebastiano diventano amici, approfondiscono la reciproca conoscenza, aprono l’un l’altro il proprio cuore, litigando e riappacificandosi, come capita spesso nelle amicizie reali e in quelle virtuali. Anche Hollywood ha sfruttato la trovata dell’epistolario sfasato nel tempo in alcuni film, ci viene in mente “La casa sul lago del tempo” di Alejandro Agresti, a sua volta remake di un film coreano.

I tempi divergenti di Sebastiano e Robert si avvicineranno sempre più, le donne amate avranno lo stesso nome, fino alla conclusione che, pur lasciando aperte tutte le possibilità, fa intuire la probabilità di una sovrapposizione dei due. Forse Robert Grave è solo una proiezione di Sebastiano, il suo bisogno di vedere la realtà con gli occhi del passato o, meglio ancora, di “tornare” al passato.

Già, vedere. Perché l’argomento del romanzo, e del carteggio, è il paesaggio. Stupisce che i due non si raccontino più particolari della loro vita e dell’esistenza nelle reciproche epoche. Tutto è basato sul loro modo di percepire ciò che li circonda, ovvero il paesaggio della Tuscia. L’autore, Marco Saverio Loperfido, si occupa di sociologia visuale, cioè l’indagine dei fenomeni sociali attraverso le immagini fotografiche. E i nostri due protagonisti, quello contemporaneo e quello del settecento, sono interessati a cogliere aspetti di paesaggio e di vita locale, attraverso la pittura l’uno e la fotografia l’altro. Il panorama indagato, come abbiamo detto, è, sulla scia di Pasolini, quello a metà fra Toscana, Umbria e Lazio, cioè la Tuscia, di cui Loperfido ha realizzato la mappatura a piedi. E se lui è Sebastiano che si guarda intorno e cerca di ritrovare il bello in ciò che vede, Sebastiano è, a sua volta, Robert, che cammina per valli, colline e cittadine, luoghi ancora oggi di grande fascino, quanto mai pittoreschi per i viandanti inglesi a caccia di vedute alla Claude Lorraine. Questo camminare a piedi serve a recuperare lo sguardo lento e intimo che la nostra attuale velocità ci ha tolto, per ritrovare, assaporandoli, scorci di bellezza autentica, in mezzo alla modernità che deturpa e imbruttisce.

Ecco la mia epoca, Robert. Vicino all’arte lo spreco e l’incuria. Ma forse qual cosina di più… forse sono un po’ troppo tenero. Quel palazzo è uno sfregio alla meraviglia del passato, una cicatrice sulla guancia della Monna Lisa, una bestemmia per chi ama il dio Pan della natura, o Venere, dea della bellezza. Io sono indignato, schifato, annichilito da tutto questo che, purtroppo, è solo un esempio fra tanti. Hanno stuprato il passato, lo hanno rinnegato, ce l’hanno tramandato alterato in modo che non potessimo amarlo. Ma il passato era troppo bello e ha continuato a parlarci, seppur con un filo di voce, agonizzante.” (pag. 76)

La riflessione filosofica si mescola alla vista e alle considerazioni. Sebastiano si chiede se ciò che oggi gli appare brutto e sgraziato non acquisterà forse fascino col tempo. E si chiede anche se le rovine del passato non vadano lasciate preda della vegetazione, che forse le degrada ma le rende parte del pianeta, mentre ciò che viene preservato in un museo, catalogato, recintato, in realtà smette di vivere e di appartenerci.

Claude Glass” è un romanzo che può essere letto a tanti livelli, ad esempio quello lampante della denuncia: gli italiani distruggono la loro terra, pronti a sacrificare bellezza e natura sull’altare della necessità. Sono le parti meno attraenti del libro, perché assumono il tono d’invettiva sgraziata, persino di turpiloquio, mentre, al contrario, assurge a altezze liriche la professione d’amore che entrambi i protagonisti, quello remoto e quello contemporaneo, esprimono con toni accorati per la nostra Italia.

Un altro, forse meno evidente ma non certo trascurabile, livello di lettura è quello dell’epistolario virtuale, così frequente nella nostra era social. Chi non ha un’amicizia o un amore in rete, ormai? Robert e Sebastiano si affezionano senza vedersi, anelano all’incontro, che forse avverrà o forse no, ma anche litigano, si accapigliano, si separano per poi riavvicinarsi. Molti di noi hanno avuto la fortuna e la sofferenza di vivere amicizie così, fatte di anime che si fondono, che ambiscono ad una vicinanza che non avrà mai il fascino posseduto dall’immaginario. C’è molto della poetica leopardiana in queste parole di Sebastiano:

La conoscenza è un ostacolo, caro Robert, perché la vitalità si nutre di fantasia e la fantasia di non detto, vago, incerto. Qui invece non c’è più spazio, sia fisico che mentale, e, parliamoci chiaro, è quello che io t’invidio. Sei giovane ma, cosa ancora più bella, è giovane il mondo che vivi e che in questa maniera ti accompagna e asseconda nell’entusiasmo.” (pag. 46)

E ancora: il libro è anche una metafora della solitudine, dell’impossibilità di raggiungere una profonda comunione con l’altro sebbene quest’anelito non cessi mai di riproporsi.

Robert, è una sconfitta per me, e forse per tutta la società, che io oggi faccia questa cosa

impensabile: scrivere una risposta a questa tua lettera sospesa nel tempo, e persa nel tempo, che è arrivata a me per caso. È una sconfitta perché vuol dire che io qui, solo come te quel 7 aprile del 1792, sono estraneo alla mia gente, costretto dalla solitudine e dall’individualismo ad attaccarmi a questo gioco dell’anima. Fingerti ancora vivo in grado di leggermi.” (pag. 15)

La malinconia, lo “spleen”, attraversa tutto il testo, fa vibrare le epistole dei due amici separati dal tempo, e tempera la speranza, che pure è presente nel riconoscimento dell’incanto ancora evidente del paesaggio, a dispetto dell’uomo.

Dopo che il mondo ha ballato e danzato per tanto, adesso è stanco. Ecco quel che posso dirti del futuro, Robert, questo e nient’altro. Tu sei all’inizio del ballo e io, forse, quando tutto si spegne.”(pag. 24)

Forse, alla fine, Robert e Sebastiano si fonderanno, passato e presente coincideranno in una nuova ottica fondata sul rispetto per la natura, per l’arte, per la bellezza.

Alla riscoperta del paesaggio sono legate le parti più liriche, pittoriche, visuali, che fanno dimenticare piccole sbavature di stile, come il fastidioso ricorrere del toscanismo te al posto di tu, fuori luogo in bocca ad un inglese.

Al calar della sera, con la luce del tramonto, escono dai rifugi gli spiriti dei luoghi e tornano ad abitare le terre oggi come sempre. È la luce trasversale a fare il miracolo. Pale, tralicci e casermoni diventano solo scure ombre controluce e l’occhio sembra poterle accettare. Tutto si fa radente e confuso. L’oro del sole allaga la vista e l’Italia, a quell’ora, diventa veramente se stessa perché è la luce che c’è in Italia, inconfondibile e unica, il suo carattere più distintivo. E la luce, grazie al cielo, non la può rovinare nessuno, nemmeno volendolo.” (pag. 148)

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Emanuele Marcuccio, "Anima di Poesia"

10 Novembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

Emanuele Marcuccio, "Anima di Poesia"

Anima di Poesia

Emanuele Marcuccio

Tracce per la meta edizioni, 2014

Più che analizzare la silloge poetica di Emanuele Marcuccio, “Anima di Poesia” - lavoro già ampiamente compiuto nell’imponente auto-esegesi, nella prefazione, nella postfazione e nel ponderoso apparato critico annesso, nel quale lo ringraziamo per averci citato fra cotanto senno - preferiamo soffermare la nostra attenzione, appunto, sul concetto generale su cui si basa il volume. Ci chiediamo se, com’è augurabile, la produzione di questo giovane autore dovesse protrarsi ancora per molti anni a venire, quanto diventerebbero ingombranti i tomi dedicati alle sue brevi poesie, fra note esplicative, dediche, bibliografie, biografie, introduzioni e commenti?

Anima di Poesia” contiene ventisette liriche multiformi, alcune dedicate a fatti di cronaca, come le catastrofi che hanno segnato gli ultimi decenni, altre alla natura, alla noia del vivere, all’amore. Le emozioni sono dolorose, private, e degne del massimo rispetto come la nostalgia per il padre defunto. Sempre presente la reverenza verso l’atto poetico in sé che è imprescindibile e aiuta a vivere.

I richiami pascoliani, e soprattutto leopardiani, sono infiniti, tanto da far sospettare, più che un’ispirazione, addirittura una immedesimazione dell’autore col cantore di Recanati.

La base, però, è ancora esile, fra versi cacofonici (d’un’alba d’autunno), una troppo evidente, addirittura dichiarata, imitazione del passato e punti esclamativi a sostituzione di un’emozione che non si ha la forza di esprimere. Ma, in questo magma, qualche rada stella brilla: i “capelli neri e vergognosi”, “monte che ti slarghi e in altezza”, “gli arbusti accesi”.

Netta ed evidenziata dall’autore stesso quella che egli chiama la sua evoluzione, cioè il passaggio dall’imitazione dei poeti dell’ottocento a quella degli ermetici novecenteschi, con la caduta della punteggiatura.(Da Supersonica in poi.)

Sicuramente dai primi aforismi di “Pensieri minimi e massime” a questa raccolta c’è un miglioramento evidente. Ecco, noi suggeriamo a questo ancor giovane aspirante poeta di prendersi meno sul serio, di non analizzare la propria poetica come fosse qualcosa di già maturo e compiuto, ma anzi, di spogliarsi della zavorra della cultura classica e lasciarsi andare all’onda delle emozioni, coltivandole, permettendo loro di fluire, incanalandole poi in armonia di forma e contenuto. Tutto ciò, attraverso uno studio della poesia meno auto-compiaciuto, più umile e sereno. Se egli riuscirà ad abbandonare, seppur temporaneamente e a malincuore, i poeti tanto amati, trovando una sua strada non manieristica, bensì spontanea, saranno sempre più numerose le prove riuscite, come la piacevole Torna l’estate e la promettente Eternità:

TORNA L’ESTATE

Torna l’estate

col suo incessante cicaleccio,

torna l’estate

per gli arbusti accesi

e per le vie,

per le montagne

e per le valli amiche.

È qui l’estate,

in questo luglio assolato,

in questo sole bruciante,

in questo raggio accecante.

ETERNITÀ

Oltre quel fumo,

oltre quella porta,

oltre il mare immenso,

oltre l’orizzonte sconfinato,

oltre le piogge di mezz’agosto

c’è una luce che io voglio attraversare,

c’è una soglia che io voglio varcare

in questa pioggia del mio vegetare,

in questo mare del mio non vivere.

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Giuseppe Rossi's future

8 Novembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Terrified of becoming nothing, you never think that you sprung from nowhere. For example, I, Giuseppe Rossi, am this nothing.

Let me explain.

I, Giuseppe Rossi in fact, am not yet born, not even designed nor intended. My entity, Giuseppe Rossi’s entity, identifies with nothing. I am, or rather I am only in the sense that I am not, there's my not being here. I do not have a body nor sides, nor under nor over.

The space in which, so to speak, I exist-am, it's dark and quiet, although I would not call it dark, since I do not have eyes to see it. Time is a concentration of equal moments.

I'm only my future. Just due to the fact that in this moment I know the future, I can tell you about me. In my concentrate broth, I review the future life as a booklet with curled pages.

My name is Joseph, oh, well, that I've already said.

I'll own a gas station.

Yes, but only after that father’s hungry tadpole is stuck in mother’s egg. Zac!

I will vibrate, shapeless lump that is already Giuseppe Rossi, green bean with black eyes like pinheads, nestled in the folds of a uterus and more interested in the problem of proliferation. At that point I'll have an inside and an outside, I will sense what happens, feel the plunger pump, and experience hot and wet and sticky.

Then I’ll get out of the hole.

Mother will be angry when, after taking a good vote at the exams, I'll manage a gas station withFrancis, but I will already have Annamaria in mind and I’ll want to marry her. We will see each other every night, I will take her on my scooter, she will have firm thighs, the red eyes of a rabbit, and she will beat time with her fairy feet. We will dance close to one another all the night long.

But I'm going to marry Jane. At the wedding it’s going to rain and the priest will forget the ring, there will be chicken in aspic and trout, she will be pregnant. I will have known her at the distributor - after Annamaria will already have gone to Milan with the engineer – Jane will stick to me, although I stink of gasoline.

When Pinuccia is born, Mariolino will already have three and he is going to hate the little sister. Pinuccia will come out red, just like Anna, who will have become mad and the engineer will have her locked up in the nursing home in Milan.

At my mother's funeral I'll be late and it will be there that I realize that Jane, after pregnancy, has put on weight. Good woman, Jane, also good in bed when at night, after inflating so many tires, I want to have a little fun too.

But then she will get slim because of cancer, she will become thinner and thinner. When she dies, she will lay down as if to say: look what happened to me. And I will think, yes, she’s a fine woman, but she is not Annamaria.

After that, Pinuccia will wash my shirts, my little red haired that will have married Francis’ son. The gas station will be managed by the two of them. Pinuccia will wash my shirts on Saturday, while her husband fucks another woman.

I will die of a stroke, God willing.

I will not feel bad, I will only be sad for my Pinuccia. There will be lots of beautiful light and silence and a great gas station, all smelling of petrol. I, on the motorcycle, will kiss Annamaria.

Here, in my not to be prior to my existence, am reading with you the book of the future.

But I do not know ... It’s that... I almost feel like giving up ...

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Gauguin’s flowers

3 Novembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Gauguin’s flowers

Sara took off her glasses and rubbed her eyes, tired from the light of halogen lamps. In her short-sighted world, the butcher’s shop merged into a liquid shadow with the pharmacy next door. She put the glasses back on in time to see the dust at the passage of a truck, strangled in the narrow and dark street. Together, a strong smell of gunpowder irritated her nostrils.

A late customer peeped. Two sour eyes pinned on her hair and on her depressed face: "Are you closing, dear?"

"No, not yet, come in, ma'am."

"Look, dear, for tonight, I thought about changing my hair color. I'd like a nice mahogany shade."

Sara began to focus on the woman: tough hair, little cap askew, withered breasts, squeezed in a glittering shirt. "Red would be nice for you," she said, thinking that those like her withered her soul. "Where are you going tonight?"

"I’ll go dancing, and you?" She was asking her, but you could see she did not care to know the answer. Her eyes darted between the merchandise.

"Me? Nothing special. "

She showed the customer the colors, with shaking hands. She often trembled while she was working, but never when holding the brush. Sarah knew how to paint all sorts of flowers, the yellow sunflowers of Van Gogh and Gauguin’s scarlet petals.

It was precisely because of Gauguin’s “Les seins aux fleurs rouges” that she had received the first email from F. They had met by chance in a chat line for lovers of Impressionist painting.

"The color expresses more emotion than reality," she wrote, flirtatious, signing TAHITI, as the island loved by Gauguin. "This is revolutionary art, it is the road that leads to Picasso," he thundered manly. He always closed his letters with that single, haunting, original: F

So a long exchange of messages began. They talked about many subjects, but especially of painting. She had learned to recognize the mood of F by punctuation, by the words he chose, by his silence. And, although they had never met in person, she fell in love.

"You tell me how much these lipsticks cost." The customer was looking annoyed.

"9.99, ma'am."

She wrapped the lipstick with the hair dye, than signed the amount on the cash register. She felt her fingers tingling and strange. She found herself watching her own hand as something detached from her body. She had petite hands, with pink hairs and short nails. The hands of an aged girl.

"Look, I gave you fifty."

"Excuse me."

The customer went out, wishing one lazy good year. The road was empting. A group of children lit one firecracker after the other on the sidewalk in front of the window. She could hear them all burst inside her.

She wondered how F would spend the night.

She only knew that he was living in Rome, that he was no longer a boy, and that he had a family of his own. She had invented everything else. Day after day, with the force of her imagination, she had invented a love. With the powerful brush of her heart, she had painted a face, creating it more real than the real, such as those orchids that she colored in the manner of Gauguin. And now she missed his face, she missed his imagined eyes, she missed that hair she herself had invented, she missed that only intuited laugh. She missed the little she had of him that for her was all.

The last passersby went home exchanging cold greetings. A couple entered in a car, arguing. Sara saw a glint of sequins and the neck of a sparkling bottle.

It was time to quit for her. His father was waiting at home to celebrate the New Year together. Widowed and ischemic, she did not want to leave him alone and then no one asked her out any more now.

She took a few banknotes from the cash register and then wrote the bloodless amount next to the date: December 31, Tuesday.

"And for this year..."

She put on her coat and buttoned it, because the wind was damp and bad. She thought of F, of his life she did not know, of the enthusiasm with which he described Degas’ dancers, of his caustic, brilliant sentences. "Dreams only belong to those who dream," he used to say.

F, who wrote to her for months and then stopped.

"The game is great if it doesn’t last too long," he said in his last letter.

Sara looked for the umbrella. She felt heavy and cold. "Maybe I have a little fever," she muttered, touching her forehead, then turned off the light. From the darkness the smell of the soaps took shape, pungent, unhealthy, like rotting flowers.

Then, suddenly, she saw a blue mountain pop up in the dark, a thick, cobalt blue sea, and fleshy, strong-painted scarlet flower made of light and dark.

Then she smiled. With a sharp blow, she pulled down the shutters.

"Tonight", she said to herself, "when everyone else dances, I will paint."

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EPHEMERAL

31 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

EPHEMERAL

The marsh still wrapped in a damp dawn, she has just extricated her wings and now she opens them, shaking, watching them against the light, surprised and grateful. She has four: two in the front, developed and strong, and two behind, weak but complete. She doesn’t know she’s an ordinary flyer. She spreads her wings and goes up, full of longing, of hope, of promise. She’s young and strong, and she has a whole life ahead.

The antennae, short and sensitive, guide her. She hovers excitedly over the sweet and translucent water that reveals the muddy bottom where creatures and algae live. Food for others, but not for her, she cannot spend time to eat, she left the mouth and stomach in the long metamorphosis, in that other life of which she remembers only a slow ripening of purpose.

She flies higher, in ever-widening circles.

The summer sun shines in the sky and dries all the frost. Now she beats her wings in an almost frantic way. She knows that life is a gift and should not be wasted; she knows she has a mission, a noble purpose that transcends it. Her desire flares up. It is an emotion that drives, that urges. She is now mature, full of life, she feels really ready, and then becomes almost insane in her quest.

She ventures to the borders of the swamp, then back to the center, where she dives, touching the water with her wings, almost risking drowning. She shakes, goes up again, soaked and heavy, but more determined than ever. She flaps her wings, in the hot dry air of the midday; she finds again the rhythm of her noble, uninterrupted, nuptial flight.

The shadows are getting longer, the air cools. There are swallows, now, that threaten her and she must be careful. Time has passed, inexorable, the wings are tired. Life now weighs about sore shoulders. She knows she is no longer what she was in the morning.

She has a doubt, as the light fades slowly. And if it was all useless? If one of those birds swallowed her right now? What sense would then have all those flights up and down?

She stops for the first time, uncertain, hovering over the water. She reflects, she points her antennas which, alas, no longer feel so well as at the beginning, when she was young. She gazes at the pond, just ruffled by the evening breeze, a lily pad floating like a raft, a silver fish under the water.

And then it’s when it happens, just while she, remaining still for the first time, stops trying. She understands that it's the right smell, the particular vibration.

The other is tired too. He, like her, all day, throughout his whole life, flew non-stop. They recognize, approach, come together, vibrate in unison, satisfied and exhausted. Now, yes, now all makes sense finally, they think together.

It's dark now, and she’s alone again. She is resting on a blade of grass, gently swaying in the breeze. Her old wings are aching, the antennas do not hear anymore.

With her last voice, however, she still sings the praises of the Creator, and thanks Him, touched, for having given her such a full and intense life.

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Cheikh Tidiane Gaye, l’umanesimo della parola.

28 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #poesia, #personaggi da conoscere

 Cheikh Tidiane Gaye, l’umanesimo della parola.

TERRA MIA

All’alba

mi vesto del tuo odore

e mentre le stelle sfuggono al giorno

mi sveglio sotto la tua ombra

abbracciando il mistero del tuo calore.

Offrendomi alle tue mani

Cammino sui tuoi polmoni

Divoro il vento per volare nei tuoi occhi

A cantare il tuo dolce profumo di cachi.

All’alba

estraggo l’inchiostro dei tuoi spiriti

dall’albero magico, scolpisco la penna

per pitturare la tua anima

e la mia voce innocente intona i tuoi canti.

All’alba

Una voce ti diceva:

terra senza voci

voci che non sanno scavare il pozzo delle melodie

melodie che non rimano con le parole

parole senza profumo,

questa terra non sa piantare le lettere,

parole stonate

suoni senza fiamme:

fiamma, fumo e solo tenebre.

Terra che non sa contare

conto che ripudia l’aritmetica

racconto che non brilla. (da “Ode Nascente”, 2009)

Il senegalese Cheikh Tidiane Gaye non vuole essere etichettato come poeta della migrazione. Noi lo definiremmo piuttosto poeta borderline fra decolonizzazione e integrazione, fra passato e futuro. Forse è proprio il presente a stargli stretto.

Nato in Senegal nel 1971, ha pubblicato testi in prosa e poesia, fra i quali “Il giuramento”, “Mery principessa albina”, “Il canto del Djali”, “Curve alfabetiche”, “Rime abbracciate”, “Ode nascente”, “Prendi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera.” Dichiaratamente s’ispira a Leopold Sèdar Senghor, primo presidente del Senegal e poeta di lingua francese, il quale, insieme all’antillano Aimè Cesaire, fu l’ideologo della negritude. Per negritudine s’intende la riscoperta della cultura africana, delle sue caratteristiche peculiari, come il senso del ritmo e la forza del sentimento. Il popolo nero va alla ricerca di sé, delle proprie radici, della propria specificità, all’indomani della diaspora che l’ha reso apolide, ramingo o non bene adattato.

I cuori, le mani, i piedi battono,

battano tutti i piedi, le mani, i cuori

il sorriso degli uomini che accoglie la vera parola,

parola partorita nel dolore

parola che si radica nel cemento del nostro essere,

parola esaltata dall’euforia,

parola scolpita nella corteccia dei baobab millenari,

parola dalle auroree lettere tagliata al tramonto delle lacrime,

parola che sorride:

negritudine.”

Ma in Tidiane Gaye quest’unicità viene proiettata nel futuro e usata come ponte per la creazione di una nuova società sincretica che, alla base, ha solo i principi dell’umanità e dell’universalismo. Come fa notare Adriana Pedicini, Tidiane Gaye è un umanista, mette l’uomo e la sua parola all’interno di un cerchio vitruviano, considera l’interculturalità un potente mezzo d’integrazione, arricchimento e superamento delle barriere. Alla base di tutto c’è la lingua italiana, usata come strumento unificatore che si auto rigenera in qualcosa di nuovo, a prescindere da tutte le conoscenze stratificate nei secoli, e si evolve, arricchendosi di espressioni frutto di altre culture e altre esperienze. Questo può piacere o non piacere – può anche stupirci che Tidiane Gaye ammetta di non conoscere Pinocchio o scriva Ungheretti al posto di Ungaretti – ma è comunque espressione di un moderno movimento interculturale, frutto di esportazione e di globalizzazione, al quale dobbiamo abituarci e che non possiamo più ignorare.

Tramite questa fusione, questo melting pot di culture e lingue, si giunge, secondo la visione ottimistica e piena di speranza di Tidiane Gaye, all’incontro con l’alterità, alla comprensione dell’altro da sé, alla fratellanza autentica, all’amore.

Di questo compito quasi messianico si fa carico il vate, lui stesso, che, dichiarando “non sono poeta” e “non sono profeta”, in realtà assume entrambe i ruoli. Sarà lui, in qualità di traghettatore, di bardo, di aedo o, meglio, di djali, a farsi carico di questo compito luminoso: unire tramite la parola poetica i cuori degli uomini, fino a portarli in quel luogo dove le differenze sono valore e non scontro. Insomma, nel luogo sacro della fraternità.

NON SONO POETA

Lascio presto in mattinata

la mia casa di paglia

i miei sandali, cuoio di capra

proseguo il vento, le corde invisibili

nei meandri delle sonorità plurali

canto il mio villaggio, la terra dei miei avi.

Quando canto, è pane che offro

all’orecchio che mi ascolta

alla lingua che mi applaude e alle mani

che mi parlano e mi lodano.

Non sono poeta

il mio alessandrino è orfano di emistichi

la mia prosa, erba secca per illuminare le notti senza nomi

oscure e curiose.

Non sono poeta

quando canto le mie parole penetrano i cuori,

indovino le parole nei cespugli

sorgenti dei miei fertili pensieri

che procurano latte e formaggio.

Taglio le mie sillabe nel fuoco della purezza,

sono l’angelo delle maschere, invisibile la notte

nelle tenebre delle parole

che tracciano i gloriosi canti dei guerrieri.

Non sono poeta,

lo sarò. (Da Il canto del Djali, 2007)

Gaye canta l’Africa, intesa come continente e non come singolo paese di provenienza. Più volte, infatti, afferma di voler eliminare i confini, mere convenzioni tracciate a tavolino. La sua Africa è tutto ciò che sta a sud del Sahara, dal quale, tuttavia, spira un vento che brucia e soffoca ma anche accarezza e perdona. L’Africa è odore, sapore, densità, colore acceso. È cose terrene e tangibili - e sono le parti più belle, le poesie più vibranti – come il miglio, il baobab, la kora, strumento musicale fatto di zucca e pelle. “Nel mio paese il sangue dei leoni inonda i pozzi/ la bravura delle donne si misura nella larghezza delle loro mani”.

LA MIA AFRICA

Mi sdraierò sul tuo petto

e nelle tue braccia fresche abbracciami,

mi darai il tuo pane e il tuo riso

basterà a me solamente la tua bellezza nera

quando a mezzogiorno

la luce brillante della tua pelle

coprirà la mia ansia

offrendomi l’ombra, dolcezza del tuo sorriso

canto fresco;

luna dei miei sogni

cantami e coccola la mia anima.

Impediscimi tutto

il tuo vento del Sahara

la tua spiaggia morbida come fragola

impediscimi tutto

ma non i tamburi sulla chiara luna

quando ascoltando l’uomo dalla barba bianca,

illuminando i sorrisi spenti

nella caduta delle lingue deboli,

sarò la voce imprendibile

la bocca sonora di una terra

dove la speranza cade

come gradine.

Mi sdraierò sotto i tuoi piedi

non mi basterà il tuo sguardo;

alzami con le tue lunghe fresche braccia

ospitami nella tua tana, nido umido;

all’alba sorrideremo al mondo

perché questa terra è sempre in piedi. (Da Canto del Djali, 2007)

L’Africa, in questo caso, è edenico rimpianto, madre accogliente pensata con struggente nostalgia. Ma l’Africa è anche navi negriere cariche di schiavi , è barconi che sfidano le onde nel buio, centri di accoglienza pieni di facce attonite, è l’isola di Lampedusa implorata, invocata, pregata.

La terra di cui parla Tidiane Gaye non è solo la sua di provenienza ma, per estensione, anche tutte le nazioni che soffrono come la sua ha sofferto, in primo luogo la martoriata Palestina. Dove c’è un popolo sperso che soffre, là c’è la patria di Tidiane Gaye e, tramite la sua poesia, tramite la lingua che affratella, viene offerta la possibilità di risanare le ferite, far scaturire l’amore, unire il passato al presente costruendo il futuro, ricollegare i vivi ai morti. “Accosterà la tolleranza alla mia spiaggia”.

Ma l’Africa è anche donne meravigliose, esaltate con accenti da Cantico di Salomone, donne amate e madri, sacre come donai nella loro terrestre fisicità, sineddoche di tutta una terra.

RAMATA

Il tuo nome è linfa nutriente

i tuoi piedi, recinto dei tuoi versi

il tuo corpo una vita

le tue strofe riempiono i calici

e inondano i laghi della bellezza

il tuo corpo svelto

è l’ospite delle mie notti,

la luna si nasconde

per offrirmi il calore della tua pelle

specchio della tua memoria,

riflesso della tua lingua.

Il tuo corpo è una sinfonia

una sillaba, una casa,

il tuo corpo è labbra

la forma della tua bocca un bacio

la tua fronte liscia e libera,

i tuoi denti bianchi

si nutrono del sorriso del sole

nella vela dei venti

e nella notte delle lune

la tua bocca è ode e lirica

le tue treccine, pittura e poesia

la tua andatura, il cammino epico del tuo popolo. (Da Ode Nascente , 2009)

A MIA MADRE

Non ti ho perduta, ti sognavo

la tua ombra, mia custode, salvatrice dei miei passi

tu mi dicevi: dormi vicino al mio cuore allattato dal mio seno.

La tua saggezza è tramandata

sono cresciuto per vincere le paure degli uomini.

Mi ricordo, tu mi portavi sulla schiena morbida

frullando le spighe di miglio

sono cresciuto per coltivare la forza degli uomini.

Tu, madre mia, cantante mia, cantavi la notte per addormentarmi

sono cresciuto per salvarti dall’incubo.

Tu, mia maestra, mi hai insegnato le prime lettere dell’alfabeto

sono cresciuto per insegnare la lingua all’uomo.

Madre, sei il mio custode invulnerabile alle grida delle iene

avvicinati e non abbandonarmi

la vita ha spaccato il cordone ombelicale

ma il cuore è unito a te per sempre.

Il prezzo della sofferenza è sorridere al mattino

ascoltare la tua voce

fuggire dalle tue paure,

ti canto quando il sole si allontana dalle nuvole

quando la luna si risveglia

la notte, quando le stelle ballano

ballerò sulla punta dei piedi

dai miei occhi ti guarderò, ti dirò di perdonarmi

e ti ringrazierò di avermi partorito.

Ecco mia madre nel sogno

che mi rispondeva col sorriso sulle labbra:

Figlio mio, adora tua madre e tuo padre

sono per te lo specchio. (Da Canto del Djali, 2007)

Sempre Adriana Pedicini fa notare il sincretismo linguistico, l’uso di neologismi e i richiami alla lingua wolof, e noi aggiungiamo il contrasto fra parole ricorrenti, come onde che si accavallano di continuo, tornando a riproporsi senza mai essere le stesse: ad esempio miele e vipera. Il miele è connesso alle origini, alla terra, alla lingua, la vipera è ciò che fa male, inganna, sfrutta, deporta.

Difficile giudicare la poesia di Tidiane Gaye col nostro metro perché essa ha i ritmi, gli enjambement, gli accenti della produzione del suo paese. La prosodia ci mostra un verso elastico, a volte stretto, a volte allungato fino a riempire tutto il foglio e assumere i connotati della prosa. La parola è mezzo espressivo ma anche fine, ha valore conoscitivo, scopre il senso segreto delle cose. Il Verbo crea, ha potere sulla materia e sullo spirito, la parola del griot, del cantore, dà vita alla nuova religione che ha al centro l’uomo, il nuovo umanesimo che risarcisce e rimargina.

TAM-TAM

Le mani affogate nell’acqua salata

mi inchino davanti all’albero e recito i versi del nonno.

E dirò:

Spirito, taglia questo legno nella purezza del latte

i suoni del vento, delle onde del mare,

medito sulla voce invisibile del cuore

accompagno la voce dei griot,

la lingua dei saltigue diventi la memoria del cammello

precipiti durante la morte del re

la nascita del bambino

e... lentamente la gioia del popolo.

Tam-tam

nella tua pelle di sale

m’inchino davanti all’albero e recito i versi del nonno.

E dirò:

Voglio sentire i tuoi ritmi per adorare il fiore rosa

aprire gli occhi del cielo ballando con le belle perle

nelle serate d’estate sotto la piena luna

voglio sentire il ricordo della notte stellata

alle grida mute delle iene e dei leopardi

il verbo che dice “Bevi la parola per illuminare il cuore”

la pianta che fiorisce

la montagna che crolla

la collina che si inchina

i laghi che svuotano il ventre del coccodrillo. (Da Il canto del Djali , 2007)

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Fabio Pasquale, "Il lavoro della polvere"

26 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Fabio Pasquale, "Il lavoro della polvere"

Il lavoro della polvere

Fabio Pasquale

Editrice Zona 2013

pp 80

10,00

È raro che il romanzo d’esordio di un autore poco conosciuto sia così tagliente nei contenuti e lucido nella forma. “Il lavoro della polvere”, di Fabio Pasquale, è un noir scritto molto bene che ti tiene inchiodato dalla prima all’ultima pagina.

La storia è semplice nella sua anormalità. Un uomo uccide un sosia per fingersi morto e scappare con i soldi della ditta. Per farlo dovrà assumerne l’identità per alcuni mesi, in modo da non destare sospetti. Ciò è possibile in un mondo dove si ha poca attenzione per il prossimo, dove non ci si guarda negli occhi, dove non si ha contezza l’uno dell’altro ma si diventa intercambiabili. Sul suo cammino verranno a frapporsi degli ostacoli che egli eliminerà senza scrupoli o rimorsi.

Si può pensare che la tragedia stia nell’uccisione di un malcapitato, la cui unica colpa è somigliare come una goccia d’acqua al suo assassino. In realtà, la morte del poveretto di nome Manuel è asettica, chirurgica: basta un colpo ben assestato e tutto finisce senza emotività o eccessiva partecipazione. Quello che agghiaccia è l’esistenza stessa di Manuel, moderno travet talmente incolore che persino le commesse del discount lo identificano come sfigato.

Manuel è un colore spento, di quelli da associare alla noia e scartare quasi subito.” (pag 9)


Di professione Manuel fa il fattorino di pony pizza, consegnando pasti a domicilio col suo motorino sgangherato. Assumendone l’identità, il protagonista ne scandaglia la squallida esistenza che è, in parte, anche la propria. Se Manuel vive con timidezza e con rassegnata malinconia, il suo omicida si ribella, analizza spietatamente ciò che vede, evidenziando solo gli aspetti negativi: la desolazione, la miseria, il degrado, la noia, in una spirale sartriana di nichilismo e nausea.

Manuel vive in un brutto appartamento, con una vicina di casa che neppure nota. Per adescarlo e sapere di più sulla sua vita, l’assassino inventa un’identità virtuale, crea un profilo facebook a nome Ambra, spacciandosi per una ex compagna delle elementari divenuta con gli anni figa e affascinante. Inutile dire che, trascinato nel vortice della chat, Manuel s’innamora di Ambra, la sogna ogni notte e passa le giornate contando le ore nell’attesa di tornare a casa e connettersi.

Più dell’assassinio di un innocente, raggela la rappresentazione di un mondo in cui non siamo più capaci di vivere e creare un legame fisico con le persone. “Il lavoro della polvere” è un dramma dell’era social, ci mostra a noi stessi, con le nostre esistenze spoglie e prive di emozioni, ci dipinge mentre, chini sulla tastiera, evochiamo amicizie e amori che sono frutto solo della nostra immaginazione, caricati delle nostre aspettative, destinati a infrangersi contro il muro del reale. Così facendo, persi in un pianeta virtuale dove gli altri sembrano seducenti e noi migliori, finiamo per disprezzare ciò che abbiamo a portata di mano, per non alzare più lo sguardo fuori della finestra, per non sentire più il calore di una mano o le sfumature pastose di una voce vera, per condensare ogni commozione in una sbrigativa emoticon. Finiamo per non accorgerci nemmeno che l’altro, il nostro dipendente, il nostro vicino, il nostro fattorino, non è la persona che conosciamo da sempre ma un suo sosia.

Dopo l’omicidio, l’assassino conosce per caso Paola, la vicina di casa di Manuel, che questi non aveva mai considerato, e con lei stabilisce una relazione gratificante. La relazione fra l’omicida e Paola simboleggia ciò che avrebbe potuto essere se la vittima avesse avuto più coraggio, più occhi per guardare, più forza di vivere appieno la sua vita. L’assassino è l’alter ego di Manuel, e, guarda caso, non ha un nome né un’identità precisa, ma incarna la sua possibilità di godere della propria esistenza. Attraverso il suo omicida, scopriamo che, forse, Manuel non era lo sfigato che credeva di essere, la sua era solo un’immagine di sé con la quale s’identificava a tal punto da costringere gli altri a vederlo in quel modo. E anche il suo doppio intravede attraverso Paola l’evenienza di un coinvolgimento emotivo autentico, capace di spazzare via noia e grigiore, ma, seguendo la propria logica, sa che “su strade a senso unico, andare avanti è l’unica opzione possibile”.

Il finale lo lasciamo al lettore.

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