poli patrizia
Ali di carta
Hai voglia, hai voglia a dire “circoscrivere, delimitare, convivere”. Se la tua vita è una merdata per colpa della fobia sociale, pensaci a vent’anni, perché a cinquanta ti ritroverai come me, ospite in casa tua, senza niente che ti sia costruito col sudore della fronte, senza dignità, a dipendere da mamma per la paghetta e a mandarla a fare in culo perché è tutta colpa sua se sei come sei. È vero, è colpa sua e a cinquant’anni, cinquantrè per la precisione, ormai “ce n’hai per tre caate”, come diciamo qui, e la dignità non viene più. Ma tu, fobico ventenne, salvati, pensa che le cose non arrivano da sole, non arriveranno certo quando sarà tardi.
Tua madre ti ha trasmesso la sfiducia, la paura, la disistima, non ti ha dato le ali e ora non voli e non volerai mai più, ti ha fatto capire che tutto è inutile, che non ne vale la pena, che “cosa lo fai a fare, cosa ci vai a fare, tanto non sei adatta, non sei capace, tanto finisce male, tanto non serve a nulla”. E' uguale a te, ha le stesse fobie, le stesse chiusure, la stessa solitudine estrema, ti ha insegnato a non aprire la porta, ti ha fatto sentire in colpa se invitavi un amico a casa, ti considerava brutta, sciatta, inadeguata. Eri sempre troppo grande, troppo frivola, non abbastanza seria, non abbastanza carica di doveri, o pronta a sacrificarti.
Costruisciti due ali di carta, fobico ventenne, attaccatele con lo sputo sulla schiena, sali sul davanzale e lanciati nel vuoto. Se ti sfracelli, almeno sarà stata una scelta tua.
Accettare, circoscrivere, concentrarsi
Accettatevi, niente e nessuno vi farà cambiare. Siete evitanti, soffrite di fobia sociale e questo vi accompagnerà per tutta la vita, quindi, prima ve ne fate una ragione e agite di conseguenza, non opponendovi a ciò che vi accade ma aspettando che passi la crisi e aggirando gli ostacoli, meglio è. Evitate di colpevolizzarvi: non potete farci niente e, comunque, non fate del male a nessuno.
Circoscrivete il problema. Siete affetti da un disturbo ben preciso, avete alcuni problemi ma non ne avete altri. Non lasciatevi sopraffare dall’angoscia, dal marasma, non sentitevi paralizzati da una paura senza nome che v’inchioda sempre nel solito punto. Guardate in faccia il vostro guaio e delimitatelo, dategli il suo vero nome, analizzatene le sfumature che non sono uguali per tutti, non vi fate abbattere e schiantare. Ricordatevi, soprattutto, che si arriva sempre alla fine della giornata, in un modo o nell’altro. “Tutto passa”, mi dico prima di un incontro, una cena, una visita, una telefonata, “passerà anche questa.” A volte è più difficile del previsto, a volte, però, è persino più facile.
Concentratevi. Niente aiuta a rilassarsi più dell’applicazione. State più attenti possibile, seguite con tutte le forze il filo dei discorsi, impegnatevi in attività che vi assorbano completamente, le tensioni si allenteranno, il corpo si scioglierà, la mente non si distrarrà. Se temete di rimanere senza parole, preparatevi una scaletta di argomenti, meglio se domande, e poi datevi all’ascolto attivo delle risposte. Niente appagherà i vostri interlocutori più della totale attenzione. Sarete irresistibili, vi perdoneranno l’impaccio, vi verranno a cercare. Ok, so che questo per voi non è un bene ma comunque gratifica, attenua quella sensazione di essere sempre antipatici a tutti.
E ora vi racconto della mia tesi di laurea. Ditemi se non è da brivido.
È il 1985, 21 novembre. Entro nell’aula magna dell’Università di Pisa per discutere la mia tesi su “Il Signore degli Anelli.”
Socialfobica come sono, non voglio nessuno ad assistere. Ci sono tre gatti, più mio fratello che, allora, ha undici anni. Mia madre resta fuori, mio padre non c’è, è già morto. Sono ansiosa ma so che la mia media è buona, ho 109,36.
La commissione è schierata:
Il mio relatore. Ogni volta che mi vede, dice: “Tanto con lei mi sbrigo presto” e fa passare avanti quella più figa.
La controrelatrice. Non ha nemmeno letto il libro ma, spiega, “lo ha letto suo marito.”
Una serie di galline che non conosco e non mi ascoltano mentre parlo, chiacchierano fra loro.
Discuto la tesi. Logorata, nervosa, tesa, ma la discuto. Tutto sembra a posto, ce l’ho fatta.
Esco, rientro.
“La commissione la nomina dottore in lingue e letterature straniere con punti 105.”
Il sorriso mi si accartoccia sulle labbra, mi si ghiaccia il sudore addosso, mi stringo nella giacca verde come me, impallidisco - dicono - al punto che temono un mio svenimento. L’applauso si blocca, si leva un brusio costernato.
“Perché?" balbetto “Quanto ho di media?”
“100, non è contenta? Le abbiamo dato 5 punti?”
Un filo di voce: “Sì, grazie…” Esco dall’aula. Penso che, al solito, sono io che ho sbagliato a fare i calcoli.
Interviene mia madre, per la quale l’aritmetica non è mai stata un’opinione, chiede di vedere i miei voti, mi richiama indietro. Mi mostrano un libretto che non è il mio, con voti bassi, che non sono i miei. Ridono. La mia laurea, la mia festa, diventa un mercato, dove si discute il prezzo di qualcosa che per me non ha più valore. Se fossi davvero brava, penso, se mi fossi impegnata fino in fondo, questo non sarebbe successo.
Poi non ridono più, scoprono che hanno sbagliato a spillare il foglio, hanno dato i miei voti a un’altra, una che, guarda caso, alle feste balla stretta stretta col mio professore.
Mi danno 110, senza lode. Le galline che non hanno ascoltato dicono che non la merito. Me ne vado a testa bassa. Mi arrabbio con mia madre perché ha preteso quello che mi spettava. Io non voglio niente, solo andare a casa. Senza fiori, senza nulla. Provo rabbia, schifo, vergogna, umiliazione, sento in bocca un sapore di merda che non se ne è più andato e che riemerge a contatto con certe persone, certi ambienti, certi pseudointellettuali che si vantano di non saper cambiare nemmeno una lampadina bruciata.
Non ho più messo piede in università, neppure per ritirare il diploma. Ho fatto per tanti anni un lavoro squallido che non mi rappresentava e che non mi ha mai permesso di mantenermi da sola. Adesso scrivo e basta.
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come me, è affetto da fobia sociale e quindi, pur scrivendo ... Il diario di Claire Ricordate Claire? Claire pensa di non avere una vita sua e invidia persino il dolore degli altri. L'ho esortata a
http://signoradeifiltri.altervista.org/scrittura-e-fobia-sociale.html
Phobic pride
Il problema è il silenzio. Finché nessuno di voi avrà il coraggio di fare come me, di dire pubblicamente: “Mi chiamo Mario Rossi, sono socialfobico e ci sono cose che non posso fare nella vita, ma non sono scemo, anzi, tutto il contrario, ho un mucchio di talenti nascosti e tanta forza che voi nemmeno ve la sognate”, finché un altro come lui non avrà il coraggio di rispondergli: “Anch’io”, finché non sarà intavolata una discussione sull’argomento davanti a tutti, così come si parla del fumo, della paura di prendere l’aereo o dell’emicrania, questa malattia resterà sconosciuta e noi non avremo un nostro posto nel mondo che non sia quello della dissimulazione, dello stare nascosti, del non ottenere mai niente dalla vita. Lo so, è impossibile parlare di cosa vi sta accadendo nel momento acuto della crisi di panico. Situazione tipo, quella che io odio di più: state lavorando, nel vostro ufficio, nel vostro negozio, nella vostra classe e qualcuno che conoscete, qualcuno al cui giudizio tenete, entra e vi osserva. Voi andate in tilt, non riuscite più a fare niente, le orecchie avvampano, il viso scotta, la cute suda, le ascelle puzzano, la vista si annebbia, le ginocchia cedono, i gesti diventano goffi, impacciati. Vi cade di mano la penna, inciampate negli oggetti, balbettate, le parole vengono meno. Al massimo, con un filo di voce dite: ”Oh, che caldo”, per giustificare la vampata, v’inventate una scalmana anche se il menarca è ancora vicino, anche se avete sedici anni. No, certo non è il caso di parlare ora, soprattutto se di quella gente non v’importa un cazzo e, se invece v’importa, adesso non conta, vorreste non averla mai conosciuta, vorreste scappare e avere un'amnesia totale. Qualcuno che non soffre di fobia sociale sa dirmi cosa significa per una donna passare in mezzo ad un gruppo di uomini riuniti davanti ad un bar? Sa cosa vuol dire vedere un’amica, dall’altro lato del marciapiede, e cambiare strada? Sa che il trillo del telefono ti paralizza e ti spinge alla ricerca affannosa di un altro cui far rispondere? Sa, forse, che lo sguardo innocente di una ragazzina, che potrebbe esser tua nipote, ti trafigge al punto che non sai più dove guardare? Sa che le orecchie ronzano, il corpo si bagna, la testa gira, il cervello si svuota, il cuore pompa, la vista si appanna, i movimenti diventano scoordinati? La nostra guerra quotidiana - tenda bene le orecchie chi parla di lotta e forza di volontà - noi la combattiamo ogni giorno, solo per fare quello che gli altri fanno automaticamente e sovrappensiero. Così sprechiamo le nostre migliori energie. Ha detto bene Claire: “Come un aracnofobico al museo degli insetti”, così ci sentiamo, e non finisce mai davvero.
In altre circostanze, però, si può provare a parlarne, a rendere più “consueta” la materia, più ovvia, più banale. È difficile, ne sono consapevole, ma si può tentare di essere fermi, dicendo: “Mi dispiace, questa cosa non è nelle mie corde, preferisco non farla, scelgo, se possibile, altre modalità”. Parlare di ansia generalizzata sarà più facile e più comprensibile. Ultimamente si tende a chiamare la fs "ansia sociale", che fa meno sfigato senza rimedio.
Non vergognatevi della vostra paura, non abbiate paura della vostra paura. Pensate a quante fobie non avete: magari non avete timore di prendere l’aereo, o di nuotare, o dei cani, o di entrare in ascensore. E se, invece, aveste qualcuna di queste fobie, ve ne vergognereste? Lo terreste nascosto? No, perché sono comuni. Ecco, non ci sono paure lecite e paure illecite, le emozioni negative sono una gamma enorme e ognuno ha la sua. Conosco una che non riesce ad attraversare le gallerie e, ogni volta che andiamo in qualche posto, ci costringe tutti a lunghe deviazioni per evitare i tunnel. A me la cosa fa ridere ma la rispetto. Imparate a esigere rispetto, a non farvi liquidare con un risolino imbarazzato o compassionevole. Imparate ad ottenere le cose per vie traverse, ad aggirare gli ostacoli alla luce del sole, spiegando le vostre esigenze, le vostre ragioni, imponendole, se necessario, con educata fermezza. Siate pronti a sfidare il biasimo degli stupidi, delle menti ignoranti, di quelli che “non sanno quello che fanno”, anche perché, diciamocelo, non è neppure colpa loro, se nessuno ne parla mai, come possono capire? Anni fa la dislessia non era riconosciuta, come non era riconosciuta la sindrome da stanchezza cronica. Anche allora si parlava di pigrizia, di svogliatezza, d'incapacità di concentrazione. Ora le persone afflitte da questi problemi sanno di cosa soffrono e come devono comportarsi. Chi è vittima di un incidente e fa un percorso di riabilitazione, si sentirà dire dalla fisioterapista che deve mettere in atto nuove strategie per ottenere ciò che prima aveva senza sforzo, dovrà muoversi in un altro modo, dovrà porre più attenzione e concentrazione nei gesti o nei ragionamenti e nessuno si sognerebbe di prenderlo in giro per questo, perché cammina con l'aiuto di un bastone o porta occhiali spessi. Anche la nostra è una disabilità e mai come nel nostro caso vale il termine diversamente abile. Siamo abili, anzi, abilissimi in certi campi, ma abbiamo bisogno di più calma, più silenzio, più spazio, più rilassamento per fare le cose che gli altri fanno senza nemmeno pensarci.
Respirare è un movimento non del tutto involontario ma lo si fa senza ragionarci sopra. Per noi vivere non è come respirare, non è automatico, per noi ogni gesto è volontario, ponderato e ci costa fatica enorme, ma possiamo farlo seguendo le nostre modalità che non devono per forza essere quelle degli altri. Un sordomuto usa la lingua dei segni per comunicare, un dislessico trova che gli legge la pagina, voi cercate chi possa aiutarvi a raggiungere il vostro scopo, almeno fin dove è possibile, è chiaro che nessuno potrà presentarsi agli esami al posto vostro. Insomma, rivendicate senza vergogna il diritto alla vostra paura.
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Amleto de Silva, "La nobile arte di misurarsi la palla"
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La nobile Arte di misurarsi la palla
Amleto de Silva
round midnight edizioni
Premetto che di solito scrivo recensioni al plurale maiestatis, non perché io sia di stirpe aristocratica ma perché così mi hanno insegnato all’università nei favolosi ottanta. Tuttavia, per commentare “La nobile arte di misurarsi la palla” di Amleto de Silva (non lo chiamerò Amlo, ché non siamo in confidenza) userò la prima persona, dato che l’argomento mi tocca e mi smuove qualcosa dentro. Premetto anche, a titolo d’informazione, che non sono una “professoressa facente funzioni di vicepreside”, che il Pd l’ho votato ma solo occasionalmentee che qualche volta mi succede persino di “recarmi” dal panettiere anziché andarci e basta e che mio marito ha esattamente ciò che si merita, cioè me.
La nobile arte etc. è un romanzo di Amleto de Silva (questo l’ho già detto), collaboratore di Repubblica, autore satirico per Smemoranda e per Enrico Montesano, recensore de ilmiolibro.it. Dopo essersi autoprodotto a sufficienza, si affida alle cure della ‘round midnight edizioni per raccontare la storia di Enea Pellegrini, del suo talento frustrato, delle sue ambizioni come scrittore professionista e del suo incontro con il male assoluto, cioè le scuole di scrittura.
De Silva dichiara di non aver mai frequentato una scuola di scrittura. Nemmeno io. Non l’ho fatto per timore che la poca autostima che possiedo ne fosse irrimediabilmente intaccata e, stando a quanto accade al povero Enea, pare abbia agito bene. Enea lascia la provincia e va a Roma; già al limite del suicidio per problemi personali e familiari, investe tutto quello che ha nell’iscrizione alla Scuola, la più prestigiosa, quella che gli aprirà tutte le porte, che lo farà diventare un Autore Affermato. La Scuola, invece, è un nido di vipere che si mordono e si parassitano l’un l’altra. Gli alunni sono schiavi degli insegnanti, a loro volta scrittori di media fama che si credono Dio in terra, temono la concorrenza come la peste e cercano di abbattere ogni altrui velleità artistica. Alla Scuola si fa di tutto tranne che insegnare. Principalmente si “scoraggiano” gli aspiranti scrittori, convincendoli che le loro ambizioni sono comuni e volgari, che non possiedono capacità né talento, che avere un romanzo nel cassetto è una vergogna, che in Italia si scrive troppo e si legge poco.
“Eh ma in Italia tutti hanno un romanzo nel cassetto. A parte che onestamente non ho mai capito cosa ci sia di male nell’avere un romanzo nel cassetto, capirei un’arma carica e senza sicura quando ho tre bambini per casa, ma un romanzo, e nel cassetto, poi.” (pag 34)
In realtà, i primi a non sapere nulla di libri sono loro, gli insegnanti, che passano il tempo a spettegolare, rimorchiare studentesse, fare i giurati di premi letterari e i recensori a pagamento di romanzi che non leggono.
“Il fatto era che per fare quel mestiere c’era bisogno di un sacco di tempo per lavorare di fioretto sulle pubbliche relazioni, e leggere era solo una sgradevole perdita di tempo. Certo ognuno di loro sapeva benissimo cosa facevano, avevano fatto o erano in procinto di fare i loro colleghi, ma non si leggevano l’un l’altro. Al massimo si controllavano.” (pag 378)
La Scuola è un luogo indefinito, ricorda “La ditta” de “Il Padrone” di Parise, non a caso a sua volta ispirata dalla casa editrice dove lavorò lo scrittore di Vicenza. Costituisce una specie di sfondo teatrale, vagamente riconducibile ad un habitat fintamente parigino, davanti al quale si muovono personaggi che sono macchiette, caricature, parodie, ma la deformazione surreale non è nemmeno troppa, vista la natura di tale ecosistema fatto di arrivismo, rivalità e cattiveria.
Questo, secondo me, avviene anche nell’universo letterario della rete: guerre intestine fra blogger, invidie e gelosie fra aspiranti scrittori di nessuna fama, accaparramenti di fan da una pagina all’altra a colpi di mi piace, spionaggio virtuale. Sebbene questa sia un’altra storia, de Silva, che ci esorta a usare Facebook e Twitter, a scrivere sui blog, a sfruttare il self publishing, etc, sembra aver, forse inconsapevolmente, assorbito anche parte dell'ambiente.
Egli (come non gli piacerà questo pronome desueto) egli non è tenero con gli scrittori, con i librai e con gli editori, ma la categoria che più aborrisce - non a torto - è quella degli editor, i famigerati che ti costringono a riscrivere tutto ciò che hai già scritto, a modificarlo, a massificarlo. Chi vi parla ne ha fatto le spese, costretta a rovinare un proprio romanzo, infarcendolo a pagamento di errori grammaticali, pena l’esclusione dalla possibilità di essere presentata a un editore. Tale editore risultò poi essere un banalissimo stampatore che tentò senza riuscirci di spillarle diecimila euro. Dopodiché la malcapitata dovette, prima di auto pubblicare il testo, cioè di rientrare a pieno titolo nella categoria degli “sfigati falliti”, passare ore a rimettere tutto com’era prima. Ma torniamo ad Enea. Enea finisce sotto le grinfie di Enzo Di Donna, personaggio di fantasia ma condensato di varie personalità ruotanti intorno al mondo editoriale. Enzo è stupido, profittatore, meschino, infido, pieno di sé e incapace di “misurarsi la palla”, cioè di essere consapevole dei propri limiti. Enzo ruba le idee di Enea, gli distrugge il romanzo che faticosamente e onestamente ha scritto e se ne appropria per i suoi fini. Insomma, grazie al rapporto fra Enzo ed Enea - forse non è un caso se entrambi hanno la medesima iniziale nel nome, essendo l’uno l’alter ego sporco dell’altro - de Silva lancia il suo grido liberatorio: ognuno deve scrivere quello che vuole e come vuole, non c’è una linea da seguire, non ci sono istruzioni, l’arte non s’imbriglia e non s’insegna, l’ultimo giudizio spetta ai lettori e non agli editor. Soprattutto non ci sono regole: se Salgari avesse “scritto solo di ciò che conosceva”, dico io, avrebbe ambientato i suoi romanzi in Veneto, se Tolkien avesse “preparato la scaletta” non avrebbe mai scoperto a cosa serviva l’Anello. Ultima ma non ultima, la rivalutazione della trama che ormai sembra scomparsa dal panorama letterario. Se hai una storia da raccontare, se ti sei scervellato per inventarla e incastrare tutti gli elementi dell’intreccio, scuotono la testa, ti dicono che non hai saputo agganciare le “tendenze attuali”.
E fin qui tutto bene, fin qui sono d’accordo con de Silva: le avventure esilaranti e amare di Enea mi sembrano una boccata d’aria fresca e di verità in un mondo che, più conosco, più mi nausea. Tuttavia, affiora il dubbio che l’autore s’identifichi non solo con Enea, ma anche con il personaggio negativo. Certe espressioni di disprezzo (come quelle verso le suddette “professoresse” o verso le “mezze calzette da premio letterario” e il continuo dare dell’imbecille a tutti), finiscono per coincidere proprio con l’atteggiamento di Enzo Di Donna. Come se de Silva difendesse gli scrittori e i lettori ma, allo stesso tempo, li denigrasse, come se la sua critica del sistema si trasformasse in autocritica dall’interno.
Una delle cose che più spesso afferma è che bisogna scrivere dialoghi mimetici del linguaggio comune e quotidiano. Perfetto, giusto, ma non sempre e non solo. Esiste anche uno stile più elegante, magari più retro, più “da professoressa”, ovviamente nel contesto giusto, nel romanzo appropriato. Esiste anche una ricerca formale. Il linguaggio scurrile può andar bene, far presa, essere realistico e divertente, ma non è necessariamente l’unico immaginabile, altrimenti tutta la narrativa, specialmente quella del “maschio standard”, come lo chiamo io, si trasformerebbe in una sfilza di parolacce fra disperati che raccontano le loro sventure sessuali al bar. Categoria, questa dello scrittore maschio standard, se mi permettete, altrettanto antipatica di quella cui appartengono le povere “professoresse facenti funzione” etc. Ma, nonostante l’insistenza sulle parole volgari, nonostante la tendenza a divagare e dilungarsi, nonostante non tema le ripetizioni, in barba, appunto, alle Regole Sacre della Scuola, lo stile di de Silva non è banale né sciatto ed è senz’altro molto divertente. Spassosa la parodia dei luoghi comuni del mondo editoriale, dal “necessita di un robusto lavoro di editing”, alla “lucida intellettuale post femminista”, “al doloroso percorso interiore”, e ci aggiungo pure il terribile “romanzo di formazione”.
Ma l’opera non è solo una ricostruzione d’ambiente in tono satirico, man mano che procede diventa sempre più romanzo tradizionale, con dialoghi perfetti, al limite della sceneggiatura, e una trama avvincente, che produce suspense ed empatia verso il protagonista.
“Mentre lui la metteva sul misuriamoci i conti in banca, per esempio, io mi sentivo fallito perché non avevo nessuno che mi volesse bene veramente. Mentre a me interessava aderire a quello che sentivo, che sapevo di essere, e mi sentivo più fallito che mai mentre violentavo il mio povero romanzo, a lui interessava vincere, cioè non far sapere alla gente che era quello che era: un ladro, un adultero, un pettegolo, un ignorante, un intrallazziere.” (pag 403)
Una trama che, alla fine, tocca le sfumature del giallo, con tutti i pezzi che vanno a incastrarsi, con la molla che fa click e mostra ciò che è avvenuto nelle pagine precedenti sotto una luce completamente nuova, costringendoti a un ripensamento attivo, a una “sospensione della distrazione”. Un po’ come accade nei libri della Rowling, e pazienza se de Silva s’infurierà per l’accostamento.
Il libro è più complesso di ciò che sembra, poiché, nella sua costruzione, usa proprio i meccanismi che mette alla berlina, in primis l’Amore, alla base di quasi tutto ciò che viene scritto e pubblicato, poi il famoso e vituperato "Arco", vedi evoluzione del personaggio. Il finale stesso può essere letto a due livelli. Il primo è una presa di coscienza da parte di Enea, un rimanere integro e pulito, un mantenere intatto il senso del proprio valore nonostante tutto. Il secondo è una parodia del genere, e in questa chiave smette di apparire forzato e sdolcinato.
Comunque, sullo scrittore-maschio- scurrile-standard, de Silva ha una marcia in più: la marcia si chiama sarcasmo, irrisione, satira. Anche se il povero Enea non diverrà, probabilmente, l’antieroe capace d’incarnare lo spirito della nostra epoca, è facile che Zeno Cosini si fumerebbe volentieri un’ultima a sigaretta con lui.
Mi piace concludere con una frase tratta dal blog di de Silva, amlo.it:
“Perché grazie ai miei lettori ho capito una cosa, che sembra facile ma non lo è. Alla fine non conta se vai nei salotti letterari o ai premi, ma quello che fanno libro e lettore sul divano, con calma a casa loro. O sul tram mentre si va al lavoro. Cioè, il libro. Se ti piace o non ti piace. Se è scritto bene o di merda. Se c’è una storia e se c’è, se ti interessa sapere come va a finire. Il resto sono chiacchiere.”
Il problema però, aggiungo io, è arrivarci a questi lettori.
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La nobile arte di misurarsi la palla 'round midnight edizioni, 2014 Premetto che di solito scrivo recensioni al plurale maiestatis, non perché io sia di stirpe nobile ma perché così mi hanno ...
http://www.criticaletteraria.org/2014/06/amleto-de-silva-la-nobile-arte-di.html
Il posto dei vergognosi e il talento
Claire mi dice sempre: “Ma, secondo te, quello è fobico? Possibile che abbia così tante ragazze? Possibile che esca tutte le sere? Naaa.”
La fobia sociale è una sola, ma ognuno è fobico a modo suo, ognuno è se stesso, secondo il suo vissuto, l’ambiente, le abitudini e in una stessa famiglia un figlio nasce fobico e l’altro no. Sappiamo che è un problema di corteccia frontale.
"Analizzando gli elettroencefalogramma (EEG) dei bambini che presentavano IC era emerso in essi una maggiore attivazione della Corteccia Frontale Destra. La Corteccia Frontale è una parte del cervello che gioca un ruolo importante nella regolazione e nell’espressione della paura e delle altre emozioni: in particolare la parte destra della corteccia dimostra una maggiore attività durante le emozioni negative provate dal soggetto (rabbia, paura), mentre quella sinistra risulta essere più attiva durante l’elaborazione di emozioni positive (interesse, gioia). Per comprendere il motivo per cui questo dato risultava interessante dobbiamo precisare che la attività della Corteccia Frontale è strettamente collegata al ruolo dell’amigdala: questa parte del cervello, che deve il suo nome alla parola greca “mandorla” data la sua forma, controlla le emozioni come la paura, monitorando gli stimoli percepiti nel mondo esterno, rilevando eventuali pericoli e attivando, in caso di necessità, le risposte comportamentali e i cambiamenti fisiologici dell’organismo adatti per rispondervi. L’amigdala filtra gli stimoli provenienti dall’esterno, attivando l’organismo esclusivamente per stimoli ritenuti pericolosi. Ciò che permette il corretto funzionamento di questo “filtro” è un neuromodulatore, cioè una sostanza che regola le trasmissioni tra i neuroni, chiamato GABA: se questo non è presente in quantità sufficienti o non funziona come dovrebbe, alcuni stimoli risulteranno al soggetto pericolosi pur non essendolo. L’amigdala è inoltre influenzata dalla concentrazione di serotonina, un’altra sostanza legata al funzionamento dei neuroni, e a sua volta condiziona la presenza nel flusso ematico di cortisolo, un ormone rilasciato dalla ghiandola surrenale. Basse concentrazioni di serotonina nell’amigdala diminuiscono la presenza di GABA, aumentando la possibilità di manifestazioni ansiose; di conseguenza l’attivazione dell’amigdala induce la produzione di cortisolo, che ha lo scopo di mobilitare le risorse dell’organismo nel breve periodo di necessità per rispondere allo stress. Le persone che già nell’infanzia presentano IC sono caratterizzate di fatto da un maggiore livello di cortisolo salivare al mattino, da un ritmo cardiaco elevato, e crescendo, anche da una maggiore dilatazione pupillare nei momenti di esame o di prova, rispetto ai loro coetanei che non si dimostrano timidi o ritirati. E’ possibile ipotizzare dunque che coloro che svilupperanno ansia sociale abbiano vere e proprie differenze neurobiologiche rispetto a chi non è predisposto a sviluppare questa patologia. Possono presentare ad esempio problemi nei meccanismi di selezione degli stimoli ritenuti pericolosi, avendo una soglia molto bassa (difficoltà nella fase di input), o avere un’attività disfunzionale dell’amigdala (problemi nei processi legati alla paura) o attivare risposte comportamentali non proporzionali allo stimolo (ad esempio un aumento esagerato del rilascio del cortisolo, un forte aumento del battito cardiaco davanti a stimoli nuovi, una salivazione esagerata).
Questo brano è tratto da un interessante articolo sull'argomento che trovate qui
Perché non ci facciamo lobotomizzare dunque?
Le cose che fanno paura non sono le stesse per tutti. Alcuni temono il contatto con l’altro sesso, altri i colloqui di lavoro, gli esami dell’università, le occasioni sociali, mostrare le proprie doti artistiche o sportive, fare qualcosa in pubblico. C’è chi sta in ansia e avvampa alla cassa del supermercato, chi non può mangiare al ristorante. (Io ci mangio, ma preferisco quello che Manzoni chiamava “il posto dei vergognosi”, cioè di spalle), chi detesta il telefono (!!!!!)
Ricordate la famigerata ora di ginnastica alle scuole medie, quando nessuno ti aveva firmato l’esonero, e dovevi saltare il cavallo terrorizzata, sicura che ti saresti sfracellata al suolo sotto gli occhi delle compagne sghignazzanti?
Scherzi a parte, c’è chi prende di petto la sua disgrazia e chi si ritrae, chi ama mettersi in mostra e chi si nasconde, chi è ambizioso e chi vorrebbe solo vivere in pace. Io vi dico seguite la vostra natura, v’indicherà la strada, se qualcosa è fondamentale per voi, troverete il modo di farla, di petto se ne siete capaci, o aggirando l’ostacolo, delegando. Se avete sete, convincetevi, l’importante è bere, anche se, è chiaro, versarvi da soli l’acqua darebbe più soddisfazione. Mirate allo scopo e gettatevi alle spalle i sensi di colpa per non averlo raggiunto nel modo classico, come fanno gli altri. Voi avete i vostri metodi, i vostri tempi, voi siete voi.
Buttarsi e fare tutto quello che ci spaventa – come Violetta nel club dei timidi – può essere un buon allenamento, ma non deve diventare l’obbligo che trasforma in incubo ogni vostra giornata. Già è tanto faticoso vivere, già ogni gesto per gli altri naturale diventa per noi un fardello, una barriera, non sprechiamo tutta l’energia per fare ciò che non sappiamo fare, utilizziamola per sviluppare i nostri talenti, per enuclearli, per coltivarli, convogliamola su attività piacevoli, che possano farci progredire nella vita senza mortificarci, spossarci, sfinirci.
C’è, però, credo, una cosa che ci accomuna tutti: la paura di dar fastidio. Non è mai il momento per telefonare e si rimanda, mentre gli altri, chissà perché, ci chiamano sempre mentre nel giallo stanno per dirti chi è l’assassino, se c’è in tv l’ultima puntata della soap che segui da dieci anni, o quando metti in bocca la prima forchettata delle lasagne di mamma. Non è mai il momento di chiedere un favore o una raccomandazione, non è il caso di spedire il vostro manoscritto a quell’editor che vi hanno segnalato.
Se vi portano la pizza ai peperoni invece che la capricciosa che avevate ordinato, voi ve la mangiate zitti, anche quando siete allergici ai peperoni - perché quello in cucina, poverino, è un ragazzo che lavora, perché capite che magari è stressato pure lui come voi, mentre gli altri commensali - i vostri amici spavaldi, sfrontati - pretendono risarcimenti, scuse e un’altra pizza a tempo di record. Allora vi chiedo: qual è la persona migliore? L’arrogante che dice: “Pago dunque esigo”, oppure voi che sapete comprendere, mettervi nei panni dell’altro, entrare in empatia col cameriere il quale si è confuso, è andato nel pallone e non l’ha fatto apposta a sbagliare? Siete lo stupido che subisce e non sa farsi avanti o non, piuttosto, la persona comprensiva, intelligente, gentile, compassionevole? Imparate a guardare sempre anche l’altro lato della medaglia, il risvolto positivo di tutto ciò che siete e che fate, di ogni vostro comportamento. Non per mettere la testa sotto la sabbia e immaginarvi diversi, ma per esaminare le cose da ogni prospettiva possibile e rivalutare ciò che è da rivalutare. Chiedetevi: se non fossi io, come giudicherei questa azione?
Lo so, ci sono certi giorni che… che ti sembra tutto inutile, quello che fai nella vita pratica, il lavoro, quello che scrivi, che studi. I romanzi, i racconti, i saggi, le recensioni. Ore di studi matti, disperatissimi e inutilissimi. Perché tanto, di là, ci sono sempre i mulini a vento, i muri di gomma silenziosa, quelli che ridono di te, del tuo lavoro certosino e gratuito, quelli che dicono che sei buonista, che devi lasciare il campo ai professionisti, quelli ai quali “fai tenerezza”. Ci vuole costanza a tenere un blog senza che nessuno lo commenti mai, lasciando cadere le parole nel vuoto, come messaggi nella bottiglia. Costanza e ostinazione da mulo cretino, insensibile al dolore. Casomai ti sentisse un editore. Casomai ti seguisse un editor, un giornalista, un cazzo di qualcuno che conta. Invece ti sentono solo quelli che ridono del tuo impegno. Quelli che cercano sempre di convincere gli altri che non valgono per innalzare se stessi. Quelli del critico ergo sum. Quelli che, se ti arrabbi, ci godono e, se ti lamenti, sei una piagnona. O magari gli amici i quali, giustamente, ti dicono: “Lo fai perché ti piace, altrimenti nessuno potrebbe costringerti, lo fai perché lo sai fare.” E con questo ti pagano.
Ed è vero, lo fai perché senti che quella è la parte più vera di te stessa, quello che eri chiamata a fare ma non hai fatto per via della solita, maledetta, fobia sociale. Lo fai perché, mentre leggi, mentre studi, mentre scrivi, mentre ti documenti, stai bene e non ti manca nulla, sei nel tuo. Lo fai perché quelle sono le cose che fanno di te ciò che sei.
Specialmente se siete giovani, so che vi sentite in una palude di fango: la vita scorre e voi non riuscite a saltarci dentro. Gli amici si fidanzano, si sposano, fanno figli, trovano lavoro, avanzano nella carriera, cambiano città e voi sempre lì, al palo, ad aspettare che la soluzione arrivi dal cielo. Se vi va di piangere, fatelo, ma poi respirate e cominciate a guardarvi dentro, chiedetevi quali sono le cose che vi rappresentano, senza le quali la vita non sarebbe più la vostra ma quella di un altro, e muovetevi in quel senso. Seguite l’istinto, il talento, andate nella direzione di ciò che vi attrae, senza strappi, senza violenze, concentrandovi su ciò che state facendo, un passo dopo l’altro, come se esistesse solo quello. Non pensate a niente, non pensate al resto, a tutto quello che non saprete e non riuscirete mai a fare, pensate solo “adesso devo scrivere questa pagina, ora devo fare questa telefonata per me fondamentale, solo questa e nient’altro, ora devo mandare questa mail, poi si vedrà, accada quel che accada, ci penserò.” Da cosa nasce cosa, sempre. E, come diceva Rossella, domani è un altro giorno.
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come me, è affetto da fobia sociale e quindi, pur scrivendo ... La resa dei conti Rieccomi qui, dopo tutto questo tempo, per dirvi che, alla fine, non cambia mai niente, che la fs ti ammazza a venti
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Dall'autocommiserazione a Emily Dickinson
Lamentarsi non serve, più utile analizzare le ragioni degli insuccessi. Secca ammetterlo, ma, alla fine, è sempre tutta una questione di fs. Bisognerebbe andare, salutare, stare in prima fila ai convegni, magari presentare un saggio di persona. Figurati! Io rischierei di rimanerci secca. Lo dicono tutti che ti devi far vedere, telefonare nelle redazioni, stringere amicizie reali con quelli del mestiere. Mi ero illusa che nell’età della litweb si potesse prescindere dal contatto fisico ma non è così. Se non ti vedono, si dimenticano di te e, se scrivi per sollecitare, diventi un fastidio, quindi meglio tacere, sempre e comunque, anche perché, quando poi non rispondono, ti senti umiliata e cretina. La pubblicità martellante, i cartelloni, le grida, il “comprate il mio libro, pagatelo con posta pay”, le foto del libro in tutte le salse e tutte le posizoini, non fanno per me e nemmeno per voi, lo so, vorreste che la gente capisse da sola il valore del vostro lavoro. Un’utopia.
Per farsi leggere, bisogna avere una vita interessante. Puoi farti maltrattare dal marito, ad esempio, puoi prostituirti, assumere droga, diventare alcolizzato, naufragare su un barcone, lasciarti rapire dagli alieni. Ma, dico, almeno moribondi, vorrete essere? Come quella poveretta malata terminale di cancro che ha firmato un contratto con Mondadori prima di andarsene.Invece voi siete solo un attimino social fobici, come me.
Persino sul web mi tengo in disparte, mangio nel mio piatto, come ho fatto per tutta la vita, ballo da sola e la cosa non paga. Non sono popolare in certi gruppi di lettura che contano migliaia d’iscritti ma basi culturali leggere come veli di garza, salottini dove si accumulano e si macinano libri più che competenze e dove, di ciò che si legge, ahimè, rimane ben poco.
Un’amica mi ha detto: “Non parlare di fs, spaventi gli editori”, ma io sono stanca di accampare scuse, di svicolare, di nascondermi, sono evitante e lo dico, metto le mani avanti. Anzi, se ci pensate, dire “sono evitante” fa pure chic, blasé.
Una volta messa la cosa in chiaro, l’atteggiamento che mi aspetterei sarebbe il seguente: “Ok, vai tranquilla, ti chiederemo di fare solo ciò che puoi, per il bene del tuo libro che è anche un nostro progetto. Crediamo nel tuo testo e lo promuoveremo noi al tuo posto, tu potrai farlo comodamente da casa, con il mezzo che sai usare: la parola scritta. Inutile, anzi, controproducente, chiederti quello che non ti riesce e che affosserebbe il lavoro. Sarebbe incoscienza da parte nostra.”
Anche perché, diciamocelo, a chi interessano, ormai, nell’era del digitale, le presentazioni del cazzo nelle librerie del cazzo? Sai quelle con tre gatti annoiati – di cui due sono parenti dell’autore e uno è entrato per caso – che non vedono l’ora che il relatore si distragga per squagliarsela senza aver comprato il libro?
Invece, cari miei, ciò che il vostro legittimo outing susciterà saranno i tre atteggiamenti seguenti.
1. Spavento. La persona alla quale avete esposto lucidamente e consapevolmente il vostro problema vi prende per pazzi, vi crede affetti da qualche patologia contagiosa, si dilegua con un imbarazzato saluto a denti stretti e non ne sentite mai più parlare.
2. Incredulità. La persona con la quale vi confidate, specie se vi è amica, minimizza, ha un approccio scherzoso, da pacca sulla spalla. “Tranquilla, che vuoi che sia, dai, forza, buttati, non è niente, sei fra amici.” Non ha cattive intenzioni ma non ha nemmeno capito un accidente. Oppure, e sono i più insopportabili, si atteggia a guro del “devi lavorarci sopra”. “Un tempo anch’io ero come te”, confida, “ma ci ho lavorato sopra”. Ci hai lavorato sopra? Hai lavorato sopra al timor panico, ai terremoti neurovegetativi, al sudore che ti sfianca, alla tremarella, alla vista che si annebbia, alla lingua che si lega, alle ginocchia che cedono, alla voglia di sprofondare, all’angoscia? Ma vaffanculo, te e il tuo stramaledetto lavoro.
3. Disprezzo. In questa società di vincenti, di ottimisti a tutti i costi, chi esterna le proprie debolezze, i propri difetti, è considerato un fallito, uno che si autocommisera e che va compatito perché fa pena, perché è un povero topo impaurito chiuso nella sua tana. Ed io, invece, vi dico che chi ha il coraggio di delimitarsi, di esternare dubbi e mancanze senza falsa umiltà, è sulla strada della vera autostima e dà una dimostrazione di forza.
Penso che la risposta a questo ultimo punto l’abbia data, ancora una volta, Claire:
“Guarda e passa, Patry. Il giudizio degli altri per noi è tutto, ma tu sai che non deve esserlo. Siamo al mondo 3 giorni in croce, dobbiamo passarli a struggerci per ciò che di noi pensano gli altri? Che si fottano. I tuoi contatti fb, la gente vincente, chi fa tutto per bene, chi è sempre convinto di essere dalla parte giusta, chi vive di superficialità e di niente, e anche quelli del pensiero positivo a tutti i costi. Come mi disse la psicologa, prima o poi arriva il momento di fare i conti con se stessi, per tutti. Un bel vaffanculo. E via!”
Emily Dickinson aveva venticinque anni quando decise di sprangarsi in camera sua e non uscire più, parlava ai pochi conoscenti attraverso una grata e coltivava la sua solitudine come un fiore prigioniero. Ditemi se questa non è fs.
Emily Dickinson è considerata una delle più grandi poetesse di tutti i tempi. Che sarebbe stato di lei oggi? L’avrebbero invitata ai reading e avrebbe rifiutato, avrebbe visto trionfare al suo posto persone sfacciate che non si vergognavano a declamare ai quattro venti i loro versi volgari. Ah, dimenticavo, delle 1775 poesie che scrisse, solo sette furono pubblicate durante la sua vita.
Anche la vostra sensibilità è tesa come una corda di violino, siete senza pelle, con i nervi scoperti e questo, pur se vi fa soffrire, è un pregio, ricordatevelo sempre, è la pasta di cui sono fatti gli artisti. Con ciò, per carità, non voglio dire che io sono Emily Dickinson ma, forse, fra voi qualcuno lo è.
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Felice di non esserci
Calvino parte prima
Ho appena letto vari resoconti sulla premiazione del Calvino 2014.
Felice… felice di non esserci stata, felice e sollevata che non mi abbiano premiato, felice di non addentare le tartine tremando.
Solo a pensarci mi si sono intorcinate le budella: venir chiamati sul palco, parlare del proprio libro? Aargh… naaaa….
So già come andrebbe, dimenticherei anche di cosa parla, quel cacchio di romanzo, proprio com’è successo qualche tempo fa da una libraia che, compassionevole, aveva accettato di tenere i miei testi in conto vendita. Mi ha chiesto, l’ingenua babbana, pensando che fosse normale farlo, qualche delucidazione sull’argomento. Io sono avvampata, con le gote che mi bruciavano, il cuore che usciva dal petto, un ronzio nella testa a coprire ogni suono e ogni pensiero. Non sono riuscita a ricordare nulla. Mi ha preso per pazza.
Non potrei mai, no. .. no… no…
Rammento ancora quando, nel lontano 1990, o forse 91, vinsi il premio Guerrazzi. Mi ero seduta in fondo, naturalmente, lontanissima dal palco. Attraversai la sala gremita sentendo che le ginocchia mi si piegavano, feci un sorriso che sembrava quello della moglie di Fantozzi, ascoltai le motivazioni con una faccia che deve essere sembrata ebete a tutti perché qualcuno disse che pareva scoprissi solo in quel momento le virtù del mio scritto. Tornai a casa in autobus reggendo con due mani l’enorme quadro che avevo vinto, la coppa, il tappetino kilim, le medaglie e gli attestati, sembravo un vucumprà.
Ecco, il Calvino sarebbe il Guerrazzi all’ennesima potenza ed io non potrei, non potrei mai…
Sono stata male anche alla presentazione del libro di Ida Verrei a Napoli. E non dovevo fare nulla, non dovevo parlare io. Ma conoscere lei ed altri amici di Fb mi ha mandato in catalessi. Ascelle puzzolenti, maglioncino infeltrito dal sudore, autoflagellazione notturna in albergo partenopeo per la vergogna a suon di “me meschina, me tapina”.
No, no…
La dimensione che più mi si addice è quella dell’anno scorso, quella del semplice segnalato anche se poi non porta a nulla. Ma quest’anno i romanzi in concorso sono troppi e non ci sarà nulla per me, nemmeno ‘sta piccola, inutile, sterile soddisfazione.
Calvino parte seconda.
Infatti. Non c'è trippa per gatti. Mi sento in un vicolo chiuso, senza uscita. Devo smettere di credere in quello che ho fatto finora e non mi riesce, continuo a vivere come se, un giorno, dovessi diventare una scrittrice ricca e famosa, come se dovessi possedere chissà quale talento esplosivo e lampante, e non, invece, una cazzo di fobia che m'impedisce persino di dire agli amici che scrivo. (Cosa perfettamente inutile visto che se ne sbattono altamente, non leggono nulla di mio e, nei rari casi in cui è accaduto, hanno detto apertamente che il testo non gli piaceva per niente. Credo di essere l'unica al mondo ad avere amici sinceri e del tutto non compiacenti. Madonna come sono fortunata.)
Autostima
Potrei dirvi che parlare di voi in termini di sfiga è sbagliato, che l’atteggiamento da tenere è l’opposto: porsi come vincente anche quanto non ti si fila mai nessuno, vendersi bene, vendere fumo. Ma io credo nella verità, nell’essere se stessi, che non vuol dire non vedere i propri difetti e non cercare di migliorare, ma piuttosto rendersi conto delle proprie debolezze e dei propri punti di forza. Lì starebbe l’autostima, se uno l’avesse. Voi dovete sforzarvi di averla, oltre e nonostante la fs.
Intanto, se ci fate caso, la maggior parte di noi fobici sociali è intelligente e sensibile. Non che queste qualità siano la causa della malattia, ci sono infiniti altri fattori, come la genetica, l’ambiente in cui si è stati allevati, la fondamentale figura materna, i difetti fisici. Ma chi è sensibile e dotato d’intelletto fine, ha più probabilità di essere colpito da questo disagio di chi è coriaceo e scemo. Come per l’emicrania, d’altronde. Se non hai la testa, non può farti male.
Forse proprio perché in tante cose siamo migliori degli altri, una parte di noi lo riconosce e vorrebbe primeggiare, vorrebbe che le qualità emergessero e prova un’ansia infinita da prestazione, sentendosi giudicata e dando un peso enorme a codesto giudizio, come se fossimo a ogni istante sotto esame. Un esame che non finisce mai, un esame al quale il mondo intero ci sottopone.
Innanzi tutto bisogna ridimensionare il senso d’inadeguatezza, quello che ci fa considerare non all’altezza dei nostri compiti. Mettetevi lì, con pazienza e con calma - non scegliete uno dei giorni peggiori, uno di quelli in cui vi sentite incapaci persino di respirare e avete voglia di scomparire dalla faccia della terra, ma nemmeno uno di quelli in cui qualche piccolo successo vi ha esaltato - mettetevi lì, ripeto, in un giorno neutro e scrivete su un foglio tutto ciò che sapete fare e ciò che non sapete fare. Di quello che sapete fare, valutate poi il grado di capacità: livello medio o alto. Tipo: non so fare i conti a mente (accade a molti di noi) ma so analizzare un testo scritto, non ho senso dell’orientamento ma sono portato per le lingue, sono una schiappa nei giochi di squadra ma so sciare etc etc. In questo modo comincerete a fare una cosa di cui parleremo più avanti, che impareremo insieme a fare, ma che è fondamentale: circoscrivere il problema.
Riconoscete poi quali di queste vostre capacità resiste a tutti gli assalti e quale, invece, soccombe a causa dell’ansia e sotto gli sguardi della gente. Ad esempio io non ho problemi a esprimermi, sono portata per l’italiano e per le lingue, le parole mi vengono con facilità ma, quando entro nella spirale dell’attacco di fs, non ricordo nemmeno i termini più semplici, mi si annebbia la vista, mi si oscura il cervello, mi vanno in tilt i neuroni e, con chi mi conosce poco, faccio la figura dell’ignorante.
Se vi guardate intorno, vedete tonnellate di faccia tosta. Incompetenti semi analfabeti che scrivono romanzi, che nel curriculum mettono “scrittore”, che si ergono a critici, che presentano libri, che aprono salotti letterari, che organizzano incontri ed eventi ai quali arrivano senza nemmeno essersi preparati una scaletta di argomenti o di possibili risposte alle domande. Ma, d’altra parte, basta pensare ai nostri parlamentari. Intervistati, non sanno dire cos’è lo spread, cos’è un’agenzia di rating, a quanto ammonta il debito pubblico e fanno le capriole con i congiuntivi. Provate a immaginarvi al posto di quel parlamentare ignorante e strapagato, pensate alla faccia di bronzo con cui risponde a una domanda che non sa davanti a milioni di telespettatori? Che fareste al suo posto? Senza contare quei letterati e critici che, di fronte a una telecamera, fingono di aver letto e giudicato un testo che poi si rivelerà addirittura inesistente? È successo al Salone del Libro di Torino. Non desiderereste che una buca vi si aprisse sotto i piedi per saltarci dentro e sparire per sempre? Non vi crocifiggereste per tutta la vita con l’infame ricordo di quel momento d’incommensurabile vergogna? Eppure, dopo due giorni, eccoli lì sorridenti a ricevere l’ennesimo incarico con prebenda.
Lo so, non vi raccapezzate, il mondo vi sembra alla rovescia, e il magone cresce. El magun, come diceva Albertone. Ma voi dovete essere forti e onesti con voi stessi, dovete avere il coraggio di riconoscervi anche le qualità che possedete, dovete ritagliarvi il vostro posto in questo mondo di sfacciati, di arroganti, di presuntuosi, di palloni gonfiati.
Pian piano, puntata dopo puntata, vedremo insieme come. Servirà a voi, spero, ma soprattutto a me.
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Claire
Un giorno ormai lontano, un famoso giornalista mi ha detto che avrebbe volentieri parlato con me e mi sarebbe venuto a trovare nella mia città per organizzare qualcosa di letterario insieme.
Un babbano (ricordatevi che per babbano intendo “persona non affetta da fs”) si sarebbe gonfiato come un pallone all’idea, avrebbe fatto la ruota, avrebbe pensato a dove e come accogliere l’ospite e sfruttare al meglio la potenziale amicizia.
Io mi sono sentita paralizzata come un coniglio davanti ai fari di un’auto che sta per investirlo. Non ho detto più nulla, non ho più risposto ai messaggi, casomai costui insistesse. Inutile dire che non se n’è fatto niente, che cotanto personaggio è venuto nella mia città senza che c’incontrassimo e la nostra amicizia non è mai decollata.
Questo è un esempio di come uno scrittore social fobico non possa attuare quelle comuni strategie di autopromozione che comportano l'interazione e la relazione. Ovviamente, insieme al timor panico e alla voglia di fuggire da una situazione sociale che terrorizza, oltre alla frustrazione per l’ennesima occasione non sfruttata, c’è sempre il senso di colpa per la propria inadeguatezza, per la mancanza di coraggio e di forza, per l’incapacità di fare ciò che per gli altri sarebbe semplice. (E questo, ovviamente, nella vita di un social fobico ha conseguenze ancora più nefaste della non pubblicazione dei suoi libri, si veda l’impossibilità di guidare la macchina, o, come nel mio caso, di mantenermi, ma di questo parleremo più avanti.)
Ecco cosa mi scrive, a proposito dell’episodio col giornalista, l’amica di cui vi ho detto che, d’ora in avanti, chiameremo Claire. Penso che non avrei potuto trovare parole migliori per descrivere quello che si prova e le difficoltà del nostro vivere quotidiano.
Patrizia, te lo diranno tutti che devi andare e devi chiamare, perciò io non lo farò… nemmeno io andrei! Sarei felice per te, vorrei che potessi avere le soddisfazioni che meriti; ma se dev’essere solo ansia e malessere, perché sottoporsi a questo stress? Il tuo atteggiamento sarà incomprensibile a molti (come il mio) ma non a me. Io so come ti senti: ansia a mille, che si placa solo quando decidi di dire no. E, subito dopo, senso di colpa per aver rinunciato anche a questo. Come ti ho già detto, assolviamoci; accettiamo di non riuscire a fare la scelta giusta sempre; non possiamo impazzire d’ansia. Se agli altri tutto viene facile, a noi no e non è in nostro potere cambiare atteggiamento, checché ne dicano gli altri (“Perché non vai?” “e dai, buttati, affronta, rilassati, sono solo cose che ti metti in testa tu!”).
Ieri ho avuto un attacco d’ansia; ed ero a casa mia, a tavola, senza niente da fare e in piena vacanza. Non ci mettiamo in testa niente, è la nostra testa che chimicamente funziona così; e anche se stiamo qui ad analizzarci psicologicamente, trovando mille cause del nostro disagio, fatto sta che c’è e ci dobbiamo convivere. (Claire)
Convivere è la parola magica. Convivere con la fs come si fa con la pressione alta, con l’emicrania, con l’artrite. Convivere con una malattia cronica pronta a riacutizzarsi quando meno te lo aspetti e, soprattutto, quando te lo aspetti eccome! (Vedi crisi di ansia anticipatoria).
Ed è pensando a Claire che ho scritto questo racconto non particolarmente bello e difficile da apprezzare per chi non capisce che l’argomento è la fs. Il racconto è dedicato a Claire e a me, a quanto la fs ci rende gemelle, nonostante la differenza di età e la lontananza.
Io e te
Omozigote gemella mia che hai vent’anni di meno, parli milanese meneghino mentre io sto qua con l’accento de Roma pesante, sei vissuta nell’azoto liquido, ma non sei abituata al freddo, lo odi quanto me. Quando ti hanno scongelata non sono venuti a dirmelo, eppure ti ho sentita, sei una parte di me. Sei me. Tu ed io siamo uguali, ora che ti vedo, che sei qui davanti, lo so. Tocco la tua mano ed è la mia mano di vent’anni fa, piccola, con unghie corte, piccoli peli dorati sul dorso. Oggi le mie unghie sono rigate, mio marito dice che uso troppa candeggina. Tu hai ancora dita rosee da studentessa. I tuoi genitori ti tengono nella bambagia, vivi nell’oro. Si vede dalla borsa fighetta, dagli occhiali firmati. Sei contenta, mi stai dicendo, cresciuta in una camera piena di bambole, di giocattoli che un po’ facevano compagnia e un po’ soffocavano. A te è stato dato quello che a me non era concesso, tu fai tardi la sera, tu spinelli e bevi fino a vomitare.
Due embrioni nati insieme, ci diciamo, uno congelato perché non era il momento opportuno, poi rimandato, quasi dimenticato, infine donato ad una famiglia del nord, mamma e papà dovevano lavorare e desideravano tanto un figlio, sì, ma solo uno.
Io ho sempre saputo di te, perché mamma poi si è pentita. A volte la vedevo che guardava fuori della finestra, come a cercarti sui tetti, gatto perduto che non saresti tornata con un fischio.
Siamo uguali, sorella mia, anche se mia madre e mio padre - nostra madre e nostro padre - erano operai e, a mia volta, ho sposato un metalmeccanico. Siamo uguali anche se tu prenderai la laurea che a me non è toccata.
Lo vedo dal rossore ogni volta che i miei occhi ti fissano, da come volti lo sguardo se ti faccio una domanda e sembra che nelle punte delle tue scarpe stia tutto l’universo. Lo stesso accade a me, se a chiedere sei tu. Genetica o ambiente? Chissà? Certe condanne restano appiccicate anche dopo vent’anni, anche se diventi un’altra persona. Solo io so quello che tu sai, quello che soffri, quando la tua mano trema, come adesso, quando stringi il telefono con dita sbiancate, col palmo sudato, quando ti fai coraggio e provi a raccontare la barzelletta che pareva così facile, così raccontabile, prima che tutti gli occhi ti si appuntassero contro, ti trafiggessero.
Annuisci, ti esce un filo di voce, mi dici: “Sai, l’altro giorno sono passata in mezzo ad un capannello di gente…” poi la voce si strozza, sbatti le palpebre, troppo velocemente come una specie di tic.
“Basta, basta”, mormoro. Non voglio che tu stia male, so cosa si prova, quando sembra di non avere più niente da raccontare e che la tua vita sia una scatola vuota, ma tu insisti, ormai vuoi liberarti, hai capito che ho capito: “Ho perso tutti gli amici così…”
Abbasso gli occhi perché sto arrossendo, ti stringo a me. Se arrossisco non ammazzo nessuno e vorrei dirtelo, anzi vorrei gridartelo, ma non ti conforterebbe. Sei rigida, dura.
“Tu sei ancora in tempo”, dico, “per me è tardi, ma tu non ti arrendere. Mai.”
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come me, è affetto da fobia sociale e quindi, pur scrivendo ... La resa dei conti Rieccomi qui, dopo tutto questo tempo, per dirvi che, alla fine, non cambia mai niente, che la fs ti ammazza a venti
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Il mio famoso outing
Questa sezione è dedicata a quelli che, come me, soffrono di fobia sociale e, come aggravante, scrivono pure.
Avete presente lo scrittore che si lamenta perché l’editore non gli organizza abbastanza presentazioni? Ecco, la mia categoria, la categoria degli scrittori socialfobici, si dispera per il motivo opposto, perché all’idea di sedersi in una libreria, sorridere alla platea e cominciare a parlare di sé e dei suoi libri con tutti gli occhi puntati addosso, le budella gli si intorcinano a tal punto che diventa difficile districarle.
Se siete socialfobici che cos’è la fobia sociale – d’ora innanzi la chiameremo confidenzialmente FS – lo sapete già, se non lo siete, questa sezione non fa per voi.
Comincerò riproponendovi il mio famoso outing, un pezzo che scrissi anni fa, in un momento di disperazione. A suo tempo fece scalpore e suscitò un putiferio di commenti: gente come me che capiva e simpatizzava ma anche tanti bravi dottori che pretendevano di dare consigli.
Ricordate i “babbani” di Harry Potter, i normali che non s’intendono di magia? Ecco, anche per la FS è lo stesso: non illudetevi, i normali non vi capiranno mai.
Dunque scrissi questo
O muoio qui, ora e per sempre o devo comunque vivere ed andare avanti.
L'unica possibilità è venire allo scoperto. Che chi porta alla luce la propria omosessualità, chi l'anoressia, chi la bulimia, chi la droga. Io sono una socialfobica.
Chi non conosce questa malattia, chi non la sperimenta sulla propria pelle, non sa quanto si soffre. In giro non se ne parla, solo io so quanto patisco.
Quelli che per gli altri sono normali gesti della vita quotidiana, gesti inconsapevoli, meccanici, per me sono ostacoli sovrumani: firmare sotto gli occhi degli altri mentre la mia mano trema, lavorare se qualcuno mi osserva, telefonare, parlare con due persone insieme, raccontare una stupida barzelletta, salutare una amica per strada, chiacchierare con qualcuno che viene a trovarmi sul posto di lavoro, passare in mezzo ad un capannello di gente sul marciapiede, si trasforma in un tormento indicibile.
Entro in una spirale d'ansia, mi si scatena un terremoto neurovegetativo, sudo freddo, tremo, mi riempio di chiazze, mi si seccano le fauci, mi si abbaglia la vista, mi monta il mal di testa, non riesco più ad articolare le parole, a pensare con lucidità, a ricordarmi quello che volevo dire. Vedo tutto nero e perdo il filo del discorso. Mi sembra di non aver niente d'interessante da raccontare e che la mia vita sia una scatola vuota. L'unica cosa alla quale riesco ancora a pensare è che non voglio che gli altri se ne accorgano. Non lo voglio con tutta me stessa. Sono disposta a sparire, a sprofondare, a morire all'istante, a perdere per sempre quelle persone. Pazienza se mi sono care, pazienza se le amo, se ne ho bisogno per vivere.
E, più ci penso, più si vede. Arrossisco violentemente, mi muovo goffamente, a scatti. L'impaccio e l'imbarazzo trasudano da tutti i pori, inciampo, faccio cadere gli oggetti intorno a me, appaio rannuvolata e scura in volto. Divento antipatica, sembro arrabbiata mentre sono solo spaventata ed infelice. Do il peggio di me.
Il mio disagio è così palpabile, così evidente, che si comunica agli altri, li mette in ansia, li fa scappare. Perdo tutti gli amici in questo modo. E, più sono amici, più tengo a loro, più mi sento distrutta dal loro giudizio.
Eppure, senza falsa modestia, so di essere una persona intelligente, colta, con una discreta parlantina, ironica e spiritosa. Non sono nemmeno timida. Il fobico sociale non è timido, ma ha terrore del giudizio degli altri, soffre di ansia da prestazione. Se mi rilasso sono allegra, vulcanica, chiacchierona, persino esibizionista. Ma le occasioni per essere rilassata sono sempre di meno. Sto peggiorando.
Per rilassarmi devo essere profondamente immersa e concentrata in ciò che sto facendo, tanto da dimenticarmi chi ho intorno. Oppure devo bere un bicchiere di vino.
Capisco chi non ce la fa più e s'impasticca per non impazzire. Io non m'impasticco e così soffro tanto da ammalarmi, da non riuscire a più lavorare, da non vedere più nessuno.
Non serve a niente dirsi che i veri problemi sono altri, che la gente sopporta con coraggio e dignità lutti, malattie e povertà. Serve solo a stimarsi di meno.
Non serve a niente dirmi che, se arrossisco, non ammazzo nessuno, serve solo a rimpiangere le occasioni perdute.
Da allora è passato molto tempo e con la FS ho imparato a convivere, grazie anche a un’amica che ha lo stesso problema e con la quale interagisco in rete.
Ma di questo vi parlerò un’altra volta.
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come me, è affetto da fobia sociale e quindi, pur scrivendo ... La resa dei conti Rieccomi qui, dopo tutto questo tempo, per dirvi che, alla fine, non cambia mai niente, che la fs ti ammazza a venti
http://signoradeifiltri.altervista.org/scrittura-e-fobia-sociale.html