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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Patrizia Poli, "Signora dei filtri"

25 Ottobre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #recensioni, #poli patrizia

 

 

 

Signora dei filtri

Patrizia Poli

 

Marchetti Editore, 2017

 

 

Signora dei filtri è la rivisitazione del mito degli Argonauti. Dico rivisitazione perché Patrizia Poli fa una cosa a mio parere giustissima: lo umanizza. Il mito classico presenta un mondo fatto di divinità ed eroi in cui non c'è posto per l'essere mortale. Le Argonautiche, così come l'Iliade, l'Odissea, non fanno eccezione a questa regole, e tutto il pantheon gioca un ruolo particolare nell'evolversi delle disavventure dei protagonisti. L'autrice elimina questi elementi con abilità, trasformando il tutore di Giasone, il centauro Chirone, in un uomo deforme e sfigurato, o convertendo il viaggio di Orfeo nell'Ade in cerca dell'amata Euridice in un sogno. Con questi semplici passaggi l'autrice elimina le componenti sovrannaturali e riporta al centro della scena gli uomini e le donne di questa storia.

Ecco quindi Giasone, figlio di re, spodestato dallo zio, cresciuto in una caverna con un essere dall'aspetto ripugnante e più simile a un cavallo che a un uomo a fargli da tutore. Spinto da quest'ultimo, ritorna nella città natale per rivendicare il trono del padre, ma senza convinzione. Percepiti i dubbi del nipote, lo zio gli propone quindi un patto, un modo per guadagnarsi la gloria e il rispetto del popolo, oltre alla possibilità di ottenere un grande tesoro con il quale finanziare il suo futuro regno: conquistare il tesoro della città di Ea, governata dal ricchissimo re Eeta.

Nella città di Ea Giasone troverà Medea, figlia testarda e poco amata con la passione per le erbe, il culto della dea e un buona dose di rispetto per una straniera che diventa tutrice e madre adottiva e le insegnerà ogni cosa, almeno fino al giorno in cui il padre, nei suoi eccessi di avarizia e xenofobia, la fa lapidare. Distrutta dalla perdita dell'unica persona da cui si sentiva amata, Medea troverà in Giasone uno strumento per la sua vendetta, ma anche qualcuno da amare in modo viscerale, al di là di ogni ragione.

Ovviamente Giasone e Medea si muovono in mezzo a una moltitudine di personaggi secondari, e sarebbe impossibile dare spazio a tutti. Per questo motivo solo Eracle e Orfeo nelle pagine in cui il punto di vista è Giasone, Eeta e Morgar in quelle dedicate a Medea sono sviluppati, mentre tutti gli altri sono ridotti al ruolo di comparsa o poco più. La ricostruzione storica è buona, compresa di folklore, superstizioni, sacrifici agli dei e lettura degli auspici nel volo degli uccelli. Ma sono i personaggi a brillare più di ogni altro aspetto, ognuno dotato di un proprio carattere, a volte molto complesso e stratificato in molte sfumature, nelle quali è facile riconoscersi.

Altra cosa apprezzabile, e diretta conseguenza del tentativo di umanizzare il mito, il linguaggio semplice e diretto della narrazione, senza cercare inutili complicazioni ma senza affidarsi a un linguaggio troppo basso e inappropriato a personaggi per la maggior parte provenienti dalle fasce nobili della società, per i quali un lessico troppo basso sarebbe sembrato fuori luogo.

L'unica nota negativa è la rappresentazione degli spazi e degli ambienti. In un mito si ha sempre l'impressione che le vicende si svolgano in un non-luogo al di fuori dalla realtà, nel processo di umanizzazione del mito sarebbe importante dare una definizione accurata della scena, così da permettere al lettore di creare un'immagine mentale delle città e, in questo caso, della nave. Purtroppo gli unici due luoghi dove questo viene fatto bene sono la zona selvaggia dove è cresciuto Giasone e la città di Ea con i suoi dintorni, fino alla palude. Tutti gli altri luoghi rimangono in un alone di mistero tipico del mito che rovina parzialmente l'umanità dei personaggi. In particolare mi sarebbe piaciuto vedere una descrizione migliore della nave Argo, sia perché il gruppo passa molti mesi a bordo, sia perché Giasone prova un grande affetto per la nave.

Un dettaglio all'interno di un lavoro comunque ottimo, scorrevole e facile da leggere, in una rivisitazione molto umana di uno dei più famosi miti della storia greca. I nomi sono quelli di eroi leggendari, ma i personaggi vivono passioni comuni a tutti gli uomini e le donne, e in questo si trova la bellezza degli Argonauti del XXI secolo: gli eroi non sono poi così diversi da noi.

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Laboratorio di Narrativa: Danilo Napoli

24 Ottobre 2014 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #racconto, #ida verrei, #poli patrizia

Laboratorio di Narrativa: Danilo Napoli

Racconto dove si mescolano surreale ed orrore, fantasia e verosimile, in una dimensione temporale che spazia da un futuro possibile, mai vissuto, ad un presente in cui il raccapriccio non lascia scampo e annulla sogni e prospettive. Resta solo il delirio premorte. Una giovane e bella donna in carriera, un ascensore che si blocca, uno specchio che rimanda immagini del passato. E poi quel luogo, la cucina-mattatoio dove si consuma l’orrore che impedirà per sempre il ritorno al futuro. Un omicidio di quelli che i cliché della carta stampata e della televisione definiscono “efferati” e di cui, purtroppo, sono piene le cronache: uno zio pazzo che massacra sorella e nipote, le fa a pezzi fino a renderle irriconoscibili e le cucina in un pentolone, un cane che tenta di salvare almeno la bambina senza riuscirci. Tutto questo è ahimè abbastanza scontato nella sua orrifica “normalità” e fa da antefatto a qualcosa di fantastico che avverrà o, meglio, dovrebbe o potrebbe avvenire nel futuro.

L’autore descrive al rallenty le sequenze più truci e cruente, registrando percezioni, suoni, odori, colori, in un crescendo di angoscia, che prende lo stomaco, offusca la mente e ti fa desiderare che finisca al più presto lo strazio della narrazione, ma anche, inaspettatamente, ti spinge a continuare, per vedere come “va a finire”, sino alla conclusione, inevitabile, già intuita.

Lo spunto è interessante ma necessiterebbe di maggiore sviluppo per non apparire forzato. Bravo l’autore a creare l’attesa, il senso di ansia insopportabile che cresce, bravo a connotare personaggi e atmosfere, che si integrano e determinano il climax del racconto, ma sono da potenziare i collegamenti fra presente e futuro, è da vedere se sia davvero il caso di orientare la storia dalla parte di un commissario dai tratti inflazionati il quale, però, si limita a registrare l’accaduto senza metterci del suo. Ultimo ma non ultimo, il cane sembra avere un ruolo fondamentale ma poi sparisce.

Insomma, qualcosa di positivo c’è, in questo “REC” di Danilo Napoli, oltre allo stile pulito e corretto, ed è la voglia che infonde nel lettore di andare avanti, di sapere cosa succede nel finale e come esso si colleghi all’inizio. Pare una banalità questa ma, al giorno d’oggi, è diventato molto difficile trovare una novella, ed anche un romanzo, che stimolino interesse, voglia di voltare pagina. Peccato che la storia si perda o, meglio, risulti incoerente e non del tutto attinente con il suo stesso svolgimento.

Patrizia Poli e Ida Verrei

REC.

Sara Valliani entrò nell’ascensore dell’edificio alle 09.00 in punto.

Puntuale, come sempre.

D’altronde, per lei era deformazione professionale, essere puntuale. A 35 anni era considerata uno dei migliori ingegneri del pianeta. Lavorava in un paesino della California ad un progetto segretissimo per conto della NASA, in un edificio di dieci piani che non presentava alcun nome all’esterno. Era il sogno di ogni ingegnere lavorare in un luogo simile. I privilegi non finivano mai, l’area ristoro gratuita era paragonabile ad un ristorante a 5 stelle e gli stipendi erano elevatissimi, addirittura maggiori di quelli dei migliori calciatori internazionali.

Nessuno avrebbe mai pensato ad un banalissimo blocco dell’ascensore, tantomeno Sara.

Pigiò il pulsante che l’avrebbe portata al suo studio al quinto piano e si guardò allo specchio. I costosissimi trattamenti anti-invecchiamento stavano dando i loro frutti. La sua pelle era perennemente abbronzata e le rughe sembravano lontane anni luce. Gli occhi erano lucenti, azzurri, in gradevole contrasto con i capelli neri, che portava lunghi sulle spalle e piastrati. Era alta un metro e settanta e indossava un elegante, ma comodo, vestito nero. Sì, poteva considerarsi una donna molto piacente. Nonché intelligente.

Sorrise alla sua immagine allo specchio e controllò il suo Android di ultima generazione.

Linea inesistente.

Molto strano. Quegli ambienti erano altamente tecnologizzati e permettevano la ricezione della linea telefonica ovunque.

Solo chiamate d’emergenza.

Doveva essersi verificato un guasto, o qualcosa del genere.

Fu al settimo piano che l’ascensore si bloccò completamente. Nessun rumore, nessuna voce elettronica che avvisava del guasto e si collegava con chi di dovere per far ripartire l’aggeggio.

Nulla.

‹‹Oh, Cristo›› sussurrò. ‹‹Adesso devo aspettare che mi tirino fuori di qui e non ho nemmeno avvisato del ritardo.››

Fu in quel momento che la luce si spense. ‹‹Anche al buio, adesso. Ottimo!›› commentò ironicamente.

Si grattò le guance e le palpebre.

“Oddio, non dirmi che il fard che ho acquistato stamattina mi fa allergia” pensò.

Fece luce sullo specchio con il cellulare per guardarsi in viso e lanciò un debole urlo.

Il viso era ringiovanito di più di vent’anni, ed ora somigliava ad una tredicenne con qualche chiletto di troppo.

‹‹Che cosa sta succedendo?›› chiese allo specchio, balbettando.

Ma non ottenne risposta.

Continuò a guardare stupita quel volto delicato e paffuto, che ormai non le apparteneva più da tempo immemore, fino a quando l’immagine lanciò un grido, un urlo sovrumano, qualcosa che non aveva mai sentito in trentacinque anni di vita. E anche l’immagine si contorse in una creatura strana, quasi demoniaca.

Poi lo specchio diventa una cucina, e la cucina un mattatoio.

E Sara Valliani non è più Sara Valliani. O, almeno, non lo è tutta intera.

Sono circa le 14.00 e sto tornando da scuola. Sono felice per due motivi: innanzitutto perché ho preso dieci in matematica, con i complimenti della professoressa (anche se quelle buone a nulla di Daria e Felicia mi lanciavano sguardi carichi d’invidia e mi chiamavano “sfigata”); e poi perché mia madre mi ha finalmente affidato le chiavi di casa. Era ora, a tredici anni!

Così, apro la porta con le mie chiavi e mi ritrovo davanti Jack, il mio fedele pastore tedesco, che mi abbaia. Non si era mai comportato in questo modo prima. Il suo abbaiare è aggressivo. Non mi suona come un saluto, ma come un avvertimento.

‹‹Jack!›› urlo. ‹‹Che diavolo stai facendo?››

Jack ringhia. È fermo nel corridoio e non mi lascia entrare.

Resto ferma sul tappetino dell’entrata, a due passi esatti da Jack, che ora ha ripreso ad abbaiare.

‹‹Mamma?›› chiamo. ‹‹Jack mi sta ringhiando!››

Nessuna risposta.

Inizio ad avere paura.

La vescica preme, deve essere svuotata. Jack non ha mai fatto del male ad anima viva, nemmeno ad una mosca, si può dire. Così, lo ignoro e muovo un passo verso il corridoio.

Jack ringhia di nuovo.

‹‹Si può sapere che cos’hai?›› chiedo, ma non finisco la domanda che comincia a mordermi la felpa blu elettrico che ho indossato stamattina.

‹‹Lasciami!›› urlo. ‹‹Mamma, aiutami!››

Ancora nessuna risposta. L’unica cosa che sento è il ringhiare di Jack mentre mi strattona la maglia sempre più forte.

‹‹Jack, ora basta!›› urlo.

Jack molla la maglia e indietreggia.

Ricomincio a buttare fuori l’aria compressa a causa dell’ansia. Ora posso sentire il battito del mio cuore pulsarmi nelle tempie. Sento anche una puzza strana, ma inizialmente non ci faccio molto caso.

Però faccio caso alla paura che mi ha invaso e che, probabilmente, mi ha fatto sfuggire qualche goccia di urina dalla vescica compressa nei pantaloni che mi calzano leggermente stretti.

Jack resta a guardarmi in silenzio per una manciata di secondi, poi ricomincia ad abbaiare e a ringhiare nella mia direzione. Decido di ignorarlo di nuovo (forse si è impressionato per qualcosa, ma deve pur passargli!), quindi mi giro per chiudere la porta di casa.

Qualcosa mi tira violentemente lo zaino, ringhiando.

‹‹Jack! Ancora?››

Sembra quasi che voglia spingermi fuori di lì. Sento le unghie sui miei jeans e la sua stazza sul mio zaino. Mi appoggio alla porta per non perdere l’equilibrio.

‹‹Mamma! Aiuto!›› urlo di nuovo, ma sono troppo allibita dal fatto che Jack mi abbia tolto quasi completamente lo zaino dalle spalle per rendermi conto che mia madre non mi ha risposto nemmeno questa volta.

Adesso lotto con Jack per il possesso dello zaino. Lui si arrende e abbaia più forte di prima, poi mi supera ed esce fuori.

Resto a guardarlo, confusa.

Jack abbaia ancora, ma non ringhia più. Mi sembra diverso anche il suo modo di abbaiare, non più rabbioso, ma quasi… supplichevole.

‹‹Che sta succedendo, Jack?››

Continua ad abbaiare ed io, ferma, a guardarlo. Poi comincia a correre verso la strada.

“Magari vuole giocare”, penso, senza esserne granché convinta. “Chiederò a mamma”.

Mi volto e sento di nuovo quella puzza strana che non riesco a definire, ma neanche stavolta ci faccio molto caso.

‹‹Mamma?›› chiamo. ‹‹Sono tornata. Ma che aveva Jack?››

Nessuna risposta.

‹‹Mamma, dove sei? Jack mi ha aggredito e poi è uscito di casa abbaiando. Ma cosa gli hai dato da mangiare?››

Ancora nulla.

La prima cosa che faccio è soddisfare il mio bisogno impellente di orinare. Sollevata, esco dal bagno e attraverso il lungo corridoio verso la cucina.

‹‹Zio Oscar?››

Zio Oscar è il fratello di mia madre, e vive con noi nel nostro modesto appartamento in provincia di Salerno. In un certo senso ha rimpiazzato mio padre, che è fuggito con una ucraina lo stesso giorno in cui nacqui. Dove sia andato, ancora non si è capito.

Zio Oscar non è stato molto bene negli ultimi dieci anni. È continuamente in viaggio perché deve curarsi, dice la mamma. Va e torna molte volte dalla comunità in cui è rinchiuso per disintossicarsi. Contemporaneamente, è assistito da diversi medici, che vengono sempre qui a casa per curarlo. Ce n’è una fissa che gli sta sempre dietro. È una psicologa, mi pare. Ah, no, è una psichiatra. Forse.

‹‹Perché la psichiatra, mamma?›› chiesi un giorno.

‹‹La droga gli ha mangiato il cervello, tesoro›› mi rispose. ~~È diventato matto.››

‹‹Matto come?››

‹‹Matto. Non so se potrà vivere ancora con noi›› disse mia madre, con le la-crime agli occhi.

‹‹Come mai?››

‹‹Dicono che è pericoloso. Molto pericoloso.››

Mi dirigo verso la cucina, ma non sento il solito odore di qualcosa di buono cucinato da mia madre o il suono proveniente dalla televisione che guarda mio zio. Quello che le mie narici avvertono è quella puzza strana e acre di prima, come se… non lo so, non riesco a fare paragoni perché non mi era mai capitato prima di sentire un simile odore. Ma è molto più forte e sgradevole di prima.

‹‹Mamma?››

Non mi sente, ma di sicuro è in cucina. Forse ha gli auricolari del mangianastri nelle orecchie, con i Queen a tutto volume. E probabilmente avrà bruciato qualcosa in cucina senza accorgersene.

Ma non credo molto a questa ipotesi. In primis, mamma adora cucinare e non lo fa mai con la musica, poiché può distrarla. E poi… semplicemente non è un odore di bruciato, ma qualcosa di diverso.

L’unico modo per scoprire cosa sia quell’odore e perché né mia madre né mio zio mi rispondono è andare in cucina, poi in salotto poi nelle camere.

‹‹Mamma?››

La porta della cucina è chiusa.

La apro, ma mia mamma non è lì. O, almeno, non è lì tutta intera.

È sul tavolo, a pezzetti.

Ricordavo che la cucina avesse le pareti bianche, ma adesso sono quasi completamente rosse, macchiate di un liquido misterioso che sembra essere sprizzato violentemente.

E l’odore… l’odore proviene da lì. Da mia madre. Mi si è subito impregnato nei vestiti.

Rallenty. I dettagli che ora registro sono a rallenty. Forse è il trauma che ho inconsciamente subito all’ora di pranzo di un qualsiasi sabato invernale.

Il trauma di vedere a pezzi la propria madre.

E così annoto mentalmente alcuni dettagli che poi finiranno registrati insieme ad altri deliri. Ad esempio, appunto nel mio cervello l’occhio mancante di mia madre, il sinistro, che sta rotolando sotto al tavolo. Gli arti inferiori e superiori, impegnati in una cottura a fuoco vivo sui fornelli ai quali mia madre avrebbe dovuto preparare il pranzo.

Resto immobile sull’uscio, incapace di compiere un solo passo. Ma continuo a registrare nella mia mente dettagli. Insignificanti, ma non posso farne a meno.

E quindi, ecco che la mia memoria incassa il ricordo permanente dell’odore che emana mia madre, un tempo maniaca della pulizia e casalinga perfetta. Il cervello e il suo colore e il sangue che impregnava i capelli e le labbra mozzate e le pareti sporche e quella che sembra una spalla e un capezzolo che spunta dal pentolone e l’odore che diventa più forte e le pareti spruzzate di sangue e anche la cucina decorata di rosso e il rosso che è il mio colore preferito e lo spezzatino che ho sempre odiato e il tagliere e il coltello a fianco a lei e la lama che non è sporca di sangue e un movimento strano alle mie spalle.

È un sogno, ne sono sicura. Chiudo gli occhi e li riapro, ma quella visione terribile è sempre lì.

È uno scherzo, ne sono sicura. Ma l’odore mi dà la nausea e mi fa girare la testa.

Provo il vomito. Sento la bile quasi ribollire nel mio stomaco e salirmi fino in gola, ma non posso fare a meno di registrare altri dettagli, come i denti che non ci sono più e che io cerco e che trovo con lo sguardo sul pavimento e il tappetino davanti alla cucina e altro rosso e rosso davanti agli occhi e rosso che adesso odio e rosso che adesso basta così.

Mi volto per andare in bagno, ma la strada è sbarrata da un uomo magro, al-to, imponente, con i vestiti macchiati di sangue.

Mio zio Oscar.

I suoi occhi sono sbarrati e sul suo volto c’è un ghigno terrificante. Ma ancora più terrificante è coltellaccio che impugna nella mano sinistra e, chissà perché, un registratore nella mano destra.

‹‹Mamma!››

Ecco perché Jack si comportava così. Non voleva aggredirmi. Voleva avvisarmi del pericolo. Voleva farmi allontanare da casa.

‹‹Perdonami, Jack.››

Paolo Lindani non aveva mai visto una scena del genere. Almeno non dal vivo, perché nei film dell’orrore bene o male tutti ci ritroviamo, davanti a scene cruenti come quella. Ma chi se lo sarebbe aspettato che quella mattina, in un comune sperduto della Campania, gli occhi del commissario Lindani vedessero un devasto simile?

Era stato svegliato da uno dei suoi agenti migliori, Giovanni Bella, dal suo riposino pomeridiano. Era il suo giorno libero, e in centrale sapevano che non avrebbero dovuto disturbarlo se non in caso di tragedia. In dieci anni, mai nessuno si era permesso di violare la sua giornata di ricarica, e Lindani credeva fermamente che si continuasse in quella direzione, visto e considerato che non succedevano mai tragedie nel territorio della sua giurisdizione.

E invece il telefono squillò.

Paolo Lindani stoppò la puntata di Romanzo Criminale con il telecomando e voltò la testa in direzione del telefono. “Provvederò a togliermi il telefono di casa”, pensò. “Solo fastidi!”

Indugiò un altro po’ sul comodo divano di pelle, restio a lasciare il torpore della camicia da notte e del camino al suo fianco e desideroso di sapere se il Libanese sarebbe riuscito a conquistare Roma, ma alla fine decise di rispondere.

‹‹Pronto?›› disse con voce stanca.

‹‹Commissario Lindani›› esordì la voce di Bella.

‹‹Cristo›› mormorò il commissario.

‹‹Non l’avrei chiamata se non fosse stato urgente›› disse Bella.

‹‹Cosa può esserci di tanto urgente?››

Bella esitò un attimo, poi rispose: ‹‹Meglio che venga qui e veda di persona, commissario.››

‹‹Avevo detto che avreste dovuto disturbarmi solo in caso di tragedia!››

Bella non replicò subito e Lindani pensò che avesse riattaccato. ‹‹È una tragedia, commissario. Gliel’assicuro›› disse con voce cupa, interrompendo la comunicazione.

E ora stava sull’uscio di quella cucina devastata. I pezzi della donna e della bambina erano mischiati insieme sul tavolo della cucina, mentre il corpo di quell’uomo alto ed emaciato era stato trovato penzoloni in una delle due modeste camere da letto. Si era impiccato.

Lindani si mostrava tranquillo agli occhi dei suoi colleghi, ma in realtà sarebbe tornato volentieri a casa a vomitare e a finire la puntata di Romanzo Criminale che aveva lasciato a metà.

‹‹Le vittime sono due?›› chiese a Giovanni Bella, che aveva un’espressione piuttosto provata.

Giovanni Bella annuì. ‹‹La madre e la figlia, a quanto pare. Sara Valliani e Francesca D’Amato, vedova Valliani.››

‹‹Sembra un unico corpo›› commentò Lindani.

Bella annuì. ‹‹Il medico legale dice che la madre è morta circa un’ora prima della figlia, cioè tra le 12.30 e le 13.00. La figlia tra le 13.30 e le 14.00.››

‹‹La bambina quanti anni aveva?››

‹‹Tredici, compiuti da poco.››

‹‹Sai se era a scuola, stamattina?››

‹‹Me ne sono già occupato. Sì, era a scuola›› disse Bella.

‹‹Quindi è tornata da scuola e…››

‹‹…ed è stata uccisa, sì.››

Lindani fissò per un momento il vuoto. ‹‹E dell’altro cosa mi dici?››

‹‹Oscar D’Amato. Il fratello della vittima, lo zio della bambina. Aveva problemi di schizofrenia legati alla droga. Aveva tentato più volte il suicidio, in passato, e le comunità e gli ospedali psichiatrici della zona lo conoscono molto bene.››

‹‹Chi ha trovato i corpi?››

‹‹Un vicino. Il signor Pascale. Ha detto di aver visto il cane dei Valliani ab-baiare davanti alla sua abitazione.››

‹‹Il cane?››

Giovanni Bella annuì.

‹‹E adesso dov’è?›› chiese Lindani.

‹‹È scomparso›› disse Bella, scrollando le spalle.

‹‹Capisco›› disse Lindani, giusto per dare un cenno d’assenso, perché in realtà non ci capiva nulla. La testa cominciava a fargli molto male. ‹‹Vado in centrale ad organizzare le indagini. Tieni il cellulare a portata di mano.››

‹‹Certo, commissario.››

‹‹Se ci sono novità, avvertimi.››

‹‹Ovviamente›› rispose Giovanni Bella.

Paolo Lindani pensò che in centrale forse avrebbe riacquistato un po’ di lucidità e avrebbe potuto pensare meglio al da farsi. Si girò e si avviò verso la sua auto, mentre i suoi colleghi lo guardavano quasi esterrefatti.

“Vi sorprendete che mi sia fatto impressionare, stronzi?”, pensò. “Allora fate una cosa: non rompetemi i coglioni, pivelli che non siete altro.”

Aprì lo sportello della sua Ford Fiesta e fece per entrare, ma non riuscì a resistere alla tentazione di tornare indietro per dire due parole a quelle femminucce che non avevano nemmeno idea del suo passato. Erano due dei nuovi, giovani e inesperti. E Paolo Lindani, in quanto commissario, doveva fargli ben vedere chi comandasse. Doveva e voleva guadagnarsi il loro rispetto. Per cui, era già seduto sul sedile del guidatore della sua auto, quando si alzò nuovamente e si girò in direzione dei due bastardelli che sghignazzavano.

Li aveva già puntati, rivolgendogli uno sguardo truce che li fece impallidire. Sì, era una piccola vittoria per lui, e non riuscì a contenere un sorrisetto divertito. Ma non aveva ancora finito. Voleva farli impaurire per bene: con degli idioti totali come quelli, la forza era l’unico strumento valido per ottenere il rispetto a breve e lungo termine.

Proprio mentre puntava verso quei due ragazzi, che oramai avevano perso il sorriso, gli occhi del commissario Paolo Lindani scorsero qualcosa che lo incuriosì e distolsero l’attenzione dal loro obiettivo originario.

Giovanni Bella che correva verso di lui.

‹‹Commissario!›› lo chiamò.

‹‹Cos’altro c’è?›› Si avvertiva molto acredine nella sua voce, Paolo lo sapeva, ma non poteva farci nulla.

‹‹Ho dimenticato di dirle una cosa molto importante. Sono uno sbadato.››

‹‹Spara, Bella.››

‹‹C’è una cosa interessante nella stanza da letto in cui si è impiccato Oscar.››

‹‹Non tirarla per le lunghe. Che cos’è?››

‹‹Un registratore.››

‹‹E perché è interessante?››

‹‹D’Amato ha registrato le ultime parole della bambina mentre iniziava a farla a pezzi. Erano i suoi sogni per il futuro, una sorta di “delirio pre-morte”, se ne esiste uno. A quanto pare abbiamo perso un futuro ingegnere aerospaziale. Venga, commissario, glielo faccio ascoltare.››

Danilo Napoli

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Federico Negri, "La saga di promise"

19 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantascienza

Federico Negri, "La saga di promise"

La saga di promise

Federico Negri

Federico Negri si definisce scrittore della domenica e come tale va giudicato senza però annettere alcun significato negativo al concetto.

Sceglie la fantascienza, genere meraviglioso ma difficile, per il quale occorrono competenza e originalità. “Siamo la Promessa”, “Cuori d’Acciaio” e “Il pianeta ostile” fanno parte della saga di Promise, una trilogia scaricabile da Internet.

Di idee ce ne sono molte, anche se non nuove: una colonia terrestre lontana dalla madre patria - che potrebbe vagamente ricordare le “Cronache marziane” di Ray Bradbury - dove si è perso il ricordo delle antiche tecnologie e si è precipitati in un nuovo medioevo, l’arrivo di un’astronave terrestre con un misterioso manufatto dai terribili e sorprendenti poteri, una giovane scienziata geniale ma col vizio della droga. Il fatto è che tutti questi elementi non sono sufficienti a creare una partecipazione attiva del lettore, il bisogno di saperne di più. Il pianeta descritto non ha caratteristiche peculiari capaci di mettere in moto la fantasia, i protagonisti sono ancora troppo terrestri, fanno, dicono, pensano cose che non hanno niente di alieno, di misterioso. La ragazza studia, s’impasticca, prende una sbandata per un bel soldato, nulla di nuovo sotto il sole, anzi no, sotto Tau Ceti. Manca l’atmosfera, la creazione di un mondo secondario, si resta nel limbo, in uno spaccato, in un “non mondo”. Niente toglie che, sviluppando tutto con più pazienza, tenacia e "divertimento", lasciandosi andare al piacere dell'avventur, dell'invenzione e della scoperta dell'alterità, la saga di promise possa davvero mantenere la "promessa" del titolo.

D’interessante c’è la differenza fra coloro che vivono in città, sotto l’egida del Direttorio - e si stringono attorno ai residui del passato, ai vecchi cimeli di una tecnologia che non sanno più far funzionare, a computer spenti e a luci disattivate, nell’attesa di un deus ex machina dal cielo che li riporti ai trascorsi splendori - e, invece, dall’altra parte del muro, il cosiddetto Popolo Libero, quello degli Straccioni che hanno cercato di adattarsi alla nuova essitenza e trarne il meglio possibile. Come nel film “Waterworld”, dove il personaggio interpretato da Kevin Costner ha sviluppato branchie che lo rendono adeguato alla nuova realtà di un pianeta ricoperto per la quasi totalità di acqua ma che non lo fanno sentire più a suo agio nel mondo emerso. Il nocciolo della storia, dunque, il senso profondo, può essere ritrovato nel contrasto fra adattamento e arroccamento.

Dei personaggi, solo Haria, la giovane protagonista col vizio delle psicocole, è ben tratteggiata; Fineri, il ragazzo di cui s’invaghisce, rimane sullo sfondo. Più originale, Galla, la rude soldatessa che fa coppia fissa con Fineri. A proposito, anche i nomi non sono troppo accattivanti e potevano avere una sonorità migliore.

Lo stile è semplice, corretto, ma con qualche piccola imprecisione, come, ad esempio, il ripetersi della locuzione “solo più” al posto del semplice “solo”. I dialoghi e le descrizioni spesso hanno il compito di informare il lettore e questo li appesantisce e li rende meno agili ed efficaci.

Lo scopo che Negri si prefigge non è semplice ed egli lo porta avanti con onestà e impegno, anche quando i risultati non sono sempre quelli auspicabili. La storia riesce comunque a coinvolgere, è scorrevole, e il lettore non fa fatica ad avanzare.

La scelta di rendere l’ebook gratuito e fruibile per gli appassionati del genere ci sembra azzeccata in questo specifico caso.

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Un diario può aiutare

10 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Un diario può aiutare

Mi scrive una di noi che pensa di non avere una vita sua e invidia persino il dolore degli altri. L’ho esortata a oggettivarsi in un diario, a prendere distanza dalle proprie emozioni, circoscrivendole.

Narrando noi stessi, scopriamo di avere una trama e, rileggendoci, persino ci appassioniamo alla nostra storia. Ognuno ha la sua vita, quella che gli è toccata, fatta anche di vuoti e di attese. Pur sempre qualcosa da raccontare.
Ecco cosa mi scrive dunque:

Sei mesi.
Da quando abito qui, non avevo mai fatto il giro dell'isolato dalla destra.
Mi sono trovata senza sigarette. Lo sapevo che le avrei finite. La testa mi fa male e ho la nausea.
Sto sulla pista ciclabile; mi passa accanto una famiglia che pedala, mi sposto ma la strada è larga, ci passavano. Una donna è a piedi e ha la borsa a tracolla. Avrà sessant'anni. Penso che ci vorrei parlare, magari è zitella. Se mi chiede come sto, magari le dico che sto male. Ci incrociamo; non so se mi abbia guardata, ha gli occhiali da sole anche lei.
Un vecchio col bastone cammina piano, ha i piedi molto gonfi. Anzi no, non è mica tanto vecchio, di faccia. Strappa dei rametti di rosmarino che escono in strada dalla rete di un giardino privato.
Da quando abito qui, penso che devo andare a rubare il rosmarino quando mi serve, non l'ho ancora fatto. Oggi no, l'odore m’intensifica la nausea. E poi, quanto mi dura? Tanto in questi giorni non cucino. Si seccherebbe.
Sono vestita malissimo, e di proposito. I lacci delle scarpe sono troppo lunghi, mi chino a sistemarli e mi gira la testa. Ho il sole di fronte adesso, vedo le lucette.
Ah, è qui che si sbuca, è vero. L'orientamento non è il mio forte, non so mai dove mi trovo.
La trattoria è dall'altra parte della strada, sull'incrocio, mi si para davanti prima di girare l'angolo.
L'hanno ridipinta di rosso, l'insegna è uguale.
Una pasta con la panna e lo speck. O era pancetta? Qualcosa di buono che riempiva. Era di grano saraceno.
Non c'era nessuno, solo noi mi pare, e poca luce. O c'era uno seduto da solo?
Era ora di pranzo di un giorno infrasettimanale. Si tornava da non so dove. Era l'altra mia vita.
Era la vita.
Nel parcheggio c'è una coppia. Non so se siano una coppia. Fumano in piedi appoggiati alla macchina, non parlano. Miei coetanei pressappoco. Sembrano stanchi.
Faccio il bonifico al padrone di ca
sa. Anche se è domenica, è il primo del mese.
Ho mal di testa.”

Da notare quel “mi sposto ma la strada è larga ci passavano”. Noi ci spostiamo sempre, noi siamo sempre quelli che disturbano. Ecco, un’altra cosa che mi viene in mente di dirvi: imparate ad ascoltare i vostri desideri. Abituati a farvi da parte, abituati a considerare il sacrificio come l’unica via, avete dimenticato cosa volete. Magari non fatelo, magari sacrificatevi e rimandate anche stavolta ma, almeno, capite cosa vi farebbe contenti. #capitelo, è già tanto.

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Mi scrivono

8 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Mi scrivono

Uno di voi, un gentile lettore, “babbano ma non troppo” mi ha scritto esprimendo i suoi dubbi circa la futura convivenza con una persona socialfobica di cui è innamorato.

Le fobie che ha” mi ha spiegato, “le paure, sono piuttosto invalidanti come fosse un mix, un cocktail, ed io ho paura che, pur amandola follemente, ecco, alla lunga, da sposati possano pesare e mi duole ammetterlo pesano un po' già adesso e sarà strano ma un po' me le ha già trasmesse.

Questa è stata la mia risposta.

“Che dirle? Capisco i suoi dubbi. La sua fidanzata è sicuramente una persona molto intelligente e sensibile, ha doti che, per emergere, devono esprimersi in tempi e modi che non sono quelli ordinari. Può lavorare ma senza pressioni, senza stress, senza qualcuno che la osserva, la giudica, la fa sentire in imbarazzo, la va a trovare sul posto di lavoro. Non potrà mai parlare in pubblico, tenere conferenze, forse nemmeno telefonare. Ma potrà viaggiare con lei, andare al cinema, fare il bagno al mare, sciare, sbrigare commissioni. Consideri però che ogni gesto, anche il più banale, come recarsi dal parrucchiere, dal veterinario, dall'oculista, mangiare una pizza con gli amici, ricevere i parenti, salutare un'amica per strada, sarà sempre faticoso per la sua donna, comporterà un grande spreco di energie, con il bisogno disperato "che passi presto", che finisca e si arrivi a sera. Laddove lei si divertirà, la sua compagna si starà solo facendo violenza per essere normale e starle vicino nei momenti mondani.
Sia rispettoso dell'impegno e della fatica che la sua donna metterà nel vivere e non lo reputi roba da poco. Lei dovrà essere un compagno che non le mette pressioni ma la sostiene.

La più bella frase che il mio uomo mi ha detto una volta è stato: "affronteremo questa cosa insieme". Si trattava, banalmente, di entrare da un fornitore sconosciuto per acquistare prodotti per il mio negozio. Sì, perché, nonostante la fobia sociale, per ventitré anni ho gestito un negozio che ora è chiuso. "Come stare in mezzo ai ragni per un aracnofobico", è la definizione azzeccata di una amica. Se ama la sua donna, l'accompagni e la sostenga, senza umiliarla per quello che non può fare, ma alimentando la sua autostima, incoraggiandola per i piccoli successi, minimizzando la sua impressione di aver fatto figuracce imbarazzanti, di essere goffa o antipatica.”

Se, però, desidera una vita sociale brillante, aggiungo ora, può anche scappare a gambe levate.

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Patrizia Poli, "Signora dei Filtri"

3 Ottobre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #poli patrizia, #miti e leggende

 

 

 

Signora dei Filtri

Patrizia Poli

Marchetti Editore, 2017

 

 

La rilettura del mito di Medea si esplica attraverso termini e temi ricorrenti nel testo che cercheremo di focalizzare, per definire il formarsi della personalità della protagonista attraverso alcuni passaggi importanti.

Ti faccio frustare” è una delle prime frasi della giovanissima Medea, pronunciata contro una serva mentre la madre sta per partorire. Medea reagisce duramente quando qualcuno si frappone tra sé e il suo bisogno di essere amata senza compromessi. La sua sensazione è che il nascituro la priverà di centralità, togliendole le attenzioni della madre e provocando la sua solitudine. Da qui in fondo inizia il suo dramma. Medea ha bisogno innanzitutto di essere amata per poter anche lei amare.

Dalla perdita di amore scaturisce l’odio, altra parola chiave: “Sono preoccupata e odio mio padre. Lo odio perché ha mia madre tutta per sé, perché la rende infelice e perché ha messo al mondo quel mostro di mio fratello. Da quando c’è Absirto, la mamma si occupa solo di lui”.

La protagonista si sente oscurata e ne soffre indicibilmente. Nel rapporto infelice con la madre va ricercata la genesi delle sue pene e dei suoi eccessi:

Ti voglio bene, Morgar - aveva mormorato Medea. Erano le parole che non le aveva mai detto quando era viva, parole che da sempre le urgevano in petto e che, se non pronunciate, si trasformavano in un grumo duro di dolore. Erano le stesse parole che avrebbe voluto gridare a sua madre quando era piccola, quando ancora la amava ferocemente e la voleva tutta per sé, prima che l’amore respinto si tramutasse in odio”.

La morte della sua unica amica, Morgar, che l’aveva iniziata ai misteri della Signora del cielo, esacerba l’avversione verso la sua famiglia. Torna la parola odio, mentre prega il padre di risparmiare l’amica, sottoposta a crudele lapidazione:

Medea strinse i pugni, inghiottì il terrore che il padre le ispirava, si concentrò solo sull’odio che provava per lui. – Se sei davvero mio padre, se sono nata dal tuo sangue, se mi ami, ti supplico di risparmiare una persona che mi è cara”.

Il risentimento è penetrato in lei dopo la fine di Morgar, inquinando in modo irrimediabile la sua visione del mondo come noterà la sorella Calciope:

“(…) Medea, ma tu non sai più vivere nella gioia e nell’amore. Ti vedo così cupa, così piena di odio, mentre Morgar c’insegnava la compassione”.

Il bisogno di assolutizzare i rapporti torna anche nella sua relazione con Giasone, all’insegna di un tertium non datur da cui non si deroga:

Siamo noi due, tutto il resto non conta, nemmeno nostro figlio, non lo amerò mai quanto amo te. Tu sei il mio respiro e le mie ossa, non ci sono confini fra noi, tu sei me ed io sono te. Ogni altro sentimento, perfino l’odio, è una pallida ombra di ciò che provo per te”.

Giasone rappresenta l’insperata possibilità di recuperare una relazione più sana (ma non interamente sana) col mondo e anche con la vita che lei ha già definito come “una fatica inutile”. La giovane resta però non assimilabile agli altri, come nota Orfeo, l’assennato amico di Giasone. Solo lui tra gli Argonauti ne capisce la fragilità e ne coglie gli spigoli della psiche. Varie volte ammonisce il compagno, fino al dramma finale:

Giasone, tu non hai mai compreso l’intensità del sentimento di Medea per te. Lei non è come le altre donne, il suo odio è potente quanto il suo amore. Aveva solo te al mondo. Adesso è una belva ferita e devi guardarti da lei”.

La donna passa da un estremo all’altro, incapace di mediazioni; aveva la madre, poi Morgar (la donna del fiume), infine Giasone. I rapporti sono totalizzanti o meglio lei li sa vivere solo così. Questo conduce in caso di delusione a grandi reazioni, senza mezze misure. Colpirà spietatamente il padre, poi si vendicherà del tradimento di Giasone con la vendetta più orrenda e insensata; ucciderne i figli di cui essa stessa è madre. Nella sua visione estrema la vendetta è implacabile.

Anche la parola vendetta è abbastanza ricorrente:

Dal giorno in cui era morta la donna del fiume, si era chiusa in un silenzio greve di accuse e grondante desiderio di vendetta”.

Medea e Giasone sono diversi, come emerge da uno dei dialoghi conclusivi tra i due amanti:

Io no, Giasone - disse lei, la voce innaturalmente calma - è questa la differenza fra noi. Io non rinuncerei a ciò che è stato, mai! Rivivrei tutto dal principio, con i bambini e con te. Rivivrei il nostro amore e anche l’affetto dei miei figli, ciò che mi hanno dato in questi pochi anni. Io li ho portati nel mio grembo, io ho sofferto i dolori del parto, io li ho allattati. Il giorno che sono nati tu eri alla reggia, con Creonte, a tramare il mio esilio e la mia rovina. Li ho aiutati a morire prima che tu ne facessi dei bastardi, prima che tu li umiliassi preferendo i figli di un matrimonio falso e sacrilego. Non avrei sopportato che un estraneo li toccasse, sono morti per mia mano, dolcemente, e resteranno con me per sempre. Tutti dobbiamo morire, tu, io, mio fratello, Pelia, Glauce. Che differenza fa quando?”.

Ritorna la convinzione già espressa precedentemente dalla donna che vede nella vita un vano travaglio, per cui non c’è da temere la morte e i figli non vengono considerati come prosecuzione di sé.

Rancore e amore, risentimento e passione si mescolano in lei quando il rapporto con Giasone si è ormai deteriorato. Fuori dagli aspetti più truci, un’altra sua caratteristica è la curiosità che la distingue nettamente dall’atteggiamento stoltamente chiuso e retrogrado del padre. Questo pregio però non la salva dalla solitudine:

Aveva mostrato curiosità e interesse per tutto ciò che la circondava e Morgar gioiva a insegnarle ciò che sapeva”. Questo passo va visto insieme a un altro, sempre nel periodo fanciullesco della protagonista: “La sua compagna più fidata era la solitudine, unita a una forte sensibilità”.

Orfeo come detto, è la persona che sembra inquadrare meglio Medea:

Questa straniera, questa Medea, ha qualcosa che mette i brividi addosso. I suoi capelli sono lunghi e intrigati dal vento di mare, la pelle si arrossa ma non si abbronza, le mani hanno dita lunghe come tentacoli di medusa. La sua voce è imperiosa e si vede che è abituata a comandare. Scorgo in lei un’assoluta estraneità al resto del mondo”.

Questo sigillo cupo dell’estraneità non l’abbandona mai, nemmeno nel momento di maggiore intensità nella relazione con Giasone, il quale mostra atteggiamenti contraddittori. Ha forza e coraggio nell’impresa degli Argonauti, ma prima di compiere azioni più “politiche”, ondeggia e temporeggia. Teme di compromettere i rapporti con lo zio usurpatore e responsabile dell’esilio del padre; compie l’impresa assegnata acquisendo finalmente legittimità davanti a tutti, ma ancora stenta a liquidare il vecchio parente. Paradossalmente l’unico rapporto che Giasone ridimensiona senza troppi patemi è quello con la persona che lo ama di più, ossia Medea. Per liquidare l’usurpatore ci vuole sempre Medea che con la sua spregiudicatezza sa dipanare queste situazioni, poiché lei non sente soggezione verso nessuno (re, parenti, anziani) e non teme di compiere azioni tremendamente risolutive.

La sua radicalità discende da quanto ha subito fin dall’infanzia. Il male è stato fatto a me, dice Medea dopo aver ucciso i figli.

Ha troppo amato e troppo sentito e chi ha tanta passione, non dura. Verrà relegata su un’isola e ancora la solitudine la avvolgerà, alleviata solo dal contatto con la Signora, sua unica vera amica:

“A volte vedo l’acqua del mare incresparsi. C’è qualcosa che nuota sotto la superficie ed io so che è la creatura della dea. Succede di notte, quando la Signora mi parla dal buio del cielo. Medea, figlia mia, tu hai tanto amato, dice, perciò tutto ti sarà perdonato. Io l’ascolto, levo le braccia al cielo, poi m’incammino verso di lei”.

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Marco Milone, "Le stagioni della memoria"

22 Settembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #recensioni

Marco Milone, "Le stagioni della memoria"

Le stagioni della memoria

Marco Milone

Narcissus, 2014

Sembrano trascorsi secoli da “Dove va il mondo” e “Anime nude” a “Le stagioni della memoria”, terza silloge di poesie di Marco Milone, non perché ci sia un cambio di rotta stilistico o contenutistico, ma per come, non conoscendo l’età dell’autore, si potrebbe qui pensare ad un artista anziano. Milone, invece, è un trentenne senza speranze, senza illusioni leopardiane: “giammai vedrò sorgere il sole”, “di speranze irrealizzabili m’illudo, “e non ci rimane altro” .

Difficile smettere di illudersi, attendere, sperare, anche quando la vita passa davanti e non siamo in grado di saltarci dentro, anche quando essa sembra appartenere agli altri, scorrere di là da un vetro, anche quando soggiaciamo alla regola di un “si passivante” che ci rende non autentici; è difficile perché, nonostante l’atteggiamento stanco e demotivato, giovani lo si è davvero e la speranza non vuol morire: “So che non arriverai eppure son qui e aspetto”, “illusione di un futuro, di qualcosa che non giunge.”

Se tutto il meglio pare ormai alle spalle, pure la memoria non è dolce, non è consolatoria, ha stanze oscure, ancora da svelare, e noi vorremmo essere come bruti per non avvertire il peso dell’esistenza. Il futuro non c’è, è come se fosse già stato esperito, lasciato indietro: “rievoco il futuro”, e rievocarlo vuol dire farne memoria e non aspettativa, trasformarlo in qualcosa che non ci sarà mai perché c’è già stato, perché sarà uguale al presente, e così le “luminose strade” del possibile saranno cancellate dagli “oscuri labirinti” di una memoria congelata.

Ricorrono le parole “sommerso”, nel senso di avviluppato, appesantito, e “oscuro”, inteso come inconoscibile ma anche doloroso, ansiogeno. I riferimenti leopardiani sono tanti, fra stelle, ginestre, dolore senza uscita, caduta delle illusioni. I temi sono i soliti in Milone: solitudine, morte, incomunicabilità ma anche, soprattutto, memoria.

Si spargono i semi

della polvere

Nei tempi che furono

Rivedo la vita, rievoco

Il futuro. Una branda,

un giaciglio da cui percorrere

ancora ancora

le strade del passato

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Grant Allen, "Questi barbari inglesi"

20 Settembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Grant Allen, "Questi barbari inglesi"

Questi barbari inglesi

Grant Allen

Traduzione di Nicola Leporini

Marchetti editore, 2014

pp. 138

10,00

Questi barbari inglesi”, traduzione di “The British Barbarians”, di Grant Allen, edito da Marchetti, apre la collana “Dodo d’oro”, formata da opere della letteratura in lingua inglese che, per vari motivi, sono scomparse della memoria culturale e quindi non sono mai state tradotte in italiano prima d’ora.

Come afferma l’autore stesso nella prefazione, “Questi barbari inglesi” mira a “rappresentare punti di vista (…) nella narrativa romantica piuttosto che in saggi ponderati”. E il romanzo, in effetti, è una commistione di tre generi: blanda fantascienza, narrativa sentimentale e pamphlet. In realtà, propende verso la terza via, le altre due sono solo dei pretesti per rendere più accattivante la materia.

Charles Grant Blairfindie Allen è nato in Canada nel 1848 ed è vissuto tra Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Vicino di casa di Arthur Conan Doyle, agnostico e socialista, amico di Spencer, sostenitore dell’evoluzionismo di Darwin e delle teorie antropologiche di Frazer, molte delle sue opere, a partire da “The Woman Who Did” – che narra la vicenda scandalosa e drammatica di una ragazza madre – sono animate da un prepotente spirito critico nei confronti della società britannica, inquinata dal culto della rispettabilità a tutti i costi e dal moralismo ipocrita dei borghesi sepolcri imbiancati.

Nella Londra vittoriana, piomba dal nulla l’affascinante e compito Bertram Ingledew, a sconvolgere la vita di Philip Christy, di sua sorella Frida e del cognato. Per evitarvi lo “spoiling”, cioè l’anticipazione del finale, diciamo solo che Herbert George Wells si è ispirato a questo romanzo per il suo celeberrimo “La macchina del tempo”, uscito nello stesso anno, il 1895, e cita proprio Allen. Il tema del “mondo perduto”, o dei viaggi nel tempo, era molto in voga all’epoca, ricordiamo anche “Un americano alla corte di re Artù” di Mark Twain, del 1889.

Bertram Ingledew considera i costumi inglesi come farebbe con quelli di una qualsiasi società primitiva. In realtà, si comporta da antropologo, analizzando con distacco scientifico (ma anche con un pizzico di disgusto) l’ossessione per l’ onorabilità, misero feticcio, e per le regole della buona società, opprimente tabu.

Allen mette a fuoco le incongruenze di una classe socieale che basa tutto sulla reputazione, nascondendo il marcio sotto il tappeto. Vittime di questo sistema etico sono soprattutto le donne. Da una parte è vietata loro la libera espressione della propria sensualità, di sentimenti puri, dall’altra esse vengono sfruttate come prostitute, costrette ad una vita abietta, a indigenza e malattie, proprio da quegli stessi uomini che le usano per mantenere illibate (e represse) le loro future mogli. Verso la prostituzione, e il suo utilizzo da parte di borghesi e nobili votati al culto del “buon costume”, Allen mostra una vera e propria idiosincrasia.

Sia in “The Woman Who Did” che in “Questi barbari inglesi” non c’è lieto fine, perché la spinta libertaria - ed il ribaltamento dell’etica a favore di emozioni cristalline, della ventata fresca che si respira solo dalla “sommità della collina” - comporta conseguenze tragiche, somiglianti, anche solo inconsciamente, ad una punizione. La società non è pronta per accogliere un nuovo concetto di morale, per scambiare l’aria viziata e malsana dei salotti bene con passioni che sono etiche solo in virtù della loro autenticità.

Il romanzo, o meglio il racconto lungo, è scorrevole e anche divertente. Spassoso il modo in cui sono descritti gli inglesi, con quel loro sentirsi centro indiscusso dell’universo e non concepire nemmeno l’esistenza di luoghi e culture alternative. Si notano, però, dei difetti nel testo che, forse, l’hanno reso poco celebre, insieme al fatto di essere antibritannico e propalare idee non convenzionali e trasgressive. Risente del fatto di essere più un saggio che una narrazione vera e propria ed ha una costruzione lacunosa. La prima parte si presenta come satira sociale, la seconda vira verso il dramma, sempre intriso, però, di teorie filosofiche. Il personaggio di Philip Christy, ad esempio, che serve a introdurre in modo comico, per contrasto, la figura di Bertram Ingledew - incarnando a tutti gli effetti i pregiudizi vittoriani e l’autocompiacimento inglese - sparisce quasi dalla metà del libro ed è sostituito dall’odioso marito di Frida. In realtà i due cognati, ottusi e gretti, fanno da contraltare alle figure di Bertram e Frida, lui limpido nella sua saggezza quasi sovrumana, lei intelligente, viva, pronta a recepire i nuovi concetti, a svilupparsi intellettualmente e spiritualmente, elevandosi al di sopra della stolta morale perbenista. Quello che succede a Frida è proprio quello che l’autore vorrebbe accadesse a tutte le giovani donne dopo la lettura della sua opera. “Soprattutto”, afferma ancora nella prefazione, “si dovrebbe suscitare il loro vivo interesse quando sono ancora giovani e plasmabili, prima che si siano cristallizzate e indurite nelle convenzionali marionette della buona società. Farle pensare quando sono ancora giovani, far loro provare sentimenti quando sono ancora sensibili.”

Una molto godibile via di mezzo, insomma, fra ragione e sentimento, “sense and sensibility”, illuminismo e romanticismo, libello e romanzo d’amore.

Articolo su La Nazione

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La resa dei conti

11 Settembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

La resa dei conti

Rieccomi qui per dirvi che, alla fine, non cambia mai niente, che la fs ti ammazza a venti anni come a cinquanta.

Nonostante la segnalazione dell'anno passato al XXVI premio Calvino, con il mio ultimo romanzo "L'uomo del sorriso" , non arrivo a niente sempre e solo per come sono fatta, per le paure, gli handicap e i limiti che ho.

C'è un editore abbastanza conosciuto al quale i miei racconti piacciono. Ho trovato il coraggio di proporglieli, anche se mi è costato in termini di orgoglio e pudore.

La sua risposta è stata questa:

"Patrizia, tu scrivi molto bene e per me sarebbe motivo di onore e di orgoglio pubblicare i tuoi racconti. Ma per vendere una raccolta di racconti l'autore deve darsi molto da fare. Ti prendo come esempio XXX che ha già venduto 150 copie di un libro molto ben scritto, ma soprattutto ben pubblicizzato. Mercoledì, lo presentiamo per la terza volta. A ogni serata abbiamo venduto 20 copie. Lei è sempre con noi al banco quando vendiamo. Infine, sta organizzando un tour di presentazioni italiano per andare a parlare del libro ovunque. Tu faresti questo?"

Sa benissimo che non lo farei, sa benissimo che è una domanda retorica, sa benissimo che l'idea di vendere il libro sul banchetto mi fa anche un po' senso.

Quando l'anno scorso mi è arrivata la notizia della segnalazione al Calvino, ho pensato subito due cose:

1. che qualcuno mi avesse raccomandato a mia insaputa

2. che avessi fatto pena ai giurati del premio

L'idea che il mio potesse essere davvero un buon testo non mi ha nemmeno sfiorata.

Questa è la sinossi. Per la solita vergogna, il solito pudore e il solito blocco a parlare delle cose scritte da me, io che passo la vita a recensire roba altrui, ho dovuto farmi aiutare a buttarla giù dalla mia amica Ida Verrei.

"Maria di Migdal non è soltanto la prostituta che gli uomini cercano e le donne fuggono, o la cestaia che intreccia foglie di palma per il mercato sul mar di Galilea, Maria è anche la donna che di notte, nel silenzio, di nascosto, prega la dea Ashera, che la madre le ha insegnato a venerare, ma alla quale non sa più se credere o meno. La Legge del Dio del Tempio non le piace, ma non le piacciono neanche le regole del Dio degli Esseni, sebbene la comunità nascosta nel deserto la affascini. Li spia di nascosto, li osserva, ascolta le loro parole; avida di conoscenza, cerca risposte che non trova, e si chiede se il Dio di cui parlano gli uomini vestiti di bianco, quello del Tempio, ed Ashera, non siano in fondo un’unica entità. Neanche le risposte di Giovanni, tenero amico d’infanzia, sembrano placare la sua voglia di sapere; la sua esistenza miserevole non l’appaga, sente di essere la più reietta delle creature, quella a cui la vita ha negato tutto: famiglia, amore, maternità. Sua unica compagnia, Astaroth, lo scemo del villaggio, il figlio che non crescerà, il bambino vecchio che ha per lei una fedeltà canina.

Il giorno che Giovanni abbandona gli Esseni per ritirarsi nel deserto a battezzare la gente nel Giordano, Maria trema, sa che questo lo condurrà alla morte, le sue invettive contro i vizi di Erode sono ormai di dominio pubblico. Vorrebbe fermarlo, avvertirlo di essere prudente, ma Giovanni sembra invasato, non ascolta nessuno; occhi e orecchie sono soltanto per Yeshua, il profeta, “L’Agnello di Dio”.

Quando vede l’uomo del destino immerso nelle acque del Giordano, Maria riconosce in lui il figlio del falegname di Nazareth, e stenta a credere che quel giovane genuflesso e rapito sia proprio colui che Giovanni attendeva come il Messia.

Questa è la storia del loro incontro, che porterà alla decisione finale di trafugare il corpo di Yeshua’ e dare inizio alla voce di una resurrezione. Questa è anche la storia di tanti altri personaggi, di Maria di Nazareth e del suo amore bruciante per il figlio, di Giovanni, il discepolo più amato, di Kefa, di Bar Abba, di Ponzio Pilato, di Bar Kayafa, di Yosef il falegname. È uno studio sulla verità che uccide, sul perché della vita e della morte."

E questo è un assaggio tratto dal capitolo 9:

Dopo aver percorso tutto il giorno strade secondarie e sentieri, Maria di Migdal si dispose a trascorrere una notte inquieta fuori dalla tenda. Aveva rifiutato la compagnia delle altre donne, si era accoccolata vicino al corpulento Astaroth, per assorbirne il calore.

Non riusciva a uscire da se stessa, dalla prigione della sua mente, per raggiungere gli altri, per unirsi a loro. Solo il cane dell’indemoniato si era accucciato ai suoi piedi, leccandoli debolmente ma con insistenza. Quel contatto non la infastidiva ma, anzi, la confortava. Il cane aveva sollevato il suo muso intelligente, l’aveva fissata. Sembrava capire che, adesso, era lei ad aver bisogno di aiuto, più del suo antico padrone. Maria affondò una mano nel pelo ispido, ne tenne stretto un ciuffo fra le dita, quasi a volerlo strappare. Aspirò l’odore di bestia misto al sudore di Astaroth e al proprio sentore acuto. Le sue mani erano sporche, le vesti impolverate, i capelli aggrovigliati dal troppo camminare nel vento, il cane aveva la cute gonfia di zecche, il pelo pungente, pulcioso. Era la vita, pensò, come era vita ciò che gli uomini le facevano, ciò che lei faceva a loro, il grido che emettevano alla fine, liberatorio, vittorioso, quando li portava là dove solo lei era capace di condurli.

Non potendo dormire, guardava le stelle, che erano vive, ammassate nel cielo nero. Certe tremavano fino a confondersi, altre sembravano ferme, indifferenti. Aveva tanti pensieri, Maria, quante erano le stelle in cielo. Alcuni simili a una stella tremula, altri duri come pietre spente. Si chiedeva cosa fosse il livore che la rodeva. Dopo tutta la predicazione di Yeshua’ sull’amore - la sua continua richiesta che tutti loro fossero disposti a dare senza aspettarsi nulla in cambio, ad amare oltre l’ostinazione di chi non li amava - lei non riusciva che a trovare sentimenti aspri dentro di sé. Si guardava intorno chiedendosi a chi riuscisse davvero a volere bene. La risposta era a nessuno, neppure, e meno che mai, a se stessa. Ogni volta che qualcuno si avvicinava a lei, mostrandole affetto, come facevano Marta e Giovanni, lei provava un moto di rifiuto. Era una mano che la stringeva alla gola, che la soffocava. Non voleva che le persone si accostassero troppo, che la vedessero per quello che era, che scoprissero le sue debolezze. Aveva dimestichezza solo con i toni bruschi che le riservava Kefa, a quelli era abituata e non la intimorivano. Vivere in comunità la turbava, la faceva sentire più nuda di quando si spogliava, allargava le cosce e si offriva alle mani, alle bocche, agli umori acri degli uomini.

Pur tenendosi ai margini e parlando poco, intuiva molte cose dei compagni. Non provava amicizia per la madre di Yeshua’, solo il grande rispetto dovuto a una donna fragile, aggraziata ma forte come una radice profonda. Osservandola, le erano venute in mente le parole della propria madre, quando modellava con mani screpolate figurine d’argilla dal ventre gonfio e la testa rotonda: “Questa è la dea Madre. È fatta con la terra ed è Terra.” Maria di Nazareth era della stessa pasta, era il vaso che aveva concepito la vita, sacra di per sé, ma ancor più sacra perché suo figlio era Yeshua’. Anche quando era sola, la madre di Yeshua’ manteneva un legame col figlio, lo seguiva con gli occhi, lo ricordava nelle movenze, ne ripeteva le parole. Aveva capelli e occhi scuri, mani arrossate, piedi svelti, voce tenue e gentile. Era come protetta, avvolta da un alone di deferenza che si guadagnava allo stesso modo del figlio, senza protervia, senza grida, solo con la sua presenza, la fermezza dello sguardo.

Pensò anche a Lazzaro e al ruvido Kefa, pensò a Marta, sorella di Lazzaro, la persona più vicina a un’amica che avesse mai avuto nella vita. Marta era laboriosa e sbrigativa. Forse, fra tutti loro, era quella che più aveva confidenza col maestro, che lo trattava come se fosse un parente. Esprimeva la sua ammirazione cucinandogli i cibi che amava, scacciando gli insetti dal suo giaciglio, spazzando la polvere dove lui posava i piedi. Sua sorella, la piccola Maria, si stava innamorando di Yeshua’ in modo infantile, gli girava intorno, gli sorrideva, si accoccolava ai suoi piedi. Un giorno si era impadronita della sua veste per lavarla, ma lei gliela aveva strappata di mano, senza una spiegazione, senza curarsi se le gote della ragazza erano diventate rosse, se gli occhi si erano assottigliati per la rabbia, aveva stretto a sé la veste e l’aveva portata al fiume, si era inginocchiata e l’aveva distesa per terra, osservandone la tela grezza, ricercandovi l’odore, l’impronta del corpo dentro le pieghe, nelle macchie. Poi una vertigine l’aveva colta, come la prima volta al pozzo, le era parso che quella che teneva fra le mani non fosse una veste ma un sudario, che ci fosse impresso il volto di Yeshua’, il suo corpo piagato.

Distesa sul nudo terreno, ricordava ogni gesto di Yeshua’, lo ricreava, lo riassaporava: come quel giorno aveva parlato all’indemoniato, come si era rivolto a loro col tono pacato ma fermo cui nessuno osava disubbidire. Yeshua’ amava il lavoro che compivano insieme, era felice quando poteva guarire gli ammalati o alleviare i loro patimenti. “La sofferenza”, diceva, “mi spaventa perché non so come arginarla, come confortarla, come prenderla su di me e condividerla. È difficile, Maria, è così difficile! Non pensare che due parole di benevolenza o un sorriso distratto siano sufficienti per amare gli altri. Mi struggo perché non vi so amare come vorrei, con quell’amore privilegiato che ciascuno di voi pretende e merita.” Poi abbassava lo sguardo, si torceva le mani, lei vedeva le unghie spezzate, e il suo cuore si crepava, si schiantava come quelle unghie, perché amare è impossibile, perché lei, che aveva avuto tutti gli uomini che non voleva, non poteva avere l’unico che desiderava. Pensava a tutti, Maria, quella notte, e sentiva di non amare nessuno, al di fuori di Yeshua’, che non sarebbe mai stato suo. (P.P.)

Eccolo qui, è del tutto inedito, se qualcuno fosse interessato a pubblicarlo senza poi costringere la sottoscritta a venderselo sul banchetto.

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Perché ho aderito al manifesto del Bandolo

31 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #cultura, #claudio fiorentini

Perché ho aderito al manifesto del Bandolo

Aderisco al manifesto perché ritengo che in Italia non sia incoraggiata la produzione di grande narrativa, in favore di romanzi esili, facilmente intercambiabili, che si bruciano nell’arco di una stagione e non rimangono nel cuore del lettore, non creano personaggi indimenticabili o archetipi dell’inconscio. Le situazioni sono sempre le stesse, si prediligono trame che hanno a che fare con la storia recente, con qualche episodio di attualità, o quelle vagamente intimiste e minimaliste. Quando prendo in mano un classico, sento la differenza, sento lo spessore, sento il richiamo della poesia, sento le scorciatoie dell’intuito e vorrei provare queste sensazioni anche con i libri di oggi ma non mi riesce più. Inoltre, se voglio leggere della buona narrativa di genere (fantascienza, fantasy etc) devo da sempre ricorrere a libri stranieri, mai tradotti in Italia. Infine, qui da noi non si pubblicano più raccolte di racconti.

Aderisco al manifesto perché da anni assisto a un fenomeno di appiattimento e massificazione dovuto sì, a scelte commerciali sbagliate dell’editoria, ma anche, ultimamente, dalla facilità di accesso data dalla rete, che, se da una parte concede visibilità e voce a chi non ne avrebbe, dall’altra crea un magma di sedicenti scrittori semianalfabeti dal quale è difficile che le rare eccellenze possano emergere. Oggi chi scrive tende subito a pubblicare di tutto e di più, senza autocritica, senza “gavetta interiore e temporale”. Le inezie che ai nostri tempi scrivevamo sul diario privato adesso vengono immediatamente stampate, auto pubblicate, immesse in rete senza nemmeno essere state rilette, e trovano il finto plauso di parenti, amici, contatti virtuali, creando delle stelle di cartapesta facebookiana, ognuna con il suo codazzo di falsi ammiratori. Chi scrive in modo responsabile, critico, chi fa ricerca stilistica e strutturale viene omologato alla massa dei mediocri auto celebrantisi, oppure penalizzato per il marchio d’infamia di aver pubblicato a pagamento o tramite self publishing.

Aderisco al movimento perché vorrei che la rete si trasformasse da mezzo di accesso caotico e auto celebrativo, in filtro reale, in selezione autentica, in specchio di verità e non di lusinga, dove vengano giudicati solo i testi - dal manoscritto inedito al libro pluripremiato a livello internazionale - e non chi li stampa.

Patrizia Poli

Elenco aggiornato dei firmatari

Claudio Fiorentini
Franco Campegiani
Maria Rizzi
Nazario Pardini
Andrea Mariotti
Marco Mastrilli
Loredana D’Alfonso
Patrizio De Magistris
Valeria Bellobono
Pio Ciuffarella
Massimo Chiacchiararelli
Sandro Angelucci
Laila Scorcelletti
Ninnj Di Stefano Busà
Associazione Culturale Polmone Pulsante
Roberto Guerrini
Deborah Coron
Simona Simoncioli
Sonia Giovannetti
Roberto De Luca
Luca Giordano
Paolo Buzzacconi
Gabriella Di Francesco
Fabrizia Sgarra
Angiolina Bosco
Pasquale Balestriere
Roberto Mestrone
Umberto Cerio
Umberto Vicaretti
Francesco Dettori
Claudine Jolliet
Andrea Marchetti
Valentina Vinogradova
Stefania Catallo
Mauro Montacchiesi
Patrizia Bruggi
Diego Romeo
Camilla Migliori
Alberto Canfora
Angelo Sagnelli
Patrizia Stefanelli
Ester Cecere
Orsola Fortunati
Adriana Pedicini
Giovanna Repetto
Alfonso Angrisani
Concezio Salvi
Lorella Crivellaro
Maurizio Navarra
Aurora De Luca
Emilio Anselmi
Mario Prontera
Angelo Mancini
Gianpaolo Berto
Dario Pontuale
Umberto Messia
Roberto Nizzoli
Patrizia Poli
Maria Vittoria Masserotti
Michela Zanarella
Roberto Furcillo
Giovanni Bergamini
Norbert Francis Attard
Daniela Taliana
Bartolmeo Errera
Fabiana Boiardi
Alessandro Da Soller

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