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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Un pesce fuor d'acqua

30 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Un pesce fuor d'acqua

Grigliata a casa di parenti stretti. Non ho mai partecipato ma insistono e mi dispiace dire di no. Mia madre e mio fratello, anche se dicono che io “sono imbarazzante”, vogliono che vada. Mio marito ama questo genere di vita sociale.
Ansia anticipatoria da giorni, paura che tutto non sia in ordine. Passo ore e ore a pulire per non far fare brutta figura alla nostra famiglia, ma sto in ambascia per ogni granello di polvere, ogni ragnatela, ogni filo d’erba troppo cresciuto. Se vivessi in un palazzo, mi vergognerei degli affreschi sbiaditi.
La sera prima prendo un tranquillante, sperando di cavarmela. Arrivo sul luogo del delitto e sto sempre peggio a ogni istante che passa. Poi sento suonare il campanello e capisco che stanno arrivando i primi ospiti (in tutto sono ventuno persone). Mi bagno di sudore, le ginocchia tremano, lo stomaco fa un tonfo come sulle montagne russe. Mia madre dice: “Ma non vuoi nemmeno che ti presenti?”
No, non voglio nulla, non voglio vedere quelle facce di gente “normale”, non voglio parlare con nessuno, non voglio fare complimenti a bambini sconosciuti, non voglio invischiarmi in discorsi di circostanza e convenevoli. Mentre le persone entrano io sfuggo, giro da una stanza all’altra per evitarle, per non dover nemmeno salutare. Se c’è un ospite in soggiorno, io svicolo in cucina, se intravedo qualcuno nel portico, mi ficco in bagno. Cerco qualcosa per tenere le mani occupate, sbuccio l’aglio, salo il pesce a testa bassa.
Poi arriva il momento di mangiare, nella confusione della grigliata dove ognuno cucina quello che si è portato da casa, non trovo una collocazione, non so dove sedermi, ho lo stomaco chiuso, la nausea, mi gira la testa, butto giù bicchieri di vino per placare un’ansia che non si placa, che ingigantisce. Non ho rotto il ghiaccio subito e quindi non lo rompo più, non mi sono introdotta nel gruppo, nella conversazione, e quindi non riesco più a farlo quando ormai tutti sono lì che scherzano e mangiano dolci che per me sanno di cartone. Metto su una faccia da sfottò, da antipatica, prendo per il culo tutto e tutti, apertamente, parlotto con mio marito rendendomi odiosa. È quello che so fare meglio, è l’unica cosa che mi viene bene. Non sopporto il vocio, i rumori, le giovani mamme che parlano dei loro bambini, tutto mi si confonde nella mente come un’onda di marea che mi travolge. Fuggire fuggire fuggire.
Sgattaiolo in una camera al piano di sopra e ci rimango tutto il giorno, fino al momento di salutare, raggomitolata sul letto a dormire, a lasciare che le voci si allontanino, non invadano il mio spazio vitale, non mi blocchino il respiro sul diaframma. Che si accorgano della mia assenza o meno, non m’interessa.
Provo un senso di sconfitta e una rabbia violenta, verso tutti quelli che sono giù, e ai quali cose come queste, le grigliate, gli inviti, il ritrovarsi a tavola fra amici, sembrano normali. Li odio tutti, dal primo all’ultimo, perché non capiscono e non capiranno mai, perché per loro è facile. È sempre stato tutto facile: lavorare, frequentare, vivere. E odio mia madre che mi intima: “Vai da uno psichiatra”, quando è lei ad avermi plasmata così, quando era proibito aprire la porta al suono del campanello o portare a casa un’amichetta, e ora, invece, da mio fratello accetta tutto e si fa in quattro per aiutarlo con le sue feste. E odio mio fratello che dice: "Tu non hai una vita sociale”, e grazie al cazzo, e sai che scoperta, ci vuole Freud per capirlo. E lo odio ancor più quando mi dice: “Anche quando c’è soltanto una persona in più, si vede che stai lì e non sai cosa dire.” Ecco, meno male me lo ha detto, così ora mi sentirò più a mio agio.
Beato te, vorrei dirgli, beati tutti quelli che sanno sempre cosa dire. Beati i giusti, quelli che hanno un indirizzo, uno scopo, un ruolo nella società. Beati quelli che camminano e sanno dove andare.
Risbuco fuori solo al momento di accomiatarsi, mi guardano un po’ straniti, come a dire: “E questa dov’è stata tutto il giorno, da dove salta fuori?” Li saluto come niente fosse, come se ci avessi parlato tutto il giorno, invece di starmene rintanata al piano di sopra.
L’unico pensiero che mi tiene a galla in quei momenti siete voi, sapere che esistete, che anche voi, ovunque siate, vi state sentendo esattamente come me: pesci fuor d’acqua.
Certi giorni proprio non me la sento di elargire consigli da guru della fs, non me la sento di riderci su. Capita che tutto imploda dentro, collassi come un buco nero.

Poi passa, poi si respira, si rialza la testa, si riparte controvento.

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Kalinka

28 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Kalinka

Crociera, corsetto di ballo e canto in lingua straniera cui partecipo tanto per divertirmi e passare il tempo. All'ultimo momento sbuca fuori che dobbiamo esibirci la sera finale davanti a un pubblico di 150 persone. (Aaargghhhh)

Allora... io sono stonatissima, ho una vocetta tipo cartone animato e mi muovo come Gollum, però il mio sogno, fin dai temi dell'Antoniano, è sempre stato cantare in un coro. In un coro, si badi bene, non certo in assolo, dove la voce nemmeno mi uscirebbe. Quindi la seconda opzione, cantare con gli altri, non mi spaventa perché abbiamo tempo per provare, teniamo in mano il foglio con le parole straniere, siamo un gruppetto e, mi dico, se qualcosa non va, posso sempre muovere la bocca e fingere di essere in playback.

L'altra prova, invece, mi angoscia, anche se si tratta di una stupidaggine fatta per ridere fra noi, anche se i movimenti sono facilissimi e i compagni babbani goffi e imbranati quanto me. Io temo molte cose: dimenticare i passi, andare in senso contrario, far ridere i polli. Cerco di convincermi che il fine è divertirsi e divertire e, quindi, più si sbaglia più si raggiunge lo scopo, cerco di convincermi che quelle persone non le conosco, non m'importa di loro e non le rivedrò più, ma serve a poco. Inoltre temo che partecipare a due esibizioni nella stessa mi renda una scemotta che si crede la Cuccarini di turno. Come ben sapete non facciamo mai nulla senza chiederci che cosa penserà di noi la gente.

Man mano che passano i giorni e si avvicina quello dell'esibizione, la mia ansia cresce e vorrei districarmi dal ballo per concentrarmi solo sul canto. Provo timidamente a chiedere all'insegnante se mi posso esimere ma mi dice di no, sorridendo, piena di fiducia e di allegria, e non me la sento più di insistere. Per amor suo farò l'agnello sacrificale. Con me c'è una signora anziana, di quelle ciarliere che cantano, ballano, si godono la vita, rompono i coglioni allegramente a tutti fregandosene delle critiche. Insomma la vecchia che non sarò mai. Scherziamo insieme sulla serata che ci aspetta ed io, per la prima volta, dopo tutti questi post, me ne esco con: "Si figuri che io sono affetta da fobia sociale."

Lei mi guarda incerta: "Che cos'è?"

Ecco, io mi sento, tutto insieme, scema, malata, handicappata, ridicola. Mi faccio coraggio e le spiego, con parole comprensibili per una babbana estroversona, che è una forma di timidezza estrema. Sembra rassicurata.

L'ultimo giorno delle prove sono ormai rassegnata alla gogna, quando lei, proprio lei, senza dirmi niente, si rivolge all'insegnante e le chiede se io posso essere esentata e sostituita perché non me la sento.

Vi elenco qui sotto il profluvio di emozioni:

1. ENORME SMISURATO GIGANTESCO SOLLIEVO.

2. Nervosismo all'idea che lei, senza avvisarmi, si sia permessa di scegliere per me.

3. Rammarico al pensiero della cosa non fatta e della piccola occasione perduta.

4. Senso di colpa per aver rifiutato, per essermi sottratta all'ultimo minuto creando difficoltà agli altri, e per non aver saputo farlo da sola ma dovendo ricorrere ad un aiuto esterno.

4. Una sensazione brutta, sgradevole, riguardo a questo outing. Non è, mi dico, che a furia di parlarne, la mia cara, vecchia fs, se ne sta andando ed io sono qui con voi a ragionare sul niente? Poi mi ricordo dell'altro giorno, quando una conoscente che non vedevo da tempo mi ha chiesto notizie ed io sono andata nel pallone e non sapevo più dove guardare, cosa fare, come sottrarmi. Perché la fs è così, ti azzanna alle spalle quando meno te lo aspetti, con chi non te lo aspetti, nelle situazioni più banali e innocenti. C'è stato un periodo, ricordo, in cui non riuscivo nemmmeno a guardare in faccia mia madre e, per parlarle, mi nascondevo dietro un oggetto.

5. Disagio per averne discusso apertamente con una sconosciuta. Mi sembra di aver sfondato quel guscio di pudore che mi proteggeva - mettendo in piazza un sentimento che forse dovrebbe rimanere dov'è, chiuso, custodito - svilendolo, ostentandolo come una bandiera. Che è poi quello che vi esorto sempre a fare ma, ora che l'ho fatto io, mi sento come se fossi uscita di casa con indosso solo un paio di mutande volgari.

Detto tutto questo, invito chi mi ha detto che appaio "spensierata e non certo tormentata dalla fobia sociale" a soffermarsi sui punti dall'1 al 5.

(Ah... comunque, per chi fosse interessato, l'esibizione è andata, ci siamo divertiti e tutte quelle facce che ci fissavano sorridendo e battendo le mani non mi hanno spaventato. Anzi, quando è finita, mi è pure dispiaciuto.)

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Luciana Fabbroni e Daniela Minici, "La partita della vita"

26 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Luciana Fabbroni e Daniela Minici, "La partita della vita"

La partita della vita

Luciana Fabbroni

Daniela Minici

Luoghi interiori, 2014

pp 175

14,00

Scritto a quattro mani nella forma del romanzo saggio, “La partita della vita” di Luciana Fabbroni e Daniela Minici, contiene dialoghi che sono pretesti per dissertare sulla libertà femminile. Quattro mani che in parte inventano, in parte sognano ad occhi aperti, in parte forse traggono spunto da ricordi, esperienze, brani di diario o percorsi personali, mescolando narrazione, speculazioni sull’emancipazione, teorie di tipo scientifico mutuate dagli studi, dalle professioni e dagli interessi delle due autrici. La vita è paragonata, come nel titolo, a una partita da giocare ma anche alla struttura dell’atomo di carbonio.

“La vita è nata come conseguenza di questa grande reattività del carbonio. La vera indole dell’umanità è quindi questa. Formare più legami possibili, cedere, prendere, mettere in compartecipazione le proprie risorse, creare una rete di relazioni che soddisfino le necessità della propria natura.” (pag 175)

Le protagoniste sono donne quasi sessantenni, ognuna col suo carico di problemi, che suggeriscono l’abbandono dei legami familiari tradizionali in favore di una rete di rapporti amicali.

L’amicizia fra donne è forse l’unica vera conquista, sintomo di una parziale autonomia e indipendenza.” (ivi)

Queste donne, tuttavia, appartengono a una categoria precisa, quella delle signore benestanti e bene abituate, per le quali il massimo dell’avventura è trascorrere una giornata su una spiaggia senza il confort di bar e lettino; signore che frequentano solo “i migliori ristoranti” e non hanno problemi a fare shopping per rinnovare in toto il loro guardaroba. Costoro cercano l’emancipazione dal giogo maschile, in nome di un lecito rispetto di se stesse. Tuttavia, ciò di cui parlano, di cui raccontano, di cui scrivono è proprio l’uomo, ed ogni capitolo prospetta un'avventura galante, un incontro. L’uomo, però, non è inteso come compagno di vita, depositario di sentimenti profondi, bensì come divertimento, conferma di seduttività. Le protagoniste, a ogni pagina, s’imbattono in maschi galanti, i quali, invece di perdere la testa per la segretaria trentenne, s’innamorano di loro a prima vista, scatenando provvidenziali gelosie nei compagni di sempre, ritrasformandoli in fidanzati premurosi. Tutto ciò, dobbiamo ammettere, appare abbastanza improbabile, soprattutto in età così matura.

Più che cercare legami duraturi e coinvolgenti, queste donne sembrano inseguire emozioni superficiali, il piacere di rigenerarsi in modo lieve, con un impegno che contempla solo se stesse, colorando abiti e vestiti, svecchiando la propria anima, riscoprendo il piacere della leggerezza e della libertà, potenziando l’autostima ammaccata dal tempo. A tale proposito, i personaggi maschili sono poco caratterizzati, quasi, con poche eccezioni, intercambiabili fra loro. A mitigare lo slancio, però, subentra il freno inibitore dei principi morali, usato quasi come scudo, come protezione dai colpi di testa.

Il romanzo si fa leggere velocemente, è scorrevole e non annoia. Lo stile è piano, semplice, fluido, piacevole, senza stacchi dovuti alla stesura a quattro mani che si può rilevare impercettibilmente forse solo nel contenuto.

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Giuseppe Fornari, "La verità di Caravaggio"

20 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #saggi, #pittura, #personaggi da conoscere

Giuseppe Fornari, "La verità di Caravaggio"

La verità di Caravaggio

Giuseppe Fornari

Nomos edizioni, 2014

pp 172

19,90

Docente non di storia dell’Arte, bensì di storia della filosofia, all’Università di Bergamo, Giuseppe Fornari affronta in questo saggio un’interpretazione personale dell’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio.

Confrontandosi,sia con alcune montature nate dall’enorme e crescente notorietà dell’artista seicentesco, sia con la critica storica prima, e con quella recente poi, egli elabora una teoria non scevra da convinzioni ideologiche personali.

Parte dall’assunto che “Caravaggio va cercato là dove egli voleva essere trovato”, cioè nelle sue opere e, per questo motivo, ne analizza molte in modo dettagliato e tecnico, a partire dai lavori giovanili, definiti “precaravaggeschi”, con la loro trasparenza vetrosa e il non rifiuto del colore, fino agli ultimi capolavori prima della morte.

I miti da sfatare sono due: lo psicologismo e il naturalismo. A Caravaggio non interessa la psicologia dei personaggi, ecco perché i suoi ritratti sono una delusione sotto questo profilo. Egli inserisce la figura umana nel complesso dell’azione, racconta un fatto così come si svolge, nella sua immediata e cruda verità, senza scandagliare l’animo dei protagonisti e senza cercare il contatto estremo con la realtà, bensì, piuttosto, l’allusione al simbolo religioso. (Fornari, infatti, a livello filosofico, riconduce lo sviluppo della cultura a esperienze estatico religiose). Il canestro di frutta, ad esempio, presenta pomi corrotti, in omaggio, sì, alla nuda oggettività di ciò che ci circonda, ma anche come simbolo barocco di caducità, di effimero, di corruzione.

Il segno determinato e determinante è quello della storicità, non dello psicologismo soggettivo, (che non è il segno nemmeno della psicologia di un Tiziano o di un Velazquez, che ci restituiscono il mistero metafisico dell’incarnazione dispiegato nella storia, non introspezioni di sapore otto o novecentesco) (pag 25)

Caravaggio si allontana progressivamente dai colori giovanili, mutuati dall’ambiente lombardo veneto, da Tiziano e da Tintoretto, attraversa l’esperienza plastica e religiosa di Michelangelo, e giunge all’uccisione dei colori, all’oscuramento della luce, del lumen che si abbuia e si condensa in un unico raggio salvifico, rappresentativo di pentimento e grazia (Vocazione di San Matteo).

Secondo Fornari, le opere di Caravaggio facevano discutere, sconcertavano i committenti e piacevano al grande pubblico per la loro profonda religiosità e non per il brutale verismo o per una “indagine galileiana” della materia. Tutto è luce e simbolo, in Caravaggio, anche la pastosità delle forme, anche i gesti che sono plastici ma rarefatti, allusivi. Il suo è un realismo, ci dice Fornari, dionisiaco e cristologico, che si sviluppa dalle prime alle ultime opere con sempre maggiore potenza, con meno manierismo e più drammaticità, grazie anche all’incontro con la cultura romana e la pittura piena di contenuti di Michelangelo Buonarroti. Anche Michelangelo è profondamente religioso, morale, spirituale. Le figure acquistano forza e si collocano in rapporto reciproco, in un tutt’uno che cristallizza l’azione, incarna l’agire divino nella storia (Conversine di San Paolo e Crocifissione di San Pietro), illuminate da una luce tagliente come un raggio laser. Immagini, insomma, a uno stesso tempo allegoriche e naturali.

Anche all’apogeo della fama, Caravaggio non smise mai di fare ricerca, non si accontentò di ingraziarsi i committenti con qualche opera di maniera. “Ambizioso, protervo e orgoglioso, e tuttavia portatore di una luce segreta”, egli era un temperamento rissoso, violento, malinconico, ossessionato dalla morte, com’era nello spirito del secolo, morte che non smette di additarci in ogni suo dipinto, in modo spietato (Morte della Vergine, Seppellimento di santa Lucia). La morte è mancanza, sottrazione, strazio lucido, tomba che ci inghiotte.

Ripreso poi anche da Goya è il tema della verità. La verità intesa non come naturalismo materialista ma come accettazione della dura realtà dei fatti, esclusione del bello, della diplomazia, della mitigazione. E tuttavia, mentre si rivive il fatto nell’azione, se ne scopre tutta la simbologia nascosta, la drammaticità evocativa e cristologica, la forza redentiva. (Resurrezione di Lazzaro).

Michelangelo ha improntato di sé un’epoca, si è proiettato verso di noi anche attraverso Velasquez, Rubens e lo stesso Goya. Concludiamo dicendo che, forse, solo la visione di questi classici intramontabili della pittura mondiale, potrà salvarci dall’abbrutimento e dall’effimero.

In anni stupidi e oscuri come quelli che stiamo vivendo, non dobbiamo mai dimenticarci di queste fantastiche creazioni, perché nel loro retaggio, nella ricchezza spirituale che ci trasmettono, e che le chiacchiere insulse da cui siamo circondati non riescono neanche a sfiorare, c’è forse la sola speranza per il nostro futuro.” (pag 9)

Giuseppe Fornari, "La verità di Caravaggio"
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Qualcosa si muove

18 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Qualcosa si muove

Su un blog ho trovato questa frase:

Mi piace tenere le persone a distanza. Perché sono socialfobica”.

Non l’avevo mai messa in questi termini ma penso che sia la più bella definizione di fs che ho sentito: sta tutta lì, la fobia sociale, nel tenere la gente a distanza. Ci rimanevo male quando le amiche, verso le quali provavo affetto, con le quali mi pareva di essere premurosa, e alle quali m’illudevo di risultare simpatica, mi definivano poi “scostante”. Bene, ora lo sanno tutti che sono scostante: guai a chi si avvicina!

Ricordate il tizio dell’Associazione Tal dei Tali? Eravamo rimasti che dovevo chiamarlo. Trovare una scusa per posporre, come ben sapete, aiuta a rilassarsi e per qualche giorno ho spinto il problema nel retrobottega della mia mente incasinata. Alla fine mi costringo a fissare sull’agenda una data per telefonare.
Dimenticavo di dirvi che, oltre che socialfobica, sono anche ossessivo-complusiva, pianifico tutto, m’impongo doveri e faccio ogni cosa secondo schemi da me stabiliti e regole autoimposte. Questo mi aiuta a essere metodica, a concludere, a portare avanti gli impegni fino allo sfinimento, ma limita molto l’inventiva e rende inattuabile e ansiogena l’improvvisazione.
Giunto il giorno per telefonare, capitolo, vengo sconfitta da me stessa, e delego ad un amico l’impegno, il quale, però, dimentica di farlo. Allora prendo il coraggio a quattro mani e chiamo io. Fissiamo un appuntamento per la settimana dopo nella sede dell’associazione. Altro rinvio, altro momentaneo rasserenamento: chi sa, capisce.
Man mano che il fatidico giorno si avvicina, nondimeno, l’ansia anticipatoria monta. Mi sforzo di pensare a tutto quello che, da mesi, consiglio a voi. Mi dico che è il tizio che vuole vedere me, non io lui, che è lui che deve sentirsi a disagio, non io. La paura del panico, tuttavia - la paura della paura - è sempre in agguato. Il giorno dell’incontro mi sveglio agitata, come se andassi a un esame, con un filo d’emicrania che minaccia di deflagrare, e non vedo l’ora di togliermi il dente. Vorrei farmi accompagnare ma decido che devo affrontare la cosa da sola, che sono adulta e vaccinata, che avere sempre uno chaperon è limitante e non mi fa fare certo bella figura.
Il tizio, compassionevole, ha davvero “allestito un confessionale” per me. Mi riceve in una stanzetta, siamo a tu per tu, e questo per me va bene, interagire con una sola persona non è troppo difficile, non sopporterei, al contrario, che ci fosse qualcun altro a osservare mentre parlo con lui. Nella stanza accanto è in corso una riunione di soci e ho il terrore che voglia portarmi di là e presentarmi, ma ha il buon senso di non farlo.
In breve vi dico che sono soddisfatta di come ho gestito la situazione. Alla sua gentile richiesta di farmi partecipare alle conferenze, rispondo con tutta la decisione che mi concede la mia voce malferma: non è una cosa che rientra nelle mie possibilità o capacità. Lui insiste che la timidezza si supera con l’età. Sto per ribattere che la mia non è timidezza ma fobia sociale, poi scelgo di tacere. Non è un amico, non gli devo spiegazioni, si accontenti di sapere che non mi va e basta. Mi dice che ci sono altri che partecipano solo per scritto e hanno delle remore a presentarsi in pubblico. Le mie non le definirei esattamente “remore” ma sorrido e cambio argomento.
Anche se non sono sciolta, riesco per tutta la mezz’ora a parlar in modo abbastanza chiaro e fermo, tengo in mano io il gioco, stabilisco con risolutezza ciò che voglio e non voglio fare: interverrò alle conferenze più interessanti, gli dico, ma solo come spettatrice e, a casa, scriverò qualcosa in proposito. Leggerò i suoi libri e li recensirò. Non mi paga, penso, perciò se gli va, è così, altrimenti è così lo stesso. Al momento di congedarmi – momento tragico di cui parleremo in un’altra puntata - deve leggermi l’imbarazzo in faccia perché è lui a interrompere bruscamente e salutare. Esco abbastanza soddisfatta: questa volta è andata bene. Altre volte l’ansia aveva superato le aspettative, qui, per fortuna, è stata inferiore.
Ma se non avessi parlato con voi, se non avessi a sostegno questa specie di blog confessione, non avrei saputo affrontare la cosa nel modo giusto e sarei caduta nell’angoscia da prestazione, con la paura di non sapermi rifiutare e il senso di colpa per aver perso, al contempo, una occasione stimolante.
Per finire, vi lascio con una massima: non cercate l’approvazione altrui - l’approvazione di vostra madre o di vostro padre, di vostra sorella, del vostro ragazzo, dei professori, dell’amica. Non l’avrete mai. Ognuno di noi critica ed è, a sua volta, criticato. È una legge di natura, è nell’ordine delle cose. Quindi, nei limiti del consentito, fate ciò che sentite giusto per voi. Non piacere per non piacere, meglio che siate disapprovati perché avete fatto qualcosa che vi gratifica.

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Pensieri a random (oppure a cazzo, come preferite)

12 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Pensieri a random (oppure a cazzo, come preferite)

Trasformare le debolezze in punti di forza è quello che vi esorto a fare, ed è quello che sto facendo con questi post, o meglio, questi pensieri a caso rifilati come fossero verità scientifiche. Avete presente Mina e il compianto Battisti che non si sono fatti più vedere per motivi loro? Bene, più stavano nascosti, più il loro cachet aumentava. Ora, io non sono Mina né Battisti, sono pure un attimino stonata come una campana, però pensavo che, magari, starmene rintanata, comunicare solo attraverso un blog, potrebbe servire a costruirmi un personaggio “misterioso ed intrigante” capace di folgorare qualche editore. Sì… sì, come no. Intanto io ci provo, perché è l’unica cosa che posso fare. Fatelo anche voi, trasformate la vostra timidezza in riserbo, la vostra paura in pudore, il vostro silenzio in grazia, in sensibilità, in intuito. Fuori ci sono tanti rumori e voi, invece, vi raccogliete al centro di voi stessi ad ascoltare la musica del cuore. (Violini in sottofondo.)

***

Qualunque altra paura è un alibi per non affrontare la paura più grande, quella di uscire, prendere in mano la propria vita e guidarla da qualche parte. Già, guidare. Altro nodo dolente. La maggior parte dei socialfobici (pardon, ansiosi sociali) non ha la patente (come la sottoscritta) oppure ce l’ha ma non guida. Guidare vorrebbe dire farsi carico di se stessi, non dipendere dagli altri, non avere uno chaperon che ti accompagna, dare una direzione alla propria esistenza. Tutte cose che ci fanno rabbrividire. Noi preferiamo la palude Stigia, preferiamo la melma che ci avviluppa, preferiamo l’inferno.

***

Sempre parlando di fobie che si sommano, vi racconto la mia. Avendo avuto una madre dispotica e castrante, un padre severo, rigido e ipercritico, ho sviluppato una totale avversione per l’autorità. Non la definirei proprio fobia, piuttosto incapacità di sottomettermi. Quindi detesto i controlli, le ispezioni, la richiesta di mostrare documenti, le perquisizioni, il metal detector, i posti di blocco. Inutile dire che sono stata denunciata per oltraggio a pubblico ufficiale e che, all’aeroporto di Istanbul, per poco non mi arrestano. Se mi mettete davanti qualcuno in divisa che, con fare anche gentile ma comunque autoritario, pretende qualcosa da me, mi si mette in moto l’amigdala, mi scatta quello che Goleman chiama “sequestro neuronale”. Non ci vedo più, o meglio, vedo rosso come i tori, perdo il lume dagli occhi. Divento come un gatto al quale il veterinario vuole fare la diciottesima iniezione di seguito. Cotanta signorile personcina si trasforma in uno scaricatore di porto capace solo di gridare parolacce all'attonito rappresentante della legge.

È una questione di cervelletto (non nel senso di cervello piccino, anche se può sembrare), di risposte neuronali che arrivano dal profondo dell’ipotalamo. Hai voglia a farti il training autogeno preventivo, hai voglia a dire manomastafacendosoloilsuodoverevedraichestavoltanonreagiscitanto male. La bestia si scatena ogni volta e sono dolori.

Solo l’esposizione ripetuta (chiamatela pure terapia comportamentale autogestita se vi fa sentire più fighi) mi ha permesso di ricominciare a prendere l’aereo e adesso, se non mi toccano, se non mi mettono addosso le loro manacce, almeno il metal detector lo passo senza troppa angoscia. Ma fino a che non sono dall’altra parte, finché non ho raggiunto il salvifico gate, non mi sento libera e tranquilla. Se c’è qualcuno fra voi cui accade la stessa cosa, beh, mi piacerebbe saperlo. Chissà se ciò ha a che fare con la fs, oppure è solo un cacchio di problema in più?

***

Ho notato per esperienza che molti socialfobici di grande intelligenza e capacità sono, però, dei tremendi inconcludenti. Talenti sprecati, gente che cazzeggia e rimugina invece di risolvere. Gli chiedi di fare qualcosa, ti dicono sì perché non sanno dire no, e passano mesi, poi anni. Perché, domando, potendolo evitare, aumentate così i vostri già immensi sensi di colpa?

Io sono l’opposto, ed anche quello non va bene. Io sono talmente ansiosa che, prima ancora che tu mi chieda una cosa, l’ho già fatta e, magari, l’ho fatta di fretta e male pur di liberarmene, pur di non dire il fatidico NO. Ho una totale congenita incapacità di prendere tempo o rimandare. Pare che questo mio non sia attivismo, non sia affidabilità e serietà, bensì pura, autentica, pigrizia. Odio talmente fare fatica che voglio togliermi il pensiero prima possibile e placare l'ansia. Chi se ne accorge, poi tende ad approfittarsene.

Qui sorge un dubbio: quanta della nostra cronica paura, con l’andare degli anni, diventa solo pigrizia? E quanto di quello che non facciamo, finisce per non piacerci nemmeno più? Invecchiando s’impara a rinunciare, e, rinunciando, ci si abitua alle mancanze, ci si rassegna e si soffre di meno. L’età dà sicurezza, certo. Quel cappello che, fobici o non fobici, da giovani non portereste mai e poi mai, a 53 anni ve lo mettete senza nemmeno guardarvi allo specchio. Ma le debolezze che sono accettabili da ragazzini diventano patetiche in menopausa, quando la fobia esplode sulla scala di un supermercato e tu non sai più dove guardare come una pischella di 13 anni.

***

Imparare a capire cosa ci piace e ammettere con noi stessi di meritare alcuni piaceri è un compito difficilissimo. Ma dovete portarlo a termine, per il vostro bene. A furia di sacrificarci per non fare brutte figure, per non apparire egocentrici (badate bene, non parlo di autentico altruismo, solo di voler essere a tutti i costi giusti) finiamo per non comprendere che cosa veramente ci piacerebbe fare. Ecco, allenatevi a scegliere, almeno dentro di voi. Non in generale ma proprio ora, in questo momento. Volete il pesce o la carne, il mare o la montagna, l’autobus o la bicicletta, gli spaghetti o la pizza, il cinema o la televisione? Anche se non otterrete ciò che volete, anche se non lo chiederete nemmeno e terrete i risultati del test per voi, è importante già saperlo, conoscere i vostri desideri. E anche dire qualche no deciso, seppur educato, diventare assertivi: "No, mi dispiace, questa cosa proprio non mi va di farla. Oppure, oggi no, magari un'altra volta, in altre condizioni, ma oggi proprio no." A costo di suscitare stupore e disapprovazione in chi vi ha sempre sentito dire sì, a chi dà per scontato che diciate sì. Questo non vuol dire trasformarvi in odiosi egoisti, solo pretendere rispetto anche delle vostre esigenze, mettere dei paletti oltre i quali gli altri sanno di non dover passare..

E, comunque, se una cosa non danneggia nessuno, perché non farla? Perché non alzarsi e chiudere la finestra se uno spiffero vi sta congelando la cervicale in sala d'aspetto? Perché non prendere un’altra tartina al buffet? Se ce n’è in abbondanza per tutti, perché rimanere in un angolo con la bava alla bocca? Chi vi giudicherà per questo? E, dovessero pure farlo, che male può derivarne? C’è forse la pena di morte per chi prende la seconda tartina?

***

Qual è il limite fra fs e asocialità? Sento molti dire che, se non avessero la fs a bloccarli, sarebbero degli estroversoni. Ed anch’io, vi parrà strano, dal test del Rorschach - quello delle macchie, per capirci - sono risultata tutt’altro che introversa. È che, abituandoci a star soli, pian pianino la paura degli altri diventa fastidio degli altri. Il telefono che suona non crea solo ansia, rompe proprio i coglioni, specialmente se in tv c’è il tuo programma preferito. Anche qui, come per la pigrizia, credo sia un fatto di età. Col tempo la giovinetta desiderosa di stare in compagnia, confidarsi con le amiche ed essere parte del branco, si trasforma in vecchiaccia solitaria, acida e coriacea.

***

E ora, venuto il momento di congedarmi da voi, vi parlo, appunto, del congedo. Non so se è solo un problema mio, ma al momento di staccarmi dalle persone non so mai come fare e risulto brusca e lapidaria. Vorrei andarmene, sto sulle spine, farei qualunque cosa perché il colloquio avesse termine e, invece, l’altro indugia, non la smette mai con i convenevoli e ricomincia il discorso da capo, come in un loop cretino.

Allora sto cercando d’imparare la mimesi: scimmiotto gli altri, come un commensale truzzo che non sa quale forchetta usare. Al momento del terribile saluto, invece di troncare di netto creando imbarazzo, ripeto i balbettii di rito, ovvero l’odioso “cia... cia…ciao…ciao eh…ciao, un bacio, un bacione, ciao, a presto, cia… cia… ciao… cia…” E che cavolo! Ma un ciao solo non basta?

Vabbè, d’ora in poi farò come gli umani, ciacciaerò anch’io allegramente.

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Siam tre piccoli consiglin

9 Agosto 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Siam tre piccoli consiglin

Un consiglio per coloro che devono fare un esame. Ovviamente studiate tanto, siate padroni dell’argomento, del testo. Poi, una volta imparato e ripetuto, fate un’ulteriore esposizione a voce e registratela. Risentitela in continuazione, mentre fate la doccia, mentre vi truccate, mentre cucinate o mettete in ordine la vostra camera, se possibile anche mentre andate in macchina, però state attenti alla guida. Le parole vi entreranno dentro, diventeranno vostre, s’incastreranno nella memoria come un motivetto ossessivo e vi usciranno con facilità, oltre la barriera del panico.

Altro consiglio per tutti. Siate comunque gentili. Chi non saluta non è timido, è maleducato. Dite pure buongiorno con la testa bassa, con gli occhi inchiodati alle punte delle scarpe, con le orecchie in fiamme, ma ditelo. E sforzatevi di sorridere, anche se le labbra si stirano in un ghigno e la fronte si aggrotta.

Per finire, vi esorto di nuovo a mettere su carta i vostri guai, magari in un diario o in un blog anonimo. E fatelo con autoironia, senza commiserarvi ma, anzi, ridendo di voi. Vi renderete subito conto di quante paure, in effetti, non avete. Circoscrivere il problema (come vi ho detto già tante volte) ed esternarlo, vi farà stare meglio, alleggerirà il peso, vi farà sembrare le cose meno gravi di quel che sono. Parlare delle brutte esperienze, ridicolizzarle, le esorcizza, ve ne libererete, non continueranno a tormentarvi per anni.

Proprio come ha fatto Duille, una ragazza con i nostri problemi, tenerissima, dolce e fobica in modo positivo, non nichilista ma pronta a riconoscere il bello della vita. Con orgoglio annunciamo che è entrata a far parte della redazione e ad agosto uscirà il suo primo post. Lei ci aiuterà a vedere il lato positivo di ciò che siamo.

Nel frattempo, godetevi il suo dolcissimo blog:

stelid'erba.blogspot

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Lillo Favia, "Come meta il viaggio"

30 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Lillo Favia, "Come meta il viaggio"

Come meta il viaggio

Lillo Favia

Ebook 2014

Tutto si può dire di “Come meta il viaggio”, di Lillo Favia, tranne che non sia originale. Non per il contenuto - ché pur sempre trattasi di storia maschile di sesso, droga e rock and roll – ma piuttosto per lo stile. Di solito testi di questo genere, sulla scia dei vari Kerouack, Bukowski, Carver etc, che imperversano nella narrativa odierna prodotta dai maschi dai vent’anni in su, sono scritti in un linguaggio “postmoderno” infarcito di volgarità, ormai standardizzato fino a diventare anonimo. Il romanzo di Lillo Favia, invece, gioca con le parole e porta avanti un’approfondita ricerca, non per niente egli si definisce “meccanico della lingua”. La narrazione si avvale di una prosa che sfocia nella poesia, alternandosi spesso a essa. Favia non lascia nulla al caso e l’analisi stilistica diventa esistenziale.

Per un artista, l’opera è una missione, un percorso impervio in cui rintracciare un’ipotesi di libertà. In cui provare a risolvere i propri dilemmi, le proprie paure, il proprio non saper vivere.”

Il narratore racconta la storia dell’amico Max, prematuramente scomparso. Insieme i due hanno attraversato tutti gli stadi di un vivere giovanile estremo, dal viaggio on the road, alle canne rollate, su su fino al primo buco, alla dipendenza da eroina descritta con la stesso sguardo ravvicinato di Gregory David Roberts in “Shantaram”, alla disintossicazione nella comunità di recupero Albatros, diretta dal tremendo Don Rosario, personaggio ambiguo e non del tutto positivo. Alla fine, però, i cammini dei due giovani divergono: Max perirà poiché la perdita che dovrà subire sarà talmente dolorosa e inaccettabile da poter essere sublimata solo con la morte. Prima di morire, però, egli sceglierà la strada, diventerà un senzatetto, nell’accezione più nobile del termine. La strada, più che la droga o il viaggio, incarnerà l’indagine spirituale, l’affinamento, la libertà da ogni sovrastruttura, il percorso dentro se stessi.

È solo grazie al suo intuito se ho potuto intraprendere questo esaltante percorso letterario, questa impagabile auto-analisi”

Sorge il dubbio che Max sia l'alter ego del protagonista, e il “Max pensiero” ciò che il protagonista pensa o vorrebbe pensare. Max è quello che il protagonista diventerebbe se andasse a fondo nell’autodistruzione, nella trasgressione, nell’annullamento dei legami civili: amicizia, amore, famiglia, dogma. E il rapporto che li lega è indefinibile, quasi una sorta di amore platonico che supera e sublima ogni vincolo con l’altro sesso.

Ambientato negli anni 80 e 90, fra la Puglia, l’Olanda e vari altri luoghi, il romanzo mostra una vera e propria ossessione per le date, quasi a voler fissare i momenti, a voler imbrigliare e catalogare una vita che appare senza direzione, dando senso alla morte. E la morte, si scoprirà, è un diritto, un atto di estrema affermazione di sé:

Sono pronto ad affermare che Max aveva tutto il diritto di decidere il proprio futuro, di arrogare volontà di vita o di morte sul proprio tempo. Mi vergogno come un assassino per aver messo in discussione il suo libero arbitrio. Ora che ho viaggiato fra i suoi tormenti, tra le sue scritture, tra i suoi ricordi; ora che assaporo in pieno il proverbiale respiro della parola “vita”: riesco a percepire la sua condizione di neo giovane Werther.”

Scrittore e musicista barese, Lillo Favia sembra optare per la commistione di generi e stili in modo sperimentale. Ed anche questa pare essere una caratteristica degli artisti di ultima generazione, cioè la multimedialità e la mescolanza della scrittura con altre forme d’arte, dalla musica, al canto, alla danza. C’è una miscela fra un “basso” – la vita randagia, le crisi d’astinenza, il sesso a pagamento –e un “alto” costituito dai frequenti abbandoni lirici della prosa.

Partimmo a notte fonda, all’ombra di un cielo nero. L’aria era farcita di quei tipici sapori del litorale pugliese, le alghe fresche allineate dal grecale, l’ulivo, il pino marittimo, le effusioni di terra d’argilla rossa e rosmarino si rincorrevano e mischiavano lungo la lingua d’asfalto.”

Certo è che non sempre la mistura di tecniche e forme espressive (fra appunti, dialoghi, brani di diario, versi lasciati in giro da Max come indizi) riesce ad apparire funzionale, capita di chiedersi se non si sia voluto accogliere tutto (troppo) senza saper tralasciare o, come minimo, amalgamare, e nasce il sospetto di possibili incursioni nel diario privato dell’autore.

Nel complesso un lavoro scorrevole, nonostante la sperimentazione, che non annoia ma, piuttosto, mostra un notevole sforzo di elaborazione linguistica, non comune di questi tempi e senz’altro positivo.

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Un giorno di ordinaria follia

28 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Un giorno di ordinaria follia

Suona il telefono e sul display compare numero privato. Non è un parente stretto, ergo il cuore accelera.

“Salve, sono dell’associazione culturale tal dei tali, la contatto in merito a quegli articoli che lei ha scritto.”

“Ah… ehm… guardi, non è che io sia proprio un’esperta dell’argomento, cioè… ho letto qualcosa… mi sono informata…”

(Oddio, per chi mi ha preso questo? Oddio, forse mi crede più di quel che sono, in fondo ho solo fatto qualche ricerca, ho letto Wikipedia, oddio non sono assolutamente all’altezza… stai a vedere che ho scritto un mucchio di cazzate e questo vuole sconfessarmi.)

“Vorremmo incontrarla di persona.”

(Ma che bisogno c’è? Ma non vi basta quello che scrivo? Cos’è questa necessità che hanno sempre i babbani di vedersi, d’incontrarsi, di bere un caffè insieme?)

“Ehm… ma per quale motivo, scusi?”

“Noi facciamo delle conferenze.”

(Conferenze???!!! Io?!!!!!) “Sa… io avrei un problema a parlare in pubblico…”

“Che vuole che sia! Ma non si preoccupi, siamo tra amici!”

(Ma io nemmeno tra amici.) “Mi dispiace, sono molto timida.”

Risata: “Eheh, le allestirò un confessionale, va bene?”

(Ha ragione Claire: i babbani non capiscono, non capiranno mai. E ridono. E mi tocca fingere di divertirmi anch'io.) “Ah… ah…”

“Le do il mio numero.”

(‘Cazzo me lo dai a fare? Non ti chiamerò mai!)

“Ci conto, eh, mi chiama?”

“Uuugh…"

“Allora quando ci vediamo?”

(Ma non ti voglio vedere, non ti voglio parlare, non voglio vedere nessuno, sto male anche solo a risponderti al telefono, odio il telefono, datemi una pala che mi scavo un buco e mi ci seppellisco.)

"Ok, va bene, la chiamerò".

***

Con mio marito andiamo a mangiare un panino fuori. All'improvviso, entra un gruppo di colleghi suoi che hanno scelto proprio oggi per festeggiare lì non so cosa. Me li ritrovo tutti schierati che ci fissano immobili e sornioni, sembra il tribunale dell’Inquisizione, l'imbarazzo esplode, non so più dove guardare, mi entra un giramento di coglioni a bestia, dico: "Vado a prendere un po' d'aria" e schizzo fuori a razzo senza salutare nessuno, mangio il panino all'addiaccio, su un tavolino bagnato di pioggia. Mio marito è costretto a lasciare gli amici, a raggiungermi con aria impietosita e compassionevole. All’aperto fa meno venti, la salsa verde si congela, le melanzane mi si fermano sullo stomaco, la mia autostima si sgretola mentre rimugino su cosa staranno pensando di là gli amici di lui.

***

E per concludere, alcuni consigli.

Ricorda che anche gli altri hanno paura, però non ne fanno un dramma.

Muoviti lentamente, fai tutto con più calma del normale. Tanto apparirai comunque schizzato.

Non restare impalato mentre ti fissano, tieni a portata di mano un giornale da sfogliare (alla diritta!) o un cellulare da cui fingere di inviare sms.

Se devi telefonare a qualcuno, preparati su un foglio le domande da fargli.

Se arrossisci e sei una donna, puoi sempre dire di avere le caldane. Sforzandoti, magari riesci a dimostrare più di quarant’anni.

Ogni tanto lascia che siano gli altri a provare imbarazzo per primi. Perché sempre e solo tu?

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Domenico Cosentino, "Midnightwalker"

25 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Domenico Cosentino, "Midnightwalker"

Midnightwalker

Domenico Cosentino

Palladino Editore 2014

pp 156

8,00

Se pensate che la poesia sia esprimere i propri pensieri, la propria visione del mondo con grazia, dolcezza e raffinatezza, quelle di Cosentino non chiamatele poesie.” (citazione dal sito www.domenicocosentino.it)

Infatti, non lo facciamo. Può coesistere il bello e il brutto in un solo volumetto, ci chiediamo piuttosto? Sì, e ve ne porgiamo un esempio diretto, molto più immediato di qualsiasi spiegazione.

Collusion

Mangio il tonno in scatola della

Dicoop

direttamente nella scatoletta

di metallo,

affacciato al balcone

con il vento che mi asciuga il

sudore

osservando il cavalcavia

dove i marocchini vanno a

pisciare di notte

le foglie marciscono e diventano

gialle.

Le finestre dell’asilo comunale

Hanno tutti i vetri rotti

Come gli spazi tra i denti

Di quei vecchi

Che hanno fatto la guerra

E i loro occhi

Sono ancora pieni di stupore.

Gipsy King

Le zingare si lavano la fica

Nei bagni dell’università.

Con il piede poggiato sul

Lavandino

E la gonna lunga a coprire

Le vergogne,

strappano fazzoletti di carta

e se li passano sulla fessa,

velocemente.

Come se stessero facendo

Una sega ai propri uomini.

Alle 8.30 del mattino,

con il sapore del caffè ancora

in bocca

freno un conato di vomito,

giusto in tempo.

Fuori ragazze

Con la “S” pronunciata

Squittiscono,

mentre il sole bacia

le loro tette abbronzate

come provole affumicate.

Ho infranto la mia promessa

Di non venire più

All’ateneo

E ora me ne pento.

Tutto questo

Per una

Maledetta

cacata.

Ok, qual è secondo voi la migliore di queste due poesie che convivono in “Midnightwalker” di Domenico Cosentino? Certamente la prima. Perché? Ma per le mille ragioni subliminali attraverso cui la poesia vera va dritta all’anima tramite scorciatoie intuitive. La seconda, invece, è brutta. Non ci sono altre parole per definirla, brutta e basta.

Ecco, il volume di Cosentino, che egli definisce “raccolta di pessime poesie” è una commistione – tanto di moda oggigiorno – di prosa e poesia, miniracconti senza capo né coda, e versi intervallati da parentesi quadre a segnare gli enjambement, ma anche di pezzi belli e brutti, come se non fosse in grado di distinguere, non volesse rinunciare a nessun appunto preso, a nessuna riflessione sgorgata, oppure, più sottilmente, volesse denudare un’anima fatta di contrasti, di poesia e volgarità, di sublime e repellente.

Le poesie sono discorsive, i racconti vagamente lirici. Alcuni testi in prosa raggiungono una quasi compiutezza da novella, altri sono abbozzi, divagazioni, versi scritti uno di fianco all’altro, semplici enunciazioni, quasi che il protagonista si affacci ad una ipotetica finestra e ci racconti quel che vede e come lo vede, o, meglio, come lo sente, confessando i suoi pensieri segreti, i suoi tormenti, spesso oggettivati in cose concrete o in gesti snervati, senza nemmeno cercare aiuto o soluzione, piuttosto come un dato di fatto, un’esposizione di quadri e stati d’animo precari. Squallide camere d’albergo, cavalcavia, musica in sottofondo, fumo, saracinesche chiuse.

Il tema è la solitudine di un uomo che probabilmente si trova a vivere suo malgrado una vita da immaturo, fra sigarette, onanismo, amori non corrisposti o finiti, lutti e perdite familiari, rimorso, tempo che passa sprecato. Camere d’albergo da pochi euro, domeniche solitarie, il sesso come opposto della comunicazione, gesto non compiuto, voglia di toccare senza poterlo fare che si risolve nell’atto consolatorio di masturbarsi in un lavandino. Gli affetti, i ricordi, i rimpianti, i rimorsi per le parole non dette (e sono i momenti più alti) si condensano in figure di familiari che non ci sono più o che stanno per andarsene, la scoperta della malattia acuisce ancor più una solitudine vissuta come estrema, incolmabile. Chi è vicino non capisce e non capirà mai l’autoemarginazione, il disagio interiore, la tortale estraneità al resto del mondo.

Il ragazzo è diventato anche lui adulto. Porta con sé la solitudine di chi soffre, perché anche lui ora sta soffrendo maledettamente, ogni giorno a ogni ora. Nel reparto dell’ospedale o nel suo letto. Quando finge di sorridere, quando sta con gli altri, ma gli altri non lo possono capire. Ora il ragazzo è un adulto solo. La solitudine di chi soffre.” (pag 94)

Le cose si capiscono sempre dopo. Quando tu devi affrontare le tue disgrazie e le tue battaglie e capisci che sei da solo e che quella solitudine è davvero forza. Ma questo o comprendi dopo. Sul momento pensi solo a lamentarti e compiangerti.” (pag 65)

Cosentino scrive bene, è un dato di fatto. Dovrebbe solo avere il coraggio di fare il salto di

qualità, non accontentarsi di mettere su carta i propri sentimenti, le illuminazioni, ma costruire qualcosa di più. Nel pezzo intitolato “Anche quello era amore” ci è quasi riuscito.

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