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“Dillo tu a mammà” di Pierpaolo Mandetta: l’amore è sempre una faccenda di famiglia

19 Maggio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

"Sono sul treno che mi trascina al Sud dopo tre anni di assenza. Una volta non avrei visto l’ora di tornare alle melanzane imbottite di mamma, ai cavolfiori sott’olio della vicina. Ai muratori sudati e senza maglietta, agli anziani che giocano a carte sui tavolini di plastica, nei bar ancora pieni di fumo. Ai gatti randagi sui muretti, ai segnali stradali sbiaditi. A parlare con la panettiera che già a diciotto anni mi chiedeva quando mi sarei sposato. Al caffè a ottanta centesimi, al profumo notturno di forno acceso. Alla brezza che sa di temporale, al vento che soffia dalle masserie e sa di fieno. Ai turisti senza fronzoli, alle pagliette messe di fretta, al trucco che non serve, ai mojito a mezzanotte. Ai baci sotto la luna, alle risate in macchina con i finestrini aperti, ai pianti trattenuti davanti ai treni che vorremmo perdere."

 

Samuele è su un treno che lo porta al Sud, dalla sua famiglia. Vive da anni a Milano ma adesso deve tornare. L’amore è sempre una faccenda di famiglia e lui si sta per sposare. Deve annunciarlo a mammà, deve sputare il rospo con quelli che sono sangue del suo sangue e deve farlo subito. Saranno presto fiori d’arancio, ma non pronuncerà il “sì, lo voglio” dinanzi all’algida e spietata trentenne milanese che è al suo fianco sul treno – la stessa che lo sopporta e lo supporta da anni –, pronta ad accompagnarlo in quel viaggio all’insegna delle rivelazioni, bensì con Gilberto, suo compagno e uomo del suo cuore. È proprio lui che ha insistito affinché Samuele andasse dalla sua famiglia. L’appoggio della propria casa, quella in cui si nasce e si cresce, è fondamentale per ogni passo quotidiano, figurarsi quando ci si lega finché morte non ci separi. Ma non è semplice, e Samuele lo sa. È invaso dal terrore, dall’inquietudine; i suoi non sanno che è gay. Non è facile, nella realtà di un piccolo paese, essere se stessi. Dire ciò che si pensa e quel che si prova. Mostrarsi senza fronzoli né bugie. È per veri impavidi, la verità, quando le case di un borgo si contano nelle dita di una mano e si è – malgrado non lo si ammetta – molto, troppo interessati al parere dei suoi abitanti.

Scoprire il proprio cuore in un paesino di nemmeno duemila anime può essere doloroso, può portare conflitti e smarrimenti, può ferire. Può dilaniare. Samuele lo sa. Come reagiranno i suoi compaesani?

Lui, poi, non ha chiuso con i fantasmi del passato. È insicuro, bisognoso di attenzioni come un cucciolo ferito. Il passato gli ha fatto male, l’ha messo a dura prova, e lui non ha ancora preso un respiro di sollievo sul mondo. Tachicardico, perennemente avvolto da paturnie di ogni tipo, dipendente da calmanti e da mille altri stratagemmi per sentirsi al sicuro, al caldo, preservato dal gelo del mondo, è un uomo ancora un po’ bambino. È ironico e divertente, nei suoi eccessi di un’infanzia che ritorna.

 

"Dovevo pensarci io al cibo, lo sapevo. Vuoi capirlo che il riso mi rende stitico? Ho un equilibrio delicato, c’è già la colite spastica a darmi problemi, devo assumere fibre, non riso. Poi mi tocca prendere le pastiglie di erbe lassative, ma mi scombussolano l’organismo. Potevi fare un panino integrale con la frittata, come tutti."

 

È uno scrittore, adesso; il suo blog galoppa che è una meraviglia. La gente parla di lui, si affida ai suoi consigli, alle sue frasi che hanno una saggezza che ci si aspetterebbe da un vecchio sul letto di morte. Il mondo è suo. Tenace e caparbio, con le sue stesse forze è giunto all’apice. È un grande. Ma allora perché non sa essere felice? Perché non comprende il suo valore?

Claudia è al suo fianco, come sempre negli ultimi anni. Lo sprona con un po’ di forza, con veemenza, con foga. Sa che rispondergli con dolcezza alimenterebbe le sue paure, le sue angosce. Poi lei è una donna di città; è fredda e ambiziosa, si è presa ciò che voleva dalla vita. Ha carattere. È la persona giusta per Samuele: incontrandosi nel mezzo, entrambi sono capaci di diventare persone migliori.

 

"La sua missione è prevedere il meglio per se stessa, perciò parole come smarrimento o confusione le fanno alzare gli occhi al cielo fino a roteare le pupille verso il culo. È single da quando la conosco. Prova a suggerirle il rossetto più adatto alla sua carnagione, che piatto ordinare al ristorante o anche solo di non attraversare col rosso e ti spacca la faccia."

 

Tra una lamentela e l’altra, i due arrivano a Trentinara. Piccolo borgo del Sud, è immerso in quella che è un’aura di passato e di magia. Bloccato, congelato, qui il tempo sembra essersi fermato. E Samuele si ritrova a casa. In quella casa da cui era fuggito, la stessa che non lo ha protetto, agevolato, spronato, lasciato volare verso il mondo. La stessa che ama e odia, consapevole che l’amore e l’odio siano i motori dell’universo e certo che non per forza si escludano l’un l’altro.

C’è donna Luisa, sua madre, pratica e dolce di una dolcezza ruvida che non ha certo sapore di piagnistei né di carezze smielate sul capo; c’è Santina, la sorella con cui ha un rapporto pietoso, assente, indifferente; c’è suo padre, egoista e anche, perché no, un po’ grullo nei suoi tentativi maldestri di adattare il figlio ai suoi desideri; c’è sua nonna, una donnina con le spalle larghe e una avvedutezza che deriva un po’ dall’età e un po’ da un carattere forte, pratico, da matrona che sa risolvere ogni problema con un cenno della mano.

Ci sono loro, sì, il nucleo della sua famiglia. Ma ci sono molte altre persone, persino. L’amore è una faccenda di famiglia, ricordate? Samuele lo sa, e noi lo sappiamo con lui.

 

"Zia Cherubina. Ha cinquantasei anni ma ne dimostra centotrenta: chignon nero con ricrescita grigia impreziosito da una retina dorata, orecchini di topazio e vestaglia di chissà quale antenata ripescata da una capsula del tempo. Vedova. […] è una timorata di Dio. Non ha preso bene il fatto che, invece di bere birra con gli uomini davanti a una partita dell’Inter, io me li porti a letto."

 

Proprio quando Samuele riesce a confrontarsi con quelli che sono i suoi familiari, tirando fuori quella che è, per loro, una verità un po’ scomoda, le cose si complicano. Si mostrano dalla sua parte, questo un po’ lo sconvolge e un po’ lo stranisce. Le domande si affollano nella sua mente. È la cosa giusta? Sarò felice? Amo Gilberto?

Le persone, soprattutto nei periodi di calma piatta, amano soffrire, chiedersi se tutto va bene, rovinare il momento. È come se una forza disumana, proprio quando tutti i tasselli tornano al proprio posto, ci imponesse di non essere sereni, di non accontentarci. Perché la vita è rischio, è dolore, è corsa con il tempo e contro di esso. Chissà perché quando ci sentiamo così, è sempre il passato a farci visita.

Nel caso di Samuele, il passato ha il sapore agrodolce di un amore giovanile, quando tutto sembrava perfetto. Quando il primo amore torna a farci visita, il sapore delle lacrime è più salato. Nel suo caso, ha un nome. Peppe.

 

"Mi guarda, lo guardo. I suoi occhi, scolpiti nel faccione invecchiato dalle bugie e dai pomeriggi torridi a spalare calce sotto il sole, sono al contempo buzzurri e letterari. Mi raccontano una storia malinconica, che mi fa diventare malvagio e, subito dopo, intenerire. Lo odio e lo adoro."

 

È sempre lui – un uomo che ha imparato a soffrire e a risollevarsi – ma è confuso. Nella sua fragilità c’è la sua forza, è vero, ma ora è crollato. E nemmeno tutto il Valium del mondo può esimerlo dal prendere in mano la sua vita.

 

"Sento che la mia vita sta andando a rotoli. Là fuori c’è gente che arriva a fine mese con mille euro e due figli all’asilo, e io sono qui con il mio Valium, il collirio per la secchezza da bulbo oculare e una tachicardia che mi fa affogare in problemi di cui neppure conosco la natura."

 

È vero, è dolce, è umano e per questo è imperfetto. Ama. Del resto è un uomo del Sud e come tutti gli uomini del Sud è fatto di carne e di cuore. È istintivo. È passionale. È innamorato dell’idea dell’amore, di quel calore che ti ruba il sonno e che ti culla nel contempo.

Pierpaolo Mandetta ci catapulta nel suo mondo, nella sua fantasia densa di ironia e di verità – pungente quanto il freddo inverno –, in questa sua testa piena di comprensione, di saggezza, di umanità.

Tramite Samuele, ci fa ridere, ci accompagna, ci guida, mamma presente e premurosa, in quello che è un mondo che spesso è difficile. Quando si cresce, quando si buttano in un angolo gli abiti dell’adolescenza, be’, si perde un po’. Ci si sente spaesati. Si è adulti, sì, e le prime rughe attorno agli occhi lo dimostrano. I capelli bianchi sono lì per ricordarci che non abbiamo più quindici anni. Però non è facile prendere in mano la propria vita. Essere grandi richiede una forza immane, soprattutto in questo mondo che ci vuole così perfetti. Sempre all’altezza.

Ironia.

 

"«Mamma, secondo te qui c’è il wifi?» chiedo.

«Siamo a casa di zia Cherubina, Samue’. Qui ci stanno i crocifissi.»"

 

Convinzioni, più o meno deleterie.

 

"Crescendo, ho associato lo stare insieme alla sopportazione. Alle grida. Alle questioni in sospeso che non fanno dormire. Alla mancanza di rispetto. All’attesa che un altro giorno finisca in fretta. Non riuscivo proprio a collegarlo a un episodio felice."

 

Frammenti di vita, quella vera – dette tramite la voce di una vecchina che ne sa una più del diavolo.

 

"«Però una cosa l’ho detta, a mia nipote Vera, prima che se ne andava a studiare a Pisa» continua zia. «Una cosa tenevamo buona, noi che siamo nati settant’anni fa. Non potevamo fuggire dai problemi, come oggi, che pigli e cambi vita se una cosa non ti piace. Allora le ho detto: “Vedi che non ti devi difendere dalle cose brutte. Lascia che ti travolgano. Fatti scassare, piangi, goditi il dolore. È un privilegio, tesoro di zia, vuol dire che sei viva. Perché quando non ti succede niente, quando tutto fila liscio, o quando fai solo quello che hai deciso di fare, che hai da ricordare, poi? Non ti ricordi niente. Il dolore ci irrobustisce, ci migliora. Se non soffri, non puoi imparare a superare il dolore. Se soffri, poi non ti metti più paura.”»"

 

Lieto fine che però lascia una lacrima in sospeso negli occhi.

 

"Li guardo e li amo per la prima volta, di nuovo. Come si ama chi viene al mondo, chi è appena nato e lo si guarda con candore, senza filtri e pregiudizi. Sono perfetti così come sono e devo obbligarmi a fare i conti con i sentimenti che un saluto comporta."

 

Mandetta ci ruba, ci strega, ci trasporta in un universo che tutti abbiamo dentro – soprattutto noi, gente del Sud – ma che non sappiamo descrivere.

E ci ridona l’amore, quello nel quale tutti – anche i più cinici, i più freddi, quelli che si mettono le dita in gola quando vengono pronunciate le parole “matrimonio” e “per sempre” – credono. Quello che fa piangere e ridere e nuovamente piangere – consapevoli che in amore tutto è perfetto ed è permesso. Quello che fa pensare che, dai, in fondo va tutto bene. Quello che ci fa sentire talvolta ammaccati, è vero, ma vivi. Soprattutto vivi.

 

"L’amore. Credevo che se ne fosse andato. Partito. Espatriato. Che io non fossi la nazione giusta per la sua permanenza. […] E invece l’amore era in letargo. E adesso si è appena svegliato, sta sbadigliando, è vigile."

 

 

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Il piacere prima del piacere

17 Maggio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

 

 

 

 

E siamo quasi di partenza. Forse non sarà il viaggio della vita, ché di viaggi belli ne ho fatti tanti, ma è senz’altro un itinerario vagheggiato da sempre. Mi auguro di non rimanere delusa. Partirò, se tutto va bene, a breve, spero di non portarmi appresso il peso dei pensieri, di sgombrare la mente da tutto e riempirla solo di emozioni positive.

Una valigia è qualcosa che si fa con amore, è il sabato del villaggio, è il piacere prima del piacere. Una valigia comincia dalla valigia ed io l’ho comprata nuova. La volevo più piccola, più maneggevole, salvo poi accorgermi, una volta a casa, che l’ho presa più grande di quella che avevo.

Vediamo cosa ci metto dentro di recente.

 

La camicia di jeans, un classico intramontabile, e quella mimetica, utili per vestirsi a cipolla come sarà necessario, portabili anche aperte come giacche leggere.

La felpa verde militare, per meglio mimetizzarsi.

Il kw imbottito nello stesso colore, antipioggia e antivento.

 

Nessun indizio ancora su dove io sia diretta? Ecco il libro che mi porterò dietro per rileggerlo. È sulle orme di questo autore, della sua prima maniera, la più autentica e impressionante, che compio questo pellegrinaggio. Adoro i viaggi a tema.

 

E ora un paio di pezzi acquistati di recente che non porterò con me perché inutili.

 

La camicetta con i fiorellini. Non amo il giallo ma questa si distingueva proprio per l’abbinamento piccoli fiori su grazioso sfondo giallino.

La maglia con intarsi argento. Costituisce una riprova che i colori significano molto e sono capaci di trasformare e far risaltare qualsiasi forma. La t-shirt era disponibile in nero e oro, e in rosa e oro, ma sortiva un effetto di sovraccarica vistosità. L’accostamento bianco e argento, invece, è raffinato.

 

A bientot… ormai ci sentiremo al mio ritorno.

 

 

And we're almost there. Perhaps it will not be the journey of life, because of all the beautiful travels I have done already, but it is certainly a most desired itinerary. I hope not to be disappointed. I will leave, if all is well, in the short term, I hope not to bring the weight of thoughts with me, to clear my mind and fill it only with positive emotions.

A suitcase is something you do with love, it's the village's Saturday, it's pleasure before pleasure. A suitcase starts from the suitcase and I bought it new. I wanted it smaller, more manageable, except that, once at home, I noticed that I took it bigger than the one I had.

Let's see what I put in it.

 

The jeans shirt, a timeless classic, and the camouflage one, useful to dress in layers, as it will be necessary over there, also wearable as light jackets.

The military green sweater for better camouflage.

The padded kw in the same color, for rainy and windy weather.

 

No clue yet about where I am heading? Here's the book I'll take to read it all over again. It is in the footsteps of this author - his first, the most authentic and impressive - that I make this pilgrimage. I love themed travel.

 

And now a couple of recently purchased pieces I will not bring with me because they are useless:

 

The blouse with florets. I do not love the yellow but this one was distinguished by the combination of small flowers on pretty yellow background.

The t-shirt with silver inlays. It is a proof that colors mean a lot and are capable of transforming and highlighting any form. The t-shirt was available in black and gold, and in pink and gold, but it had an overloaded visibility effect. The white and silver approach, however, is refined.

See you soon ... we will speak again when I’m back.

Il piacere prima del piacere
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Il piacere prima del piacereIl piacere prima del piacere
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Storia di Tönle di Mario Rigoni Stern

16 Maggio 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

Con Storia di Tönle Mario Rigoni Stern ci fa percorrere una vicenda tra storia e romanzo; il protagonista è un uomo che incarna la cultura e la mentalità della gente della zona di Asiago, tra fine Ottocento e primi anni della Grande Guerra.

Tönle è un archetipo; rappresenta uno dei tanti uomini che vivevano sul confine, una persona semplice e laboriosa, senza tenerezze particolari per l’uno o l’altro dei due nemici storici, ossia l’Austria e l’Italia. Vive arrangiandosi; ex suddito asburgico, ex soldato di quell’impero, era diventato italiano quando dopo il 1866 il Regno d’Italia si era allargato fino ai suoi paesi. È contrabbandiere, ma capace di fare il pastore e il contadino, oltre ad altri mestieri. Come tanti di quelle parti, viaggia, si sposta per lunghi mesi, torna a casa per ripartire appena possibile.

Non è solo la necessità a spingerlo dall’altipiano alle città dell’impero. È un fatto di cultura e di istinti. È un abito mentale a guidare i suoi spostamenti:

 

Come c’erano forze che lo spingevano ad andare in primavera, così c’erano quelle che lo facevano tornare alla fine dell’autunno; forze superiori a ogni volontà” .

 

Una certa irrequietezza da viaggiatore si accompagna quindi al piacere di percorrere le proprie contrade, descritte a menadito; infatti protagonista del libro è anche l’amore per il paesaggio insieme alla cultura locale.

Ecco che la guerra del '15-18 fa a pezzi il suo mondo, impone leggi, mette reticolati, crea nuovi obblighi. La vita di Tönle va in frantumi; lui parla anche tedesco ma non si sente tedesco e nemmeno italiano. Subisce come una violenza il non avere la libertà di muoversi. Ma la guerra, i militari e soprattutto lo stato sono ormai pervasivi; nessuno può stare ai margini del conflitto senza essere sospettato di essere una spia.

Lo scontro tra Tönle e gli apparati statali è quello tra un vaso di terracotta e uno di ferro. Con la Grande Guerra lo stato dilagò nella società; tutto fu asservito allo sforzo bellico, dall’economia alla stampa.

Non c’è più spazio per gli uomini di confine, per persone difficili da controllare, non incasellabili, partecipi di più culture, a loro agio ad Asiago come a Praga. Per i Tönle non c’è più posto.

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Espatrio: le paure ed il coraggio delle donne

15 Maggio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #concorsi

 

Donne che Emigrano all’Estero in collaborazione con il sito web Cultura al Femminile e Innocenti Editore presenta il Concorso Letterario per racconti:

 “Espatrio: le paure ed il coraggio delle donne”

Il concorso  è rivolto a tutte le autrici che desiderano inviare i loro testi inediti (si può partecipare con un solo testo).

La premiazione dei dieci testi vincitori del concorso avverrà il 30 ottobre 2017 e l’elenco delle vincitrici sarà riportato sui rispettivi siti  di Donne che Emigrano all’Estero e di Cultura al Femminile.

Le vincitrici del concorso, che verranno anche informate via mail privatamente,  riceveranno come

PREMIO

la PUBBLICAZIONE dei racconti vincitori in un’ANTOLOGIA curata dalla INNOCENTI EDITORE 3 COPIE OMAGGIO DEL LIBRO CARTACEO per ciascuna autrice vincitrice.

Il concorso letterario “Espatrio: le paure ed il coraggio delle donne” si avvale di una Giuria d’élite composta da:

  • Emma Fenu, scrittrice, iconografa, Presidente del sito “Cultura al Femminile”;
  • Francesca Capelli, giornalista, scrittrice e traduttrice letteraria;
  • Giovanna Pandolfelli, giornalista, scrittrice, esperta di linguaggio e bilinguismo;
  • Barbara Gabrielli Renzi, psicoterapeuta, pittrice, scrittrice e poetessa;
  • Michele Grassi, scrittore, Presidente del sito “Michele Grassi”.
Il concorso si apre il 10 maggio e termina il 31 luglio  2017

Per partecipare:

Il concorso è rivolto a tutte le autrici che desiderano inviare i loro testi inediti

Gli scritti, formulati in forma narrativa (racconto) potranno essere tratti da episodi di vita vissuta o immaginaria.

I racconti non dovranno superare le 3 cartelle dattiloscritte corrispondenti a 6.000 battute.

Tutti gli scritti dovranno essere provvisti di titolo e scritti in lingua italiana.

Gli elaborati dovranno essere inviati tramite il FORM PER INVIO MODULO, entro e non oltre il 31 luglio 2017, in formato word unitamente al modulo stesso di iscrizione (download del modulo, compilazione, firma e invio come allegato nella sezione ALLEGATI del form dedicato).

I lavori dovranno contenere le generalità, il domicilio, il numero di telefono dell’autrice, il titolo dell’opera concorrente, qualche cenno biografico che non dovrà superare una pagina word carattere 12.

Le autrici dovranno specificare la loro preferenza a comparire con il vero nome o con uno pseudonimo.

La partecipazione al concorso è totalmente GRATUITA.

Gli elaborati saranno esaminati e valutati da un’apposita commissione.

Le autrici dei racconti selezionati verranno contattate ai recapiti indicati tramite posta elettronica.

Le opere inviate non saranno restituite e potranno eventualmente essere pubblicate in forma di articolo sul blog www.donnecheemigranoallestero.com

Non saranno presi in considerazione i lavori che non avranno osservato tutte le norme contenute nel regolamento.

L’operato della Commissione giudicatrice è insindacabile e la partecipazione all’iniziativa indica di per sé l’accettazione delle norme che lo regolano. Ai sensi dell’art.13 del D.L.vo N. 196 del 30/06/03 i dati personali forniti saranno trattati esclusivamente ai fini del presente concorso.

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Tre volte te, il terzo capitolo di Babi e Step

14 Maggio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Ci siamo innamorate di Step quando aveva il fascino del ribelle, del forte, del picchiatore. Quando era un po’ delinquente e un po’ scansafatiche. Quando passava le mattine a dormire e la notte a bere e a combinare guai. Ero ragazzina, ma il libro e il film fecero scalpore, cambiarono quella che era l’idea dell’amore per gli adolescenti. Era tenebroso quanto bastava per lasciare un alone di mistero, Step, ma il suo cuore non era impenetrabile. Io ho odiato Babi fin dal primo istante, però. Era snob e un po’ noiosetta, con quella sua mania di perfezione e quell’aria da ricca che traspariva da ogni sua frase.

In più di un’occasione mi ritrovai a pensare che no, non lo approvavo affatto questo amore – un amore dove lei scappava sempre – salvo poi innamorarmi anch’io dell’idea dell’amore che questo film promuoveva: malgrado le differenze ci si può innamorare follemente, senza respiro. La scritta sul ponte, le rose, la casa abbandonata in riva al mare… chi di noi non si è addormentato, a quindici anni, sognando tutto questo? Chi non ha immaginato un finale da favola?

Ricordo di aver letto il finale del libro con un nodo alla gola. Un amore che pareva non dover terminare mai, che sembrava più saldo di qualunque altra cosa nell’universo, che dava l’impressione di essere vero e puro e infinito… be’, terminò lo stesso. Lasciando l’amaro in bocca. E lei con un altro, e lui che soffriva.

Poi, con Ho voglia di te le cose sono mutate: lui è più grande. La ama ancora ma è stato fuori per tanto, troppo tempo. Si sa, il tempo lenisce i dolori. Un po’ è cambiato. Ha imparato a svegliarsi al mattino, a lavorare. Sa cosa vuole e si muove per averlo. Non è più un violento che passa le notti nei locali.

Tre volte te è il terzo capitolo, il capitolo conclusivo.

Se nel precedente la nostra mente si è dovuta abituare a uno Step più grande di due anni, più maturo, ora deve proprio impegnarsi: non pare rimasto nulla del primo Step, quello dei giubbotti in pelle, del tatuaggio e dello sguardo da duro. Oltre a essere cresciuto, è tollerante e dolce con chi incontra. Le vicissitudini della vita lo hanno portato a togliere quella corazza che faticosamente si era costruito da ragazzo, quella stessa corazza che allora lo aveva salvato.

Ma a che punto siamo? Be’, con Gin le cose vanno a gonfie vele tanto che i fiori d’arancio si possono toccare con le dita. È sereno, finalmente e dopo tanto tempo. La ama. Ha chiuso con il passato. Una bella casa, un impiego che frutta in televisione. Cosa si può desiderare di più?

Babi, però, l’ha dimenticata? Il primo amore si scorda mai? E se ricomparisse, proprio in questo momento che lui è in pace con se stesso?

Devo dire che in questo libro Babi mi piace di più. È umana, sa che nella sua vita ha fatto tanti errori e ne soffre. Piange, si dispera, capisce. Era quasi una cosa impossibile, per quella che credevo avesse il cuore di pietra. Abituati a vederla attaccata all’agio, ai soldi, ora si rende conto di quanto sia inutile una vita passata a rincorrere l’apparenza.

Non sopporto Gin, in compenso. Malgrado sia quasi inevitabile provare empatia per lei a causa di quello che le accade, questo suo modo di avere sempre ciò che vuole quando lo vuole è frustrante. Fastidioso. Antipatico. Lei dice A e vuole che A si avveri, nessuno le ha mai spiegato che una decisione va presa in due. Lei decide che ci si deve sposare, e guai se Step non arriva con la proposta. Lei decide che un figlio è una cosa meravigliosa, e guai se Step si permette di dire il contrario. Una ragazzina viziata, insomma.

Il cambiamento di Step è grande, immenso. È grande. Quasi tutti lo chiamano Stefano. È un grande, nel suo lavoro, è amato e rispettato. È cresciuto, ma è possibile cambiare così? Un amore finito può svegliare una persona al punto di cambiare totalmente il proprio essere?

Per tutto il testo ci chiederemo come finirà. Babi o Gin? Razionalità o cuore? La ragazza che lo fece innamorare la prima volta, lei così bimba e donna, oppure il suo chiodo scaccia chiodo (perché purtroppo Gin mi è sempre sembrata questo)?

Una ha dimostrato già una volta di non accontentarsi dell’amore, l’altra non lo lascerebbe per nulla al mondo.

Senza svelarvi nulla, vi dico solo che sarà un finale strappalacrime. E, in un certo senso, tutti verranno accontentati.

Il divario con Tre Metri Sopra il Cielo è evidente, però è anche vero che si cambia, ci si trasforma. Si cresce. Questi tre libri parlano di un amore infinito, è vero, ma sono anche testimoni di quella che è la crescita di un ragazzo che diventa uomo. Di una donna che capisce ciò che vale nella vita.

Ora attendiamo il film. Sperando ci sia Scamarcio, ovviamente.

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Animavì: Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico

13 Maggio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #vignette e illustrazioni

 

 

Animavì

Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico
seconda edizione

 

Diretto dal regista Simone Massi, il primo festival al mondo dedicato specificatamente all’animazione poetica e d’autore.
Tra gli ospiti il regista svizzero Georges Schwizgebel, conduce le serate Luca Raffaelli. Sedici opere in concorso da tutto il mondo


Si tiene nel centro storico di Pergola (Pesaro - Urbino) nel giardino di Casa Godio,dal 13 al 16 luglio 2017 la seconda edizione di ANIMAVÌ - Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico, con la direzione artistica del più importante regista italiano di cinema d’animazione, Simone Massi, che da anni realizza il trailer e la locandina della Mostra del Cinema di Venezia. Ospite d'eccezione il Maestro svizzero Georges Schwizgebel, regista di fama internazionale premiato nei festival di tutto il mondo, da Cannes ad Annecy, autore di oltre venti cortometraggi d’animazione (tra cui La Course à l’abîme; The Man with No Shadow; Romance; Jeu; Erlkönig), in cui applica una tecnica originale, artigianale, che consiste nel dipingere a mano ogni fotogramma, realizzando una pittura animata, di fatto opere d’arte dinamiche. A condurre le serate, che vedranno la partecipazione di ospiti musicali e personaggi del mondo della cultura italiana e internazionale, Luca Raffaelli, giornalista, saggista, sceneggiatore e uno dei massimi esperti di fumetti e animazione in Italia. Il programma completo al link www.animavi.org

A contendersi il Bronzo Dorato, prezioso trofeo artistico, ispirato all'omonimo gruppo equestre di epoca romana e simbolo della cittadina marchigiana, saranno 16 opere di animazione provenienti da tutto il mondo, dall'Australia alla Svizzera passando per l'italiano 'Confino', di Nico Bonomo, ma anche lavori da Spagna, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud, Polonia, Lettonia, Portogallo e Danimarca. La Croazia sarà rappresentata quindi da '1000' di Danijel Zezelj.

Animavì vuole soprattutto rappresentare a livello internazionale il “cinema d’animazione artistico e di poesia”, quel genere di animazione indipendente e d’autore che si propone di raccontare per suggestione, prendendo le distanze in maniera netta dall’animazione mainstream. Vogliamo cercare di portare a Pergola - sottolinea il direttore artistico Simone Massi - dei 'giganti' in un piccolo paese e in un piccolo festival. Un tentativo che facciamo in maniera scanzonata e allo stesso tempo con la consapevolezza che qualcosa di importante ce l’abbiamo anche noi: le colline, i piccoli borghi, la nostra Storia”. Animavì primo festival al mondo dedicato specificatamente all’animazione poetica e d’autore, vanta il supporto di numerose figure di spicco della cultura e dell’arte, insieme a contadini, minatori, partigiani: Pierino Amedano, Franco Armino, Andrea Bajani, Luca Bergia, Valentina Carnelutti, Max Casacci, Dilo Ceccarelli, Ascanio Celestini, Erri De Luca, Nino De Vita, Goffredo Fofi, Daniele Gaglianone, Gang, Valeria Golino, Nastassja Kinski, Emir Kusturica, La Macina, Neri Marcoré, Mau Mau, Laura Morante, Marco Paolini, Lyudmila Petrushevskaya, Umberto Piersanti, Alba Rohrwacher, Francesco Scarabicchi, Silvio Soldini, Oreste Tagnani, Paolo e Vittorio Taviani, Miklós Vámos, Daniele Vicari, Emily Jane White, Massimo Zamboni.

 

Animavì è un evento realizzato grazie all'organizzazione di Mattia Priori, Leone Fadelli, Silvia Carbone e dall'associazione culturale Ars Animae, con il contributo e patrocinio di Regione Marche, Ministero deI Beni Culturali e delle attività culturali e del turismo, Marche Film Commission, Marche Cinema Multimedia, Comune di Pergola, Provincia di Pesaro e Urbino, SNGCI - Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani e Accademia del Cinema Italiano Premio David di Donatello. Il festival ha ricevuto dal Presidente della Repubblica la Medaglia al Merito per il valore culturale dell'iniziativa.


Per maggiori informazioni:

www.animavi.org
info@animavi.org
https://www.facebook.com/animavifestival

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Superterrestre

12 Maggio 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto, #fantascienza

 

 

 

Questo è per te, Madre Terra. Il mio ultimo saluto.

Il saluto gonfio d'amore d'un figlio che è costretto ad abbandonarti per sempre.

Più la distanza si accresce e più sento le mie forze venire meno. Quel nutrimento che traevo da te mi viene rapidamente a mancare. Presto sarò niente più di un misero corpo esanime con un buffo mantello rosso appeso al collo, costretto a galleggiare in eterno tra le tenebre abissali dell'universo, senza poter neppure godere del conforto di una decomposizione che consumi e annichilisca.

Sto uscendo dalla tua orbita ormai, con la mia possente schiena ho sfondato le invisibili barriere celesti di mesosfera e atmosfera esterna che ti avvolgono e nell'infrangerle ho provocato un orribile frastuono ultrasonico, che però solo le mie orecchie hanno potuto percepire, mentre tutto intorno al mio corpo, ricoperto solamente della consueta tuta blu attillata quanto una seconda pelle, si accendeva un'aureola composta da un intenso fuoco azzurrino.

Manca poco. Mi sento già in debito d'ossigeno. Tra non molto l'immortale morirà. Perché tutta la mia forza sovrumana, i miei superpoteri, la mia invulnerabilità cessano all'infuori del pianeta Terra.

Scagliato verso la notte siderale che avvolge l'intero cosmo dal colpo finale sferratomi in pieno petto dall'ultimo dei miei acerrimi nemici, Doomsday.

Più risolutivo di un'intera montagna di kryptonite: spedirmi lontano dall'unico luogo dell'universo che mi rendesse pressoché invincibile. E ora che non sono più a contatto con te, Madre mia, mi viene a mancare il nutrimento principale per ogni mia fibra: i raggi del sole filtrati attraverso le coltri di ossigeno e di azoto che ti circondano. Quelle radiazioni che tu, Madre, immagazzini nel tuo ventre, per far germogliare i fiori e inverdire le piante, maturare i frutti, riscaldare le acque. Quella stessa energia che alimentava la mia potenza.

Ora che la forza inerziale continua a farmi arretrare nello spazio illimitato ancora e ancora e ancora, fino a ritrovarmi lontano migliaia di miglia da te, posso abbracciarti tutta con un solo sguardo e spegnermi con la tua smisurata bellezza a bruciarmi nel fondo delle pupille.

Mi riempiono gli occhi i baluginanti riverberi verdeacqua, turchese, cobalto delle immense distese equoree che per la gran parte ti rivestono. È la tua parte uterina quella, lì dove la vita è stata coltivata e si è sviluppata, sinché qualche pesce temerario un bel giorno non si decise ad appoggiare una pinna contro la placida rena allo scopo di cercare fortuna per le terre emerse.

La vita ricca e rigogliosa che ti esplode sopra e dentro, fino a confondersi con te in un tutt'uno. Questa vita che hai condiviso con me, tuo figlio adottivo, proprio come fai con la moltitudine di tuoi figli naturali, da quando ricaddi incapsulato contro la tua crosta, esattamente come essa ti piovve addosso miliardi di anni fa - un misterioso dono dal cielo - nascosta nel cuore di un meteorite in minuscole forme monocellulari che in te trovarono l'ambiente più accogliente per brulicare e prosperare sin da subito.

Fuggivo da un mondo freddo e adamantino per giungere in questo giardino incantato, dove spiccare i sugosi frutti che spontaneamente si offrono dagli sporgenti rami degli alberi e dove tuffarsi tra le fresche acque d'un torrente.

Quanto rincresce doverti dire addio proprio ora che arriva la primavera, quando Proserpina – racconta il mito – torna a soggiornare presso la casa materna, e una luce morbida invade e intiepidisce ogni tuo angolo, suscitando nuovi boccioli come il volo allegro delle rondini che ritornano al nido.

Mi mancherai, Madre dalle sorgenti inesauribili, dai flutti pescosi, dai deserti riarsi dal sole, dalle distese di ghiaccio, dalle vette elevatissime e dalle voragini profonde, popolata di predatori e prede, di vittime e carnefici, di vermi che in fondo alla catena alimentare banchettano delle carcasse di chi ci stava in cima, spazzata dal vento, dilavata dalle piogge, sconquassata dai terremoti, baciata da improvvisi rasserenamenti che consentono la ripartenza di tutto. Io ti venero!

Con l'amore di un figlio adottivo, che in quanto tale serba nel suo cuore ancora maggior gratitudine di quella riservatati da un terrestre, che tende a dare per scontata la generosità con la quale chiunque accudisci, basta solo che ti venga a domandare soccorso e sostentamento.

Adesso che io sparisco nel nulla e non potrò più farlo, non scordare di proteggere, tra tutte le altre, anche quelle tue creature così simili a me nelle fattezze, ma tanto più deboli per forza fisica e per il rispetto che ti recano.

Ti sfruttano ogni giorno più che possono, ti imbrattano, ti impoveriscono e bistrattano come tanti mocciosi troppo viziati, ma tu non ci badare. Sono solo dei poveri piccoli balordi. Sono una schiatta di infelici e sprovveduti.

Spendi la tua inesauribile prodigalità – te ne prego - anche per quei miseri che si credono tuoi padroni, ma altro non sono che la tua prole più reietta. Io ora non posso più vegliare su di loro. Io ora sono solo più materia alla deriva.

 

 

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Fiore di fulmine: la storia della Roggeri che odora di morte, di leggenda e di Sardegna

11 Maggio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Siamo a Monte Narba, piccolo villaggio minerario, e corre l’anno 1899.

Luigia e Antonio hanno quattro figli, tre maschi e una femmina. I maschi sono molto diversi tra loro. C’è chi, più passionale ed estroverso, si lascia andare a manifestazioni d’affetto più marcate; chi, più grande e assennato, guarda le cose con razionalità e maturità; e ancora chi, introverso e ombroso, sta agli angoli, schivo e avvicinabile quanto un cane rabbioso. E poi c’è Nora, ultima della covata. Coccolata ma abituata a una vita fatta di dure rinunce, capisce il sapore della morte fin dalla tragedia che vede come protagonista – unico attore di uno spettacolo nel quale il sipario si chiude per sempre – il povero padre. Antonio è morto dentro la miniera, per colpa di un crollo, e Luigia non si dà pace, condannando a quello che è un lutto perpetuo i suoi figli. Ma Nora non perde quello che è il suo carattere. Arguta e brillante, coraggiosa e tenace, non cede a quelle che sono le spicce spiegazioni di una mamma devastata dal dolore; la sua marmorea convinzione che il padre sia nell’infinita distesa del cielo con gli angeli non si scalfisce nemmeno con le bieche parole di Luigia la quale, con un cinismo gelido e insensibile, le sbatte in faccia quella che è la sua realtà: il padre è morto inghiottito dalla terra della miniera. Avventata ma anche sognatrice, la bambina esplora e tocca con mano, complice un’irruenta curiosità, tutto ciò che risveglia la sua attenzione.

"Eppure la piccola Nora, se solo avesse potuto, non avrebbe esitato a calarsi in uno dei pozzi della miniera per scoprire quali tesori dovevano certamente celarsi sottoterra, o a salire in cima al picco più alto per vedere con i suoi occhi i confini del mondo."

Durante l’arrivo di una tempesta, Nora, incauta e impetuosa come solo lei sa essere, esce, portandosi dietro il maiale di casa e i suoi maialini.

Si trova non troppo vicino ma nemmeno troppo lontano da casa, quando la tragedia si consuma. Un fulmine colpisce quel corpo gioioso, lo alza con violenza inaudita e lo ridona alla fredda terra esanime. È gelida, Nora, e nel suo viso livido il pallore è un cupo presagio di morte. È il fratello a trovare quel corpicino inanimato, lo porta in braccio fino a casa ma le sue lacrime – e quelle della mamma Luigia, rotta in due da pianto e dolore al cuore – non la svegliano. Viene messa in una bara di legno, la piccola Nora, ed è pronta per il rituale del cenere alla cenere e polvere alla polvere. Ma poi qualcosa accade, qualcosa strappa quel germoglio dalla tristezza dell’aldilà per riadagiarla con dolcezza tra i vivi. Non è la stessa: è pallida e sempre un po’ fredda, più del normale, benché sia viva. Ha un’infiorescenza che si staglia nel suo corpo, un fiore di fulmine che le ricopre il lato sinistro del corpo, quello del cuore, dal collo alla caviglia. Il suo cuore batte, nelle sue vene scorre sangue. È comunque cambiata per sempre e alla sua famiglia tutto questo cambiamento appare chiaro come il sole in una sera che sa di tenebra.

 

«Sai che cosa penso?» continuò Teresa con occhi stretti.

«Cosa, Teresa?» domandò Luigia con un filo di voce.

«E se tua figlia fosse una di quelle che vedono i morti? Com’è che le chiamano?» Rimestò nei propri ricordi per alcuni istanti, poi schioccò le dita trionfante. «Ecco! Mia nonna le chiamava così: bidemortos», scandì con tutti i denti in bella mostra."

 

Nora è capace di vedere le persone che non ci sono più, le vede nitide come fossero composte di ossa e carne e sangue. Le vede ferme davanti al suo letto, prima di addormentarsi, una cupa riunione di anime il cui corpo giace decomposto sotto la nuda terra.

Cosa può esserne di lei in un villaggio dove un dono del genere mette paura anche a chi è dotato dello spirito più ardimentoso? La sua nuova dimora a quel punto diventa la Casa delle Figlie della Carità, un orfanotrofio per orfanelle sito a Cagliari.

La cosa che ama più di qualunque altra è il ricamo. Quando può perdersi tra stoffe e punti e disegni, il suo cuore trova pace, finalmente. Placa i pensieri, quella sua passione che fa sembrare le sue mani fatate, e quieta quella che è una profonda nostalgia di casa, di amore, di tenerezza. Nessuno la abbraccia, lì dentro, e lei vorrebbe poter stare anche solo per un secondo con la madre e i fratelli. Piano piano, la speranza muore.

 

"La punta delle dita tracciò sul tessuto un progetto segreto di linee e di forme, la pupilla seguì un sentiero fatto d’oro che alla viscontessa non era dato di percepire."

 

Il suo dono è ancora vivo, una benedizione e una maledizione insieme.

 

"I piedi di Nora però non si mossero, rimasero inchiodati come sull’orlo di un precipizio. L’improvvisa certezza che sua madre fosse morta la riempì di infelicità uccidendo ogni desiderio di correre dietro allo spettro tanto amato. La bambina avrebbe voluto piangere, ma gli occhi rimasero asciutti e i singhiozzi non giunsero a portarle sollievo. Fu così che, per la prima volta in vita sua, Nora Musa ebbe paura di affrontare l’oscurità.2

 

Un giorno, però, una ricca signora, donna Trinez, la nota e la vuole a casa sua. Così inizia quella che è la sua nuova vita.

 

"Dietro le spalle di Annica, che era mezza testa più alta di lei e copriva buona parte della visuale, Nora scorse donna Trinez incastonata come una perla nel piccolo salottino dorato che completava la camera privata della nobildonna e di suo marito. Era vestita con gonna e corpino in seta color avorio ornato di gale, una sorta di nuvola immacolata piena di grazia e compostezza."

 

Nell’abitazione dei ricchi signori, Nora si sente per la prima volta apprezzata. Ma non sa che donna Trinez l’ha notata per qualcosa di cui lei non parla mai.

In un crescendo di intensità e di suggestione, la Roggeri si insinua in ogni anfratto della nostra mente. Tesse una tela impareggiabile per precisione e bellezza, una tela che è preziosa e tetra allo stesso tempo. Un cupo mistero, un segreto che odora di perdita e di pianto, una scoperta che ghiaccia il sangue. La capacità degli umani di mentire, di ingannare, di fare del male. Volontariamente e senza scrupolo. Ma non si ferma certo solo a questo, Fiore di fulmine: è una storia di forza e coraggio, di morte e di vita. Di amore e di odio. Penetreremo nella mente della piccola Nora con le sue paure folli e le sue certezze granitiche, ma anche in quella dei personaggi secondari, tutti dipinti con maestria.

La Sardegna è presente, si sente. Si può annusare e toccare.

Un capolavoro.

 

SULL’AUTRICE

Vanessa Roggeri è nata e cresciuta a Cagliari, dove si è laureata in relazioni internazionali. Ama definirsi una sarda nuragica, innamorata della sua isola così aspra e coriacea ma anche fiera e indomita. questo è il suo secondo romanzo, dopo il successo de Il cuore selvatico del ginepro.

 

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STORIA DI UN UOMO INUTILE di Maksim Gor’kij (1868 – 1936)

10 Maggio 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

Maksim Gor'kij nelle gerarchie letterarie occupa un posto senz'altro alle spalle dei vari Cechov e Tolstoj, suoi contemporanei. Eppure questo libro poco noto, letto nell'edizione UTET, mi fa dire che lo scrittore meriterebbe maggiore attenzione.

Gli aspetti salienti sono letterari ma anche storici e politici e lasciano per certi aspetti sbalordito chi legge.

Il protagonista è Evsej, un ragazzo cresciuto in campagna tra molti stenti, nella Russia zarista scossa dai tremiti rivoluzionari. Orfano, capisce ben presto che l'unica via di salvezza per lui, debole e solo, è sottomettersi ai più forti. Davanti al cugino prepotente o agli adulti arroganti, pensa solo a piegarsi per evitare guai peggiori. In fondo, come gli spiega una conoscente dei bassifondi di Mosca, la vita è un posto dove qualcuno ti impartisce ordini, ti dice cosa fare e dove andare. Tutto qui.

In città trova una specie di grande Suburra; costretto a lavorare come informatore della polizia, vede vizio e violenza dovunque. Il regime lotta contro i sovversivi e lo fa con poliziotti non certo irreprensibili, ma dediti al bere e al gioco. In questo clima fatto di doppiezza e cinismo, l'informatore ha la sensazione che sia tutto sbagliato. È ancora giovanissimo e nessuno gli ha dato una formazione; ha una generica intuizione del bene e del male. Non si dovrebbe vivere per fare del male, pensa, mentre compie pedinamenti o si finge amico di persone che dovrà far arrestare. Da bambino, nel suo villaggio, durante un incendio la gente dimenticò i reciproci dissapori e gioiosamente partecipò allo spegnimento del fuoco. Ci vuole un pericolo per avvicinare le persone? È possibile un mondo diverso come raccontano i rivoluzionari che lui fa incarcerare?

Il ragazzo però non ha avuto nessun adulto che lo abbia indirizzato e fatto maturare; non gli resta che fare il suo lavoro, piegarsi come sempre per evitare conseguenze peggiori, pur con un travaglio interiore in crescita.

C'è però un lato storico-politico ancora più interessante. L'opera proietta la sua ombra sul futuro per parecchi aspetti. Tra i colleghi del giovane, quasi tutti malconci, fanatici, viziosi, quello che impressiona è uno dei capi, un uomo di modesta estrazione, figlio di contadini. Ha un odio sociale per i nobili, i ricchi, gli istruiti; è spregiudicato e spietato. Soffia sul fuoco delle tensioni sociali, favorisce con i suoi agenti i disordini per dimostrare al popolo che la libertà è omicidio e anarchia. Opera quindi sul piano di una sorta di destabilizzazione stabilizzante; il caos alla fine favorirà il ritorno al poco amato ma rassicurante ordine e questa è una tattica usata anche in tempi per noi abbastanza recenti.

Inoltre ha un'utopia delirante, espressa con parole feroci: "Le città andrebbero distrutte. E tutto il superfluo, tutto ciò che impedisce di vivere con semplicità, come vivono le capre e i galli, tutto questo vada pure al diavolo!".

La sua chimera ruralista sarà parte del progetto del sanguinario dittatore Pol Pot.

Lo stesso poliziotto prevede la fine del regime zarista ma afferma che il popolo continuerà a patire la fame: "Il nuovo sistema di governo li distruggerà: le persone tranquille creperanno di fame e i ribelli marciranno in prigione".

Pensando a quanto accadrà nell'Unione Sovietica, le sue parole appaiono profetiche.

Tutto questo, incredibilmente, venne scritto in un romanzo pubblicato nel 1908.

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Umberto Bieco espleta funzioni fisiologiche su “La solitudine dei numeri primi”

9 Maggio 2017 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #recensioni, #le prese per il deretano di umberto bieco

 

 

La lettura, come il tempo di amare, dilata il tempo di vivere, e a quanto pare anche il tempo di defecare. Alle vittime della defecazione è infatti dedicato il primo capitolo di questo capolavoro scatologico, che, vincitore del Premio Strega, ha stregato centinaia di migliaia di lettori - mentre altri se lo sono preso come un'influenza intestinale, a Natale, impacchettato sotto l'albero: non c'è niente di più letale dei libri che ti vogliono regalare.

 

Il libro narra di Mattia, Alice, e della terrificante sofferenza dell'essere incongruenti con il mondo circostante – benché da due prospettive diverse, quella di chi – autistico genio matematico autolesionista - non vuole farne parte e quella di chi – sciancata e anoressica – non riesce ad integrarvisi: data questa affinità riusciranno almeno ad incontrarsi tra di loro?

Come anticipato, il romanzo inizia subito col più sublime tripudio intimistico: una fatale scarica fecale, per quanto peculiare, questa è in ultima analisi la causa dell'azzoppamento della protagonista femminile. Caspita, che deiezione violenta!

L'artefice di queste pagine, del resto, si compiace di crogiolarsi nei più svariati umori umani e sporcizie miscellanee, costellando il suo capolavoro con imbarazzanti water traboccanti, a coronamento della cena romantica più fallimentare di sempre [capitolo 29], con vomitate poltigliose [capitolo 15], nonché con l'ingerimento di luridume rivoltante [capitolo 5] – tanto che vien da sospettare sia questa la materia di cui son fatti i sogni dell'autore, e quindi del libro stesso.

Lo stile secco complessivamente sembra indeciso tra momenti, nel loro piccolo, spettacolarmente drammatici e una narrazione psicoesistenziale sobria e contrita, densa del grigiore della banalità quotidiana – e così troviamo sequenze eccessive da film o telefilm americano, se non proprio alla Stephen King: il rapporto di Alice con le sue coetanee adolescenti – tipiche aguzzine televisive bidimensionali senza un perché - si cristallizza nella deliziosa circostanza accennata, quella del capitolo 5 – una violenza psicologica che si espleta in modo fisicamente disgustoso, e che potrebbe uscire, per l'appunto, da Carrie di King – ma che in questo contesto risulta effettisticamente becero. Così come l'esagerazione sensazionalistica di Mattia, che al compagno di scuola che cerca di confessargli la propria omosessualità con un baratto di segreti, rivela il suo in questo modo:

 

Strinse il coltello con tutte e cinque le dita. Poi se lo piantò nell'incavo tra indice e medio e lo trascinò giù fino al polso”.

 

In altre parole, sembrano generose porcate con cui intrallazzare facilmente il lettore impressionabile – per quanto, certamente, veicolino bene il concetto che per i due protagonisti gli anni formativi siano stati Puro Orrore – un po' come la lettura di questa gemma letteraria per il sottoscritto.

Intanto, laureatosi, Mattia confessa ad Alice il proprio colpevole trauma originario – e ciò li porta finalmente vicini, ma non a sufficienza: il culo colloso del giovane matematico rimarrà appiccicato alla sua comoda inerzia anaffettiva, lui partirà per un'università straniera, e lei si accontenterà di un surrogato, per la verità un gradevole e appetibile partito, di cui però non è davvero e innamorata e che però non la conosce davvero, né la conoscerà davvero durante la vita matrimoniale – la quale quindi si spezzerà dopo qualche anno.

A questo punto lei spedirà un messaggio a Mattia.

Avrei trovato maggiormente appassionante uno sviluppo della tematica sollevata a pagina 129:

 

“Non so” rispose Mattia alle zucchine.

 

Più conversazioni con le zucchine, e, possibilmente, anche con altri ortaggi.

Perchè questo spunto è stato lasciato intentato?

In definitiva, che dire di questo angoscioso e poltiglioso Capolavoro Assoluto della Recente Narrativa Italiana?

Che il giudizio coincide con l'inizio: una evacuazione indesiderata.

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