Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

pee gee daniel

Radio Blog: Pee Gee Daniel, "Ego e libido"

2 Febbraio 2019 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #pee gee daniel

 

 

 

È uscito proprio in questi giorni il nuovo romanzo di Pee Gee Daniel, pubblicato dalle Leucotea Edizioni, che gode del titolo freudiano di Ego e Libido.
Prendetevi due minuti del vostro tempo per sapere di cosa parla e buon ascolto!

 

A cura di Chiara Pugliese

Musica: Bensound

   

Mostra altro

Radio Blog: Pee Gee Daniel

23 Novembre 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #interviste, #pee gee daniel

 

 

 

"...storie che riescono a dare il senso e l'atmosfera della fine del West che io ho sempre concepito come una sorta di Medioevo tardivo vissuto nel Nuovo Mondo".
 

Con i consigli di lettura di oggi veniamo catapultati nell'avventuroso mondo dei romanzi western e lo facciamo in compagnia dello scrittore Luigi Straneo in arte Pee Gee Daniel, già ospite di Radio Blog con il suo "Breve compendio sopra gli umani caratteri" - Catartica Edizioni.
Pee Gee Daniel ci parlerà prima di tutto del suo ultimo romanzo "Il messia di Orogrande" - Santi Editore e poi ha scelto per noi:

- Meridiano di sangue di Cormac McCarthy - Einaudi editore
- Le opere complete di Billy The Kid di Michael Ondaatje - Garzanti Libri

 

Buon ascolto!!

 

A cura di Chiara Pugliese
Musica: www.incompetech.com
Per contattarci: radioblog2017@gmail.com

Mostra altro

Radioblog, le voci di Signora dei Filtri: intervista a Pee Gee Daniel

8 Giugno 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #pee gee daniel, #interviste, #radioblog, #blog collettivo, #eva pratesi, #vignette e illustrazioni

 

 

 

Quante volte vi sarà capitato di dire o pensare “Quello è proprio un invidioso!”, oppure “Che persona egoista!” o, peggio ancora, “ma sei proprio un moralista!”. Capita spesso di definire  i caratteri delle persone con le quali incrociamo le nostre esistenze, ma Pee Gee Daniel ha fatto molto di più: questi caratteri li ha studiati, analizzati e catalogati, riassumendo quelle che a suo dire sono le principali tipologie di personalità e caratteristiche umane.

Ma questi caratteri possiamo cambiarli? O ne rimaniamo prigionieri per sempre? A questa e altre domande cerca di dare una risposta Pee Gee Daniel nel suo Breve compendio sugli umani caratteri edito da Catartica ed oggi su Radioblog faremo due chiacchiere con lui ripercorrendo la sua personale classificazione dei caratteri umani originale ed istruttiva, con richiami a personalità storiche che questi caratteri hanno interpretato in maniera esemplare.

Come sempre il nostro intervistato ci regalerà anche qualche prezioso consiglio di lettura.

Quindi, mettetevi comodi e ... buon ascolto!

 

Per contattarci:radioblog2017@gmail.com

Blog di Eva Pratesi: www.geographicnovel.com

Musica: www.bensound.com

 

Mostra altro

L'etichetta

21 Marzo 2018 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto

 

 

 

 

L’inaugurazione era filata liscia. Molti consensi. Educati battimani all’entrata dell’artista. La giusta quota di selfie scattati vicino alle opere d’arte.

Si potevano già quasi tirare le somme, visto che la galleria era lì lì per chiudere. Era talmente tardi che l’autore delle opere esposte aveva già lasciato la mostra sotto braccio al curatore, diretti a passo spedito verso chissà quale party nel quale, a quell’ora – si bisbigliavano l’un l’altro per spronarsi a vicenda – addirittura già nevicava, nonostante si fosse nel mese di giugno!

Eppure un certo capannello di ritardatari ancora si soffermava intorno all’opera principale dell’intera esposizione. D’altronde erano tutti lì soprattutto per quella (oltre che per l’annunciato buffet, che godeva ogni volta di un innegabile richiamo), specie dopo avere ascoltato la splendida recensione che, dietro adeguato compenso, ne aveva fatto il più grande critico d’arte della nazione (almeno per quanto ne sapevano loro, che non ne conoscevano altri): «Con l’opera intitolata Mondo De Barecedo stavolta ha veramente superato se stesso: nella sua semplicità essa raccoglie tutto un nugolo di interpretazioni pressoché infinito» aveva infatti scritto sul catalogo e intonato per televisione Littorio Barbie, ripetendolo, se non proprio con convinzione perlomeno con un’invidiabile faccia da poker, quello stesso pomeriggio, all’apertura della mostra. Appena in tempo: un attimo prima cioè dell’ennesimo attacco ischemico che lo aveva poi costretto a fare un breve salto al più vicino ambulatorio, prima di recarsi all’altrettanto pregevole (nonché remunerativa) mostra d’artista, tenuta a una trentina di chilometri da lì.

Quello che osservavano aveva tutta l’apparenza di un carrello per le pulizie, con tanto di secchi mezzi pieni di acqua e detersivo e un paio di Mocio Vileda a pendere dalle parti. A proteggerlo un parallelepipedo in plexiglas, sul quale, più o meno a metà, spostata verso destra, c’era appiccicata un’etichetta gommosa con le lettere a rilievo che recitava: “L.De Barecedo, Mondo, 2017”.

I cultori neofiti lì intorno erano ammirati: «Che bel ready-made!» si sbilanciò il trentenne coi baffi che masticava un po’ di inglese.

«L’opera ci riporta al significato originale di mundum, ossia: pulito.» spiegava il signore di mezz’età che ancora rammentava un po’ di latino.

«Per certi versi ricorda il miglior Spoerri» commentava la madamina che si era fatta tenere le dispense d’arte dall’edicolante di fiducia.

Intanto, a breve distanza, la Gina, non vista, li osservava con fastidio, dall’alto in basso, più che per una superiorità morale grazie alla posizione conferitagli dal largo piedistallo su cui poggiava i piedi piatti, mentre finiva di lucidare, con abbondante olio di gomito, la superficie di un vasto boccione a chiusura ermetica contenente una mezza dozzina di pesci morti galleggianti in un paio di litri di acqua putrida.

«Ma quando se ne vanno questi? Che se qua non si sbrigano a chiudere la baracca mi perdo il 12 barrato e devo aspettare quello appresso...» non faceva che borbottare tra sé.

Scalpitava attendendo solo più che quella calca di tiratardi si allontanasse dai suoi attrezzi da lavoro, su cui aveva momentaneamente appoggiato la teca in plexiglas, per poi rimetterla sopra l’opera di De Barecedo che andava testé tirando a lucido.

Mostra altro

Fabio Zuffanti, "Storie notturne"

4 Marzo 2018 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #recensioni

 

 

 

 

 

 

Storie notturne

Fabio Zuffanti

 

Ensemble, 2017

 

L’esordio narrativo di Fabio Zuffanti (già celeberrimo musicista progressive, nonché autore della silloge poetica Il giorno sottile, pubblicata da Mora Edizioni) si presenta come un libretto agile ma concettoso.

Si tratta di una raccolta di racconti brevi (quasi mai superano un paio di pagine) intitolata Storie notturne, edita da Ensemble.

L’aggettivo del titolo sta presumibilmente a indicare la suggestione che ci proviene da quegli stati di alterazione propri delle ore notturne, del dormiveglia, dell’esperienza onirica o delle crisi di insonnia, quando la realtà data tende a scolorire e a perdere di consistenza, sostituita nei nostri pensieri da entità più fluide e intangibili, da impressioni incerte e fantasiose.

I racconti non hanno titolo. Si susseguono contrassegnati dalla medesima dicitura: Storia notturna. Secondo una numerazione crescente, che parte però direttamente dalla seconda. La Storia notturna numero 1 manca, come se si fosse persa. Come a insinuare sin dalla partenza che gli episodi non consequenziali che costituiscono la raccolta siano come la prosecuzione di un sogno (o di una lunga e divagante meditazione) che parte altrove, in un’analessi inconoscibile, e che forse sarà destinato a continuare al di là del terminus ad quem dell’ultima pagina.

Ogni racconto è come il progressivo rintocco di un’incalzante incertezza esistenziale: chi siamo davvero? Di cosa siamo fatti noi e ciò che ci circonda? Forse proprio della stessa shakespeariana materia di cui sono fatti i sogni?

È in quel passaggio crepuscolare tra le certezze diurne e gli abbagli o i ripensamenti ontologici che spesso accompagnano la progressiva perdita di punti di riferimento che ci conduce sino al sonno che i contorni di cose, persone, rapporti interpersonali sembrano farsi improvvisamente più rarefatti.

Nel libro di Zuffanti si trovano alcuni argomenti ridondanti: un epistolario notturno più volte ripreso, lungo la successione dei racconti, e destinato a recapiti mai del tutto individuabili, una guerra ancor prima introiettata che realmente combattuta all’esterno («In realtà ero io a essere costantemente in guerra con me stesso» inizia il terzultimo raccontino), l’incomunicabilità e il suo rovescio, rintracciabile in una comunicazione non verbale, eppure neanche per forza fisica (metafisica forse, quasi telepatica) e, per finire, il tema del doppio. È come un bandolo di fil rouge che si snodano lungo l’intero dispiegarsi del libro, riapparendo di tanto in tanto, come cuciture a vista che tengono insieme il tutto.

A sorreggere l’impianto narrativo una precisione e un nitore linguistici davvero rimarchevoli. Metafore calibrate, senza sbavature, quasi impercettibili per la loro eleganza. Accenti di puro lirismo che però presto si mitigano verso toni più meditativi. Accanto a ciò, un efficace dispiego della figura retorica che passa sotto il nome di ipotiposi, la quale sta a indicare la capacità di descrivere in maniera tanto concreta le azioni da riuscire a suscitare nel lettore una vivida immagine mentale: «la lanugine della nebbia comincia a danzare. Si compatta davanti al prigioniero fino a formare un enorme volto i cui contorni si perdono nella foschia.»   

Alcuni racconti sembrano mimare contenuti sapienziali, come la #19: «Non opporre resistenza. Sciogli i legami e lasciati semplicemente andare. Accetta l'abisso. Accetta di non essere.» Racconto in cui in realtà si tenta, come in un testo sacro, l’impossibile descrizione dell’ineffabile: «dovrei definire qualcosa che non possiede definizione.»

O come nell’attacco apodittico e destabilizzante della #29: «Al di sotto di quel portaombrelli si trova il centro della terra. Lo puoi vedere se levi tutti gli ombrelli e metti la testa all'interno del cilindro metallico. Scorgerai dapprima solo buio ma poi qualcosa attirerà la tua attenzione, una nebbiolina e un debole chiarore che via via si farà meno indistinto.»

L’intera raccolta è attraversata da un’irriducibile dialettica tra istanze esistenzialistiche e introspettive da una parte e quell’entropia generale dall’altra che tutto tende a disperdere e disordinare, privando il soggetto di “un centro di gravità permanente” (come ebbe modo di definirlo un collega di Zuffanti, sul quale quest’ultimo ha appena finito di scrivere una monografia). Una realtà caotica in cui diviene anche difficile distinguere senno da dissennatezza: «Ecco quindi una nuova riflessione. Hai mai pensato alla sublime arte della pazzia? Hai mai immaginato di perdere il senno? Di vagare in completa libertà in questo mondo così chiuso entro anguste stanze? Hai mai sognato di rompere queste catene malandate e di andare fuori da ogni binario di normalità? (…) Ecco quindi il paradosso, viviamo da internati per non finire internati. A volte a notte fonda sento che sto per varcare quella soglia.»

La maggiore forza del libro sta però in una piena accettazione degli aspetti più inconciliabili e ingestibili del nostro vivere: «Tutto è esistenza, e siamo fortunati a potere dire “sto male, sto bene”, perché nel nostro stare bene e male c’è il senso esatto di quello che siamo.» E si conclude proprio con un’apertura al flusso vitale e ai suoi infiniti contenuti, rafforzata dalla citazione di un altro famoso collega del nostro autore: «E tutta questa marea di movimenti verso qualcosa sarà la vita, che, come diceva qualcuno, accadrà mentre siamo impegnati a far piani sulla vita stessa. (…) Farai un largo respiro, chiuderai gli occhi e lascerai che il flusso delle cose continui a farti navigare, nei giorni e nelle notti del tuo essere.»

 

 

Mostra altro

Il "Salvini"

16 Febbraio 2018 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto

 

 

 

 

 

 

Era il più cazzone di tutti.

Dentro la ghenga era quello che valeva poco meno di un cazzo di niente.

Per quanto si vantasse che la sua scuola era sempre stata il marciapiede si capiva a colpo d’occhio che era una mammoletta. E per quanto lui ci si incistasse a dare un’impressione tutta diversa, acchittandosi e atteggiandosi da splendido, questo non faceva che caricarlo ancor più di un’aria ridicola, tipica di quello che vuole ma non può. Non ce n’era uno, tra di noi, che sarebbe mai ricorso a lui, se avesse avuto bisogno di una mano per sbrigare uno dei nostri soliti affarucci, perché da una lenza come quella non ti potevi aspettare altro che ti mollasse quattro a zero proprio sul più bello, quando magari tu stavi lì lì per chiudere la rapa e si sentivano le sirene della madama in avvicinamento o quando svaligiavi la cassa automatica e usciva fuori la guardia col ferro in mano, se ti aspettavi che quello lì ti venisse in aiuto stavi fresco. Per quello non lo facevamo mai partecipare, per quanto ce lo supplicasse tutti i giorni, facendo il ganassa coi resoconti dei suoi colpi fantomatici che ci propinava giusto per darci a bere che pure lui l’è un bel filone.

Si vedeva che ci pativa che noi avevamo sempre da contarne una, sul portavalori buttato giù con un uppercut dato bene o sulla fuga dai ghisa in sella al cinquantino sfiatato e lui ciccia.

Allora un bel giorno, tanto per far vedere di che stoffa era fatto, attaccò a far la teppa lui pure.

Solo che, messo com’era, per vincerla facile lui se la prendeva coi poveracci che trovava in giro, giusto per darsi un tono.

Per fare un esempio, se vedeva dei barboni a dormire tra i cartoni in un freddo siberiano, lui passava di lì e ci tirava le molotov: «Almeno vi scaldate!» gli sghignazzava dietro prima di sgommare via.

Quando vedeva un immigrato non perdeva occasione per prenderlo a sprangate o tirargli pietre e sampietrini, gridandogli: «Tornatene in Africa, brutta scimmia!» Questo però solo con quelli piccinini. Se per caso incontrava per strada un cristone nigeriano largo e lungo come un armadio era difficile che gli venisse voglia di offenderlo. Il più delle volte allora abbassava lo sguardo e tirava dritto.

E se trovava una zingarella pidocchiosa lì a stendere la mano per alzare un paio di euro di elemosina davanti a una chiesa gli veniva automatico ficcare un calcione al piattino delle offerte che lo mandava in orbita col pianto dirotto della poverella come sottofondo, subito prima di raccogliere le monetine, ficcarsele in tasca e sparire con un dito medio alzato esibito in faccia alla giovane rom.

Non che tutto questo migliorasse di una virgola il nostro giudizio su di lui, anzi, non facevamo che ignorarlo ancora peggio di prima: fare il forte con i più deboli lo rendeva ai nostri occhi come il nulla mischiato al niente.

Eppure lui andava avanti così. Se non se la prendeva con qualche tapino stava mica bene.

Ora spero si sarà capito perché nel giro quando parlavamo di lui lo chiamavamo… il “Salvini”.

Mostra altro

Racconto di Natale: parte quarta

23 Dicembre 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Sembrava una puntata di quel vecchio telefilm con quel tale vestito di bianco che gestiva un'isola dei desideri, sempre affiancato da un orrendo nanerottolo. Il desiderio espresso da Pasqualo pareva quello di mettersi nei panni del capo-famiglia, giusto per la sera del Santo Genetliaco di Cristo. Per quell'ora aveva ormai assolto a ogni onere. Per chiudere in bellezza la curiosa esperienza gli mancava però un elemento appena.

Infatti, dopo aver scalciato in un angolo Ciruzzo e essersi ricomposto nella giacca, nella camiciola linda e pinta, nell'aplomb irreprensibile di sempre, approcciò il padrone di casa con occhio malandrino: «Di', caro, mò sèmo amici, nòne? Mò sèmo mèjo che fratelli, onnò? Se sèmo spartiti 'n po' de tutto, come dù bboni compari che se vònno bene,» lo circuiva. Natale ciondolava il testone più per esaurimento nevrastenico che per assentire... «Ehmbè Natale mio, come co' tutti l'amici più veri è giunta l'ora che me sbottono...»

«Com'avìte fatto con la signora mia?» si affrettò a chiedere l'altro, con una sincera preoccupazione dipinta sul volto.

«Mannò, ma che hai capito... Vie' qua che te spiego mèjo... Ah coso, senti un po', me servirebbe un po' de liquidi...»

«Tenìte sete?»

«Macché sete... De conquìbbus, ah scemo!... Me sérveno le svanziche… como dite vosotros? Li dindi,... ri sordi, 'nzomma... Vedi, caro, sto un po' a secco. Come hai potuto constatare, stasera sò sortito un po' de prescia e nun ho fatto an tempo a svuotà à cassaforte... A casa mò nun ce posso annà, daa banca nun ce posso passà ché l'amici mia me cerchéno... Vabbeh, per farla concisa, che moo potresti concedere un prestitino? Tanto per levare le tende quer paio de ggiorni, se me sò spiegato...»

A Natale De Dominiccis si fece il volto del peccato mortale. Quella richiesta dovette risuonare alle sue orecchie né più né meno come al dannato l'assegnazione di bolgia del Minosse dantesco. Guardò il capo da sotto a sopra, con due occhioni che avrebbero toccato la sensibilità di chiunque. Tranne quella di Pasqualo, che anzi lo sollecitava: «Facciamo una cosa di giorno, ah Natalì...»

Natale scomparve per il tot tempo necessario a rimestare in chissà quale doppiofondo. Infine riapparve dallo sgabuzzino col libretto di risparmio del primogenito, intonso e ben tenuto come la reliquia del meglio messia.

«È ò libretto al portatore 'e Gaetano mio. L'àmmo mettùto inzieme co' tanti sacrifici...»

E Pasqualo Del Grosso, che non difettava di umanità, dopo averglielo furtivamente sfilato di mano con un esempio di prestidigitazione davvero rimarchevole, se lo strinse al cuore, mormorando commosso: «Lo apprezzo moltissimo!» Dopo di che si sbatté la porta d'uscita alle spalle, salutando tutti quanti con un generico: «Se vedèmooooo!»

Siccome, come ogni novella natalizia che si rispetti, non di meno la nostra può rinunciare al più feerico happy end, il paziente lettore, che abbia avuto la bontà di seguirci sin qua, sappia che appena dopo l'epifania, proprio il giorno dello sfratto esecutivo, mentre già si trovava sbattuta sul marciapiede, tra due valige di cartone e la carogna del cane, che non aveva retto a quell'ulteriore infamità, la famiglia De Dominiccis-Squanquaronzio si vide recapitare una festosa cartolina espressamente giunta dalle isole Cayman.

Ne lessero il retro, incuriositi:

«Ciao cari, grazie alla vostra esigua ma tempestiva elargizione sono infine riuscito a prendere il primo volo che mi ricongiungesse alle mie proprietà off-shore. Qua sono irrintracciabile.

Nella speranza che ve la passiate bene quanto me, un caldo abbraccio,

P. Del G.»

Natale e congiunti stavano ancora rileggendo, a dire il vero un filino amareggiati, quelle poche righe, quando si accorsero che il portalettere era rimasto inspiegabilmente lì accanto a loro, anche a consegna avvenuta. Quando gli rivolsero lo sguardo, il solerte funzionario fu lieto di puntualizzare: «La cartolina non è stata debitamente affrancata. Spiace, ma c'è da pagare la penale, signori miei...»

Mostra altro

Racconto di Natale: parte terza

21 Dicembre 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Ah, lasciare ogni fortuna alle proprie spalle con una risata! - come recitava il Grande Bardo.

Era proprio giunto il momento, per una sera almeno, di tirare un sonoro calcione alla vita superficiale che aveva condotto sino ad allora: al cenone inaugurato da un po' po' de caviale co' li tocchi grossi come òva d'oca e co' cert'ostriche ar cucchiaio che parèveno meduse appena aggallate. Al macchinone scì scì. Alla strappona sbrilluccicante da portàsse sotto l'ala alla serata danzante, pè fa bella figura co' l'amici. Un calcio ai comfort e ai lussi. Come pure alle aziende e alle grane connesse, ai reclami dei creditori, alle tasse, ai lavoratori senza paga. Proprio la sera del Santo Natale, poi, quand'è che rinasce, da dumìl'anni a 'sta parte, Nostro Zignòre, che ci insegnò appunto a rimettere piamente i nostri debiti...

Abbracciare, anche se per breve tempo, una vita frugale, miserevole, disadorna: che grande idea! Vivere per una volta mettendosi nei panni di uno dei suoi operai: se nun era spirito natalizzio quello! (eppoi, fàmo a capìsse, chi mai anderèbbe a penzà che l'ing. Del Grosso Pasqualo, sotto viggìglia, sta 'mbucato derènto er cesso de casa d'uno dei dipendenti sua?!). Così pensava, complimentandosi in imo corde con se stesso, l'ultimo dei Del Grosso - già a suo tempo insignito della laurea in ingegneria presso una delle più importanti facoltà del Burkina Faso via corrispondenza, oltreché di già divinato del titolo di Commendatore della Repubblica Italiana, e in puzza da parecchio per il Cavalierato del Lavoro – mentre si stropicciava le mani e, lappolando i festosi occhioni a bulbo, inneggiava: «Suvvia, amici cari, che si dia inizio al cenone! Il cenone!» levatosi per un attimo dalla propria sedia, pigiata nel mezzo delle altre sedie della famiglia De Dominiccis disposte intorno alla piccola tavola rettangolare, coi relativi culi De Dominiccis (o née Squanquaronzio) appoggiatici sopra.

I componenti della famiglia ospite guardavano l'ospitato con deferenza, mista a timor panico, misto a crescente insofferenza, mista a un travaso bilioso, misto a un istinto omicida vieppiù pronunciato. Nessuno che osasse prender la parola per primo e farsi portavoce del generale malanimo: «Accà ci sta 'nu cazz'e nint', dottò!» Preferivano permanere a testa bassa, assoggettandosi tacitamente all'ignota evoluzione degli eventi.

Annunziata, senza dare troppo nell'occhio, scivolò verso la madia da cui trasse scarti di cibo o deterioramenti organici relegati lì dentro alla rinfusa, ne fece un impasto alla buona, che scallò poco poco a balneum Mariæ, dopo di che lo scodellò davanti all'augusto convitato, accompagnando il gesto con un commento didascalico e risoluto: «È tutto chell' che c'è rimanuto!» E tentava frattanto di darsi un qualche contegno.

Pasqualo non accusò il colpo, ma ringraziò e si getto a capofitto sul pasticcio, spazzolandolo in tempo record sotto gli occhi ploranti e sdegnati assieme degli altri commensali. «Ah, bontà divina! Che manine c'ha, signora mia! Bella e brava! Te sì che sei 'n omo co' tutte le fortune, ah Natalì!» A quel complimento, per la verità, l'irrigidimento di Annunziata parve un pocolino squagliarsi.

Finita la scorpacciata richiese il doveroso cafferino, seguito dall'ammazzacaffè (il fondo di un nocino che tenevano da conto comm' fùss'ò sang' 'e San Gennaro).

Poi, tentando di alzare la voce quel tanto da superare il coro di brontolii sempre più ostinati che le pance vuote del gruppetto di cristiani e del canide non la finivano di emettere, Del Grosso tenne però a precisare: «Non mancherò di ricambiare la vostra ospitalità, questo è chiaro. Vi inviterò da me, amici cari. Nelle magioni avite...»

E Annunziata, con occhio sempre più languido: «E da quanto tiempo li avìte?»

«Che cosa?» si sorprese Pasqualo.

«Codesti omaccioni di cui andate parlando...»

Pasqualo Del Grosso s'era accomodato. S'era rilasciato. S'era acclimatato e aveva familiarizzato col simpatico nucleo famigliare a tal punto che, nel giro di un'oretta e mezza massimo massimo si sentiva già ormai perfettamente a casa. Per finire in bellezza s'era pappato pur'anche la manciata di fagiuoli dalla scatola della tombola, così, crudi e rinseccoliti quali erano, e ora strippava spaparanzato sul sofà buco, a pancia all'aria, grattandosi rumorosamente il siedisopra, mentre il più piccirillo dei regazzini s'era messo, nascondoni, a leccare il fondo del piatto dell'ospite, giusto per mettere qualcosina sul palato...

Via via che la confidenza si era sviluppata, il visitatore si era dapprima allentato il giro della cravatta intorno al collo, quindi si era alleggerito della giacca sancrata, poi della camicia bianca candeggina, restando in un'altrettanto immacolata canottiera Dolce & Gabbana che ne risaltava il busto tuttora prestante: Annunziata, a quella vista, si morse ferocemente il labbro inferiore. S'era anche sfilato le Churchill infangate, accompagnando l'operazione con un «Oooooh!» che doveva esprimere tutto il deliquio per l'avvenuta liberazione da quella coriacea cattività. Levatosi i calzini in fil di refe, aveva domandato un pediluvio, cui la prole De Dominiccis aveva sollecitamente provveduto ricorrendo alla puntina di bicarbonato che rimaneva in dispensa sciolta in acqua càlla. Infine, fatta sua l'ultima nazionale del pacchetto di Natale, grato per la sentita strenna, se l'appicciò, continuando a mantenere, con l'altra mano, il vino in cartone, al quale generosissimamente s'abbeverava.

«Sapete che farei mò?!» chiese retoricamente rivolto alla famiglia che lo ospitava: dalle facce davano l'impressione di non saperlo, «Me metterebbe callo callo sur bordo daa piscina de casuccia mia, con un Martini ghiacciato stretto ammàno, un sigaro Cohiba nell'artra e sto da papa!... Perché, dite, voàntri come ce l'avete la piscina? Olimpionica? O a forma de faggiòlo, magara?»

«Nun la tenìmmo...» confessò, un po' imbarazzato il pater familias.

«Come, come? Cioè, tu me vòi dì che drent'a 'sta bigoncia... o internamente alla vostra tenuta, per meglio esprimersi, sète privi de piscine? E come mai?»

«Ehm... Preferiamo la doccia...» tentò di giustificarsi ancora l'interlocutore.

Dopo quella, Pasqualo tacque per un po'. Si sgarganellava il suo Tavernello. Terminato un cartone, s'attaccava al successivo. Andò a finire che in breve tempo aveva depredata l'intera prestigiosa riserva di casa De Dominiccis-Squanquaronzio.

La sua aria serena sembrava certificare una raggiunta riappacificazione con l'intero mondo. I De Dominiccis, da parte loro, lo fissavano a bocca aperta, come si osserva una bestia rara.

Dopo un po' che snasava tutto in giro, cominciò a incuriosirsi: «Mmm... Ma dite un po', pure voi, cari, avvertite questo pungente fetore?»

E Natale: «Mmm, seee... A dire ò vero sò juòrni e juòrni che ovunque vàco sento 'sta puzza...»

Pasqualo ci meditò un po' su, dopo di che si permise una domandina: «Mm, mm... Ma... sicuro sicuro che la doccia ti piaccia?...»

Poi venne il tempo della requie postprandiale, quando - ci insegna Galeno – gli umori che sottendono ai temperamenti, come da dei vasi comunicanti, si scambiano di tra loro quantità, proporzioni e corrispondenze e, una volta che, ormai sazi, da quella doppia specie di mangiativo e bibendum cui si è attinto nella loro iniziale pienezza metafisica, si trapassa, bocconcino bocconcino, in primis al bolo, in sequela al chilo, e da lì alla peristalsi colta nei suoi rotismi strada facendo sempre più raffinatori, sofisticati e, da ultimo, suscettivi di un aeriforme saluto finale che, abbandonando il corpo per l'uscita inferiore, altro non fa che esporre al mondo, nella sua sonora allegria, la felice conclusione del processo digestivo, le cervella, or non più gravate, in quel loro monistico viluppo, dalle necessità dell'area esofageo-stomacal-intestinale, infine son libere di perdersi dietro ad altri imperativi biologici, magari un po' meno urgenti quanto all'autopreservazione dell'individuo, ma non per questo meno salubri al fine di un'ottimale tenuta psicofisica.

In parole povere, dopo quella che il Belli nomava bravamente «l'ora der cazzaccio», sta a dire: la controra, il leggero abbiocco, o cecagna, ovvero pennica (o pseudo-tale) che coglie di regola il soggetto che si sia forse troppo precedentemente abboffato, indotta dai fumi e dai fluori di un'assimilazione quantomai macchinosa, ebbene, cassato quel naturale obnubilamento e riavuta appieno la forza di volontà che altrimenti l'assisteva, nella testa di Pasqualo presero a gemmare, concrescere e vorticare onninamente e tutto d'un colpo certe stuzzicanti ideuzze che fino a un attimo prima nemmanco era in grado di fantasticare.

Il sangue, or non più ingaggiato dal sistema vegetativo, ricominciava a defluire e scorrere altrove, lungo sedi periferiche la cui capacità di arrecare soddisfazioni si annunciava non meno promettente. Fu così che la signora De Dominiccis iniziò a sentirsi oggetto delle occhiatine sempre meno dissimulate, con cui da dieci minuti a quella parte il presidente, nonché proprietario unico, della Del Grosso Bitumini & Similia aveva preso a dardeggiarla.

E perfettamente rassomigliante a come le maree s'alzino e s'abbassino sotto l'influsso del satellite e della stella a noi più prossimi, rispondendo esse pure a quella forza di gravitazione universale che pretende che due qualsiasi corpi si attraggano secondo una reciprocità proporzionata alla distanza che li separa, anche il sangue di Annunziata, come per simpatia, come per una foscoliana corrispondenza d'amorosi sensi, andava agitandosi tal quale a quello che scorreva nelle vene e nelle arterie del suo sempre più incistato osservatore. Sobbolliva anzi, comm'ò ragù che stèva tutt'a nuttàt'a fà plòp plòp 'ncopp'a fiamma, rint'ò buio ra cucina 'e màmmesa. Mancava poco che quel sangue le si trasmutasse in lava, sotto lo sguardo levantino e provocante dell'importante invitato.

«E io tra di voi se non parlo mai capisco già tutto quanto,» avrebbe ben potuto duettare De Dominiccis Natale, insieme ad Aznavour, durante quell'amaro frangente. Tanto che, constatando la fulminea intesa instauratasi tra consorte e principale, si fece un po' da parte, lui e i figli - l'espressione da cane battuto che rivaleggiava alla pari con quella presente negli occhioni umidi di Maradona IV, che scodinzolava stancamente appresso alla tavola, nella vana attesa che qualcheduno gli riempisse la ciotola – e con un filo di voce, e la morte nel cuore, fece infine a Pasqualo: «Dottò, à camera da letto nostra sta di là. Nun è à stanza 'è Napuliòne, vabbuò, ma si vulìte favorire, se ve vulìte cuccà 'nu poco, nun facìte i complimentazzioni...»

«Venite, dottò. Vaa mostro je à camera da liètto...» Approfittò immantinente di quell'assist à mugghièra, che, disvelando un tantino il non disprezzabile décolleté, e sculettando ancora meglio di Maradona IV, lo chapperonò sin là dentro, anticipandolo di qualche passo e gettandogli durante il tragitto qualche golosa guardatina da sopra la spalla scoperta. Pasqualo la seguì tacco tacco come la Santa Pasqua segue la Quaresima.

Passò un niente e dalla stanzetta attigua provennero certi cigolii, certi lamenti, certe imprecazioni dalla sospetta escalation (il cui equivalente ginnasiale risulta peraltro essere climax).

«Macché, mammà sta male?» si informava il piccolo Ciro.

«No, no. Che te vai a penzà? Sta tutt'a pòst! Ce sta mamma là dìnt' che va chiedendo un aumento di stipendio all'Ingegnèro,» lo rassicurò papà suo.

Lo scambio secretivo en privé tra il Del Grosso e Nunziatella portò via non più di cinque minuti mal contati.

Per tutto quel periodo di tempo, il concertino di molle sotto sforzo e gemiti flegreo-trasteverini a go-go fu contrappuntato, con disciplina impeccabile, dalle lamentazioni del piccolo Ciro, piantato a una spanna dalla porta che sigillava la camera da letto: «Mammà, tiengo suonno. Pozzò tràsere? Fammi entrare, ché vado a dormire dentro ò cassettone mio,» implorava Ciruzzo.

A un bel momento però la soglia gli si spalancò innanzi: gli occhi gli si empirono della trama a righine sottili della canottiera indossata da Pasqualo, zona-panza. Se ne distolse arrampicandoli pian piano su per il busto, poi il torace, il collo taurino, quindi gli occhi del Del Grosso, ficcati di rimando avverso lui, che si potevano notare percorsi in contemporanea da un'aria di goduria per la refezione fisica da poco conclusa e, per altro verso, da un certo tono di disappunto: «Allora, regazzì, l'hai finita de scassà er cazzo?» gli domandò, senza troppi preamboli.

«Dovete scusarlo, dottò: à criatùra tiene suonno,» provò a giustificarlo Natale, dal limitare del tinello.

«Ennò Natale mio, così nun va. Nun te devi intenerì. Se te fai vedè troppo bbono er marmocchio s'approfitta. Duro devi da èsse. Mò te lo imparo io com'è che se raddrìzzeno li discoli!» Neppure aveva terminato la frase che Ciro già s'era trovato adagiato a panciarotta, contro il proprio volere, sopra il ginocchio dello sconosciuto, che a sua volta s'era accomodato sullo strapuntino più alla portata a beneficio dell'operazione in fieri.

Le chiappette smagrite di Ciro sbandieravano al vento, ma ci pensò presto Pasqualo a riscaldarle con una sequela di sculacciate a pieno palmo. Ciruzzo chiagnèva, ma Pasqualo, forte dello gnomico ammaestramento che andava impartendo al giovane sottoposto, non si fece commuovere. Anzi, tanto che bersagliava quel popò dalle nuance ormai color pervinca, ribadiva al genitore legittimo: «Nun te lo scordare mai, ah Natale mio: li fìi sò come li tappeti, si nun li batti se raggrìnzeno!»

«Ma pecché, dottò, vùje quanti figli tenìte?»

«Io? Macché so scemo? Manca ancora che me metto a fà dei rompicojoni che me gìreno peccàsa...»

Mostra altro

Racconto di Natale: parte seconda

19 Dicembre 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

«Addò v'àggia purtà, dottò?» cacagliava il De Dominiccis alla guida della sua sfiatata Ford Ka, mentre tentava di manovrare il riluttante sistema di tergicristalli per levarsi dagli occhi almeno un po' del nevischio che si andava addensando sul parabris scheggiato.

«Il più lontano possibile da tutta questa infernale ingratitudine, caro,» gli rispose Del Grosso di getto, massaggiandosi le lussazioni sparse e sbirciando ogni tre per due alle terga, oltre il lunotto posteriore, per sincerarsi di non essere tallonato da Equitalia né da alcuna altra banda di parassiti saprofaghi.

Una volta che l'immane parallelepipedo che costituiva l'impianto-madre della ditta Del Grosso disparve anche dallo specchietto retrovisore, man mano che al panorama grigiastro della zona industriale si sostituiva quello begiolino del centro-città prima, dunque quello marrone-putredine del quartiere-dormitorio in cui era di stanza la famiglia De Dominiccis-Squanquaronzio, la tensione, nel corpo nerboruto e ancora tutto sommato in forze di Pasqualo, andava velocemente stemperandosi. Anzi, più si sentiva lontano da quella masnada di scocciatori, più gli sembrava che addirittura un po' del buonumore d'un tempo tornasse ad assisterlo. Si rilasciò contro il sedile scoppiato della postazione passeggero e incominciò a guardarsi oziosamente intorno per quell'angusto abitacolo. Natale, per intanto, proseguiva dritto al naso come un pilota automatico, senza che ancora gli fosse stata specificata la meta.

«Ah ah ah,» attaccò a sganasciarsi crassamente il Del Grosso, a un certo punto, «E chi se l'immaginava che esistessero ancora gli abbassafinestrini a manovella! Ma che d'è, un pezzo da museo 'sto qua. Tièttelo stretto, ah coso, che tra 'n po' te vale più der Colisèo... E dimme, Deddomminniccis, er volante te ce l'hanno rifilato aggràtise o era 'n opscionàl pure quello? Chissà come che te sei svenato pe' fattelo... Oh oh oh...»

Lo sguardo aggrondatissimo di Natale puntava la strada, mentre un lieve senso di pentimento per quel soccorso prestato cominciava a salirgli dai precordi. Deglutì con difficoltà e poi: «Allora dottò, dove ve pòzzo purtà?»

A Pasqualo si smorzò il sorriso. Si fece perplesso, subito dopo meditativo. «Mah!» esalò dopo un bel pezzo, «Natalì, amico mio, te posso fa 'na confidenza?» - non attese risposta - «Vedi, sò anni che me sdrumo a fà 'na vitaccia che t'aricomànno... sì, 'nzomma... tra pranzi di lavoro, galà, stravizi, grandi alberghi, troiai extralux, yacht, tennis club e cojonàte der genere, sempre sotto i riflettori, sempre in bocca alla tivvì e a li peggio rotocalchi... Nun posso nemanco famme 'na pippatina o stà in giro co' 'na sorca bell'e nova che... zàcchete! Ecchìme sparato sull'articolo d'apertura de Novella 3000. Me capisci, amico mio?» Natale faceva segno che sì, con la grossa testa a cucurbita. «Se posso essere franco, beh, me piacerebbe infrattàmme pe' 'na vorta, sì, come a dì, nascondermi in santa pace, un posto tranquillo, lontano dai ficcanaso. Fino a che l'acque nun se càrmeno, se ce capìmo... Tu che sei òmo de mònno, che, ne conosci de posti così?»

Natale era rimasto quasi quasi ipnotizzato dalla tiritera del datore di lavoro. Solo allorquando quegli aveva posto quell'ultima domanda, si rese finalmente conto di aver portato la vettura fin sotto casa, praticamente in automatica.

Un po' basito, visto com'erano andate le cose, fissò un attimo appena lo Squalo, il cui dopobarba al pino silvestre gli aveva completamente intasato l'interno della Ka, sinché, di conseguenza, gli scappò detto: «Ehmbe', mò che ci ritroviamo proprio sotto ò domicilio mio, che v'àggia a dìcere... Siete invitato a tràsere rint'a casa mia, commendatò... e c'àmma fà...»

Pasqualo salutò l'invito con entusiasmo: «Salisco volentieri, ammìco mio. Tra l'artro 'un so mai stato drento 'na topaia de queste e te devo confessà sinceramente che zò curioso.» Concluse l'affermazione fioccando tra le scapole graciline del vicino una manata che parve cagionargli lì per lì una scogliosi fulminante.

«Ecco! Proprio quel che mi ci voleva! Una vita misera... infame quasi, ma... verace!» commentò trionfalmente il Del Grosso passando l'uscio de la maison De Dominiccis-Squanquaronzio.

Appena dentro, il padrone di casa si era precipitato sulle pattine lacere per non sentirsi risuonare dentro le orecchie i ripetitivi rimbrotti della moglie, ma non aveva fatto in tempo ad avvertire l'ospite che, di fatti, s'era già avventurato sulle pianelle in graniglia del corridoietto d'entrata, lordandolo mezzo con le sue scarpacce inzaccherate di fanghiglia e che altro, mentre respirava a pieni polmoni l'aria ambiente.

«Ah, che terribile puzza di cavoli e bietole lesse!» giubilava, «Ah, che vomitevole odoraccio di cane bagnato e di vomito di bambino mischiati insieme! Sai, Natale, dopo averci passato tutta una vita in mezzo, beh, la diffusione automatica di essenza di calicanto attraverso l'aerazione domestica comincia a venirti a noia, puoi anche credermi...»

Mentre Pasqualo doveva ancora concludere la bella serie di complimenti, dallo sbriga-cucina spuntò una testolina arruffata, pedicellosa, ipertricotica, mal slavacciata, che subito subito l'entrepeneur scambiò per una tsantsa da selvaggi equadoregni. Poi però, con sua enorme sorpresa, la tsantsa parlò: «E 'stu puzzone chi cazz'è?»

Solo quando Natale le si rivolse con le premure che si riservano a un nostro confratello in Cristo, Pasqualo s'insospettì che si dovesse trattare della femmina De Dominiccis (anzi, per la precisione, come avrebbe appurato entro breve: Squanquaronzio Annunziata in De Dominiccis).

«Zitta, Nunziaté, ché chist'è ò mammasantissima...» provò a sussurrare Natale a mezza voce, rivolto alla regina della casa.

«Chi cazz'è 'stu strunz'?» lo rincalzò, soavissima, la dolce metà, facendo tremare per arco riflesso le ossute ginocchia del marito.

Fu allora che le corse incontro Del Grosso a mano in avanti, il polso che si allungava oltre i gemelli diamantati: «Del Grosso Pasqualo, ingegnere, proprietario unico della Del Grosso Bitumini & Similia, qui per servirla, signora!»

Ma la coniugata De Dominiccis, prima di porgere la mano, rimasta inguantata dalla recente risciacquatura di piatti, volle dare postremo sfogo alla sua naturale indole blasé: «E che cazz' buò 'stu scassamarazz' 'e merd'?» chiosò quindi, sempre con le pupille nelle pupille del marito.

«Fusse venut' a magnà coccòsa vicin'a nnùje...» provò a spiegarle Natale.

«Comm' comm'? Forze nun àggio capisciut' bbuono...»

«Vedi Nunziatè, steva solo solo, steva triste, nun àggio tenuto ò curàgg' di lasciarlo lì, accussì...»

«Ma tu lo sai ca nun tenìmme manc' da cucinà pe' tutt'i figli tuoi? Piuttosto, dimmi, al qui presènto commendatòro ingegnèro Delgruòss' ce li hai poi chiesti i stipendi che t'avanzano da cinq' mesi a chesta parte?»

«Stavo per...» provò a giustificarsi Natale, ma già aveva addosso la mogliera, che, con furia da Erinni, gli rimaneva attaccata ai radi capelli che gli facevano il giro del cranio con ambo le mani, mentre coi piedini impantofolati scalciava nell'aria, mandando a segno più e più carcagnate ai danni delle sembianti del marito, nonché spesse volte pur'anche int'i cugghiùni.

Pasqualo, abbandonando i due al loro tubante quadretto coniugale, aveva intanto intrapreso un accurato viaggio di perlustrazione per gli ariosi spazi del bilocale, che lo aveva infine portato a inoltrare il naso sin dentro la cucinetta, laddove sorprese un trio di mocciosi, accompagnati a una rognosa compresenza canina, che andavano già da un po' specchiando i loro visetti malinconici dentro i piatti vuoti, in attesa che babbo rincasasse munito del necessario per il cenone della Vigilia.

«E questi che sarebbero? Delle scimmiette di mare?» si perplimeva Pasqualo a quella vista.

«No, no. Song' i figli miei,» si affrettò a chiarire Natale, che gli era nel frattempo apparso da dietro le spalle, un tantino più malconcio di poco prima, un occhio gonfio e un incisivo inferiore spaccato.

«Ah, la prole! Felicitazioni allora! Quattro bei giovanottoni! Complimenti vivissimi!»

«No, uno è ò cane,» tenne a precisare Natale.

Mostra altro

Racconto di Natale: parte prima

17 Dicembre 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

 

Il capitano d'industria Del Grosso P. versava in grosse difficoltà e, combinazione voleva, proprio a ridosso delle più liete feste che la Cristianità avesse saputo concepire in un paio di millenni di storia.

In azienda si era ormai in odore di chiusura annuale, tempo di consuntivi, di partite doppie, di dichiarazioni dei redditi e degli inevitabili esami di coscienza che le fredde comunicazioni di bilancio paradossalmente comportano.

Del Grosso guardava attorno a sé con aria desolata, con sguardo volto a un accigliamento che presagisce il pianto. Altro non vedeva che lande desertiche: la terra bruciata che s'era fatto dattorno. Com'era successo? Venire a patti con le manchevolezze e i mea culpa di tutta una vita pareva esercizio troppo gravoso per le poche forze che ancora assistevano il suo animo, che era stato sino a poc'anzi animo battagliero di leone, come tutti quanti, fans e detrattori, non avevano mai fatto a meno di riconoscergli unanimemente, ma che ora – provato ed eroso dalle avverse fortune - si riduceva ormai allo spirito vitale d'una mammoletta.

Si abbandonò prostrato alla poltrona ergonomica in pelle di alligatore che troneggiava nel suo ufficio ormai semi-vuoto. Fissò per qualche tempo l'acquario davanti a lui, dentro il quale pinneggiava placidamente uno splendido esemplare di Chiloscyllium Plagiosum. Del Grosso fissava il pesce nell'acqua e sospirava. Il pesce, di rimando, lanciava qualche occhiatina di sfuggita su Del Grosso e boccheggiava, senza però voler conferire a quell'azione alcun tipo di valenza psichica.

Si trattava di uno squaletto di piccola taglia, anche detto squalo bambù maculato. Gli era stato regalato natali prima dalla commissione per ricordargli il soprannome con cui Del Grosso era da tutti conosciuto nel settore, che era appunto “Squalo” (anche se il suo nome completo all'anagrafe era Pasqualo).

Inutile starci a girare tanto attorno: i conglomerati bituminosi non tiravano più come un tempo. Poco da farci.

L'impero che il padre di Del Grosso Pasqualo, e ancor prima il padre di suo padre, e prima ancora il padre del padre del padre, e più in generale tutta l'infilata filogenetica delgrossiana che aveva esordito a far su ghiaia a secchiate dal greto dei fiumi e si era poi impratichita nei tratturi in terra battuta e giù giù, attraverso i selciati, i basolati, i lastrici, i macadam, era poi approdata alla pavimentazione delle superstrade e delle arterie viarie a percorrenza veloce, beh, insomma, tutta quella elefantiaca intrapresa si andava inesorabilmente sgretolando, sotto gli occhi torpidi e inattivi dell'ultimo rampollo, con una rapidità solo comparabile a quella con cui si liquefacevano, si spaccavano, si sfarinavano già al primissimo e pur timido contatto con gli elementi naturali gli asfalti e i cementi della Del Grosso Snc.

Pasqualo era interdetto, ma al contempo paralizzato dal corso degli eventi. «Qua ci vuole un sano rinnovamento! Ripensare la Del Grosso Bitumini & Similia di sana pianta!» aveva più volte tentato di scrollarlo il direttore unico preposto all'ufficio-gare. Ma non c'era stato verso. Quegli sproni risuonavano alle orecchie ormai brucianti di Del Grosso Pasqualo quale indicazione d'un cimento senza meno irraggiungibile. Rinnovare? Non capiva nemmeno bene che si intendesse con un tale infinito verbale. Macchinari nuovi? Mezzi nuovi? Prodotti nuovi? Impasti nuovi per impiantiti stradali? E con quali investimenti? Con quali ingegni? Con quale coraggio?

Pasqualo, poveretto, aveva sempre trovato la pappa pronta. Mica l'aveva inventata lui la ditta, mica se l'era mai studiato a fondo il mestiere, mica ci capiva più di tanto. Lui s'era limitato a sperperare le risorse che generazioni precedenti avevano accumulato e risposto in sicuri caveau. Aveva fatto un punto d'onore personale nello scialare il patrimonio ereditato in tutte le sfaccettature immaginabili di quella che viene correntemente chiamata “bella vita”, ritenuta nel suo significato più dozzinale e divulgato.

Quanto al lavoro, il suo titolo padronale gli tornava utile giusto giusto per darsi un tono in società. Per il resto, s'era barcamenato sino ad allora alla bell'e meglio, vivendo di rendita e “asfaltando” – mai gerundio sarebbe più azzeccato che in un caso del genere - l'intera concorrenza, che aveva praticamente annichilito grazie a amicizie ed entrature ancora risalenti all'epoca del babbo. Poi le amministrazioni erano cambiate, le richieste di mazzette s'erano fatte via via più esose, nuove ditte più competitive erano apparse all'orizzonte e tutto era repentinamente precipitato, con la stessa brusca verticalità che assumeva la caduta di quei suoi operai che talora scivolavano inavvertitamente giù dai carrelli delle gru, dalle torrette o da certe impalcature un po' volanti, come a voler simpaticamente interpretare di persona gli esperimenti galileani circa i gravi e le loro accelerazioni.

Del Grosso stava là, nell'ufficio semibuio, a sospirare dai polmoni costipati e a poppare penosamente dal lungo sigaro a siluro, faccia a faccia con lo squaletto bambù maculato, che di nome faceva Xanax, per via del carattere piuttosto docile.

Del Grosso il corruttore, Del Grosso l'insolvente, Del Grosso il noto puttaniere, Del Grosso il frodatore del fisco, Del Grosso l'amante del bondage estremo ora avevano lasciato tutti il posto a Del Grosso il disperato.

In quelle poche ore Del Grosso Pasqualo era stato visitato dai tre fantasmi di Natale. Nell'ordine: la guardia di finanza, i creditori, i pignoratori. Quando sentì rintoccare nuovamente il cicalino del citofono contro quegli spazi vuoti e, approssimandosi titubante alla cornetta per accertarsi dell'identità dei due signori nei loro completi blu da saldi di discount che comparivano nell'immagine tremolante del monitorino a bassa risoluzione, allorché si sentì nasalizzare da uno dei due, via microfono: «Equitalia!» capì ch'era giunta l'ora di portar via i coglioni.

Impossibilitato a infilare l'uscita principale, uscì sul cornicione, nel rigore frizzantino di quel tardo pomeriggio che sembrava annunciare una nevicata incantevole di lì a non molto. Messo al ripiede, in una vertiginosa periclitazione sopra quella risicata porzione di centimetri sospesi sopra il baratro del sesto piano, alla fine di una lunga oscillazione riuscì ad aggrapparsi alla grondaia cigolante poco sopra la sua testa, da cui penzolò per cinque minuti buoni come un caciocavallo fresco dalla trave del solaio ammuffito nelle case dei bifolchi. Avvertiva gli avambracci dolergli prima, indolenzirsi poi, infine non assisterlo più. Mentre cascava giù per quella ventina di metri, con una velocità tale che se ne udiva il fischio fendere la santa notte silente, fu allora che fece appena in tempo a capire tutta l'inutilità di pagarsi la tessera Platino presso la palestra meglio attrezzata della città, se poi, al posto di pensare a rafforzare bicipiti e deltoidi, trascorreva tutto il tempo al bar interno, a sgargarozzarsi Negroni doppi e a tampinare le camerierine bielorusse, seppur abbigliato in tuta in poliestere e sneakers.

L'operaio specializzato Natale De Dominiccis stava facendo mesto ritorno alla propria Ford Ka di quarta mano, usato sicuro, color verde bile, confidando che almeno stavolta si accendesse senza dover scongiurare qualche passante non troppo malmesso di dargli una spintarella.

Natale De Dominiccis aveva una piva che gli toccava terra. Era abbattuto e triste, quattro rompipalle di figliuoli a carico, una moglie bisbetica, debiti dal pizzicagnolo, debiti dal gommista, debiti dalla parrucchiera della consorte: “Madame Pinuccia Butìch”. Un conto corrente talmente in rosso e da talmente tanto tempo che tendeva ormai all'ultravioletto.

Un'altra festività da vivere senza mezzi, masticava amaro il De Dominiccis, raggiungendo passo passo l'utilitaria parcheggiata chissà dove. Era cinque mesi tutti che non vedeva stipendio, e quella volta lì gli saltava pure la tredicesima, mannaggia a chi t'è muort'. Stava giusto uscendo dalla vertenza sindacale indetta da dipendenti e quadro congiunti della Del Grosso Bitumini & Similia, anche se manco a quell'incontro si era addivenuti a un granché. Non si era neppure riusciti a decidere se, come contromosse alla latitanza dirigenziale, fosse meglio bucare le ruote della Bentley del principale oppure rigargli le portiere nottetempo con un chiodo.

Ma quando finalmente rintracciò il proprio macinino... meraviglia delle meraviglie! Lo riconobbe subito. Infatti, chi era andato ad atterrare precipitosamente, alla conclusione di un volo di sei piani più relativi mezzanini, sopra il tettuccio della Ka? O, per meglio dire, sopra il materasso semi-sfondato a una piazza che Natale ci aveva caricato su il mattino, legato a fil di spago, regalo di zia Cettina, che se n'era appena disfatta per quello nuovo in lattice? Proprio lui!

Quello che tra la colleganza, durante gli scioperi a oltranza, negli incontri carbonari per decidere come rivalersi contro il padronato boia e affamatore, tuttora appellavano “lo Squalo” (più come onore delle armi che per effettiva tenuta del nome di battaglia all'attuale stato dei fatti).

Non poteva credere ai suoi occhi blefaritici: lo Squalo stava là, atterrato sul morbido, la capotte della Ford Ka ripiegata sotto quella notevole aggiunta ponderale, un lieve soffocato lamento che sembrava uscire da qualche parte di quel corpo mal rischiarato e goffamente accartocciato su se stesso.

«Marònn' ro Carm'n'!» esclamò per prima cosa Natale, constatando lo stato del materasso dopo l'impatto: «Povero Giggetto: tengo paura c'addà durmì 'ncopp'ò pavimento ancora assai...»

Anche Del Grosso Pasqualo riconobbe il dipendente al primo colpo. Non che fosse tipo da conoscere la propria manovalanza parcellizzandola in singoli individui. Ma, per ironia della sorte, proprio un paio di giorni prima l'ufficio-personale gli aveva sottoposto la lista completa dei lavoratori da sfrondare quanto più recisamente, in vista dell'anno entrante. Pasqualo aveva aperto il faldone con riluttanza, non per ritrosia ai licenziamenti, ma piuttosto perché refrattario a occuparsi delle vite tristanzuole di quella massa di perdigiorno. Aveva girato i curricula con schifiltà, trattenendone gli angoli con la punta dei polpastrelli di indice e pollice. Al quarto o quinto foglio s'era soffermato e, puntando il dito sulla brutta faccia sei per sei che si ritrovava sotto il naso, aveva quasi urlato: «Questo è il primo ad andarsene, con 'sta cartola da portasfiga che c'ha, con 'sto nome da scemo che c'ha! Cacciatelo via a pedate!» È forse superfluo aggiungere che il nome del futuro cassintegrato risultava essere Natale De Dominiccis. Nome che riecheggiò anche quella sera, quando Pasqualo, alzando appena appena il capo dal sofferente giaciglio, riconobbe a colpo d'occhio quel viso storto, colpito dalla luce zenitale del lampione.

Natale si era ripromesso che, se avesse mai incontrato il padrone uòcchie rinte l'uòcchie, ci avesse sfrantato à uàllara a pugni e calci, calci e pugni, eppoi sputazze ognidove, insulti, pèrete sott'o naso. E invece... a vederselo lì davanti, dolorante, ciancicato, supplichevole, tutta la rabbia che aveva immagazzinata nei mesi e negli anni svaporò all'istante, come per incanto.

Sarà stata pietà cristiana, sarà stata commiserazione, sarà stato il dolce suono che facevano le sue generalità pronunciate da chi aveva sempre immaginato neanche fosse a conoscenza del suo esistere, sarà quel che sarà - cinguettava la brunetta dei Ricchi & Poveri - ma comunque non ce la fece ad ingiuriare e accanirsi ancor più su un uomo già tanto mal piazzato.

«Natale De Dominiccis, caro! Vie' qua! Soccòrime!»

E lo sventurato rispose…

 

Continua

Mostra altro
1 2 > >>