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franca poli

La signora e la strega

29 Marzo 2021 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia, #personaggi da conoscere

La signora e la strega
 
In conclusione, tutte queste cose provengono dalla concupiscenza carnale che in loro è insaziabile […] non c’è da stupirsi se tra coloro che sono infetti dall’eresia delle streghe ci sono più donne che uomini […] E sia benedetto l’Altissimo che finora ha preservato il sesso maschile da un così grande flagello!”
(Malleus maleficarum, I parte, questione VI)
 
Seduta al bar in piazza San Domenico, guardo con distacco le persone che camminano davanti alle tombe dei glossatori o alla colonna medievale di Guido Reni e penso che forse non tutti sanno che un giorno del 1498 in questa stessa piazza fu bruciata sul rogo Gentile Budrioli, anche detta la “strega enormissima” proprio per la sua vasta cultura. Bologna fu teatro di storie poco conosciute, una città, anzi un paesone, che ti accoglie con il suo buon odore di manicaretti artigianali e con un immenso tesoro artistico non sempre manifesto a una prima occhiata, ma che merita di essere scoperto. Fermarsi un attimo in ascolto su questa piazza, dunque, è un po' prestare attenzione a ciò che la città ha da raccontare. Passeggiando sotto le due torri, lungo i portici, in un centro così immutato, si può rivivere un'epoca, si può sentire rimbombare sotto le volte il ticchettio dei tacchi o il fruscio dello strascico dei lunghi abiti di due donne che diventarono amiche, pur se diverse, legate dalla passione per l'esoterismo e l'indipendenza: Ginevra Sforza e Gentile Budrioli.
La prima, fu moglie di Sante Bentivoglio, molto più anziano di lei e poi, alla morte di questi, del cugino Giovanni II. Una moglie per due signori di Bologna, assolutamente poco ben vista in città e dalla Chiesa. Figlia illegittima di Alessandro, signore di Pesaro, la bella Ginevra era la tipica donna del tempo, ricca, viziata e coinvolta dalle, sempre poco chiare, trame di potere. Con Giovanni ebbe un rapporto molto intenso di complicità assoluta, gli diede sedici figli, alcuni dei quali però morirono in tenera età. Dal temperamento forte e insolito, capace di trattare con il giusto distacco anche le questioni più difficili, divenne consigliera fidata del marito negli affari politici e di famiglia. Ginevra era però anche curiosa, aperta e attratta da esoterismo, alchimia e altre pratiche ritenute poco adatte a una signora par suo e che, dunque, teneva gelosamente segrete per non incorrere nelle ritorsioni dell'Inquisizione. Va detto che Bologna non ha mai troppo amato questa donna, considerata vanitosa quando non viziosa, si vociferava di una relazione amorosa con Giovanni già prima delle sue seconde nozze. Era ritenuta un'ambiziosa arrivista che, con troppa disinvoltura, ostentava lusso e bellezza. Tant'è che il giorno del suo primo matrimonio con Sante Bentivoglio, il vescovo sbarrò la porta di San Petronio per impedirle di entrare con abiti giudicati troppo sfarzosi, e costringendola a ripiegare su un'altra chiesa per la celebrazione delle nozze.
E Gentile Budrioli chi era? Una ragazza molto bella oltre che intelligente. Con lunghi capelli castani, lo sguardo mite e sincero. Una donna buona, ma con la pretesa di potersi esprimere liberamente, di fare ciò per cui si sentiva ispirata, senza nessun veto. Oltre che moglie e madre, era molto colta e, nel tempo, era diventata astrologa, erborista e guaritrice. Era di certo una mente brillante, ma anche spontanea al punto da esporre al marito le sue aspirazioni, sperando almeno nella sua di comprensione. Apro una parentesi, Gentile era ricca di famiglia, il marito, il notaio Alessandro Cimieri, aveva beneficiato della sua dote, di ben 500 ducati, per farsi strada fra i notabili della città, ma questi mal sopportava le qualità della moglie e le viveva come un affronto personale, tanto da diventare, in seguito, uno dei suoi principali accusatori. Gentile intendeva, a ogni costo, approfondire i suoi studi, quindi anche contro il volere del suo sposo, decise di frequentare, nel convento dei Francescani, l'amico Frate Silvestro, per apprendere da lui ogni segreto sull'arte e l'uso delle erbe officinali. I Francescani erano da sempre custodi del segreto di curare con le erbe e Gentile, attenta e appassionata, imparò, ben presto e bene, come guarire le persone. Inoltre, prima che le fosse impedito definitivamente dal marito, per un periodo, aveva frequentato presso l'Università di Bologna, le lezioni di Astrologia del professore Scipione Manfredi. Per farla breve questa donna dimostrò ben presto la sua vera natura, la volontà di precorrere i tempi, disposta a esporsi e a rischiare per raggiungere le mete prefissate. I suoi comportamenti furono giudicati inappropriati: intollerabili per l'ignoranza dilagante della ricca borghesia, disdicevoli per la Chiesa che metteva ogni impegno nel sopraffare, reprimere e tenere il popolo (le donne soprattutto) in condizioni di ignoranza e inferiorità; doti quelle di Gentile che furono disapprovate da tutti, non ultimo, dalle sue stesse coetanee, figlie di buona famiglia come lei che, al contrario, aspettavano solo di fare il matrimonio giusto. Diventata esperta iniziò, anche fuori dal convento, a mettere le sue capacità a disposizione di tutti, la gente la considerava una guaritrice migliore dei medici e in molti si rivolgevano a lei. Era capace di curare dolori fisici, ma poiché, come detto in precedenza, era una donna di grande empatia e sensibilità, riusciva a dare sollievo anche alle pene interiori di chi le si avvicinava. Fu così che la sua fama di curatrice di corpo e anima si diffuse a Bologna di strada in strada, di vicolo in vicolo, di bocca in bocca fino a giungere all'orecchio di Ginevra Sforza. La sua decantata perizia ne aveva attirato dapprima la curiosità, ma furono le sue doti umane a instaurare le basi di un'amicizia sincera. La signora di Bologna volle Gentile come dama di compagnia che accettò di buon grado, le due donne trascorrevano pomeriggi a passeggiare per il centro e a chiacchierare, scoprendo ogni giorno affinità di uguali passioni e interessi. Gentile e Ginevra, le cui storie così diverse, si erano intrecciate. Il loro incontro aveva cambiato la vita di entrambe: una riuscì ad apprendere nozioni in materie che da sempre l'avevano affascinata, l'altra era entrata a far parte dell'entourage dei Signori della città.
Ginevra aveva provveduto alla sistemazione in convento per due delle figlie di Gentile, mentre uno dei suoi quattro figli maschi divenne notaio a corte. La signora, sempre più conquistata dalle capacità dell'amica, le affidò alcuni parenti ammalati: in particolare, le chiese aiuto per la figlia Laura, sposata con il marchese Giovanni Gonzaga, e Laura, grazie alle sue cure, guarì. Tuttavia, fra i nobili cortigiani bolognesi, si cominciò a guardare Gentile con sospetto, di anno in anno sempre più potente, e a vociferare che con le stesse erbe con cui riusciva a sanare le persone, le facesse anche morire, o peggio ancora, creasse loro dei problemi per poi prendersi il merito di averle curate. Intorno a loro, molti cominciarono a malignare e a intravedere, nello stretto rapporto di confidenza fra le due amiche, l'opera del diavolo, e da lì il passo fu breve, iniziarono a descriverlo come pericoloso e a raccontare di notti trascorse a officiare riti di “magia nera”. In ultimo, l'aver destinato, da parte di Ginevra, una generosa dote per la terza figlia di Gentile, fu causa di non poco malcontento, dicerie e invidia, fra coloro che ormai vedevano essere due donne a influenzare le decisioni di Giovanni Bentivoglio: una Signora poco amata e una strega.
 
Le maldicenze tuttavia si concentrarono principalmente su Gentile che, agli occhi della gente, continuava a comportarsi in modo anomalo, a fare di tutto per uscire dal percorso consentito a una vita femminile, per emergere e distaccarsi dall'ombra del marito. Gentile era anche tenuta sotto stretta osservazione dalla Chiesa per le sue frequentazioni in convento e le pratiche curative che dispensava ormai senza nascondersi.
 
A Bologna il Tribunale dell'Inquisizione lavorava, e parecchio, da più di due secoli, insediatosi presso il convento di San Domenico, fin dal 1233, era uno dei più solerti e spietati. Gentile, per seguire le sue passioni, era finita dentro le mura di quello stesso convento, proprio in bocca al nemico giurato delle donne, il cui corpo era considerato materia favorita dal diavolo. Le streghe a Bologna non furono diverse da tutte le streghe condannate e arse vive in ogni altro luogo durante i secoli. Subivano processi sommari con prove inventate, venivano condannate ed eliminate dopo confessioni strappate sotto terribili torture; si trattava principalmente di levatrici, astrologhe, erboriste e, ovviamente, prostitute.
Le accuse di stregoneria conservate nel Fondo dell’Inquisizione dell’Archivio di Stato di Modena (ASM) riguardano essenzialmente donne ritenute pericolose agli occhi della comunità in cui vivevano.
 
..La macchina della paura verso le donne non è mai morta, – spiega lo storico Adriano Prosperi, esperto di Inquisizione – la dominanza maschile sull’universo nella nostra cultura ha portato con sé un margine di paura nei confronti dell’indomabile differenza naturale e culturale delle donne, delle escluse (...)”.
 
Innumerevoli sono le vicende trattate, troppe per poterle ricordare tutte. La persecuzione fu spietata e durò nei secoli ancora fino al 1600. Per brevità cito qui solo alcuni emblematici casi: nel 1293, Franceschina fu condannata come strega per avere fatto innamorare di sé il ricco bottegaio Corvino. Nel 1295 vennero condotte al rogo due astrologhe, Morba e Medina. Nel 1373, Giacoma fu giudicata per aver curato una donna, da tempo ammalata, con pratiche di erboristeria. Uno degli ultimi episodi che si ricorda, e siamo già nel XVII secolo, è quello di Margherita Sarti, astrologa e prostituta che, una volta trascinata in piazza, fu linciata dalla folla per giorni e morì dopo una lunga agonia.
Tornando al caso di Gentile Budrioli, va però detto che, con ogni probabilità, a decretarne la fine fu proprio la sua volontà di partecipare alla politica cittadina. I Bentivoglio, negli anni, avevano dovuto sopportare diverse congiure da parte di famiglie bolognesi concorrenti che bramavano il potere, come i Malvezzi e i Marescotti, e fu anche la vicinanza a queste famiglie che contribuì alla rovina di Gentile. Fra maldicenze da un lato e fatti più o meno chiari dall'altro, la corte riuscì a influenzare l'opinione di Giovanni II su di lei, a farla apparire sia strumento del diavolo che dei suoi oppositori; la sfortuna dei Bentivoglio, dunque, era causata dalla sua presenza, dai suoi oscuri malefici e la sorte di Gentile divenne quella di capro espiatorio.
Il potere temporale della Chiesa in quel periodo costituiva una minaccia costante per il governo della città. Innocenzo VIII era un Papa per niente bonario e tranquillo, essendo veemente persecutore del filosofo modenese Pico della Mirandola e relatore della bolla papale che vide all'opera nella “caccia alle streghe” i feroci inquisitori tedeschi Kramer e Sprenger e che, dopo aver blandamente condannato la politica del predecessore Sisto V, nominò in Spagna Grande Inquisitore, nientemeno che Tomas Torquemada. Consultando alcuni documenti conservati nell’Archiginnasio di Bologna, si possono trovare richieste di finanziamento, da parte della Chiesa, per “l’allargamento della sala delle torture” e per il rinnovo degli strumenti di supplizio per gli interrogatori. Questa tremenda macchina di persecuzione veniva alimentata confiscando ai condannati i beni che possedevano e che finivano equamente suddivisi fra la Chiesa e il Comune di Bologna, che dal canto suo incentivava, nei periodi di crisi, l’attività di inquisizione.
Era successo che uno dei figli di Giovanni II si fosse gravemente ammalato e che la moglie volesse affidarlo per le cure alla sua amica Gentile, purtroppo il bambino morì in pochi giorni e quella fu l'occasione giusta per trarre vantaggio dall'accaduto e sbarazzarsi della scomoda presenza di Gentile, entrata in un gioco più grande di lei. La Corte l'accusò di avere, in combutta col diavolo, “guastato” il bambino. Così, convinto da eventi personali e dall'opportunità di un riavvicinamento al Papa, per siglare una sorta di tregua nella lotta al dominio della città, il Signore di Bologna intravide nella consegna di Gentile alla Santa Inquisizione la sua via di salvezza. Ginevra, pur tentando con tutte le sue forze, per non mettere a rischio la sua stessa vita, non poté risparmiare all'amica una tremenda sorte.
È Leandro Alberti (1479-1552) importante storico, domenicano, teologo e filosofo di Bologna che, nel suo “Historiae”, dedica alcune pagine alla vicenda di Gentile Budrioli, alla sua condanna al rogo e ai dettagli dell'esecuzione. Quanto alla Inquisizione l'Autore aveva voce in capitolo essendo stato istituito egli stesso Inquisitore intorno al 1533.
Per Gentile, donna istruita, appartenente a una famiglia in vista, fu montato un processo in grande stile, con l’accusa di stregoneria più vasta e completa possibile, ovviamente gli atti del processo sono andati per lo più dispersi.
 
"La graziosa brunetta passeggiava per Bologna con vesti di seta e di velluto, con orecchini preziosi, braccialetti d’oro e perle al collo e tra i capelli. In più aveva un servitore che la precedeva e due damigelle che la seguivano, sempre…”
 
(Dagli atti del processo di Gentile Budrioli, 1498)
 
La casa di Gentile nel torresotto di Porta Nova, venne perquisita una prima volta e furono trovate le prove della sua stregoneria: un diavolo di piombo, tracce di sangue, ampolle piene di liquidi, mantelli e abiti ricoperti di diavoli dipinti. A una seconda perquisizione, quando lei era già rinchiusa nelle sale di tortura, saltarono fuori, manco a dirlo, le prove definitive e inconfutabili della sua alleanza col diavolo: libri di negromanzia, un altare con le immagini di Lucifero, dodici sacchetti contenenti ciascuno polvere di organi umani con i quali bastava che lei toccasse il corrispondente organo di qualcuno per farlo ammalare o morire. C’era chi giurava che Gentile fosse in grado di predire cosa sarebbe accaduto, solo guardando le stelle. Ginevra Bentivoglio, la signora di Bologna che, durante l'inchiesta fu sfiorata dai sospetti ma troppo in alto per venire colpita, si chiuse in un silenzioso riserbo. Ed ecco con un coup de théâtre, uscire allo scoperto anche il marito di Gentile che testimoniò con dovizia di particolari contro di lei, dichiarando che prima lo aveva tradito, poi lo aveva sottoposto a un incantesimo per fargli perdere l’intelletto. Una serva di Gentile confermò che la sua Signora parlava con il diavolo e le aveva insegnato una malìa per far innamorare un uomo. La povera Gentile fu torturata a lungo fino a crollare e, allo stremo di ogni resistenza fisica e psicologica, confessò ben vent'anni di attività occulte: “72 congiungimenti carnali con spiriti demoniaci”, ammise di aver rubato ossa al cimitero e di aver profanato simboli religiosi. Confessò dunque tutto quello che c'era da confessare pur di porre fine al suo supplizio, chiedendo in cambio solo di salutare i suoi figli per l'ultima volta.
I condannati erano portati, dopo il processo, dal convento di Piazza San Domenico a Piazza VIII Agosto, in genere su un carro, in mezzo alla folla delirante, con il boia e un frate che cantilenava liturgie. Il tragitto non era breve: dalla camera delle torture si passava attraverso piazza Cavour ei proseguiva verso piazza Maggiore, dove si assisteva alla prima Messa. Sul carro con lo sventurato di turno c'erano i membri dell’Arciconfraternita della Morte, braccio della confraternita di Santa Maria della Vita, sita tra via Clavature e via Pescherie, uomini vestiti con un saio e un cappuccio che lasciava intravedere solo gli occhi e, per incutere più terrore, un teschio all'altezza della bocca. Finita la Messa si ripartiva per Piazza VIII Agosto dove la celebrazione della seconda Messa era l'introduzione al rogo.
 
Era il 14 luglio del 1498 quando si diede seguito alla condanna di Gentile, ma nel suo caso fu scelta come scena dell'esecuzione la piazza davanti al convento di San Domenico, proprio dove aveva appreso le sue nozioni, dove aveva avuto inizio la sua storia. Fu eretta una piattaforma con un palo alto sei metri sulla quale, ormai priva di forze, Gentile venne legata con una catena di ferro e con un cappio intorno al collo. I giorni di tortura e umiliazione, il processo, la condanna, non avevano potuto cancellare del tutto, dal viso diafano, la sua conturbante bellezza. Il boia, mastro Giacomo, aveva cosparso i vestiti di pece, mischiata con polvere da sparo, così come la legna posta sotto i suoi piedi, e quando il fuoco venne appiccato la folla accorsa in massa, rimase terrorizzata dalle violente fiammate, dai botti, credendo che fosse il diavolo a causarli mentre saliva dagli Inferi a prendersi l'anima della sua serva prediletta. Il fumo denso e acre si alzava dalle fascine, riempiendole i polmoni, il cappio le si stringeva sempre di più al collo e la sventurata spirò ancor prima che il corpo fosse lambito dalle fiamme. In breve tempo “l'enormissima strega” si tramutò in un gran falò e presto fu cenere che il vento disperdeva su questa bella piazza.
Nonostante la morte di Gentile, le sfortune dei Bentivoglio non conobbero fine, la famiglia continuò a subire congiure da più parti, Ginevra, legata indissolubilmente in un vero e proprio sodalizio col marito, seguì la sua sorte continuando a consigliarlo su quali strategie intraprendere e su quali oppositori eliminare. Alla fine, è risaputo, la città di Bologna venne ripresa dal Papato. Giovanni trovò rifugio a Milano, ma Ginevra non si arrese subito. Coraggiosa e indomita fino all'ultimo, mise insieme un esercito con due dei suoi figli e combatté al loro fianco per riprendere il controllo della città. Sconfitti in battaglia a Casalecchio, le fu comminato l'esilio, lei non si allontanò troppo da Bologna riparando a Parma, dai Signori Pallavicino, in casa di un'amica, ma pagò la sua disobbedienza e l'insubordinazione armata con la scomunica. Il Papa Giulio II, vincitore, si era insediato proprio nella dimora dei vecchi signori a Bentivoglio, dove Ginevra chiese più volte, di essere ricevuta senza ottenerne nessuna possibilità, né perdono, né clemenza. Morì esule nel 1507 e il suo corpo fu sepolto in una fossa comune vicino a Busseto.
Una storia popolare racconta che, il giorno del rogo Ginevra, sentendosi in colpa per aver permesso che la sua amica fosse barattata con la ragion di stato, vagasse senza meta intorno alla casa di Gentile, tappandosi le orecchie per non sentire le urla della folla inferocita, annusando l'odore acre del fumo che si spandeva per le vie del centro. Se questo è vero sicuramente avrà pianto a lungo e avrà atteso di vedere volare nell'aria le ceneri della sua compagna. Ceneri grigie, polvere sottile, che a ben guardare non si sono ancora totalmente disperse e continuano a volare qua intorno, davanti ai miei occhi... ma forse è soltanto smog.
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Natale in giro per l'Italia: Venezia.

23 Dicembre 2019 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #franca poli, #poli patrizia, #unasettimanamagica

 

 

 
 
 
A bordo del Maggiolino tutto matto eravamo in quattro, io e Mario er benzinaro, giovedì eravamo passati a prendere prima Patrizia Poli a Livorno e poi la sua amica e omonima Franca a Bologna, la nostra destinazione era Natale a Venezia, tre giorni improvvisati di festa natalizia. Il primo turno me lo ero preso io perché ero il più esperto alla guida di questa automobilina, che, poi, in realtà, il tempo di arrivo nella città lagunare era di soli pochi minuti perché sotto il cofano posteriore io e Mario avevamo montato il motore di un missile russo preso in prestito al museo dei missili. Avevamo corrotto il custode con una damigiana di vokda al fragolino, con la promessa che, quando l’avrebbe terminata, gli avremmo riportato il propulsore. Sto sgranocchiando una stecca di cioccolata mentre i nostri tre amici dormono, ora mi tolgo le scarpe, l’odor di gorgonzola li sveglierà, stiamo per arrivare nella città dei dogi.
 
- Ehi, ma questa puzza è di gasolio?
 
- No, Mario, veramente mi sono levato le scarpe, forza, svegliatevi che siamo arrivati a Venezia!
 
Patrizia Poli indossa un completo a righe stile art nouveau, Franca Poli pantaloni rossi, t-shirt rossa, scarpe rosse, voleva anche tingersi i capelli di rosso ma Patrizia glielo ha impedito dicendole che stava male. Mario ha un cappellino da Paperino in testa, indosso maglia gialla, pantaloni gialli, scarpe gialle, io invece non ve lo posso dire.
 
- Walter, abbiamo dimenticato gli stivaloni per l’acqua alta!
 
 - Patrizia, tranquilla, questa macchina ha le ruote che si super gonfiano, hai presente i big foot americani?
 
- Veramente no.
 
- Non preoccuparti.
 
- Con te siamo sempre tutti preoccupati, ci hai obbligati a venire a passare il Natale a Venezia, ci hai strappati ai nostri cari per venire con questa pazza auto! Io che considero sacro il Natale!
 
- Patrizia, ma a tuo marito abbiamo lasciato un robot in tutto simile a te.
 
- E i miei gatti?!
 
- A loro ho lasciato la televisione accesa, pappa a volontà e da bere champagne!
 
- Ma sei matto?
 
- Solo un poco…  Franca, a proposito, hai portato i tortellèn?
 
-Si, abbondanti.
 
- Franca è bravissima in cucina. La ricetta dei tortellini la trovi qui.
 
- Patrizia, ho seguito la ricetta di master chef.
 
-Ma tu odi la tv!
 
- Ho fatto un eccezione per questo Natale a Venezia
 
- Già lo so che faremo impazzire i lettori della signoradeifiltri!
 
- Patrizia, stai tranquilla… ci stanno seguendo in streaming.
 
- Mario, ma tu non dici nulla?
 
- E che ce posso fa? Ha fatto il pieno di fantasia!
 
- Ma, almeno, dove stiamo andando?
 
- A vedere Venezia e a documentare dal vivo il fenomeno dell’acqua alta, prendete queste tessere da giornalista.
 
- Ma sono false?
 
- No, me le ha date Topolino.
 
- Ah! Ho capito… e con queste tessere che ci dovremmo fare?
 
- Faremo un reportage per i nostri lettori.
 
- Adesso mi piaci un po’ di più.
 
- Bene, fermiamoci, pranziamo con i tortellini di Franca, le fettine panate di Mario e poi andiamo a lavorare.
 
- Ma è Natale!
 
- Patrizia, vedi il lato positivo.
 
- Non ti avessi mai conosciuto.
 
- Me lo ha detto anche qualcun altro, ma adesso andiamo, ci aspetta il Natale a Venezia, prendete queste carte di credito, serviranno per comprare regali, mi raccomando, non svuotate il plafon e al casinò comportatevi bene. Franca Poli, sei contenta di essere venuta con noi?
 
- Veramente stavo meglio a Bologna, dovevo finire di scrivere un giallo e poi passare un Natale a giocare a carte.
 
- Franca Poli per una volta passerai un Natale diverso.
 
- Lo sospetto.
 
- Vabbé, ora voglio essere serio... Ma voi a Venezia come risolvereste il problema dell’acqua acqua alta?
 
- Con delle super pompe!
 
- Bravo Mario.
 
- Io con quella pubblicità di tanti anni fa.
 
- Il deumidificatore?
 
- E se funziona?
 
- Brava, Patrizia, perché no?
 
- Io dico di mandare l’acqua in Africa attraverso un tunnel.
 
- Franca, mi sembra una buona idea, sei perspicace, ecco perché sei una brava scrittrice.
 
- E tu, artista mezza cartuccia?
 
- Non lo so, però se il rischio è che Venezia venga prima o poi sommersa dall’acqua, chiamerei tutti gli scienziati del mondo e di sicuro risolverebbero il problema.
 
- Hai ragione, possibile che non ci abbiano pensato?
 
- A volte nessuno pensa alle cose più facili.
 
- E adesso che facciamo?
 
- Andiamo a passare il Natale a Venezia, facciamo un sacco di foto, prendiamo appunti e poi…
 
- E poi vi riporto a casa, allacciate le cinture di sicurezza della fantasia, Buon Natale a tutti… E che il buon Dio salvi Venezia!  
 
 
 


 

 

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Mamma

23 Maggio 2019 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #poesia

 

 

 

rosa e spine

luce lontana di sole d'autunno

di candela consumata di tempi andati

mi manchi mamma

mi mancano le tue parole i tuoi consigli disattesi

i tuoi silenzi di disapprovazione le tue mani sempre pronte a una carezza

i tuoi capelli bianchi e i tuoi occhi pronti al sorriso

un giorno arriverò

e sarà di nuovo festa e sarà di nuovo casa

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FORZA BOLOGNA

21 Gennaio 2019 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca, #come ervamo, #sport

 

 

 

 

Serie A, è appena ricominciato il girone di ritorno dopo la sosta per le feste e ricominciano le polemiche, ma non tutto il calcio è malato. Io vado contro corrente e ammetto di avere una visione romantica dello stadio e delle partite domenicali che forse non è più attuale. Lo sport, le discipline sportive non sono solo violenza, arbitraggi pilotati, cori razzisti, corruzione e ciarpame, anche da una partita di calcio c'è da imparare etica e rigore, sportività, appunto, e lo stadio può diventare scuola di vita.

Non tutta la colpa è da imputare ai tifosi se la nostra società è malata, lo stadio, a mio avviso, riflette solo quanto nel complesso siamo diventati. I valori di amicizia e sana competizione stanno scomparendo ovunque, nella scuola, nel mondo del lavoro, per strada, dove prevalgono invidia, maleducazione, cattiveria e prevaricazione.

Io ho un bellissimo ricordo dello stadio di Bologna, dove la squadra del cuore di mio padre giocò il campionato che la portò alla vittoria del suo ultimo scudetto nel lontano 1964. Era l'Inter l'avversaria diretta e lo spareggio finale si giocava a Roma, in campo neutro. Mio padre, mentre io gli saltellavo intorno, non staccava l'orecchio dalla radiolina a transistor per seguire la partita. A vittoria avvenuta, il giorno dei festeggiamenti, col babbo che mi teneva per mano, mentre la folla festante applaudiva Pascutti, Bulgarelli, Perani, Haller, Fogli e tutti gli altri, avvolta da un tripudio di bandiere rossoblu, mi sono sentita orgogliosa della vittoria della mia squadra e di appartenere alla mia città. Per mio padre il calcio era stato uno svago importante, l'unico di pochi momenti, durante la lunga prigionia nei campi inglesi in Africa, e in quei brevi tornei calciava orgoglioso il suo pallone raffazzonato con quattro stracci, pensando a due mondiali appena vinti dall'Italia nel 1934 e nel 1938 alla faccia dei boriosi aguzzini che gli passavano una pagnotta e una borraccia d'acqua a settimana. Il babbo era tifoso del Bologna e la partita dell'ultima vittoria fu anche l'ultima della sua vita. In autunno un incidente stradale lo strappò a noi, alle sue passioni, mai più stadio, mai più feste, mai più insieme a ridere e piangere e io, seppur piccina, raccolsi il testimone ideale del suo tifo sportivo, di felice condivisione, per quel calcio per quella squadra, la squadra del cuore.

Ho tifato Bologna per tutta la vita, nello stesso identico modo, seguendolo con rassegnazione nei periodi più bui, in serie B, nei lunghi anni di militanza in serie cadetta e poi ,con leggeri entusiasmi, l'ho visto risalire dalla C alla B, poi di nuovo nel girone delle grandi, ma sempre fra gli ultimi in classifica, soffrendo, zoppicando, ma quanta fede, quanta costanza nei suoi tifosi ogni domenica.

Il mio amore per la squadra della mia città non mi ha impedito di crescere, studiare, leggere, lavorare, vivere e amare la mia famiglia, di condurre una vita sana con sani valori. Mio fratello ha portato il figlio allo stadio fin da quando era piccolo e insieme hanno seguito il nostro Bologna, spesso anche in trasferta, nelle sue avventure e disavventure. Anche lui, come il babbo, sapeva trasmettere la stessa passione. Negli ultimi anni hanno vestito, sempre insieme, la casacca dello stewart e in tribuna qualche volta hanno fatto accomodare anche me e la mia famiglia accanto ai tifosi VIP come Lucio Dalla, Gianni Morandi, Andrea Mingardi e una domenica, quando, con grande campanilistico orgoglio, battemmo il Milan, vicino a noi era arrivato da Milano anche Diego Abatantuono per seguire la sua squadra.

Lo spirito è sempre stato lo stesso, grandi gioie per piccole soddisfazioni. Anche mia madre tifava Bologna, ormai anziana, la domenica si sedeva in prima fila sulla sua poltrona e seguiva la partita in televisione, era un momento di unità in famiglia e si rideva quando gridava al nostro Bologna “avanti miei brocchi fategliela vedere!”

Ancora oggi seguo la mia squadra, senza patemi d'animo, e soffro per i pochi risultati che ottiene, ma soffro di più nel vedere che gli stadi sono diventati per i giovani non luogo di incontro, ma scenari di guerra, campi di battaglia: spranghe, botte, coltelli e violenza. Morire per una partita di pallone è davvero un'assurdità. Che il calcio sia diventato la valvola di sfogo di una società che nulla riesce a trasmettere è lo scenario più triste a cui si possa assistere. L'amor patrio, l'inno di Mameli cantato a squarciagola solo se gioca la nazionale di calcio non sono un bel esempio per i nostri ragazzi e non ci si deve meravigliare dei risultati che ne conseguono.

Mancano valori di unità e aggregazione alla base della nostra società e, quando nascono, succede in maniera sbagliata. Così si instaurano fortissimi legami nei gruppi degli “ultras”, cresce, in una sorta di comportamento tribale, il desiderio di protezione dei membri da coloro che vengono considerati i “nemici”, che, a seconda delle circostanze, possono essere altri gruppi di tifosi o le forze dell'ordine. Il comportamento di base di queste “bande” si estende, ben visibile, anche ad altri ambiti, come quello politico ad esempio, poiché è proprio questa intensa coesione fra simili la molla che fa scattare il comportamento delinquenziale.

Questa è la mia concezione, questa la mia storia. È forse tramontata per sempre la mia poetica visione delle partite di calcio e dello stadio come ancora oggi dovrebbe essere, un luogo di divertimento, un momento di condivisione per famiglie, dove si apprende che, come nella vita, a volte si vince e altre si perde, quando si perde a lungo ci si fortifica e più grande sarà la gioia della vittoria, si impara a combattere con onore, con onestà, con determinazione, preparandosi fisicamente e psicologicamente all'incontro (mai allo scontro) della vittoria o della salvezza.

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Andrea Legnani, "L'edera e l'olmo"

20 Gennaio 2019 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #recensioni

 

 

 

 

L'edera e l'olmo

Andrea Legnani

Frammenti di vetro editore

 

Andrea Legnani, un amico di Facebook, sapendo del mio amore per la lettura, ha voluto farmi un regalo e, qualche giorno fa, nella posta ho trovato, graditissima sorpresa, il libro che ha scritto L'edera e l'olmo. Ho iniziato subito a leggere, mossa, inizialmente, debbo essere sincera, da grande curiosità, poi, via via, sono stata assorbita dalla lettura che si presenta leggera, avvincente e di facile comprensione.

La trama si snoda nei secoli che vanno tra la fine del 1300 e la fine del 1900, ruotando intorno a una tenuta, “la Carradora” situata nell'imolese. Indirettamente collegati dagli eventi e dal destino tanti fatti e tanti personaggi si sono succeduti in quelle terre dove, all'inizio della narrazione, si racconta che, per dare sepoltura a una neonata, frutto del peccato di una suora, un vescovo volle piantare alcuni semi di olmo. Nel trascorrere dei secoli la pianta crebbe e divenne un gigante ombroso, al cospetto del quale passarono signori e briganti, pellegrini e santi. Intorno al tronco dell'olmo prese a crescere una pianta di edera che lo avvinghiava e che viveva con lui in perfetta simbiosi, assistendo al trascorrere delle stagioni, del tempo e degli avvenimenti, ora luttuosi ora festosi.

Sono stata particolarmente colpita dalla narrazione storica, trattandosi di episodi, situazioni drammatiche, vendette, avvicendamenti di proprietà e circostanze fortuite avvenuti nella mia terra, nella zona di Imola, poco lontano da dove sono nata e cresciuta. 
Per farla breve, con l'olmo ormai grande e imponente si identificava la zona, la casa stessa, che mi è diventata, nel corso della lettura, quasi familiare, fino a scoprire alla fine, in un vero coup de théâtre, che lo stesso autore vi aveva vissuto e soggiornato da bambino quando la proprietaria era diventata la nonna. 
Interessanti gli eventi storici, tutti comprovati da documentazioni reperite presso gli archivi della curia Vescovile, immortali le vicende che hanno accompagnato la tenuta, che nei secoli fu convento di clausura, residenza signorile e anche stazione di posta. Nel finale la leggenda che vive oltre ogni tempo, unici spettatori Edera e Olmo, torna a svelare il mistero di una morte irrisolta. 
Delizioso davvero questo libro che si è rivelato avvincente e mi ha tenuto sveglia qualche sera, nonostante la stanchezza, per il desiderio di portare a termine la piacevole lettura e scoprire, con non poca commozione, che in fondo i veri protagonisti di tutta la storia non sono i personaggi più o meno famosi avvicendatisi sulla scena nel corso dei secoli, ma Edera e Olmo avvinti l'una all'altro, silenziosi spettatori sempre presenti fino alla fine, quando entrambi muoiono, una uccisa da un contadino ignorante e l'altro subito dopo, di solitudine. 
Andrea, complimenti e grazie davvero.

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Ti insegnerò ad amare i libri

7 Gennaio 2019 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca

 

 

 

 

 

 

A mio nipote insegnerò ad amare i libri. 

Scrutami mentre assorta sfoglio avidamente un libro, spia il segreto della mia felicità privata e prepotente, chiediti perché sorrido, sono seria o piango, perché non sento suonare il campanello, e non bado a nessuno finché le pagine non finiscono. Non penso a vacanze perdute, a uscite mondane, a circoli intellettuali, non sento la mancanza di nulla. Capirai che questo è il modo che ho trovato per isolarmi dal mondo, dall'ipocrisia della gente, dall'egoismo e dalla superficialità. Troverai compagnia in qualunque momento, in ogni luogo, non devi prendere mezzi, per partire per un lungo viaggio basta una panchina, una poltrona, il sedile di un treno sgangherato che ti porta in provincia. Guardami mentre rivivo gli eventi leggendoli, spaziando nei secoli e nella vastità dell'infinito, vedrai la mia ansia materializzarsi di fronte a un giallo inesplicabile, la ma gioia fiorire a una storia d'amore. Ma guardandomi attentamente vedrai principalmente la mia gratitudine, la mia sconfinata ammirazione, mentre la trama si chiude in un esaltante finale. Leggi sempre, leggi tutto. Una volta compreso questo mi guarderai sconsolato, insicuro e spaventato, pensando a quanti libri ci sono nel mondo, non scoraggiarti piccolo mio, ogni libro è il solo, ogni libro è il primo, è un'emozione che si rinnova, un rituale da festa di compleanno, una scoperta di sogni e ricordi come quando da piccola guardavo mia madre cucinare per noi e io sognavo di invitare a cena Laurie Lawrence e come Jo March di scrivere un romanzo per lui.

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Il Natale di Luca

20 Dicembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto, #una settimana magica, #posta un presepe

 

 

 

 

“Un Natale speciale, questo sarà davvero un Natale speciale” si ripeteva Lucia guardando fuori dal finestrino.

Da piccola le avevano trasmesso il valore, l'importanza di quel santo giorno: nasceva Gesù in una calda atmosfera familiare, con il presepe preparato con cura, l'albero pieno di luci, la Messa di mezzanotte e il panettone.

I suoi fratelli, una volta cresciuti, si erano trasferiti chi in America, chi nel nord Italia, chi in Germania e lei, morti mamma  e papà,  era rimasta sola nella grande casa di San Polo, immersa nel verde, nel silenzio, troppa solitudine, e a volte le faceva paura. A Natale sperava sempre in un rientro dei fratelli coi nipoti e le cognate, per ricreare insieme quella atmosfera di magica allegria di quando erano piccini, invece succedeva che qualcuno declinava l'invito, chi perché il viaggio era troppo lungo, chi aveva figli che non volevano muoversi dalla città, scuse sempre scuse e quest'anno, addirittura, nessuno sarebbe tornato, nemmeno Luca, suo fratello gemello che viveva a Milano e che era quello più affezionato a lei, alla casa, al paese.

Le aveva spiegato che era soffocato da impegni di lavoro, che non poteva assolutamente scendere e lei, colpita come da uno schiaffo in pieno viso, ci era rimasta male. Poi, durante la notte, rimuginando su quelle che le erano apparse delle banali e false giustificazioni, si era resa conto che la voce di Luca al telefono era triste, tremula, vuota. Non lo aveva notato subito perché era offesa e le bruciava la delusione, ma conosceva troppo  bene suo fratello e doveva essergli successo per forza qualcosa. Si convinse che almeno lui non l'avrebbe mai e poi mai lasciata sola la notte di Natale.

Così nel giro di una settimana, senza avvertire nessuno, preparò la valigia, fece il biglietto del treno, non dimenticò di comprare il torrone ai fichi secchi da “zia Carmelina”, una vecchietta che ormai era rimasta l'unica in paese a saperlo fare, e preparò i “pepatelli”, biscotti di cui suo fratello andava matto.

L'antivigilia partì alla volta di Milano, durante il viaggio ebbe tempo di riflettere, di pensare alla sua vita dedicata interamente alla famiglia, alla casa, ai genitori che erano entrambi mancati troppo presto. Non si era mai sposata, insegnava lettere e filosofia al Liceo Classico e aveva visto sfiorire la sua bellezza giorno per giorno, inseguendo il sogno di un grande amore che non era mai arrivato, o almeno per lei era arrivato, ma aveva il volto di Riccardo l'insegnante di matematica, sposato con prole. Lo aveva amato in silenzio fino a quando anche lui sembrò accorgersi dei suoi sguardi, del suo improvviso rossore se lo incrociava nei corridoi della scuola e l'aveva invitata a uscire. Si erano dati  appuntamento fuori dal paese, lontano da occhi indiscreti, tutto era iniziato con un caffè al bar del corso in una città vicina, poi l'incontro divenne prima mensile, quindi settimanale e finivano sempre per fare l'amore in un alberghetto di periferia, a strapparsi i vestiti di dosso dal desiderio di toccarsi, a consumare la loro passione proibita in qualche ora di sesso. Al pensiero ancora le correvano i brividi lungo la schiena. Poi ognuno tornava a casa propria, le feste comandate lui le trascorreva con la famiglia, mai una vacanza insieme, mai una gita domenicale e lei si era abituata a vivere in attesa di quelle poche ore di felicità che le regalava. Fino a quando non aveva cominciato a trovare scuse, a incolpare la moglie di stargli addosso e così gli appuntamenti si erano diradati, fino a cessare del tutto.

La sua età migliore intanto era trascorsa, quindici anni a vivere nell'ombra, a fare l'amante segreta, l'avevano invecchiata anzitempo, le avevano soffocato lo spirito, e ora si era lasciata andare, sembrava più vecchia dei suoi quarantotto anni, in paese la chiamavano la signorina e si sentiva un'acida zitella. I suoi vivaci occhi azzurri si erano spenti, la  figura slanciata, un po' appesantita, ma ormai non si guardava nemmeno più allo specchio, non avrebbe mai avuto una famiglia sua, un figlio a cui insegnare il Natale, a cui raccontare di quando bambina cantava nel coro della chiesa e suo padre si commuoveva ogni volta.

Solo Luca sapeva della sua storia, conosceva il suo segreto e l'aveva sempre compresa, mai giudicata. Così, mentre il paesaggio scorreva veloce dai finestrini, lasciando le sue montagne Lucia scendeva verso il mare, passavano veloci le città illuminate a festa, cambiando scenario di ora in ora e, per la prima volta in vita sua, si sentì felice di non essere a casa, insieme a Luca avrebbe trascorso un Natale diverso, davvero speciale.

Uscita  dalla stazione fu accolta da un'atmosfera di festa, sfavillio di luci, suoni melodiosi, anche gli zampognari erano saliti a Milano per rallegrare la città con la musica natalizia di “tu scendi dalle stelle”. Li guardava curiosa camminare lenti per le strade affollate, il passo cadenzato, e sotto il cappellaccio nero le sembrò di riconoscere Peppino, il paesano  che ogni anno suonava la zampogna nel presepe vivente al suo paese. Si fermò un attimo, quel costume l'aveva sempre affascinata: il mantello a ruota di panno color catrame, i pantaloni aderenti abbottonati al ginocchio e, sotto, i calzettoni chiari, di lana caprina, tenuti stretti da giri e rigiri di linguette di cuoio che salgono dai calzari. Nel loro presepe non mancava mai lo zampognaro davanti la capanna.

Quella musica acuta, strozzata, le faceva salire un nodo in gola. La gente correva indaffarata, entrava e usciva dai negozi con montagne di pacchi fra le braccia. La corsa all'ultimo regalo era forse normale per chi vive la frenesia delle grandi città, per lei no, lei preparava tutto per tempo, passava le serate a incartare, a infiocchettare, a personalizzare  i doni per i suoi cari, regalando anche un po' d'amore ad ognuno con quel gesto antico.

Spaesata, frastornata, si avvicinò a un taxi e si fece accompagnare a casa del fratello.

Aveva già suonato tre volte senza ottenere risposta e l'ultima aveva tenuto pigiato il dito sul campanello con insistenza, perché  iniziava a pensare che Luca le avesse mentito e fosse partito per una vacanza esotica con gli amici, quando finalmente rispose al citofono.

“Chi è?” era stanco. Lucia pensò che davvero stava lavorando troppo.

“Sorpresa...!”

Quando aveva sentito la voce della sorella era rimasto di sasso, senza parole, l'improvvisata pareva averlo paralizzato.

“Che fai scemo non mi apri?” disse Lucia in tono scherzoso

Nessuna risposta, solo un flebile ansimare dall'altra parte della cornetta poi ... tac lo scatto del portone che si apriva.

Davanti alla porta dell'appartamento, Lucia rimase in piedi inebetita, chi si trovava di fronte non era suo fratello, ma un uomo magrissimo, che si reggeva a malapena in piedi, irriconoscibile, con profonde occhiaie, il viso pieno di eruzioni violacee e una tosse violenta che non gli dava respiro. Era ormai un anno che si nascondeva dietro problemi di lavoro e non si era fatto vedere, tanto meno sentire.

Si avvicinò titubante, lo abbracciò, lui piangeva come da bambino, quando i compagni lo prendevano in giro perché era effeminato, perché era gracile e troppo sensibile per i giochi da maschi. Era lei quella forte, quella sempre pronta a menare le mani, come se nella pancia della mamma i due fratelli si fossero scambiati i ruoli. Così era sempre stata protettiva e lo aveva difeso fino a quando aveva lasciato il paese e finalmente si era sentito libero di vivere la sua omosessualità, mai apertamente confessata a nessuno.

Ora però era malato, si vedeva che era una cosa grave, e si trovava solo in quello stupendo attico col terrazzo che dominava via Montenapolene e che aveva arredato tutto da solo col buon gusto di bravo arredatore quale era diventato. Lavorava per la gente del jet set, per gli stilisti, gli attori, e aveva successo, soldi, ma mai mai, anche lui come Lucia, aveva conosciuto l'amore vero.

Si era bruciato in incontri occasionali e ora, le raccontava fra i singhiozzi, che proprio a causa di questa affannosa ricerca d'amore sarebbe morto. Lo aveva colpito la malattia terribile, quella che non si può nominare senza provare vergogna, quella che uccide gli invertiti, i debosciati, che punisce chi ha peccato. Questo secondo le regole, il comune pensiero, l'AIDS.

Lucia non sapeva cosa dire, era impreparata a un simile segreto che il fratello aveva tenuto nascosto per tanti anni, prima che l'ultimo stadio della malattia si manifestasse così violentemente,  non aveva dimestichezza con queste cose e rimase per un attimo senza sapere come reagire, senza nemmeno sapere dove guardare. Il cuore si era fermato e un sudore freddo le correva lungo la schiena.

“Mio Dio" avrebbe voluto gridare, sbattere la testa al muro. No, non era possibile, non stava succedendo a loro. Poi dentro di lei ebbe il sopravvento la pragmatica donna del sud che tanto le ricordava sua madre.

“Beh!? Che ci piangi, stupido, è Natale dopodomani, rimettiti a letto che a te ci penso io.”

Luca passò la notte con febbre alta, spossatezza, mal di testa, dolori al petto, delirante alternava momenti di lucidità in cui la ringraziava e le chiedeva perdono ad altri in cui non la riconosceva nemmeno e la chiamava col nome di un uomo dicendo “Giacomo perché mi hai fatto questo.”

L'indomani era la vigilia, Lucia capì che doveva accompagnarlo in ospedale, chiamò l'ambulanza e, una volta sistemato nel letto, si sedette accanto e non gli lasciò mai la mano.

Stava scendendo la notte, la notte di Natale, era freddo. Dalla finestra si vedevano fiocchi di neve volteggiare nel cielo e scendere silenziosi sulla città in festa. Lucia non smetteva mai di parlare e di rivivere col fratello i loro natali felici.

“Ti ricordi papà che raccoglieva il muschio nel bosco per il presepe e con la segatura faceva la sabbia del deserto dove posare i Re Magi? Ti ricordi Luca il pastore di terracotta con lo zufolo? Ci era caduto a terra mentre litigavamo per posarlo davanti la capanna, una gamba si era rotta e noi da allora lo chiamavamo “Lo zoppo”. Ogni anno era il primo a essere tirato fuori dalla scatola e messo nel presepe, che Natale sarebbe stato senza lo zoppo e quante risate...”

Luca ascoltava, tremante di febbre, riscaldato dai ricordi della sorella, riusciva a sorridere e sussurrare qualcosa

“Lo zoppo e il cane cieco erano i miei preferiti.”

“Il cane te lo avevo “cecato” io, Luca, per gelosia, lo hai mai saputo?”

“Certo che lo sapevo e proprio per questo lo amavo di più.”

Un attimo di silenzio, era quasi mezzanotte, Lucia cominciò a cantare come faceva in chiesa, non aveva perso negli anni la sua voce argentina e nel corridoio dell'ospedale iniziarono a risuonare le  note struggenti.

“Adeste fideles,  laeti triumphantes ... venite adoremus, venite adoremus, venite, adoramus Dominum!...”

A  poco a poco, con delicatezza, si affacciarono alla porta alcuni infermieri, il medico di turno, due malati in grado di muoversi e, in rispettoso silenzio,  si avvicinarono al letto di Luca.

Lui era ripiombato nei ricordi,  in fila coi fratelli che cantavano, stava portando Gesù tra le sue manine piccole e lo posava nella mangiatoia, accanto al bue e l'asinello.

Un ragazzo nero si era accostato più degli altri, il bianco degli occhi sgranati, risaltava sul viso emaciato come due punti luminosi, era cresciuto cattolico in una missione in Africa, giunto in Italia aveva smarrito la strada e si era ammalato prostituendosi in stazione.

"Tutti abbiamo perso la strada” pensava Lucia, “il Natale non è più il nostro Natale”, poi sospirando: “Hai visto Luca? Quanta gente  intorno a noi , un vero presepe stanotte, e  ci sta pure Baldassarre che porta i doni” provò a scherzare, indicando il ragazzo nero accanto al letto.

Ma suo fratello era già lontano, aveva raggiunto il cielo a mezzanotte per cantare l'Osanna con gli angeli, mentre Gesù scendeva nella grotta a portare il perdono sulla terra.

Il suo viso si era disteso, lo aveva abbandonato ogni segno di sofferenza, era tornato bello, levigato, quasi sorridente, come quando era un bambino, felice e inconsapevole.

Lucia non cantava più, piangeva, lacrime silenziose le rigavano il volto, non aveva fatto in tempo a dirgli addio come avrebbe voluto.

“Può sentirmi?” chiese al dottore

“Non so se può sentirti ormai, ma tu puoi sentire lui, cosa desidererebbe tuo fratello?”

“Vorrebbe essere amato, capito, perdonato.”

E si chinò sul suo volto, lo baciò dolcemente, poi inizio a soffiargli sulle guance sulle mani. Avrebbe voluto  rianimarlo in una sorta di “miracolo di Natale”in cui ormai credono solo i bambini. Poi iniziò ad annusarlo, tutto dalla testa ai piedi, in un ultimo saluto  così come  fanno  i cuccioli di cerbiatto quando muore un fratellino per non dimenticare il suo profumo.

 “Buon Natale Luca... buon Natale.... buon Natale.”

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Il pigiama verde

7 Dicembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca

 

 

 

 

Ho ritrovato il tuo pigiama verde dimenticato nel fondo di un cassetto. E' uscito fuori all'improvviso e una sferzata mi ha colpito in pieno volto, mentre lo annusavo cercando il tuo profumo sono riaffiorati ineluttabili i ricordi ostinatamente negati e tenuti nel segreto del mio cuore. Quel giorno quando lo indossavi per l'ultima volta, mi guardavi con i tuoi dolci occhi azzurri divenuti improvvisamente acquosi e vuoti, interrogandomi muta sul perché il respiro ti veniva meno e io ti chiamavo inutilmente a me. Ho voluto indossarlo nei miei giorni più bui, per sentirti vicina e mi ha dato forza, ho sentito addosso lo stesso tuo coraggio. Mi sono chiesta se io ho paura di morire. No, non ho paura di morire, ho paura di non riuscire a farlo bene, ho paura di soffrire, ho paura di vivere male, ho paura della miseria, quella che ti toglie ogni dignità umana e morale, che ti riduce in uno stato di pietoso avvilimento e desolazione, ho paura di tutto quello che non dipende da me, perché credo non sia vero che ognuno è artefice del proprio destino, ma credo piuttosto che ognuno sia parte di un tutto, che corpo e anima siano due cose distinte e separate e che l'anima sia molto più felice del corpo, così mentre lo spirito mi dice di non aver paura, il corpo fa di testa sua. E mi chiedo dove vanno a finire le nuvole nere cariche di pioggia che oscurano l'azzurro del cielo quando il vento le spazza via? Dove va il sole quando non si fa vedere? E dove si nascondono luna e stelle in una notte di tempesta? E io dove andrò quando la paura sarà certezza? Cammino lentamente mentre le ore corrono dietro i miei passi, chissà forse diverrò pioggia.

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La mamma dai capelli marroni

5 Dicembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca

 

 

 

 

Oggi, mentre stavo facendo la spesa, assorta nel difficile compito di scegliere che tipo di pasta comprare, mi sono sentita sfiorare delicatamente la gonna. Una bambina bionda con due grandi occhi scuri, pieni di lacrime, mi guardava silenziosa. Per un attimo ho pensato ai soliti mezzucci che usano gli stranieri per elemosinare qualche spicciolo, ma, in un attimo, ho colto il reale terrore nello sguardo disperato di quella piccina. Mi sono chinata verso di lei e, con calma, dolcemente, le ho chiesto “che cosa succede piccola?”. “Ho perso la mamma!” mi ha risposto e a quelle parole le lacrime trattenute sono scoppiate in singhiozzi. Ho preso la sua manina e ho cercato di tranquillizzarla "la mamma ti starà sicuramente cercando, ora l’aiutiamo a trovarti, vuoi dirmi di che colore ha i capelli la tua mamma?” .“La mia mamma ha i capelli marroni…” mi ha detto in un sospiro. Allora per cercare di rassicurarla, tenendo stretta  la sua manina nella mia,  mi sono avviata lungo i corridoi, tra gli scaffali, sorridendo a tutte le signore che incontravo e chiedevo “avete visto una mamma coi capelli marroni?”. Mentre ci stavamo avvicinando alla cassa per chiedere di fare un annuncio, una signora è arrivata correndo: era la mamma, e la bambina mi ha lasciato in fretta per correre tra le sue braccia. E’ durato meno di un attimo il piacere di stringerla a me, di farle una carezza e di sentirmi ancora una volta come la lupa che protegge i suoi piccoli, poi mi sono guardata  allo specchio, i miei capelli hanno venature d’argento: è passato  ormai il tempo in cui anch’io ero una mamma dai capelli marroni. La nostalgia è una condizione strana, ti fa cercare tra vecchie fotografie le ore perdute e lì, in fondo al cuore, al confine con l'anima, scrive a caratteri cubitali la tua solitudine, quasi fosse una conquista, mentre gli occhi si vestono di rugiada.

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Il bambino e il selfie

3 Dicembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca, #poesia

 

 

 

“Narciso si sporgeva sull'acqua per meglio contemplarsi...” inventando l'idea dell'autoritratto.

Autoritratti di grandi pittori, seguirono autoritratti in fotografia, sono tecniche vecchie quanto il mondo. L'uomo ha necessità da sempre di mettere a nudo la propria personalità attraverso questa forma di “auto presentazione”.

Il selfie moderno, figlio della tecnologia, è la deriva di questa pratica. Uno sguardo attento rivela molto di una persona attraverso una semplice immagine di se stessa da dare in pasto ai social. Un selfie dice tanto di noi anche se spesso non ne siamo consapevoli, per esempio questo bambino dotato di una fantasia meravigliosa, a mio avviso, rivela grandi potenzialità per il suo futuro. A lui dedico questo breve e faceto componimento (che fa il verso a Gianni Rodari e me ne scuso)

 

Poesiola che viene e che va

del piccino che soldi non ha

Il bimbo al mare scorda la rabbia

e fa le foto con la sabbia,

la bimba ai monti fa foto alle cime

e sicuro non si deprime

E chi cellulare non ne ha?

Solo, solo foto non fa:

si siede sul marciapiede,

e il passante distratto non lo vede,

ma il piccolo inventa i suoi scatti più carini

in compagnia dei fratellini.

Lui sa volare con la fantasia

e scatta la foto più dolce che ci sia

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