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come ervamo

FORZA BOLOGNA

21 Gennaio 2019 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca, #come ervamo, #sport

 

 

 

 

Serie A, è appena ricominciato il girone di ritorno dopo la sosta per le feste e ricominciano le polemiche, ma non tutto il calcio è malato. Io vado contro corrente e ammetto di avere una visione romantica dello stadio e delle partite domenicali che forse non è più attuale. Lo sport, le discipline sportive non sono solo violenza, arbitraggi pilotati, cori razzisti, corruzione e ciarpame, anche da una partita di calcio c'è da imparare etica e rigore, sportività, appunto, e lo stadio può diventare scuola di vita.

Non tutta la colpa è da imputare ai tifosi se la nostra società è malata, lo stadio, a mio avviso, riflette solo quanto nel complesso siamo diventati. I valori di amicizia e sana competizione stanno scomparendo ovunque, nella scuola, nel mondo del lavoro, per strada, dove prevalgono invidia, maleducazione, cattiveria e prevaricazione.

Io ho un bellissimo ricordo dello stadio di Bologna, dove la squadra del cuore di mio padre giocò il campionato che la portò alla vittoria del suo ultimo scudetto nel lontano 1964. Era l'Inter l'avversaria diretta e lo spareggio finale si giocava a Roma, in campo neutro. Mio padre, mentre io gli saltellavo intorno, non staccava l'orecchio dalla radiolina a transistor per seguire la partita. A vittoria avvenuta, il giorno dei festeggiamenti, col babbo che mi teneva per mano, mentre la folla festante applaudiva Pascutti, Bulgarelli, Perani, Haller, Fogli e tutti gli altri, avvolta da un tripudio di bandiere rossoblu, mi sono sentita orgogliosa della vittoria della mia squadra e di appartenere alla mia città. Per mio padre il calcio era stato uno svago importante, l'unico di pochi momenti, durante la lunga prigionia nei campi inglesi in Africa, e in quei brevi tornei calciava orgoglioso il suo pallone raffazzonato con quattro stracci, pensando a due mondiali appena vinti dall'Italia nel 1934 e nel 1938 alla faccia dei boriosi aguzzini che gli passavano una pagnotta e una borraccia d'acqua a settimana. Il babbo era tifoso del Bologna e la partita dell'ultima vittoria fu anche l'ultima della sua vita. In autunno un incidente stradale lo strappò a noi, alle sue passioni, mai più stadio, mai più feste, mai più insieme a ridere e piangere e io, seppur piccina, raccolsi il testimone ideale del suo tifo sportivo, di felice condivisione, per quel calcio per quella squadra, la squadra del cuore.

Ho tifato Bologna per tutta la vita, nello stesso identico modo, seguendolo con rassegnazione nei periodi più bui, in serie B, nei lunghi anni di militanza in serie cadetta e poi ,con leggeri entusiasmi, l'ho visto risalire dalla C alla B, poi di nuovo nel girone delle grandi, ma sempre fra gli ultimi in classifica, soffrendo, zoppicando, ma quanta fede, quanta costanza nei suoi tifosi ogni domenica.

Il mio amore per la squadra della mia città non mi ha impedito di crescere, studiare, leggere, lavorare, vivere e amare la mia famiglia, di condurre una vita sana con sani valori. Mio fratello ha portato il figlio allo stadio fin da quando era piccolo e insieme hanno seguito il nostro Bologna, spesso anche in trasferta, nelle sue avventure e disavventure. Anche lui, come il babbo, sapeva trasmettere la stessa passione. Negli ultimi anni hanno vestito, sempre insieme, la casacca dello stewart e in tribuna qualche volta hanno fatto accomodare anche me e la mia famiglia accanto ai tifosi VIP come Lucio Dalla, Gianni Morandi, Andrea Mingardi e una domenica, quando, con grande campanilistico orgoglio, battemmo il Milan, vicino a noi era arrivato da Milano anche Diego Abatantuono per seguire la sua squadra.

Lo spirito è sempre stato lo stesso, grandi gioie per piccole soddisfazioni. Anche mia madre tifava Bologna, ormai anziana, la domenica si sedeva in prima fila sulla sua poltrona e seguiva la partita in televisione, era un momento di unità in famiglia e si rideva quando gridava al nostro Bologna “avanti miei brocchi fategliela vedere!”

Ancora oggi seguo la mia squadra, senza patemi d'animo, e soffro per i pochi risultati che ottiene, ma soffro di più nel vedere che gli stadi sono diventati per i giovani non luogo di incontro, ma scenari di guerra, campi di battaglia: spranghe, botte, coltelli e violenza. Morire per una partita di pallone è davvero un'assurdità. Che il calcio sia diventato la valvola di sfogo di una società che nulla riesce a trasmettere è lo scenario più triste a cui si possa assistere. L'amor patrio, l'inno di Mameli cantato a squarciagola solo se gioca la nazionale di calcio non sono un bel esempio per i nostri ragazzi e non ci si deve meravigliare dei risultati che ne conseguono.

Mancano valori di unità e aggregazione alla base della nostra società e, quando nascono, succede in maniera sbagliata. Così si instaurano fortissimi legami nei gruppi degli “ultras”, cresce, in una sorta di comportamento tribale, il desiderio di protezione dei membri da coloro che vengono considerati i “nemici”, che, a seconda delle circostanze, possono essere altri gruppi di tifosi o le forze dell'ordine. Il comportamento di base di queste “bande” si estende, ben visibile, anche ad altri ambiti, come quello politico ad esempio, poiché è proprio questa intensa coesione fra simili la molla che fa scattare il comportamento delinquenziale.

Questa è la mia concezione, questa la mia storia. È forse tramontata per sempre la mia poetica visione delle partite di calcio e dello stadio come ancora oggi dovrebbe essere, un luogo di divertimento, un momento di condivisione per famiglie, dove si apprende che, come nella vita, a volte si vince e altre si perde, quando si perde a lungo ci si fortifica e più grande sarà la gioia della vittoria, si impara a combattere con onore, con onestà, con determinazione, preparandosi fisicamente e psicologicamente all'incontro (mai allo scontro) della vittoria o della salvezza.

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