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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Anch'io sono una finestra?

31 Marzo 2017 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca

 

 

     Anch'io sono una FINESTRA?
     Sono una FINESTRA STRAna.
     Inizio con "FINE", ma sono la FINE o il FINE?

     Inizio con "FINE", ma senza "conFINE".
     Finisco con "ESTRA", che sta per "extra" uguale "fuori", come chi, diversamente da me, è considerato ESTRAneo e fatto finire fuori, gettato dalla FINESTRA.
     La FINE (o l'inizio) è fuori, per chi si butta dalla FINESTRA (per suicidarsi o per salvarsi con l'aiuto dei vigili del fuoco), ma non per me, che resto dentro, a guardare dalla FINESTRA, a guardare da me, dentro di me.
     Finisco con "TRA", ma non sto in mezzo e non sono il mezzo (migliore per finire).
     L'inizio è fuori, per chi decide di aprire la porta-FINESTRA ed uscire.
     Sono opaco o trasparente, aperto o chiuso?
     Chiedo aiuto, per aprirmi o mi arrangio, da solo, per imparare?
     Sono con le sbarre, solo per fare entrare da una porta, per non uscirne più?
     Tanti punti interrogativi stanno alla FINESTRA, per entrare o per uscire, per bussare alla porta-FINESTRA o per sfondarla, per conoscere la risposta, fino in fondo, nel profondo.

          Luca Lapi

     
     

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Sull’educazione dei bambini: il meccanismo dell’imitazione

30 Marzo 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #educazione, #psicologia

 

 

Avete dei bambini? Quale tattica usate per farvi ascoltare?

Io non ho figli, ma ho una sorella più piccola alla quale ho sempre urlato molto, moltissimo. Nemmeno so contare le volte che mi sono ritirata in stanza con un gran mal di gola, senza nemmeno aver raggiunto quello che era il mio scopo originario.

Ora lei è una bellissima piccola donna che si prepara – fra pochi mesi, ahimè, prenderà il volo – alla prima superiore, ma quando era piccola si comportava, appunto, da piccola. E come biasimarla? Io però, nel frattempo, entravo in quel periodo della vita dove le energie sono a mille ma la pazienza scarseggia. Più lei ballava e cantava mentre io studiavo, più cercavo – con quelle che erano urla spacca timpani – di convincerla ad andare in un’altra stanza, eventualmente, per provare quelle coreografie degne di Amici e quegli acuti che sembravano quelli di Adele. Non ho mai capito – ora miriadi di studi chiariscono la questione – che urlare non serviva. Nemmeno un po’.

È bene che mi segni questa regola fondamentale, nel caso di eventuali figli: i bambini sono spugne, fanno tutto ciò che ci vedono fare. Ecco perché quelle urla erano sbagliate, dannose. Le hanno insegnato, probabilmente, ad urlare a sua volta.

La frase da usare?

“Fai come me.”

Possiamo usare questa frase ogni volta che vogliamo che il bambino in questione imiti il nostro comportamento.

Prendi come me la forchetta; leggi come sto facendo io; disegna come me.

È proprio tramite l’imitazione degli adulti che stanno loro accanto – dicono gli psicologi – che il bambino inizia quello che è il suo personale processo di crescita.

Per prima cosa, impariamo a modulare il tono. Deve essere deciso, sì, ma non troppo severo. Non si deve essere duri, occorre solo cercare di esortare il bambino a seguire con attenzione ciò che abbiamo da dirgli.

Poi, seconda cosa, i gesti: no a nervosismo o chiusura; sì a gioco, amorevolezza, dolcezza.

Serve tatto, affetto. Dobbiamo apparire disponibili.

Per i bambini, il processo di imitazione inizia presto: già intorno ai due mesi di vita – tramite il meccanismo pianto/riso – sembrano interessarsi alle nostre reazioni, poi affinano la tecnica. Si sentono grandi, quando cercano di emulare i comportamenti degli adulti.

Per far raccontare la loro giornata, quale modo migliore del raccontare noi la nostra?

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Rosalba Perrotta, "L'uroboro di corallo"

29 Marzo 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

L'uroboro di corallo

Rosalba Perrotta

 

Salani, 2017

pp 324

Questo libro si legge alla svelta, scivola come acqua frizzante, no, anzi, come prosecco, e quindi alla fine uno si aspetterebbe qualcosa di più. Va bene l’uroboro, va bene la rinascita delle dame, ma qualcosa di più significativo dovrebbe pur arrivare.

Allora bisogna capire che la parte rilevante de L’uroboro di corallo, di Rosalba Perrotta, forse non è la trama, quanto, piuttosto, il modo in cui sono caratterizzati i personaggi, alcuni molto veri, altri quasi macchiette. La scrittura femminile rende avvincente anche una semplice concatenazione di gesti, come scegliere un abito, fare la valigia, preparare la tavola, cucinare. E di cose in questa storia ce ne sono tante, dai tarocchi all’antiquariato, dalla cucina, al canto.

Anastasia è una signora di settantuno anni che somiglia a Ingrid Bergman. Timida, repressa, “ammodo” e insicura, soffre per l’abbandono del marito archeologo, che l’ha lasciata con due figlie grandi, rifacendosi una vita con una donna più giovane. Le figlie sono adulte, ormai - Doriana pratica e Nuvola sognante - entrambe con problemi personali, hanno nei suoi confronti l’atteggiamento infastidito e protettivo che spesso si riscontra nei rapporti fra ragazze e madri avanti con gli anni. Grazie ad un’eredità, entra in possesso di Anastasia un palazzotto in un quartiere malfamato di Catania, appartenuto all’amante lituana (e sensitiva) del nonno, con annesse cianfrusaglie, fra le quali una spilla a forma di uroboro, simbolo di rinascita, molto ambita dal capo di una confraternita esoterica, tale cavalier Santospirito. Ognuno dei personaggi, Anastasia, Doriana, Nuvola, Igor Pastorello, Matteo etc, a suo modo è solo con i propri problemi, come siamo in fondo un po’ tutti. Doriana ha un marito depresso e un amante invadente, Nuvola non ha mai raccontato a nessuno perché si sia vista costretta a lasciare il fidanzato quasi sull’altare e, inoltre, soffre la lontananza dal padre. Tutto è raccontato con estrema leggerezza, con molta ironia. L’autrice sembra non prendere niente troppo sul serio ma, comunque, sa analizzare molto bene la psicologia dei vari caratteri.

La risurrezione di Anastasia sarà tale da portarla a contatto con persone che mai avrebbe pensato di poter frequentare, prime fra tutte le tre cugine continentali che sua madre le aveva sempre proibito di incontrare perché sconvenienti e bizzarre. Saranno proprio loro a introdurla a una nuova vita fatta di scoperte, di colloqui, di cultura e di viaggi. Dal momento in cui entra in possesso della spilla, ad Anastasia accadono solo cose piacevoli e uno stimolo interiore la induce a rinnovarsi, ritrovando persino un amore infantile, un bambino che l’aveva chiesta in moglie durante una recita scolastica. Non sappiamo se il progresso interiore e il ringiovanimento esteriore, se i nuovi corteggiatori e il ritrovato elan vital, dipendano davvero dai poteri magici dell’uroboro o se si tratti di un “effetto placebo”. Può darsi che la convinzione di avere un aiuto sovrannaturale spinga Anastasia ad agire in modo da attirare effettivamente eventi positivi. Dentro di lei le premesse c’erano, occorreva solo un impulso per tirarle fuori.

Se un significato c’è in questa storia, è il senso che può avere la vita nella terza età. Figlie distratte possono capire che una donna di settanta anni è ancora una persona, esattamente come loro? Che non può vivere solo stando attenta “a non rompersi un femore”? Che ha desideri, rimpianti e persino sogni? Che, alla fine, è sempre quella che era quando aveva la loro età? Forse invecchiare non è solo sbiadire, forse ci vorrebbero più opportunità e più considerazione per tutti. Una donna di settantuno anni ha ancora il diritto di disobbedire, quello che Anastasia non ha mai fatto nella vita. Intere generazioni di femmine sono cresciute obbedendo ai genitori prima, al marito e ai figli poi. Il loro momento non è mai giunto. La spilla con l’uroboro simboleggia la venuta di quel momento.

Sparsi nel testo ci sono anche altri temi non trascurabili, lasciati emergere tramite l’umorismo delicato che caratterizza la cifra dell’autrice, ad esempio il razzismo.

L’ambientazione è una Sicilia moderna, non legata ai soliti stereotipi ma molto caratterizzata e ancora preda di vecchi retaggi perbenistici, e persino di reminiscenze esoteriche. Fondamentale l’uso di termini dialettali.

Lo stile è vivace e ironico, si basa su dettagli molto concreti, come la tazza di Orzoro o gli arcani dei tarocchi, mescolati a suggestioni colte; la narrazione corale si fonda su un punto di vista rigorosamente circoscritto che ci fa conoscere i pensieri di tutti i protagonisti. Molto peculiari e realistici i dialoghi, dove a parlare è una persona sola. Abbiamo poi lettere, mail, canzoni.

Tutto vivace, “appetitoso”, spumeggiante… però, come dicevo, alla fine i fili della trama vengono tirati, anzi strattonati, troppo in fretta e la tanta carne al fuoco lascia a bocca asciutta.

Insomma, molto (spassoso) rumore per nulla.

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C'era una volta la Romagna: "la primavera"

28 Marzo 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

L’arrivo della primavera è sempre stato un momento importante nell’attività contadina. Quando ero piccola, la notte del 28 febbraio era il giorno del Lòm a Merz (il lume a Marzo) in cui la fine dell’inverno portava danze e balli. Per l’uomo, e soprattutto per l'agricoltore, la primavera è da sempre vista come un momento propiziatorio, in questo contesto il fuoco costituiva il dialogo con le forze vitali e creative della natura, forze che, dopo i rigori dell'inverno, tornavano prorompenti riportando alla vita le piante. All'imbrunire le campagne si riempivano di fuochi scoppiettanti che sembravano occhieggiarsi l'un l'altro a distanza, duravano ore ed ore, anche l’intera notte, mentre uomini, donne e bambini si radunavano attorno per scaldarsi, per propiziare l'arrivo di una buona stagione di raccolti e, mentre la malasorte ardeva tra le fiamme, cantavano e ballavano. Noi bambini spesso accendevamo un fuoco più piccolo, alla nostra portata, che consentisse di saltarlo in lungo e in largo, in una sorta di prova di coraggio, mentre recitavamo poesie dialettali “lom lom a Merz ogni spiga faga un berch...” Un canto augurale, così come ci aveva insegnato la nonna, nell’auspicio che da ogni spiga di grano si potesse alzare una bica intera.

La tradizione dei fuochi si fa risalire al tempo degli antichi romani, quando l’anno iniziava il primo di marzo e con il fuoco si festeggiava la fine dell’anno vecchio e l’avvento di quello nuovo, bruciando il tempo passato e purificando l’arrivo di quello imminente. L'origine di questa tradizione si perde dunque al tempo dei riti pagani, le funzioni che i nostri avi praticavano per onorare e invocare la protezione di Cerere e di Bacco, per noi sfociavano in feste di coinvolgente allegria al ritmo dell'organetto o dell'armonica a bocca.

I primi fiori a spuntare dopo l'inverno erano le violette, le primule, le giunchiglie che facevano l'occhiolino lungo i fossi o all'ombra degli alberi, e per noi bambini di campagna era un vanto poterne raccogliere un mazzolino da portare alla maestra che gradiva sempre il pensiero e, quando gliele porgevamo timidamente orgogliosi, vi affondava le narici e si inebriava di freschezza, sorridendo.

La natura era uno scoppio di colori, le temperature più miti, le giornate più lunghe, gli animali facevano capolino dalle tane e le farfalle ricominciavano a volare di fiore in fiore. Abbracciando con gli occhi l'aia e i terreni intorno era facile vedere piccoli pulcini uscire all'aperto, campi traboccanti di erba e uccellini volare. Il verde dei prati diventava improvvisamente brillante e in noi bambini cresceva la voglia di correre, saltare, ridere, sentivamo sulla pelle il brivido della vita che ricominciava. La maggiore attività fisica aumentava a dismisura il nostro appetito, così spesso mia cugina ed io andavamo alla ricerca di una merenda in più, un uovo raccolto dal nido, liscio, ancora tiepido fra le mani. Ci infilavamo di nascosto nel fienile, una gallina spaventata schizzava via dal suo nascondiglio, lasciando le uova appena deposte occhieggiare tra la paglia. Succhiavamo ingorde il nostro tuorlo, direttamente facendo un piccolo foro sul guscio e, guardandoci negli occhi ridenti, complici, alzavamo il braccio in un brindisi. Le case di città, come cubi di cemento, le auto che ci portano ovunque, ci hanno chiuso in trappola e succede che la primavera passi senza che ne accorgiamo.

Quello di cui ho maggiore nostalgia, pensando alle mie primavere in campagna, è quando vedevo tornare le rondini. Le code a punta, il petto bianco, laboriose, riparavano i nidi fatti di paglia e mota, abbandonati l'autunno precedente, volavano basse garrendo e formavano splendidi cerchi nell'aria, mettendo allegria.

Per i romani le rondini erano una manifestazioni dei Lari, le divinità protettrici della case degli uomini: infatti costruiscono il nido proprio sotto i nostri tetti e vivono vicino a noi. Per il nonno significava l'inizio dei lavori nei campi, dopo l'ozio invernale, la stagione buona stava cominciando. Le rondini fanno parte della nostra vita, “sono sante e benedette” diceva la nonna. Delicate, pazienti e così come loro ci insegnava ad essere nella vita .

Ero così affascinata da questo piccolo e speciale uccello che quando a scuola la maestra ci diede da studiare a memoria la poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, mi veniva il groppo in gola e non riuscivo a recitarla

 

Ritornava una rondine al tetto:

l'uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

la cena de' suoi rondinini...

 

mi fermavo a questo punto con le lacrime agli occhi.

I mesi trascorrevano allo scandire dei raccolti, dell'intenso lavoro dei campi che si snodavano perenni al ritmo delle stagioni. Nascevano nuovi animali a popolare non solo le stalle ma anche il cortile, le verdure da piantare nell'orto, i campi di trifoglio e la fienagione, molto importante per chi allevava bestiame e per la nonna anche le rose del giardino erano colture altrettanto importanti e andavano curate, perché, quando arrivava maggio, il mese della Madonna, lei voleva averne grossi mazzi da offrire in processione.

Noi bambini invece tenevamo sempre sotto controllo l'albero delle ciliege, era quello che ci premeva di più, appena vedevamo rosseggiare i dolci frutti fra le foglie facevamo a gara ad arrampicarci sull'albero per raccoglierli, per appenderli alle orecchie come orecchini di rubino e per farne grosse scorpacciate. Agili, scattanti, la gara era aperta fra noi e i fringuelli: una guerra all'ultima ciliegia. Poi, col tempo, arrivavano i fichi e le albicocche, tutte delizie preziose e ricche di importanti vitamine per la nostra crescita.

Giunta l'estate, la sera i campi di grano si popolavano di luci intermittenti, piccole lucciole che erano la gioia dei bambini. Spesso prima di andare a dormire correvamo fuori per riempirne un vasetto e usarle come luce di compagnia sul comodino. Le lucine si accendevano e si spegnevano a intermittenza e gli occhi stanchi si chiudevano guardando dentro il vetro incantati dal ritmo, sempre più debole, di piccole stelle che si spegnevano. La prima volta che ho visto una stella cadente è stato un'estate quando ancora non attribuivo significati di reconditi desideri a tale spettacolo. La notte era calata e si stava rientrando con l'ultimo carro di fieno. Il cielo si era acceso, puntellato di stelle, era terso, luminoso, io e mia cugina sul carro, sdraiate sulla montagna di erba odorante, guardavamo in alto assorte in pensieri più grandi di noi, perse in sensazioni che soltanto la meraviglia della natura può ispirare. Pancia all'aria, solleticata dai gambi e dalle foglie dell'erba medica, dondolata dal ballonzolio del carro traballante, ascoltavo, assonnata, il cri cri dei grilli che saliva dai campi e pareva musica assordante nel silenzio della campagna. All'improvviso una lunga scia luminosa, brillante nuvola di fuoco, si distese nel cielo, una luce incandescente nel buio. Una briciola di polvere e roccia staccatasi da un meteorite, a scuola lo aveva spiegato la maestra, ma vederla davvero lasciava senza fiato, una stella cadente e gli occhi si illuminarono, mentre stringevo la mano di mia cugina che guardava a bocca aperta. Fu un breve momento, trattenni il respiro provai ad ascoltare, ma non faceva rumore, provai a odorare e non sentii nessun profumo, eppure è tuttora uno spettacolo indimenticabile che mi riempie occhi, naso e gola ogni volta che ci penso, mentre il brivido di un attimo mi percorre la pelle.

 

LA STRELA CADAINTA

Am son svulté l’eltra not in un pré.....

Dio cum a sira cuntainta

A un semil spetacual a n’ira mega preparé:

a i ò vest una strèla cadainta!

Ad totti ca li èter l’ira la piò bela

Comm una cumatta, con la co iluminé

La sluseva, la fruleva, l’ira la mì strèla

E a l’impruvis l’è vgnù vers ed mé……

La m'à illuminé

La m’à abrazé.....

Mama t’i tè?

Finalmaint t’è dezis ed turner que da me!

 

LA STELLA CADENTE (traduzione)

Mi sono sdraiata l’altra notte in un prato

Dio come ero contenta

A un simile spettacolo non ero preparata:

ho visto una stella cadente!

Di tutte le altre era la più bella

Come una cometa, con la coda illuminata

Luccicava, si muoveva, era la mia stella

E all’improvviso è venuta verso di me….

Mi ha illuminato

mi ha abbracciato

Mamma sei tu?

Finalmente hai deciso di tornare quaggiù.

C'era una volta la Romagna: "la primavera"
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La minuscola carolina e la Chanson de Roland

27 Marzo 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

La parola guerra deriva dal termine franco wërra. I Franchi furono i più famosi fra i popoli barbari. Solo i Franchi furono capaci di fermare gli Arabi, grazie a Carlo Martello, e formare un regno grande quasi quanto l’impero romano. Abitavano i territori dell’attuale Francia, erano di origine germanica e si erano mescolati ai primi abitanti di quella zona, cioè i Galli (sì, proprio quelli di Asterix e Obelix) e i romani. I Franchi erano stati fra i primi popoli barbari ad accettare il Cristianesimo e a parlare la lingua di Roma. I papi chiesero il loro aiuto contro i Longobardi che furono sconfitti dal nipote di Carlo Martello, il futuro Carlo Magno, così soprannominato perché fu un grande re che compì imprese memorabili. Era padrone della Francia e aveva tolto l’Italia ai Longobardi. I suoi eserciti, comandati da possenti guerrieri detti Paladini, si erano spinti molto lontano, rendendolo padrone delle terre che oggi si chiamano Belgio, Olanda, Danimarca, Germania, Svizzera, Austria. Dalla caduta dell’impero romano non si era più visto in Europa un dominio tanto vasto.

Carlo Magno (742- 814) era figlio di Pipino il breve e di Berta dal grande piede, la quale fu responsabile del matrimonio fra questi e la sfortunata Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio. Quando Carlo ripudiò la sposa in favore di Ildegarda, pare che la madre non l’abbia presa bene

Carlo era altissimo, robusto, forte, con naso lungo e ventre prominente a causa del gran bere e mangiare. Aveva occhi grandi e vivaci, voce chiara, amava le donne e la famiglia. La notte di Natale dell’anno 800, papa Leone III lo incoronò, a Roma, imperatore dei Romani. Il nuovo impero si chiamò Sacro Romano Impero, Romano perché prendeva il posto dell’impero di Roma, Sacro perché cristiano.

Il Sacro Romano Impero era diviso in tanti feudi. Le grandi strade erano poco frequentate e infestate di briganti, si coniavano poche monete, il commercio languiva. Molto si era dimenticato dell’arte di coltivare la terra, costruire canali per irrigarla e drenare l’acqua nelle paludi. I campi inaridivano e s’inselvatichivano. Le città venivano abbandonate e ne sorgevano di nuove dove la terra era più sfruttabile. L’Europa era un mare di foreste e steppe.

Come sviluppo del castrum, cioè dell’accampamento romano fortificato, in posizione strategica ed elevata ben difendibile, sorsero castelli, atti a ospitare una guarnigione con il castellano e la sua famiglia. Attorno al castello crebbero interi borghi, abitati da coloro che servivano il signore e ne ottenevano in cambio protezione. Durante gli assedi ci si poteva ritirare dentro le mura e resistere a lungo.

I signori del feudo si chiamavano feudatari, cioè uomini liberi che davano aiuto militare in cambio di una ricompensa ed erano vassalli dell’imperatore. Se il feudo era grande, veniva suddiviso fra altri castellani, detti valvassori, che rispondevano al feudatario maggiore. Al di sotto dei valvassori potevano esserci i valvassini. Vassalli, valvassori e valvassini erano i nobili, detti cavalieri perché avevano il permesso di combattere a cavallo.

Sebbene personalmente illetterato, Carlo dette impulso ad una riforma culturale in architettura, in filosofia, in letteratura, in poesia e nella religione. Si assistette a una vera e propria Rinascita carolingia. La riforma della Chiesa, in particolare, si proponeva di elevare il livello morale e la preparazione culturale del personale ecclesiastico. Carlo era ossessionato dall'idea che un insegnamento sbagliato dei testi sacri, non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello "grammaticale", avrebbe portato alla perdizione dell'anima. Carlo pretese di fissare i testi sacri e standardizzare la liturgia, imponendo gli usi romani, nonché di perseguire uno stile di scrittura che riprendesse il latino classico. Si prescrisse a preti e monaci di dedicarsi allo studio del latino e all’istruzione dei giovani. In ogni angolo dell’impero sorsero delle scuole vicino alle chiese e alle abbazie. Neanche la grafia venne risparmiata, e fu unificata, entrando in uso corrente la “minuscola carolina”. Le lettere divennero regolari, legature e abbreviazioni vennero eliminate, furono introdotti la punteggiatura, a segnare le pause, e il punto interrogativo. Da quei caratteri derivarono quelli utilizzati dagli stampatori rinascimentali, che sono alla base degli odierni.

L'Impero resistette fin quando fu in vita il figlio di Carlo, Ludovico il Pio; fu poi diviso fra i suoi tre eredi, ma la portata delle riforme e la valenza sacrale influenzarono radicalmente tutta la vita e la politica del continente europeo nei secoli successivi.

La Chanson de Roland, scritta intorno alla seconda metà dell’anno mille, appartiene al ciclo carolingio ed è considerata una delle opere più significative della letteratura medievale francese. Di natura epica, il poemetto anonimo trae spunto da un evento storico, la battaglia di Roncisvalle, del 778, quando la retroguardia di Carlo Magno, comandata dal prode paladino Rolando/Orlando, fu attaccata dai Baschi, nella riscrittura epica trasformati in saraceni, aiutati dal traditore Gano di Maganza. Fino alla fine Orlando rifiuta di suonare il corno per richiamare i rinforzi dei Franchi, facendolo solo quando si accascia morente.

 

 

Il conte Orlando giace sotto un pino,

verso la Spagna tiene volto il viso.

Di molte cose gli ritorna alla mente,

di tante terre quante ne prese il prode,

la dolce Francia, quelli del suo lignaggio,

Carlomagno che l’allevò, suo signore;

non può impedirsi di sospirare e piangere.

Ma non si vuole dimenticare di sé,

confessa le sue colpe, chiede a Dio pietà:

«Vero Padre, che non hai mai mentito,

san Lazzaro da morte risuscitasti,

e Daniele dai leoni salvasti

a me l’anima salva da tutti i pericoli

dei miei peccati quanti ne ho fatti in vita!».

Il guanto destro porge in pegno a Dio:

San Gabriele dalla sua mano l’ha preso.

Sopra il braccio si tiene il capo chino,

le mani giunte è arrivato alla fine.

Dio gli manda il suo angelo Cherubino

e San Michele del mare del Pericolo;

insieme a loro viene lì san Gabriele,

portan del conte l’anima in paradiso.

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Paola Tavella e Agostino Toscana, "Deadflowers"

26 Marzo 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #recensioni

 

 

DEADFLOWERS

Paola Tavella – Agostino Toscana

(140 pagine, bookabook. E-book a 5€; Cartaceo a 12)

 

Una storia cruda e crudele che ruota attorno a un vecchio colpo degli anni di piombo. Un colpo andato a finire male.

Sono passati trent’anni. Chris è tornato e ha il grilletto più facile di prima. Rimette insieme la vecchia banda. Indio, che è quasi come un fratello, ma soprattutto Dori, la sadica ragazzina che amava i coltelli e che ora è divenuta una donna che si guadagna da vivere in un modo spietato e disumano. Peccato che sulle loro tracce ci sia una banda di fascisti e un vecchio sbirro incattivito.

Deadflowers non è un romanzo, è un film d’azione giocato in modo straordinario tra flashback che si rincorrono fino alla fine sprigionando un senso drammatico che picchia duro nel cuore.

I due autori tracciano personaggi veri, descritti per dettagli, personaggi di cui si sentono gli odori. La narrazione è scarna ma fortemente empatica, di quelle che ti entrano dentro subito e ti scavano con le unghie laccate di rosso e le punte metalliche dei pugnali. I capitoli sono brevi, i titoli grandi, in grassetto, che sembrano martellate. Ci raccontano una città, una grande città, e come tutte le grandi città è piena zeppa di gente spenta che insegue la sopravvivenza e, sebbene in mezzo a milioni di persone, è sola. Ci raccontano di gente che vive aggrappata a un passato che gli è rimasto cucito addosso come una pelle strappata, gente che ha smesso di vivere molto tempo fa quando ha iniziato a ricordare. Di gente che aveva un sogno e la vita è andata al contrario, di gente che dà la colpa a chiunque perché non si rende conto, o forse sì, che la colpa è solo sua, perché la vita che si ritrova se l'è voluta, se l'è cercata e costruita, passo dopo passo, e lo stesso vale fino all’ultimo gesto dell’ultima scena. Un susseguirsi di azioni stupide di barche ancorate in un porto che non c’è più.

Deadflowers è carne e sangue, schegge d’ossa, coltelli e pallottole, rabbia e disillusione. Un romanzo pulp che potrebbe essere un film. È già pronto, già sceneggiato. Un romanzo pulp che ci racconta tutto ciò che non si deve fare se si vuol vivere una vita vera.

 

«No. Ero morto prima. Quando tu eri via. Ero morto in quel bilocale di merda sulla Tiburtina, ero morto mentre cenavo con quella stronza di mia moglie e quel coglione di mio figlio, ero morto quando al lavoro non mi cagava più nessuno, ero morto quando dovevo ricattare i tossici e gli spacciatori per arrotondare la pensione. Ora sono vivo, Chris, vivo!»

 

Deadflowers è l’autostrada per l’Inferno, è saltare le uscite e schiacciare fino in fondo sull’acceleratore.

 

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Jeans e antidepressivi

25 Marzo 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

 

 

 

Non so voi ma io mi sento più a mio agio in pantaloni, a meno che non faccia troppo caldo, allora preferisco gonne ed abiti. E, fra i pantaloni, i jeans restano i prediletti. Quelli che vanno adesso, poi, skinny ma elasticizzati, sono anche molto comodi. In questi giorni se ne trovano davvero di stilosi. Io suggerisco di comprarne un paio a stagione, ma anche di più, non sono mai troppi nell’armadio e in valigia, l’importante è che si differenzino gli uni dagli altri almeno di un particolare.

La versione che ho acquistato va tantissimo questa primavera; sono decorati con strass e perline, strappati ma chiusi da intarsi di pizzo bianco, come se sotto portassimo una calza, non sia mai che debba vedersi la ciccia brutta e vizza. Troppa pelle scoperta è volgare a ogni età, alla mia, poi, è anche stomachevole. Ci abbino la nuova maglia celeste ed ecco pronta una nuova mise che sa di primavera.

Cosa abbiamo poi?

La maglia/camicia grigia, larga, soluzione facile in ogni occasione.

La camicia nera, idem come sopra.

La camicia bordò, scollata sul retro, in una specie di crêpe. Ravvivarla con una collana (un vezzo diceva mia nonna) e portarla con un tacco, la rende adatta persino per una cerimonia.

La primavera è arrivata e mi sta rinascendo una nuova voglia di fare, di uscire, di viaggiare che credevo perduta. Forse è la cura per l’emicrania che contiene antidepressivi. L’emicrania non se ne va ma l’umore è migliorato.

 

 

I do not know about you, but I feel more comfortable in pants, unless it gets too hot, then I prefer skirts and dresses. And, among the pants, jeans remain the favorites.

Those which are up to date now, skinny but stretch, are also very comfortable. These days, you may find some very stylish. I suggest you buy a pair each season, but even more, there are never too many in the closet and in your suitcase, the important thing is that they differ from each other at least in one thing.

The version I bought is a lot fashionable this spring; it is decorated with beads, torn but closed by white lace inlays, as if, under, you were wearing a stocking. One should never see the ugly and withered flesh underneath. Too much exposed skin is vulgar at all ages, at mine is sickening.

We can match the jeans with the new light blue jersey and there you have a new outfit that smells of spring.

What we have then?

The gray shirt, an easy solution for every occasion.

The black shirt, ditto.

The burgundy shirt, low-cut at the back, in a kind of crêpe. Enlivened by a necklace (a “vezzo” my grandmother used to say), and worn with high heels, makes it a suitable outfit even for a ceremony.

Spring is here and I feel a new life inside, a desire to do things, to go out, to travel. Maybe it's the cure for migraine containing antidepressants. The headache does not go away, but the mood is improved.

Jeans e antidepressivi
Jeans e antidepressivi
Jeans e antidepressivi
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Sesso e amore e controllo maschile in libri da due milioni di copie: il caso di Meredith Wild

24 Marzo 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Anni e anni di lotte, di manifestazioni, di movimenti, di scioperi affinché la donna potesse giungere all’emancipazione. Affinché potesse avere il diritto di esistere senza che l’uomo avesse ruolo chiave in quella sua esistenza. Affinché potesse smettere di essere considerata inferiore, stupida, incapace.

Anni e anni di lotte affinché potesse cessare di essere considerata una lavastoviglie e un’incubatrice. Affinché potesse diventare un anello della catena lavorativa. Affinché potesse dimostrare il suo valore, competere con l’uomo, scalare vette mai raggiunte.

Anni e anni di lotte, ma non siamo ancora andati troppo lontano… la prova è in ciò che ci circonda.

In un mondo che la maltratta, che la umilia, che la uccide e che la stupra, la donna cerca a tentoni di dimostrare il suo valore, la sua forza. Anche quando viene accusata di aver cercato una violenza perché poco vestita; anche quando in un Parlamento Europeo viene tacciata di scarsa intelligenza; anche quando non viene assunta a lavoro perché, si sa, la donna non vale quanto l’uomo e a un certo punto le verrà voglia di mettere su famiglia; anche quando la sua morte non fa rumore.

Facciamo finta di essere diversi, di esserci emancipati, ma non è cambiato il succo.

L’uomo la vuole lì, in una cucina immacolata, a sfornare torte margherite per lui e a partorire i suoi figli – meglio maschi, eh –. Perché è questo il suo compito, no? Preparare spuntini per il suo uomo, accoglierlo in casa quando torna da lavoro e, remissivamente, porgergli tutto l’amore che prova in quel suo cuore dolce. Stamparsi su una faccia da “farei di tutto per te”, vestire una gonna con i quadrati al ginocchio, essere felice per ciò che la vita le ha concesso: un marito. E quando non lo fa, in certi casi muore; viene sfigurata; viene picchiata.

Be’, in questo mondo, signori, i libri che vendono, quelli che fanno soldi grossi, sono quelli dove l’uomo è ricco, bello, potente e ha bisogno del controllo. Quelli dove la donna rinuncia alla sua indipendenza – parzialmente o totalmente – dovendo riferire al suo boss ogni spostamento, ogni respiro, ogni conversazione.

Questi libri hanno qualcosa di insano, di perverso, di marcio e non certo per l’argomento amoroso o per le parti erotiche – che poi, di grazia, cento scene tutte uguali danno la nausea dopo un po’, o no?

Si parla sempre di Cinquanta Sfumature, ma anche Meredith Wild con la sua Saga non scherza.

Il secondo volume della saga è peggio del primo – che certo non mi aveva entusiasmata comunque – sotto più punti di vista.

Erica è follemente innamorata di Blake. Lui hackera il suo account, pretende che lei non faccia nulla senza il suo consenso, la segue. La domina. Lei un po’ si stranisce, ma quando lo vede tutto passa in secondo piano.

Blake aveva le sue belle contraddizioni. Un attimo era dolce di una tenerezza struggente, l’attimo dopo riusciva a mandarmi su tutte le furie con la sua mania di controllo compulsivo.”

Lui è stato un colpo di fulmine, una manna dal cielo, un meteorite. Ha bisogno di comandare ed Erica glielo concede. Come farebbe senza di lui? Le dà sicurezza nella vita quotidiana e le dona, fisicamente parlando, qualcosa che non sa nemmeno spiegare.

Soprattutto a letto, ha bisogno di sapere che lei farà tutto ciò che lui desidera. Dipende da lui. Da ogni sua parola. Da ogni suo gesto. La ribellione non è ammessa. Lei è una marionetta, una bambola. Lui è il capo.

“«Stenditi e non farmelo ripetere un’altra volta.»

Ripresi il respiro che avevo trattenuto, improvvisamente intimorita dal tono autoritario della sua voce. Il pensiero di protestare per quella semplice ma potente richiesta era lontano e fu subito travolto dal desiderio che lui prendesse il controllo del mio corpo per tutto il tempo che ritenesse opportuno. Obbedii e mi stesi sulla schiena. (…) Di nuovo il rumore di una busta e poi mi legò i polsi con una stoffa setosa e strinse il nodo, non lasciandomi alcuna possibilità di liberarmi.”

Si fa trattare come un oggetto sessuale per compiacerlo, si fa punire con la convinzione di aver meritato quel male. Soffoca il pianto e i sussulti. La sua anima intera, squarciata per l’umiliazione, trema. Poi, inaspettatamente, le piace. Il dolore la acceca, però nel frattempo freme di piacere. Ma che si è fumata, questa Wild?

“«Non ti sei comportata tanto bene mentre sono stato via, vero?» Scossi il capo più che potei. Il suo palmo si stampò duramente sul mio sedere. Sussultai per lo shock del dolore. (…) Era così severo che giurai fosse una vera punizione. Volevo che fosse così, e mi concessi di crederlo. Mi convinsi che Blake mi stesse punendo e glielo lasciai fare. Per aver scatenato la sua gelosia, per aver premesso a James di avvicinarsi tanto. (…) Tutto il mio corpo si irrigidiva a ogni colpo. Perché lo stai facendo? Le lacrime bruciavano gli occhi, la gola era chiusa dall’emozione repressa. Te lo meriti. L’hai voluto tu. Prenditele. Prenditele tutte.

Fa tutto quello che lui vuole che faccia, persino convincersi che quello sia un amore giusto, equo. Che sia un amore speciale, diverso, bello e puro. Quello dove lui dà ordini e lei si sottomette, insomma, è un miracolo.

“«No, aspetta, ti prego» Sospirai e mi premetti le tempie, infastidita da quello che stavo per ammettere. «C’è una parte di me… Anche quando mi sforzo di bloccare ogni passo che fai, c’è una parte di me che vorrebbe darti il controllo di ogni cosa. Sottomettersi per la vita.»”

Va avanti così, con scene di sesso miste a problemi; sono molti gli ostacoli che la coppia modello dimostra di saper affrontare, sempre mano nella mano e con un frustino per animali a tracolla.

Il padre di Erica – che conosce da una manciata di giorni, ricordiamolo – cerca di comandare la ragazza offrendole un accordo – probabilmente l’uomo è destinato a comandare, per l’autrice –; non si capiscono le motivazioni di questo sbattimento di testa da parte del politico rampante, né si comprende perché scelga proprio lei visto che è un pericolo farla entrare nella sua vita proprio in quel momento.

L’impressione è che serva un diversivo, un motivo perché Erica possa dimostrare appieno l’amore per il suo lui. Quale modo migliore, se non quello che rinunciare a lui per un ordine che arriva da un uomo senza scrupoli?

Ed ecco di nuovo, a ruota e senza che al lettore venga concesso un attimo di pietà, un vortice di bugie, gelosia, desiderio e colpa. E pianto e mezzi tradimenti e mezze comprensioni.

Come poteva mancare l’altro uomo?

James, bello da paura e dolce come un cannolo ripieno, le fa la corte. Lei quasi cede, poi però si ricorda di ciò che è Blake per lei. Non sia mai.

Alla fine Erica dimostra un po’ di spina dorsale. Però non con Blake, da lui continua a dipendere come una pianta dalla terra.

Contenta lei.

 

 

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Bob Dylan: tutta la verità sulla risposta che soffia nel vento!

23 Marzo 2017 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #musica, #le prese per il deretano di umberto bieco, #personaggi da conoscere

 

 

Bob Dylan, il misterioso menestrello di Duluth: quali insondabili profondità umane, se non sovrumane, si celano in questo cantore di visionarietà bibliche, in questo poeta del folk-rock, che ha trasversalmente traghettato la musica popolare nella letteratura, aggiudicandosi persino il più recente Nobel nella relativa categoria?

Cari amici, la risposta sta soffiando nel vento. E per capire quale questa risposta sia, partiamo dal principio, raccapezziamoci con i pezzi del suo puzzle, e inebriamoci degli aromi della sua vita artistica, che, evocati, ci solleticheranno le nari.

Solennemente devoto allo strimpellare impegnato di Woody Guthrie, che stornellava aspramente le aride asperità della Grande Depressione, e la cui chitarra uccideva fascisti, egli viaggiò dal MidWest statunitense a quel di New York, dove i cantautori anti-commerciali si esibivano nei locali bohemien del Greenwich Village, nudamente accompagnati dalla propria sei corde.

Ai brani tradizionali o di altrui concezione cominciò ad affiancare composizioni originali, e finalmente incise la celeberrima Blowin' In The Wind, che nel contesto della crescente consapevolezza sociale dell'epoca divenne un inno pacifista, adottato anche dal movimento per i diritti civili. Bob nel frattempo iniziò a far coppia fissa con la pasionaria Joan Baez, regina del folk, fruendo della costante promozione offertagli da quest'ultima, e formando il perfetto connubio amoroso della canzone di protesta – per quanto la voce di lei fosse cristallina quanto quella di lui nasale e starnazzante. Bobby fu persino invitato a partecipare alla Marcia per il Lavoro e la Libertà durante la quale Martin Luther King Jr., il 28 agosto 1963 a Washington, infiammò gli astanti con il suo più storico, fervente e ispirato sermone, famosamente reiterante la frase “io ho un sogno”, e in quest'occasione Blowin' In The Wind – benché eseguita dal noto trio folk Peter Paul & Mary, la cui versione era al momento nella top ten - fu l'apice della parte musicale, spodestando la storica e tradizionale We Shall Overcome.

Successo! Svolta! Flash dei fotografi! Remunerative cover d'alta classifica! Erba sempre più abbondante! Kennedy assassinato a Dallas!

Pago dei frutti di quella ricca stagione di sfruttatamento dell'indignazione del cittadino consapevole, scavatosi la sua nicchia di popolarità, Dylan effettuò quindi una graduale trasformazione che lo portò nell'arco di due anni ad abbandonare il folk impegnato e ad elettrificarsi fino a giungere ad una nuova forma di rock dai versi caleidoscopici quanto vaghi, e, in piena coerenza tra artistico e privato, ad abbandonare Joan Baez per una coniglietta di Playboy, che sposò nel '65. E come biasimare il giovane marpione? È la bellezza dell'ascesa sociale, è il sogno americano! Trovare il modo di svicolare e arrampicarsi alla faccia, e con i piedi sulla faccia, dei poracci che rimangono nel Vicolo della Desolazione! Come non ammirare una simile astuzia strategica e la sua esemplare abilità attuativa? Del resto, che motivo c'è di protestare quando puoi drogarti da mattina a sera, con relativa pausa per titillare e fecondare la tua coniglietta del cuore? Io farei lo stesso. O, come disse Joan Baez, senz'altro un po' piccata per lo smacco sentimentale: “Bobby crede che le cose non possano essere cambiate e che l'unica soluzione sia passare la giornata rollandosi grossi cannoni”. Joan Baez, a sua volta, pur senza drogarsi – stando a sue recenti dichiarazioni – sembra davvero convinta di aver contribuito a concludere la guerra del Vietnam.

Dylan passò quindi i restanti sixties e l'inizio dei seventies a smantellare e sbriciolare il mito del sé stesso alfiere del bene che molti ancora reclamavano indietro, tanto da invadere in massa la sua abitazione di Woodstock, come se lui e le sue proprietà fossero una loro proprietà, una proprietà hippie del movimento per il cambiamento flower power – cosa che non si conciliava perfettamente con la tranquillità imborghesita in cui egli voleva comodamente accasarsi – ancor di più dopo il trauma di un incidente motociclettistico in cui rischiò la tipica Fine alla James Dean. Pubblicò quindi album sempre più disorientanti per il suo originario pubblico progressista, imperniati sulla musica americana conservatrice per eccellenza, ovvero il country, snocciolando persino frivolezze [Country Pie, Lay Lady Lay], reimpostando e ripulendo la propria voce – il tutto per disinfestarsi da coloro che ancora credevano al, e cercavano il, Dylan profeta della rivoluzione e condottiero etico verso una società migliore. E vi riuscì, nel contempo mantenendosi sulla cresta – grazie al suo magnetismo, talento e trasformismo. Il maledetto bastardo!

Ma il meglio doveva ancora venire: il matrimonio con la coniglietta collassò e il boato prese la forma sonica di Blood On The Tracks, uno dei suoi migliori album, che Bob negò avesse alcuna valenza autobiografica, attribuendo il suo contenuto a qualche indubbiamente immaginaria “rielaborazione di racconti di Čechov” - ma soprattutto ciò spianò la strada ad una nuova fase della sua vita, che diede luogo ad un imperdibile delirio cristiano, così come da lui stesso descritto:

C'era una presenza nella stanza che non poteva essere di nessun altro se non di Gesù. Gesù ha posto la sua mano su di me. Era un'esperienza fisica. L'ho percepita. L'ho sentita su tutto me stesso. Ho sentito il mio intero corpo tremare. La gloria del Signore mi ha abbattuto e poi mi ha raccolto.

Rinacque cristiano e si sentì investito della missione di convertire le masse, arringando un pubblico stranito dal palco dei suoi concerti, ora negli espliciti panni del profeta biblico invasato:

Vi ho detto che i tempi stavano cambiando e sono cambiati. Ho detto che la risposta stava soffiando nel vento ed era così. Vi dico ora che Gesù sta tornando e lo sta facendo! E non c'è altra via di salvezza.

Era evidentemente evidente che nella Rivelazione di San Giovanni Apostolo si descrivevano gli eventi che stavano accadendo ora, nel 20° secolo, a partire dal ristabilirsi della patria degli Ebrei, ovvero Israele: ed identificando Iran e Russia rispettivamente con Gog e Magog, che nelle scritture costituivano le entità responsabili del precipitare negli eventi, diveniva chiaro che la Battaglia dell'Apocalisse si ergeva epicamente all'immediato orizzonte, come un uragano nero che si avvicinava svellendo ogni cosa.

O come si espresse egli stesso durante un concerto del '79:

Sapete che siamo alla fine dei tempi... Le Scritture dicono 'negli ultimi giorni tempi perigliosi incomberanno su di noi... Gli uomini diventeranno innamorati di sé stessi. Blasfemi, grevi e superbi'... Date un'occhiata al Medio Oriente. Siamo sull'orlo di una guerra […] Gesù sta tornando per fondare il Suo regno a Gerusalemme per mille anni!

Il tutto evitando accuratamente di suonare i propri classici, ma proponendo solo i pezzi recenti scaturiti dalla sua ultima illuminazione: incomprensibilmente, alcuni spettatori uscivano chiedendo venisse rifuso loro il biglietto.

Smaltita la sbornia di allucinazioni apocalittico-religiose, e notando come il mondo che conosciamo non fosse finito precipitando in una qualche fatale battaglia finale, e tutto tendesse a proseguire ostinatamente come prima ignorando irrispettosamente le sue preveggenze, tornò verso le proprie radici ebraiche, e nell'album Infidels dell'83 infilò anche una favolistica difesa di Israele che, nella sua descrizione, tutti giudicano erroneamente come “il bullo del vicinato”, quando tutto quello che vuole fare è meramente “esistere”, e per ciò si sta solo “difendendo”, più o meno la stessa posizione che esprimeva il noto fondamentalista islamico Gandhi quando diceva: “E' sbagliato e disumano imporre gli Ebrei agli Arabi”.

Del resto, come ammetteva lui stesso in un altro brano dello stesso disco, Union Sundown:

 

La democrazia non guida il mondo

fareste meglio a mettervelo in testa

questo mondo è governato dalla violenza

ma suppongo sia meglio non dirlo”

 

E con questo sembrerebbe rispondere anche alle domande che poneva in Blowin' In The Wind, e decifrare la risposta sussurrata dal vento a quell'anelito pacifista: la pace? Una favoletta che si racconta a fessacchiotti e minchioni per farli dormire.

Ma la vera risposta non è questa. La vera natura della replica finale portata dal vento è stata sperimentata dai vicini di Bob, ed è scaturita dalla sua più intima interiorità – così come riportato da giornali e agenzie:

I vicini di Bob Dylan si lamentano dell'odore dei bagni chimici [The Guardian]

Il cantante Bob Dylan affronta proteste per i maleodoranti bagni chimici fuori dalla sua casa [Telegraph]

La puzza del bagno di Bob Dylan soffia nel vento [Reuters]

 

Estratti dagli articoli:

 

“Hanno spostato il bagno chimico proprio di fronte alla mia porta” ha detto Emminger.

Non essendo riusciti ad ottenere risposta da Dylan, Emminger ha provato a respingere l'aria fetida installando dei ventilatori.

“È uno scandalo” ha dichiarato il marito di Emminger, David: “Il signor Diritti Civili sta uccidendo

i nostri diritti civili!'

L'odore dal cortile di Dylan è così forte, ha testimoniato Cindy Emminger, che la famiglia deve

sgomberare ogni notte.

“Quando fuori è umido, è anche peggio” ha aggiunto “Attiviamo i cinque ventilatori industriali, ma il fetore riesce comunque ad entrare in casa! Non stiamo più nemmeno usando il piano superiore: dormiamo da basso”.

Funzionari del consiglio comunale di Malibu stanno investigando il reclamo, per quanto il tentativo di un ufficiale dell'assessorato alla sanità di ispezionare il bagno sia stato respinto dalle guardie del corpo di Dylan, che hanno dichiarato che l'ufficiale stava violando una proprietà privata.

E in sostanza, essenza, e fragranza, questo è senza dubbio il reale nucleo della poetica di Bob.

 

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Alberto Facchinetti, "La versione di Gipo"

22 Marzo 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #sport

 

 

 

Alberto Facchinetti

La versione di Gipo

Edizioni Incontropiede – www.incontropiede.it

Pag.- 170 - Euro 16,50

 

In Italia il calcio è lo sport più popolare, ma sia in letteratura sia al cinema non ha mai riscosso grandi successi, nonostante buone opere come Azzurro tenebra di Arpino e Ultimo minuto di Avati. Vogliamo peccare di immodestia e metterci anche il mio Calcio e acciaio, selezionato al Premio Strega nel 2014? Facciamolo. Tanto non costa niente. Aggiungo che il calcio ha dato vita a gustose parodie cinematografiche come Il presidente del Borgorosso con Sordi, I due maghi del pallone con Franco & Ciccio, L'allenatore nel pallone interpretato da Banfi e Mezzo destro e mezzo sinistro con Gigi & Andrea. L’elenco non sarebbe finito, anche se di successi veri e propri - se non in ambito comico - non ce ne sono mai stati. Come dice Pupi Avati, la gente il calcio lo vuol vedere allo stadio, partecipando al rito collettivo della gara calcistica, non leggerlo tra le pagine di un libro o guardarlo in un film. Forse ha ragione il grande regista bolognese, ma per me cresciuto a pane, calcio e fumetti (educazione postmoderna!) il calcio resta affascinante anche da leggere, da scrivere e da vedere nella sala di un cinema di periferia (ce ne sono ancora?).

Alberto Facchinetti deve pensarla come me, se ha messo su una casa editrice che pubblica solo libri di calcio e se scrive quasi esclusivamente biografie romanzate, affascinanti come quelle su Julio Libonatti e Vittorio Scantamburlo (lo scopritore di Del Piero), documentate ed esaustive come la sua ultima fatica: La versione di Gipo. Titolo azzeccatissimo, che ricorda un romanzo di successo, ma che in realtà nasconde la vita avventurosa del grande Gipo Viani. Certo, ai ragazzini che seguono il calcio artefatto dei nostri tristi anni Duemila - che a me interessa zero, dico la verità - è un nome che non dirà niente, ché non si faceva tatuaggi e non si scopava le veline, ma era soltanto uno capace di lavorare sodo.

Facchinetti ripercorre l’epopea di un calciatore di buon mestiere, ma soprattutto di un grande allenatore, inventore di nuove tattiche e schemi, vero e proprio punto di non ritorno tra il calcio del passato e quello degli anni Sessanta, dove sono cresciuto anch’io, prima modesto calciatore poi arbitro della vecchia Lega Semiprofessionisti. Viani si racconta, come in un'immaginaria intervista, come se stesse scrivendo brani di diario della sua vita, tracciando brandelli di un’esistenza che attraversa tutto il calcio italiano degli anni Sessanta. Un libro che fa tornare alla memoria nomi troppo amati da un bambino che collezionava figurine Panini e che ci giocava nel tinello componendo formazioni e inventando immaginarie partite: Rocco, Rivera, Janich, Brera, Pascutti, Carniglia, Nicolè, Pelé... e poi si parla del Milan, del Bologna, della Nazionale, della coppa dei Campioni dei tempi in cui si fremeva nell’attesa di vedere la partita televisiva del mercoledì. Insomma, La versione di Gipo è un libro che profuma di tempo perduto per noi che siamo nati negli anni Sessanta (io nell'anno zero!), che fa commuovere mentre pensiamo a quanto eravamo ingenui e a quanto fosse genuino il calcio d'allora. Tornare indietro è impossibile, quel bambino non può riprendere la pallina del calcio balilla per giocare partite sulle mattonelle, immaginando Peirò centravanti dell’Inter e Pizzaballa portiere del Verona. Ma leggere questo libro ci fa star bene. E tanto basta.

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