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L'esorcista del papa
Pur con un rischio boiata del 99% sono andata a vedere l'ex gladiatore nei panni di Padre Gabriele Amorth solo per la compagnia del collega e il cinema con poltrone reclinabili e la Coca Cola gusto lampone. Un ormai irrimediabilmente imbolsito Russel Crowe che gira Roma in motocicletta senza mai separarsi dalla sua fiaschetta di bruciabudella, viene fortemente osteggiato dal Vaticano nel suo ruolo di esorcista, nonostante il Papa in carica (un Franco Nero nei panni di Woytila ancora meno probabile del protagonista) lo appoggi. Spedito in Catalogna, dove arriva in motocicletta (e da lì per me non è stato più possibile restare seria), per un ragazzino posseduto da Asmodeo, il più potente dei Diavoli, inizia a praticare i suoi rituali con il prete locale, un giovane prelato con la passione per le adolescenti con le tette grosse. A parte i soliti numeri tipo voci stile Pazuzu, persone che camminano come ragni, gente che vola ecc ecc, si segnalano tra le scene più trash Woytila che ha uno sbocco chilometrico di sangue in faccia al vescovo piu viscido della congregazione, e la lambretta che il nostro Crowe utilizza come un tuttofare alla maniera di McGyver. Ovviamente alla fine il bambino viene salvato grazie a dei medaglioni stile Sailor Moon che hanno il potere di liquefare i demoni evocati, tanto che ci si chiede perché non li avesse tirati fuori prima, visto che li teneva nella cassetta di emergenza sul portapacchi della motocicletta. Tutto questo mentre lo stesso Crowe/Amorth è posseduto da Asmodeo solo che a lui chissà perché, non fa effetto. Tralascio le battutine all'americana stile "Padre, mio figlio è posseduto dal demonio, che facciamo?" e lui "Un bel caffè" o dopo la battaglia demoniaca il giovane prete spagnolo gli chiede "Padre, in che condizioni sono?" e lui "Stai veramente dimmerda". Però sulle poltroncine reclinabili era quasi sopportabile.
Mia
Mia è un film che andrebbe mostrato e spiegato nelle scuole superiori. Parla di una quindicenne graziosa, studiosa, seria, che si trova alle prese col primo amore che però ha 20 anni, figlio di papà, ed è palesemente manipolatorio. La ragazza continuerà la relazione nonostante gli amici e il padre cerchino di dissuaderla e questo gesto le costerà quasi la vita, distruggendo anche quella dei genitori. I temi trattati sono tanti: l'adolescenza con la sua fragilità, l'abuso sessuale, il revenge porn, quel sottile equilibrio tra educare un figlio, amarlo e fare il suo bene, tre cose che non sempre coincidono. Anzi. Soprattutto nel tratteggio psicologico dei genitori emergono questioni importanti. Mentre il padre si rende subito conto dei pericoli a cui sta andando incontro Mia (come dice alla moglie "Lo so io che mi passava per la testa a 20 anni") in quanto maschio, che sa come vengono educati mediamente gli appartenenti al suo sesso, sa che spesso agiscono per dimostrare qualcosa più che per sentimento, sa che in certe situazioni gli uomini tendono a controllare, oggettificare, la madre, intrisa di una visione stereotipata e romantica sul "primo amore", infila un paio di lenti rosa con cui osservare questa relazione tossica che le cresce in casa, normalizzando la figlia che ha smesso di truccarsi o vestirsi, che sta sempre isolata, che ha smesso di giocare a pallavolo. Così Mia andrà fino in fondo per scoprire le parti più miserabili di una relazione amorosa: la violenza fisica e psicologica, la gogna mediatica sul web, devastanti per una donna adulta, insostenibile per una ragazzina. E anche nel dopo i genitori si divideranno: la madre che assiste la figlia in ospedale, ricucendo un filo con la vita di noi coscienti, raccontando, condividendo. E il padre invece, annientato da quelle immagini che gli rivelano una figlia ormai suo malgrado diventata donna e che lui non accetta, che si rifugia nei video in cui era ancora la bimbetta amorevole di papà. Il finale inaspettato, amaro, tragico induce alla riflessione sulla prevenzione di certo fatti, sulla giustizia, su un ruolo dei maschi nella nostra società che, siano essi predatori siano giustizieri, non escono dallo schema della violenza.
Tiffany McDaniel, "L'estate che sciolse ogni cosa"
L'estate che sciolse ogni cosa
Tiffany McDaniel
Blu Atlantide, 2020
Nell'immaginaria cittadina di Breathed (che si legge come "respirato") in Ohio giunge il diavolo nel 1984 sotto forma di un ragazzino nero con gli occhi verdi. Ha due cicatrici sulle scapole e sostiene siano causate dal taglio delle ali, essendo lui niente meno che Lucifero. Da cui il suo nome Sal, come Satana e Lucifero. Poco prima del suo arrivo l'avvocato Autopsy Bliss, padre di Fielding, il narratore ormai anziano che rievoca la torrida estate, aveva messo un annuncio sul giornale invitando il Signore del Male a visitare la piccola città. Nonostante il ragazzo asserisca la sua identità ultraterrena e maligna, nessuno gli crede. Ma a Breathed comincia a succedere una tragedia dopo l'altra ogni volta che Sal è presente, e si crea addirittura un gruppo di facinorosi che lo addita come un pericolo per la comunità. Mentre un attempato Fielding racconta il disastro che è diventata la sua vita dopo i fatti dell'84, gli eventi si susseguono in una escalation imprevedibile e fuori controllo. Ricco di colpi di scena, rivelazioni e momenti di grande impatto emotivo, L'estate che sciolse ogni cosa è un romanzo di formazione, in cui il protagonista conosce il Male ma soprattutto la sua imperscrutabilità e le vie lastricate di ottime intenzioni che esso spesso percorre. Non è un caso che sia ambientato nel 1984 (Orwell viene citato nel finale) e che l'evocatore del diavolo si chiami Autopsy (come spiegato nel libro significa "guardarsi dentro") Bliss che suona più o meno come "la beatitudine dell'introspezione". Solo chi ha il coraggio di guardarsi dentro può osservare il male in sé che è l'unico male davvero esistente che si riflette nella realtà. Nella sonnacchiosa Breathed dove tutti apparentemente sono buoni vicini di casa felici e contenti, Sal darà inizio ad una piccola Apocalisse, rivelando omofobia, razzismo, fanatismo religioso, senso di colpa e abusi familiari. Tutto perde di logica, alla fine di questa storia sarà impossibile decretare chi è stato buono e chi no, chi ha sbagliato e chi è stato nel giusto: la realtà si è deformata in mille piccole immagini come nel riflesso di un vetro rotto, altra metafora utilizzata nel racconto, vetro che può salvarci se lo osserviamo bene e non ci fermiamo alle crepe. A volte per ritrovare la figura d'insieme occorre prima frantumare tutto e ricostruirlo secondo un ordine personale che restituisca un senso tutto nostro, a una vita che spesso non ne ha.
Ada d'Adamo, "Come d'aria"
Come d'aria
Ada d'Adamo
Elliot, 2023
Morta due giorni dopo essere stata candidata allo Strega con questo libro, Ada d'Adamo racconta in queste poche pagine la sua esperienza profondissima e contraddittoria con la figlia Daria. Fatta d'aria, in un gioco di parole che evoca la leggerezza che occorre per vivere, soprattutto in certi frangenti, e l'antigravità di questa ragazzina tetraparetica, semicieca, epilettica e incapace di interagire col mondo a causa di un inadeguato sviluppo della massa cerebrale, che mai ha toccato terra, sempre sorretta da braccia amorevoli o da una carrozzina. La d'Adamo con molta sincerità, che le costerà anche diverse critiche e insulti, cerca di trovare il filo del groviglio di emozioni e sentimenti che si creano nel rapporto con un figlio affetto da grave disabilità. Dal senso di colpa per la precedente gravidanza interrotta per paura di perdere l'uomo della propria vita, l'amore incondizionato per una creatura di cui vive le limitazioni terrene diventando i suoi piedi, i suoi occhi, la sua voce, e al contempo la certezza, brutale ma reale che una diagnosi prenatale avrebbe posto fine alla gestazione per volontà materna. Le difficoltà burocratiche, la luminosità dei messaggi dei coetanei di Daria che la vedono come magica, una presenza importante nelle loro vite, quella dolorosa dolcezza che si vede solo nei momenti di buio. E poi la diagnosi di Ada, da subito grave: tumore metastatico. Tornare a curare se stessa, mettersi al primo posto per potere assicurare una continuità a quella figlia che non potrà mai sopravvivere senza i genitori. La terapia ormonale, il corpo devastato, smettere anche di chiedersi perché la vita ad alcuni impone prove talmente difficili. Stare lì, nel momento, vivere, lenire, andare avanti, e il futuro chissà come sarà, chissà quanto sarà. E nel mentre cercare di lasciare una testimonianza di tutto ciò che sia diario, introspezione, rivelazione per tutti noi che la leggiamo.
Stefano Adami, "Confuso con l'ombra"
Confuso con l'ombra
Stefano Adami
La Lepre, 2010
Confuso con l'ombra è un metaromanzo breve, ispirato palesemente a Calvino, di cui lo scrittore è un grande conoscitore. Dire di cosa parla sarebbe impossibile. Stefano Adami ci ha messo un mondo, il suo mondo e forse il mondo di tutti noi che apparteniamo alle generazioni X e Y. Il protagonista, che mi ha ricordato tanto quello delle Memorie del Sottosuolo, è arrabbiato, smarrito e anche parecchio sfigato. A differenza di quello però è dotato di una grande autoironia: lo dimostra la definizione che riserva alle biblioteche, lui che è un amante dei libri: "parola in fondo anche nell'opinione di autorevoli linguisti di non difficile pronunzia, che indica un'istituzione pressapoco inutile (ma egualmente mangiasoldi), atta a caritatevolmente raccogliere dalla strada tutti quelli che non hanno un lavoro, non hanno una donna, non hanno un affetto, non hanno una qualsiasi cosa da fare, non hanno, un diecimila lire per il biliardo e il cappuccino, e magari non hanno neppure una casa, e a dargli un tetto per tutto il giorno, un cantuccio caldo dove scaldarsi, ed eventualmente la possibilità di incamerare conoscenza, di toccare e usare in vari modi libri e quotidiani". La storia sarebbe assai difficile da raccontare, tantomeno da riassumere. Ogni capitolo è un capitolo primo, chissà, forse per darsi una possibilità di ricominciare ad ogni pagina con una nuova idea. Il protagonista è un disadattato bibliomane, colto ma spiantato, preso a ceffoni da tutti con grande goduria con ogni scusa possibile, coinvolto dapprima in una rapina in banca per amore di una donna (che per tutta risposta lo schiaffeggia sdegnosamente e poi scappa con la refurtiva) poi in un complotto per eliminare tutti gli scrittori di qualsiasi valore per pubblicare esordienti mediocri. Inseguito, picchiato, minacciato, gli verrà estorto il suo manoscritto ma essendo scritto troppo bene, verrà incarcerato da questa fantomatica polizia editoriale. Tutta l'opera è una mega citazione contenente microcitazioni di titoli letterari, canzoni, calembour, nomi storpiati, storia contemporanea italiana. Il mondo di un cinquantenne medio italiano fatto delle disillusioni, dell'astio verso la democrazia cristiana, il nepotismo, gli attacchi alla cultura, le situazioni kafkiane legate alla burocrazia. E allo stesso tempo l'amore salvifico per la letteratura, l'autoironia come scudo indistruttibile, l'amore per le donne, forse non sempre ricambiato, ma percepite come creature a cui l'autore non sa resistere. In tutto questo va citata la lingua utilizzata, un italiano nitido, pulito, con qualche forma arcaica e qualche termine barocco, mai lezioso ma alternato con la dovuta leggerezza a rare parole triviali che rendono Confuso con l'ombra un agrodolce e divertente racconto sull'importanza di restare sempre leggeri.
Laura Pugno, "Sirene"
Sirene
Laura Pugno
Marsilio, 2022
Leggere un libro solo per finirlo è come andare a lavorare solo per i soldi: si ha la sensazione di avere perso tempo e che avremmo potuto fare qualcosa di meglio. Non so perché questa volta ho concesso a questo libro la lettura veloce della seconda metà invece di mollarlo prima. Una storia da cui già sarei dovuta stare lontana per il tema principale, la distopia climatica, argomento spinoso che quasi nessuno riesce mai a trattare in maniera convincente, con futuri mondi sempre poco plausibili, storie aggrovigliate, personaggi depressi. Invece mi ha attratto la presenza delle sirene descritte non come quelle di Andersen ma come quelle mitologiche, animali antropomorfi feroci, dotate di zanne con cui dilaniano le carni dei fuchi (ovvero i "Sireni") e che sull'essere umano esercitano un'attrazione morbosa. Nel mondo creato dalla Pugno la gente vive in un Underworld perché l'esposizione al sole fa ammalare di un cancro nero della pelle, contagioso e che conduce a morte rapidamente. In questo mondo ctonio dominato dalla Yakuza, una delle tante cose che nel romanzo restano inspiegate, le sirene, animali che si sono palesati dopo la pandemia, vengono o macellate, utilizzate per la riproduzione o sfruttate nei bordelli. Uno dei guardiani, Samuel, un ragazzo con un passato costellato di traumi, decide un giorno di avere un rapporto con una sirena mentre è in estro, non immaginando che questo sarà fecondo, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Il racconto ha uno spunto anche interessante ma a parte i personaggi che sono abbozzati, un pregresso che viene accennato, descrizioni da schizzo su carta, una trama non benissimo legata, tanto che ho avuto la netta sensazione che fosse materiale molto più adatto ad un albo a fumetti che ad un racconto lungo, il punto è che non mi ha lasciato nulla. Un messaggio, una metafora, un passaggio talmente scritto da volerlo sottolineare. Nulla. La sceneggiatura scritta male di un fumetto fantasy. Solo che disegnata ci passi una mezz'ora, così ce ne vogliono 4 e non vale la pena. Ci ripensi la Pugno. Per una storia così ci vedrei bene Corrado Roi a disegnare la parte più mostruosa delle sirene. Altrimenti non lo consiglio proprio.
Everything Everywhere All at once
Se questo film meritasse o meno gli Oscar, se è stata la vittoria del politicamente corretto, non lo so. So solo che chi me lo ha consigliato lo ha trovato deludente. Io l'ho trovato pazzesco in tutti i sensi. La trama non è riassumibile, è a suo modo un viaggio dell'eroe (eroina in questo caso) ma invece che svolgersi in orizzontale si svolge in verticale, ovvero tra i numerosi universi paralleli. Evelyn, una donna ormai apatica in una famiglia abbastanza sfigata, scopre che può accedere al Multiverso, saltando da un piano all'altro e assorbendo le capacità sviluppate in mondi paralleli: questo le servirà per salvare il Multiverso stesso da Jobu Tupaki, un mostro che lei stessa ha creato nel Mondo in cui era una scienziata, facendola saltare talmente tanto da averla frammentata e averla resa ubiquitaria. Jobu nella sua follia vuole che tutto venga divorato dal caos ed Evelyn è la prescelta per un motivo molto semplice: in questa Realtà ha fallito ogni singola cosa abbia fatto, dalla vita privata, al lavoro, agli hobby. Centoquaranta minuti di citazioni, combattimenti pirotecnici, scene assolutamente ridicole, nonsense che possono anche essere goduti semplicemente così, lasciandosi trasportare da un film che capisco possa sembrare girato da due che si sono presi una dose di allucinogeni scaduti. Se però si scende nei piani di lettura, si può trovare molto di più. La multipotenzialitá in ognuno di noi: non a caso per accedere ad un altro universo occorre fare "qualcosa di assurdo che non faresti mai" (lascio a voi scoprire i metodi esilaranti che i protagonisti hanno di volta in volta messo in atto) perché sperimentarci nelle novità può consentirci di accedere ad abilità che ignoravamo di avere. Le coincidenze e la serendipitá come veri e propri stati di coscienza: in ogni universo Evelyn è circondata sempre dalle stesse persone ma con rapporti diversi. E anche dove decide di non fidanzarsi con il futuro marito, lo ritrova comunque. Perché come diceva Rumi "ciò che cerchi ti sta cercando" e a questo non si sfugge. La Gentilezza come stile di combattimento. Si può essere campionesse di Kung fu e abbattere tutti con la forza dei mignoli ma la sua Maestra le ricorda che tutto è Kung fu, anche un biscotto: se offerto alla persona giusta si possono ottenere lo stesso i risultati. L'Amore come unica Forza universale che può opporsi al Caso, ristabilire i rapporti, impedire la devastazione. La Leggerezza come modo di vivere: senza preoccuparsi troppo, cercando sempre il lato buono, ridendo durante un combattimento che si trasforma in una enorme seduta di psicoterapia di gruppo. La vita è caos, vero. Ma non saremo noi con i nostri sforzi a darle un senso. Godersi una baracconata simile rischia di farci avere la vera illuminazione.
Departures
Departures
Giappone, 2008
Il destino spesso fa giri enormi, con tragitti improbabili e parecchi scossoni. E quello di Daigo, violoncellista disoccupato da un giorno all'altro, è uno di questi. Sentendosi perduto e fallito decide di tornare al paesello natale con la moglie e ricominciare. Peccato che l'unica opportunità che gli si presenta sia quella di "tanatoesteta", ovvero colui che cura e trucca i corpi dei defunti prima dell'ultima partenza, come dice il titolo. Nonostante tutte le famiglie in lutto lo chiamino per i suoi servigi, lo stigma presso i conoscenti e i parenti del morto è enorme, tanto che entrerà in crisi anche il suo matrimonio. Ma Daigo svolge il suo lavoro con una amorevolezza e una grazia impermeabile a qualunque giudizio, perché, nonostante la ritrosia iniziale, ha scoperto lo scopo della sua vita: accompagnare le spoglie mortali con dolcezza alla cremazione. Nei suoi servizi funebri incontra il dolore dei parenti rimasti ma anche la rabbia, la gratitudine, la leggerezza, l'amore che va oltre la morte. E la sua vicenda personale sarà un percorso di autoanalisi e consapevolezza (non a caso lo sceneggiatore ha scelto un artista per questa storia, sono le persone più a contatto col proprio sé) che lo condurrà, ma solo quando sarà pronto, a risolvere il più grande conflitto della sua vita, che si trascina come un pesante fardello da bambino: l'abbandono da parte del padre. Smarrito nel mondo per questo rapporto di rabbia inespressa verso il genitore, scopre, sotto diverse declinazioni, che la morte è solo un cancello, e che ogni genitore non lascia mai indietro nessun figlio. Come gli dice il suo datore di lavoro "Tutti alla fine vogliamo tornare da dove veniamo". E non credo si riferisse alla località geografica. Ci torneremo, e a fare la differenza sarà il sassolino che terremo nel pugno al momento dell'ultimo respiro.
Jøn Mirko, "Savant"
Savant
Jøn Mirko
Lupieditore, 2018
È un giallo ma senza la logica deduttiva, ci sono poliziotti ma non è un procedurale, alcune scene sono talmente splatter da fare trattenere il fiato ma non è un libro dell'orrore, si parla di angeli, Cabala e Tarot ma non è un libro sul soprannaturale, è ambientato negli USA e il nome dell'autore pare nordeuropeo ma nasconde due italianissimi autori. Quello che resta è Savant, un romanzo ibrido, americaneggiante ma non spaccone, una giostra di morti, torture, mostri con un atipico assassino seriale che oltre alla scia di cadaveri ne lascia una di indizi e un poliziotto abile ma condannato a morte dalle prime pagine che intuisce che dietro quella sequela di morti degne di un film slasher vi è un'unica mano. Occorre una buona dose di sospensione dell'incredulità (anche se tutte le teorie enumerate nel romanzo hanno solide basi scientifiche), un divano e possibilmente un pomeriggio piovoso perché sono più di 500 pagine e la storia è di quelle che ti fa attaccare le dita alle pagine per girarle in maniera febbrile. Un poliziotto di NY apprende di avere una malattia che lo ucciderà in pochi mesi. Si lancia nella sua ultima indagine, un cavallo fatto a pezzi, rimontato e lasciato marcire in una suite d'albergo. Unico indizio: l'assassino ha una mutilazione fisica particolare. Un'intuizione lo porterà nel cuore del Texas dove anni prima un'epidemia ha fatto impazzire uomini e animali provocando una strage che è rimasta sotto silenzio. Da lì, passo dopo passo, giungeranno a scoprire la mente perversa che ha creato tutto ciò. Molto pirotecnico, situazioni al limite del credibile, la suspense è creata con sapienza, finale apertissimo e ammiccante. Forse si poteva togliere un centinaio di pagine ma è veramente un romanzo godibilissimo, senza pretese ma che riesce nel suo scopo principale: divertire.
Decision to leave
Questa immagine credo rappresenti al meglio la storia d'amore tra i due protagonisti: sensuale, ironica, misteriosa, asincrona. Lui è un poliziotto coreano, lei è la moglie del morto su cui lui indaga. Lui è sposato a una scienziata, una donna ipercontrollante e razionale che vede solo nei fine settimana e gli chiede di fare del sesso meccanico solo perché fa bene alla salute, mentre gli impedisce di mangiare sushi e fumare. Lei è una giovane badante cinese che parla un coreano un po' demodé, imparato dai drammi d'amore che guarda in TV. Lui è insonne ma impara a dormire meravigliosamente quando fa gli appostamenti per spiarla, perchè è rimasto folgorato da lei appena l'ha vista, e pazienza se è sospettata. Il sentimento di lui si trasforma in ossessione. Il suo acume di detective si annienterà di fronte al tocco delle mani ruvide di lei, sarà capace di scalare una montagna durante una nevicata per avere da lei l'unico bacio, un abbraccio gli costerà la deontologia di poliziotto. La trama, come già in Oldboy, è decostruita temporalmente, per cui la storia procede, torna indietro per mostrare scene da un diverso punto di vista, apparentemente si interrompe o fa salti temporali, ma tutto ha un senso che si inserisce nel rigoroso filo logico della storia, per cui nessuno fa spiegoni riassuntivi, sta allo spettatore ricordare e mettere insieme i pezzi. Poetiche le scene in cui lui immagina di dormirle accanto, nel divano in cui lei mangia sensualmente il gelato col cucchiaino, mentre la osserva per lavoro. Il sonno ristoratore come conseguenza dell'amore vero, anche senza sesso consumato prima. Lei che quando vuole comunicare concetti profondi, vuole connettersi davvero al suo cuore, preferisce parlare il cinese e usare il traduttore automatico, perché mai siamo davvero noi stessi se non quando usiamo una lingua che non sia quella madre. Terribilmente ridicola e vera la scena in cui lui scambia il suo dramma d'amore con un pregiudicato che ha il suo stesso problema di cuore, dopo un inseguimento e prima che questo si getti da un tetto. Un Amour fou asincrono come l'intera storia, prima per lui e poi per lei, un sentimento totalizzante, viscerale che finirà per annientarli entrambi in modi e tempi diversi. E che dice molto su cosa ancora oggi, nonostante l'emancipazione, faccia colpo sui sessi: sugli uomini la donna ambigua, vittima e crudele allo stesso tempo, su noi donne l'uomo che rinuncia a tutto per noi, a costo di perderlo. Il finale non è lieto ed è molto melodrammatico: ovviamente sul mare, perché come diceva Confucio "alle persone sagge piace il mare, alle persone benevole la montagna" e lei, la femme fatale di questo film, non era certo benevola. Regia davvero strepitosa.