C'era una volta la Romagna: "la primavera"
L’arrivo della primavera è sempre stato un momento importante nell’attività contadina. Quando ero piccola, la notte del 28 febbraio era il giorno del Lòm a Merz (il lume a Marzo) in cui la fine dell’inverno portava danze e balli. Per l’uomo, e soprattutto per l'agricoltore, la primavera è da sempre vista come un momento propiziatorio, in questo contesto il fuoco costituiva il dialogo con le forze vitali e creative della natura, forze che, dopo i rigori dell'inverno, tornavano prorompenti riportando alla vita le piante. All'imbrunire le campagne si riempivano di fuochi scoppiettanti che sembravano occhieggiarsi l'un l'altro a distanza, duravano ore ed ore, anche l’intera notte, mentre uomini, donne e bambini si radunavano attorno per scaldarsi, per propiziare l'arrivo di una buona stagione di raccolti e, mentre la malasorte ardeva tra le fiamme, cantavano e ballavano. Noi bambini spesso accendevamo un fuoco più piccolo, alla nostra portata, che consentisse di saltarlo in lungo e in largo, in una sorta di prova di coraggio, mentre recitavamo poesie dialettali “lom lom a Merz ogni spiga faga un berch...” Un canto augurale, così come ci aveva insegnato la nonna, nell’auspicio che da ogni spiga di grano si potesse alzare una bica intera.
La tradizione dei fuochi si fa risalire al tempo degli antichi romani, quando l’anno iniziava il primo di marzo e con il fuoco si festeggiava la fine dell’anno vecchio e l’avvento di quello nuovo, bruciando il tempo passato e purificando l’arrivo di quello imminente. L'origine di questa tradizione si perde dunque al tempo dei riti pagani, le funzioni che i nostri avi praticavano per onorare e invocare la protezione di Cerere e di Bacco, per noi sfociavano in feste di coinvolgente allegria al ritmo dell'organetto o dell'armonica a bocca.
I primi fiori a spuntare dopo l'inverno erano le violette, le primule, le giunchiglie che facevano l'occhiolino lungo i fossi o all'ombra degli alberi, e per noi bambini di campagna era un vanto poterne raccogliere un mazzolino da portare alla maestra che gradiva sempre il pensiero e, quando gliele porgevamo timidamente orgogliosi, vi affondava le narici e si inebriava di freschezza, sorridendo.
La natura era uno scoppio di colori, le temperature più miti, le giornate più lunghe, gli animali facevano capolino dalle tane e le farfalle ricominciavano a volare di fiore in fiore. Abbracciando con gli occhi l'aia e i terreni intorno era facile vedere piccoli pulcini uscire all'aperto, campi traboccanti di erba e uccellini volare. Il verde dei prati diventava improvvisamente brillante e in noi bambini cresceva la voglia di correre, saltare, ridere, sentivamo sulla pelle il brivido della vita che ricominciava. La maggiore attività fisica aumentava a dismisura il nostro appetito, così spesso mia cugina ed io andavamo alla ricerca di una merenda in più, un uovo raccolto dal nido, liscio, ancora tiepido fra le mani. Ci infilavamo di nascosto nel fienile, una gallina spaventata schizzava via dal suo nascondiglio, lasciando le uova appena deposte occhieggiare tra la paglia. Succhiavamo ingorde il nostro tuorlo, direttamente facendo un piccolo foro sul guscio e, guardandoci negli occhi ridenti, complici, alzavamo il braccio in un brindisi. Le case di città, come cubi di cemento, le auto che ci portano ovunque, ci hanno chiuso in trappola e succede che la primavera passi senza che ne accorgiamo.
Quello di cui ho maggiore nostalgia, pensando alle mie primavere in campagna, è quando vedevo tornare le rondini. Le code a punta, il petto bianco, laboriose, riparavano i nidi fatti di paglia e mota, abbandonati l'autunno precedente, volavano basse garrendo e formavano splendidi cerchi nell'aria, mettendo allegria.
Per i romani le rondini erano una manifestazioni dei Lari, le divinità protettrici della case degli uomini: infatti costruiscono il nido proprio sotto i nostri tetti e vivono vicino a noi. Per il nonno significava l'inizio dei lavori nei campi, dopo l'ozio invernale, la stagione buona stava cominciando. Le rondini fanno parte della nostra vita, “sono sante e benedette” diceva la nonna. Delicate, pazienti e così come loro ci insegnava ad essere nella vita .
Ero così affascinata da questo piccolo e speciale uccello che quando a scuola la maestra ci diede da studiare a memoria la poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, mi veniva il groppo in gola e non riuscivo a recitarla
”Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini...”
mi fermavo a questo punto con le lacrime agli occhi.
I mesi trascorrevano allo scandire dei raccolti, dell'intenso lavoro dei campi che si snodavano perenni al ritmo delle stagioni. Nascevano nuovi animali a popolare non solo le stalle ma anche il cortile, le verdure da piantare nell'orto, i campi di trifoglio e la fienagione, molto importante per chi allevava bestiame e per la nonna anche le rose del giardino erano colture altrettanto importanti e andavano curate, perché, quando arrivava maggio, il mese della Madonna, lei voleva averne grossi mazzi da offrire in processione.
Noi bambini invece tenevamo sempre sotto controllo l'albero delle ciliege, era quello che ci premeva di più, appena vedevamo rosseggiare i dolci frutti fra le foglie facevamo a gara ad arrampicarci sull'albero per raccoglierli, per appenderli alle orecchie come orecchini di rubino e per farne grosse scorpacciate. Agili, scattanti, la gara era aperta fra noi e i fringuelli: una guerra all'ultima ciliegia. Poi, col tempo, arrivavano i fichi e le albicocche, tutte delizie preziose e ricche di importanti vitamine per la nostra crescita.
Giunta l'estate, la sera i campi di grano si popolavano di luci intermittenti, piccole lucciole che erano la gioia dei bambini. Spesso prima di andare a dormire correvamo fuori per riempirne un vasetto e usarle come luce di compagnia sul comodino. Le lucine si accendevano e si spegnevano a intermittenza e gli occhi stanchi si chiudevano guardando dentro il vetro incantati dal ritmo, sempre più debole, di piccole stelle che si spegnevano. La prima volta che ho visto una stella cadente è stato un'estate quando ancora non attribuivo significati di reconditi desideri a tale spettacolo. La notte era calata e si stava rientrando con l'ultimo carro di fieno. Il cielo si era acceso, puntellato di stelle, era terso, luminoso, io e mia cugina sul carro, sdraiate sulla montagna di erba odorante, guardavamo in alto assorte in pensieri più grandi di noi, perse in sensazioni che soltanto la meraviglia della natura può ispirare. Pancia all'aria, solleticata dai gambi e dalle foglie dell'erba medica, dondolata dal ballonzolio del carro traballante, ascoltavo, assonnata, il cri cri dei grilli che saliva dai campi e pareva musica assordante nel silenzio della campagna. All'improvviso una lunga scia luminosa, brillante nuvola di fuoco, si distese nel cielo, una luce incandescente nel buio. Una briciola di polvere e roccia staccatasi da un meteorite, a scuola lo aveva spiegato la maestra, ma vederla davvero lasciava senza fiato, una stella cadente e gli occhi si illuminarono, mentre stringevo la mano di mia cugina che guardava a bocca aperta. Fu un breve momento, trattenni il respiro provai ad ascoltare, ma non faceva rumore, provai a odorare e non sentii nessun profumo, eppure è tuttora uno spettacolo indimenticabile che mi riempie occhi, naso e gola ogni volta che ci penso, mentre il brivido di un attimo mi percorre la pelle.
LA STRELA CADAINTA
Am son svulté l’eltra not in un pré.....
Dio cum a sira cuntainta
A un semil spetacual a n’ira mega preparé:
a i ò vest una strèla cadainta!
Ad totti ca li èter l’ira la piò bela
Comm una cumatta, con la co iluminé
La sluseva, la fruleva, l’ira la mì strèla
E a l’impruvis l’è vgnù vers ed mé……
La m'à illuminé
La m’à abrazé.....
Mama t’i tè?
Finalmaint t’è dezis ed turner que da me!
LA STELLA CADENTE (traduzione)
Mi sono sdraiata l’altra notte in un prato
Dio come ero contenta
A un simile spettacolo non ero preparata:
ho visto una stella cadente!
Di tutte le altre era la più bella
Come una cometa, con la coda illuminata
Luccicava, si muoveva, era la mia stella
E all’improvviso è venuta verso di me….
Mi ha illuminato
mi ha abbracciato
Mamma sei tu?
Finalmente hai deciso di tornare quaggiù.