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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Signora dei filtri ... o dei fili: emozioni e riflessioni: parte seconda

31 Dicembre 2017 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

La storia d’amore fra Medea e Giasone occupa molte pagine del romanzo. Nelle Argonautiche - nel terzo libro dove si parla di Medea - Apollonio Rodio dice che è stata la dea Afrodite a farla innamorare di Giasone. Nella Signora dei filtri non c’è alcun incantesimo se non quello dell’amore stesso, della “carne e del sangue, della passione e di un sentire forte”, come dice Patrizia nella nota introduttiva.

Il Capitolo 16, in particolare, racconta la nascita del rapporto fra Medea e Giasone – o forse sarebbe meglio dire di Medea con Giasone perché è soprattutto lei a essere profondamente scossa da questo incontro.

Medea ama Giasone. Tutto ciò che viene da Giasone è bello per lei (“Medeià. Il suo nome storpiato dalle belle labbra di Giasone suonava come la promessa di una nuova vita”). Si innamora di lui senza rendersene conto. È un amore da adolescente, pieno di turbamenti, di rivelazioni che sconcertano.

Da subito appaiono i loro diversi colori (del corpo e dell’anima): lo scuro di lei, il chiaro di lui.

Lo scuro è il tratto distintivo di Medea (Orfeo la descrive come “una giovane donna vestita di scuro”) come il chiaro lo è di Giasone (dice sempre Orfeo: “Se Dio è uguale a noi, è così che lo immagino, con quei riccioli dorati simili a grappoli d’uva danzanti sulle guance). L’emozione chiara di lui per quella ragazza che “nasconde il viso dietro i capelli” e ha “l’odore dell’erba appena tagliata e radici nascoste nel terreno”, ma anche il suo scuro turbamento nel sentirsi “leggere dentro”, nel trovarsi scoperto; l’emozione chiara di lei quando scopre di non amare più la solitudine, ma anche il turbamento nel riconoscersi fragile, indifesa, esposta.

Medea senza Giasone si sente “sola” e “vuota”, anche se la solitudine è ormai diventata un bisogno. Giasone è il suo lato luminoso: “Tu vedi solo il lato oscuro” le aveva detto la sorella Calciope, ma lei, da quando ha conosciuto Giasone, “desiderava anche la forza della luce”. E per Medea Giasone incarna questa luce, l’aspetto limpido della vita: “Gli occhi di lui avevano il colore dell’acqua del fiume quando i sedimenti si depositano e rimane solo un’azzurra, limpida trasparenza in superficie”.

Ma insieme alla luce e ai colori, da subito compaiono anche i demoni: “l’ambizione e l’avidità” di lui e – soprattutto - la passionalità di lei che tutto è disposta a fare purché la “felicità non svapori”. Nel cuore della figlia di Eeta il tenero e commosso amore da adolescenti coesiste col progetto adulto di rubare l’oro del padre, col duro e lucido desiderio di vendetta (“Voi siete la mia vendetta”) che non l’abbandona mai e che – come Morgar temeva – la porterà alla rovina.

Il Capitolo 16 termina con due immagini che evidenziano queste opposte anime di Medea: la “signora dei filtri” che prepara il sonnifero per le guardie spremendo il veleno da una vipera e la “fanciulla” che vuol farsi bella per il suo amore.

Dopo la morte di Absirto, Medea diventerà “triste e tenebrosa…. Giasone pensa che “ha dentro qualcosa di grande, di pauroso e potente”; Orfeo dice che  “gli mette i brividi addosso”. Il lato oscuro di lei prenderà sempre più forza, fino a oscurarla completamente

Mi piace questo capitolo perché descrive in modo esemplare il nascere di un grande amore in una grande donna che non conosce l’amore perché non ne ha ricevuto – e quindi ne è spaventata - ma che ne riconosce subito l’intensità e la potenza - la “trasformazione” che sta operando in lei - e si abbandona a questa esperienza in modo totale, com’è la sua natura. Sono pagine bellissime che raccontano i turbamenti, le contraddizioni, l’intensità di tutti gli amori di tutti i tempi.

Oltre a Medea, il romanzo ospita altri grandiosi personaggi – o meglio: altre persone  - su cui desidero soffermarmi un momento. La storia della Signora dei filtri si intreccia alle loro storie e ne riceve forza e significato. Inizierò con quelle di due “donne” magnifiche: Morgar e la nave Argo.

Morgar è la vera madre di Medea.

È lei che Medea vuol imitare, la donna a cui vuol somigliare: quando Morgar evoca la dea della luce e si spoglia per compiere il rito, Medea la guarda affascinata (“cercò di copiare ogni suo gesto”).

Non è una donna armoniosa e proporzionata: il corpo è “solido ma esile”,  la bocca è “grande e ben fatta” ma non sorride spesso (non è compiacente), i capelli sono “arruffati e schiariti dal sole”, i piedi “callosi”, il seno “pesante”. Ma è lei ad avere la bellezza vera, quella che anche Medea vuole per sé. Morgar è una donna che accetta il suo corpo com’è, non si trucca (in senso proprio e figurato! ) come la madre di Medea: la sua bellezza viene da ciò che lei è e non da ciò che le chiedono un uomo o la consuetudine.

È una madre amorosa, che comprende la solitudine di Medeae se ne prende cura: “… la piccola era la figlia del re, la discendente del Sole, ma era anche una bambina triste che soffriva per mancanza d’amore. Lei non era stata capace di negarglielo quell’amore”.

È una madre che conosce bene la sua bambina, l’accetta nei suoi lati solari come in quelli oscuri, e vuole solo il suo bene: “Ma c’era troppa forza dentro quella bambina e troppa sensibilità. Non era un bene che una forza così grande fosse unita al rancore”. A Medea, perciò, vuole insegnare ad amare, a comprendere, come dovrebbe fare una vera madre: “Non voleva lasciarla sola prima di averle potuto insegnare a controllare il suo istinto. Prima di tutto, di averle spiegato come si fa ad amare”.

Morgar, però, muore troppo presto e non può fare altro che raccomandarle la compassione e affidarla al Drago, al misterioso Ossevatore.

Ma chi è Morgar, oltre che la madre spirituale di Medea? Che donna è?

La “sconosciuta dai capelli rossi”, “la straniera che abita sul fiume” è una donna che ha sofferto (ha perduto il suo uomo e il suo bambino) ma è riuscita a trovare l’equilibrio, a conservare la capacità di dare amore, di “insegnare (ed esercitare) la compassione”, come dice Calciope alla sorella Medea, che non riesce a fare altrettanto.

Morgar è capace di capire. Giustifica Eeta quando Medea  accusa il padre di essere un tiranno che tiene lontano il commercio e chiunque si avvicini a Iolco: “Tuo padre vuole evitare guerre e epidemie … ; e quando Medea l’avverte che il re diffida anche di lei, risponde: “Ha paura, cara, e la paura nasce sempre dall’ignoranza”.

Morgar aiuta anche chi non la accoglie e chi ha comportamenti che lei non approva (aiuta  la madre di Medea a partorire, le procura erbe per mantenere la bellezza e per avere un nuovo figlio, e sarà questo che la porterà alla morte).

Morgar ha conosciuto l’amore – vero e ricambiato – del suo uomo (Anteo, che pratica la tauromachia e viene ucciso dal toro). Quest’uomo la chiama Cerinea - “cerbiatta” - (“È
un nome che non ti si addice
” afferma Medea) ) perché la vede con gli occhi del cuore (“Mi vedeva con affetto”), sa leggere in lei la dolcezza e la tenerezza. Il loro amore ha generato un bambino simile al padre, nato prematuro e subito morto. Per sfuggire al ricordo troppo vivo e presente di quelle perdite, Morgar ha lasciato la sua patria ed è venuta a Iolco, quando Eeta ancora non aveva chiuso le frontiere. Morgar subisce la perdita del figlio, Medea sceglierà lucidamente di perdere i suoi..

La nave Argo è un’altra grande figura femminile.

Medea vuol conoscere il mondo, viaggiare, vorrebbe essere un Argonauta. La prima volta che vede la nave Argo cerca “di immaginare cosa si provasse a navigare, col vento in faccia, sopra una nave come quella, spinta dalla forza di uomini liberi”.

Gli Argonauti non amano Medea e lei ricambia questa ostilità. Invece ama (riamata) la nave Argo, che le somiglia: è una donna forte, potente e magica come lei: “Era entrata in sintonia con la nave fin dall’inizio … Ne percepiva la forza, l’anima immortale”. Per Orfeo invece Argo è nauseabonda: odora di “salamoia, di escrementi, di cibo mal cucinato”. Ma Orfeo non è carne e sangue come Medea (e come Argo).

La nave Argo è un personaggio magnifico, una persona, splendida donna.

Giasone la vede così: “Contemplò Argo. La grande nave sembrava respirare nella brezza, cullata da onde dolci e leggere. Era una creatura viva, fatta di fasciame solido ed elastico, di corde robuste e lunghi remi potenti. Aveva in sé qualcosa di forte e vitale, come se fosse posseduta da una divinità”; dice di lei Orfeo: “Argo è femmina, come la dea che, dicono, si nasconde nella sua prua;  e Medea quando il Drago le fa percepire la sua presenza, subito pensa: “La nave pareva una creatura viva.”

È un’altra donna (come Morgar, Medea, Ipsipile) piena di passioni (“freme”), una donna-eroe che vuol conoscere il mondo.

Così la descrive lei Orfeo nel suo diario quando gli Argonauti sono fermi a Lemno: “Argo freme, è destinata a grandi imprese, vuole riprendere il largo … dondola smaniosa, con le stive gonfie di è olio e di vino”. È come una donna incinta, piena di provviste e di doni: l’aggettivo “gonfio” e “pesante” è usato proprio per descrivere le donna che aspettano figli - Ipsipile e Medea - i loro seni colmi di donne forti e piene di desideri.

Ed è forse l’unica “donna” che Giasone ama davvero.

Orfeo scrive - dopo la partenza da Lemno e dopo aver superato “tempeste difficili perfino da raccontare” - che “Argo le ha attraversate indenne e Giasone la ama ogni giorno di più”. A Giasone il cuore “sanguina” al pensiero di abbandonarla quando deve fuggire da Iolco: “ Tornò col pensiero al giorno della partenza degli Argonauti. Quanto tempo era trascorso da allora? Sembrava una vita intera. Ricordò Argo, magnifica nella luce abbagliante del mattino. Il suo cuore sanguinava al pensiero che non l’avrebbe più rivista”. Giasone non prova niente di simile nel separarsi da Ipsipile che pure è incinta di lui (“Argo mi aspetta”. Mi dispiace Ipsipile.”); e nelle ultime pagine del libro, quando, dopo aver perduto anche il padre Chirone, ormai solo, cerca la pace sul monte Pelio in compagnia di Orfeo, l’unico legame col passato che gli sia rimasto, dice: “… vedo Argo, la mia meravigliosa Argo, più dolce di un’amante, le sue possenti fiancate, le sue ali di remi …”. Anche Medea rimane per sempre nei suoi pensieri (“Medea di Colchide non si dimentica”), però Argo dà solo gioia e bellezza, senza dolore e senza strazio.

Giasone, insieme a Orfeo e agli Argonauti, è il personaggio maschile più significativo del romanzo.

È un giovane eroe bellissimo, che fa innamorare la primo sguardo: “È l’uomo più bello del mondo. Se non è un dio, allora chi è … mi sono innamorata’” dice di lui la cugina Anfimone quando lo vede la prima volta.

Per Ipsipile, la regina di Lemno, Giasone è “perfetto”. E Orfeo :“Se Dio è uguale a noi, è così che lo immagino, con quei riccioli dorati simili a grappoli d’uva danzanti sulle guance”.

Come Medea ha capelli molto particolari (anche se di colore opposto) ed è diverso dagli altri. Ecco come lo vede Pelia quando per la prima volta si presenta a lui:“ Lo sguardo gli cadde su una testa di capelli biondi. I ricci, densi e aggrovigliati, gli scendevano sul petto coperto da una pelle di animale. Stringeva nel pugno due lance e non aveva il capo chinato come gli altri”.

Giasone, che ha perduto il padre da bambino, viene allevato ed educato da Chirone, un uomo con il viso e le gambe di cavallo, un mostro nato dalla violenza subita dalla madre quando era una ragazzina che raccoglieva corbezzole nel bosco (“Erano in tre e puzzavano di cavallo, nitrivano come cavalli”). Chirone – come Morgar - è una creatura strana e diversa e - come Morgar – vuole il bene del bambino di cui si occupa, gli insegna valori autentici (“Il dovere di un  uomo è aiutare i suoi simili”), desidera che abbia il meglio, anche se Giasone ne farebbe a meno volentieri: “Padre, voglio restare qui, voglio diventare un cacciatore esperto come te”… “C’è un intero mondo che ti aspetta là fuori, Giasone”.

Giasone, però, - come Medea – non fa suoi tutti gli insegnamenti del maestro.

Medea gli dice che nel suo cuore albergano “ambizione” e “avidità” e lui non nega, si sente scoperto. Mentre sono in fuga da Ioclo, Orfeo esprime all’amico i suoi timori di avere presto “tutta la Colchide alla calcagna” e Giasone risponde:“ La figlia del re ci sarà utile”. Non dice “la mia amata Medea ci salverà”; e Medea, che l’ha sentito non vista “ abbassò la testa umiliata”.

Quello che Giasone vuole è un figlio che custodisca la sua tomba: anche i figli sono qualcosa che serve a lui, alla sua ambizione, a perpetuare se stesso. Giasone – come lui stesso confida a Orfeo – non crede nell’aldilà: l’immortalità è data dai figli perché a loro si trasmette il potere conquistato in vita. È questo a guidare Giasone: il figlio che aspetta da Ipsipile non è il suo bambino ma “ il figlio della reggente”, che sarà “re di Lemno”, un trofeo da portare con sé per farne l’erede (“un giorno mi raggiungerà a Iolcomi piacerebbe veder crescere il figlio della reggente per portarlo con me, un giorno”)

Questo bellissimo e giovane eroe non è poi un grande uomo.

Pelia fa leva sulla sua fragilità, sulle sue insicurezze: Giasone va nella Colchide per riscattarsi dall’essere stato allevato, e quindi in un certo qual modo dall’essere figlio, di un diverso, di un uomo/cavallo, di un mostro (“Vuoi che ti chiamino Re Cavallo? Vuoi che un intero popolo rida di te?”).

Confessa di “non sapere cosa vuole” e l’impresa a cui Pelia lo costringe  gli permette anche di “prendere tempo”,  di “rimandare tutte le decisioni”: “Ho bisogno di tempo” è una sua frase ricorrente.  Per molto non sa neppure se ama o no Medea: al padre Chirone dice che non lo sa, sa solo che le è entrata nel sangue. Si accorge di amarla solo dopo che lei è riuscita a far uccidere Pelia: toccare con mano la potenza – sconvolgente, distruttiva, inarrestabile - dell’amore gli fa capire che “Medea faceva parte di lui, nel bene e nel male

Giasone è sempre controllato, moderato, non perde mai il governo di sé. Dice di lui Orfeo : “Ha ereditato la saggezza di Chirone, suo padre adottivo” e sa controllare sentimenti e passioni in vista di un fine. La “saggezza” di cui parla  Orfeo si può forse intendere come la capacità di mantenere la giusta distanza emotiva dalle vicende, di tenere sotto controllo gli impulsi. Com’è diverso quest’uomo dalla Signora dei filtri che tanto lo ama!

Ed eccoci a  Orfeo, il ragazzo gentile che nel suo diario racconta l’impresa degli Argnonauti.

È da subito l’amico vero di Giasone. Si incontrano per la prima volta alla scuola del maestro Saturnio dopo che i compagni di studi hanno preso in giro Giasone chiamandolo figlio del cavallo: “Giasone si accoccolò, stringendo al petto la sua tavoletta. Rimase stordito e sudato a fissare il vuoto, desiderando con tutto il cuore di essere sull’altopiano, insieme a suo padre, a seguire le orme dei cervi e a fare il bagno nell’acqua fredda del ruscello. Ovunque ma non lì. Poi una piccola mano si insinuò nella sua “Non fare caso a loro, sono stupidi”. Si voltò di scatto, trasalendo. Un ragazzino basso, con i capelli ricci e gli occhi penetranti e tranquilli gli stava sorridendo … “

Orfeo rappresenta l’equilibrio, per questo teme Medea. Ha la capacità di accettare con serenità la vita in tutti i suoi aspetti, anche violenti – come il sacrificio del toro -  o drammatici - come la morte della amata Euridice.

Orfeo è accogliente: si apre alla vita, la accetta, ne riconosce il valore e il significato, aldilà delle contraddizioni con cui si manifesta e delle ferite che infligge, perciò sceglie di legarsi ad Atalanta. Afferma: “Non è Euridice ma è la mia donna. Sono rassegnato e contento insieme”. E quando Giasone, dopo che Ila, violentato da Ercole, si è suicidato, gli dice “Credo che a modo suo Ercole volesse bene a Ila”, Orfeo risponde “ Sì, lo credo anch’io. Non scegliamo chi amare, né come si esprimerà il nostro amore. L’amore è sempre una responsabilità”.

Gli Argonauti di cui Orfeo ci parla non sono eroi perfetti, eroi dell’epica classica.

La partenza della nave Argo è una partenza moderna, non è eroica: fa venire in mente quella dei marinai di Colombo nel film La conquista del paradiso. Gli affetti familiari predominano: anche Giasone è un figlio che lascia il padre, che ha paura dell’ignoto e che ha bisogno di conforto (in quell’occasione chiama per la prima volta madre Alcimede, che lo ha fatto allevare dal centauro invece di tenerlo con sé).

E anche se Orfeo nella prima pagina del suo diario scrive “Siamo in cinquanta e siamo chiamati Argonauti… tutti uomini nel fiore degli anni, tutti campioni”, Giasone, che ha uno sguardo meno sognante di quello dell’amico poeta, li vede così: “Ordinò  di smettere di remare e ottenne in cambio un grugnito di sollievo … Lunghi sorsi voraci … uomini muscolosi cotti dal sole, induriti dal salmastro … mandavano giù senza protestare il vino diluito, si accontentavano  …”.

Anche i più importanti, che Orfeo nomina, sono descritti come persone molto normali: Castore e Polluce che “siedono affiancati … intenti a giocare con noccioli che tirano in aria e riafferrano al volo”; Atalanta che affila con pazienza la lancia scheggiata nel’impatto col cinghiale che ha ucciso l’indovino; Meleagro che beve un po’ di vino …

Neppure la loro fine è eroica: muoiono per atti di violenza (Ilia); uccisi da animali selvaggi (l’indovino Idmone) o dalla malattia (Tifi).  Non esiste neppure il mitico vello d’oro: il tesoro di Eeta è costituito da “cumuli di pepite grosse come uova poggiate su consunti velli di pecora”. Un’altra immagine visuale nitida, incisiva, memorabile: ributtante e inquietante (l’espressione grosse come uova fa pensare ad animali preistorici e mostruosi che potrebbero nascere da un momento all’altro) ma anche triste (consunti velli).

Insomma: solo la nave Argo è l’autentico eroe dell’impresa, come Medea è l’unico eroe (una donna-eroe!) di questa drammatica e stupenda storia.

 

 

 

 
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DIETRO IL NUOVO LOOK PIU' SEXY DI ELEONORA DANIELE C'E' LO ZAMPINO DELLA STILISTA PRATESE CINZIA DIDDI

30 Dicembre 2017 , Scritto da Daniela Lombardi Con tag #moda, #televisione

 

 

 

Finalmente! Eleonora Daniele osa un look che mette in risalto la sua sensualità. Nelle interviste prima del debutto di Sabato Italiano, il nuovo programma del sabato pomeriggio, aveva promesso che l’avremmo vista in vesti diverse e infatti è così non solo per i temi trattati, ma anche per gli abiti, infatti, Eleonora sfoggia anche un nuovo look: tubino sotto il ginocchio,  sexy, aderente. Tacco 12 come da copione.  Un grande classico che non delude mai.  Un look che lascia senza fiato. Eleonora Daniele oltre a essere una brava conduttrice è anche una bellissima donna. Finalmente ha tirato fuori quel lato sensuale che troppo spesso tende a nascondere

Di  mattino osa solo Federica Panicucci, al pomeriggio lo fa la D’Urso e al sabato finalmente anche Eleonora Daniele.

Dietro a questa trasformazione  c’è la mano sapiente di una giovane stilista pratese, Cinzia Diddi, che con pazienza e tante prove è riuscita  a trovare la giusta  formula per fare accettare alla bella presentatrice questa immagine decisamente più sexy e femminile.

 

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Nasce l'App gratuita e senza sponsor "GUIDA AI MIGLIORI COCKTAIL BAR D'ITALIA"

29 Dicembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #eventi

 

 

 

 

 

 

Nasce la nuova app gratuita "Guida ai migliori cocktail bar d’Italia", selezionati dalla rivista specializzata BlueBlazer, scaricabile al link www.blueblazer.it/app 

 

L'app non ha scopo di lucro, è gratuita e priva di sponsor, a garanzia della massima autonomia di azione e della fiducia dei suoi utenti, è un contenitore virtuale, scaricabile sulle piattaforme iOS e Android, contenente gli indirizzi, le informazioni e tutte le news sui migliori cocktail bar d’Italia. Gli oltre 160 bar della Guida sono frutto di una attenta selezione di Giampiero Francesca e Massimo Gaetano Macrì, supportati da un panel di cento esperti che hanno pre-selezionato una lunga lista di locali. Per il secondo anno consecutivo sono infatti presenti nella Guida tutte le regioni italiane, con un’attenzione sempre maggiore alle realtà di provincia, tanto interessanti quanto, spesso, difficili da scoprire. Trovano così spazio, accanto alle grandi città come Roma, Milano e Firenze, realtà con poche centinaia di abitanti, come Acquapendente, in provincia di Viterbo, o Mirano, non lontana da Venezia.

I criteri seguiti per selezionare i bar si basano sull’ospitalità, oltre che sulla qualità del servizio e del cocktail. “Non scegliamo mai un locale perché fa bene da bere – sottolinea Giampiero Francesca, direttore di BlueBlazer e ideatore della Guida - non è quello che ci interessa in primis. Consideriamo soprattutto l’alto grado di accoglienza, ormai sempre più rara, che si traduce nella capacità di far star bene il cliente, consentendogli di vivere un’esperienza completa. Poi, ovviamente, viene anche il cocktail”.

 

Una volta installata l'app dal link www.blueblazer.it/app, è sufficiente aprirla dal proprio smartphone per consultarla. La navigazione del menù è semplice e intuitiva: si può decidere di geolocalizzarsi e selezionare i locali che appariranno sulla cartina, oppure filtrare per le quattro categorie (cocktail bar, bistrot – restaurant, hotel bar e speakeasy). In ogni caso, ‘cliccando’ su un locale, si aprirà la scheda con una breve storia di presentazione del bar, alcune informazioni sui cocktail consigliati e sul tipo di miscelazione praticata, gli orari, i contatti e l’accesso diretto alle mappe per rintracciare la strada col proprio navigatore.

 

Le categorie sono uno strumento utile per consentire a chiunque, in base ai propri gusti e aspettative, di scegliere velocemente. Al di là del ‘cocktail bar’ propriamente detto, ‘bistrot-restaurant’ indica quei locali in cui oltre che bere si offre un’esperienza food frutto di una cucina, in molti casi anche degna di nota per non dire ‘stellata’”, sottolinea Massimo Gaetano Macrì, capo-redattore di BlueBlazer e co-ideatore della Guida. “Non potevano poi mancare gli hotel bar, di cui siamo grandi estimatori. Anzi, con il nostro lavoro, vorremmo far capire che le atmosfere eleganti ed ovattate di questi locali potrebbero essere frequentate da tutti. In Italia c’è ancora molta diffidenza e sono ancora tanti a chiedersi se si possa entrare in un hotel solo per bere un drink, senza essere clienti”. E, infine, la categoria forse più alla moda, i cosiddetti speakeasy “in cui abbiamo inserito sia i locali il cui accesso è garantito tramite la parola d’ordine, come i ‘veri’ speakeasy americani del Proibizionismo degli anni Venti-Trenta del secolo scorso, sia quei locali che in qualche modo ricordano quelle atmosfere fumose, con un accesso un po’ da secret bar, in cui entri solo se ne conosci fisicamente l’ingresso”.

La Guida vuole essere uno strumento di consultazione smart, continuamente aggiornata e utile, tanto agli operatori del settore quanto al cliente, più o meno appassionato. “Sono tanti i vari brand ambassador, per esempio, che ci hanno confessato di utilizzare per il loro lavoro le nostre mappe per rintracciare i locali. Si tratta di una utilità secondaria di cui prendiamo atto. Ma lo scopo principale della Guida è quello di offrire agli appassionati del buon bere e anche ai semplici curiosi, una finestra ‘mobile’ da cui osservare il mondo del bar. Se una persona entra in un locale, ‘spinta’ dalla descrizione della Guida, si innamora del posto e apprezza il cocktail, noi abbiamo centrato la missione”. Per l'occasione del lancio della Guida sono stati creati due signature cocktailil ‘The Journalist Martini’ di Massimo D’Addezio e il “The Journalist Negroni” di Tommaso Cecca. Entrambi i cocktail sono degli omaggi che i barmanager dei due locali hanno voluto dedicare ai giornalisti adattando i pregi, e perché no, i difetti della categoria a due storici cocktail. Il The Journalist Martini è un Martini cocktail come piace berlo a molti giornalisti, freddissimo e molto secco, preparato con gin Bombay Sapphire, Apricot Brandy e gocce di Laphroaig, un whisky torbato i cui sentori affumicati rimandano, per Massimo D’Addezio, al mondo della stampa e delle redazioni. Completamente diverso il The Journalist Negroni, una variante calda e avvolgente del grande classico italiano, con brandy Cardenal Mendoza, Campari infuso all’ibisco e vermouth Cinzano 1757, che restituisce una visione diametralmente opposta del ruolo e della figura del giornalista.

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“Oltre i confini”, le opere di Carla Castaldo in mostra a ​Palazzo Serra di Cassano

28 Dicembre 2017 , Scritto da Daniela Lombardi Con tag #arte, #pittura, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

 

 

Proseguono con successo gli eventi organizzati da Stella Orazio, ideatrice e curatrice di Maplis Events, nello spazio dell’associazione Mapils, a Palazzo Serra di Cassano, in via Monte di Dio 14, Napoli. Lunedì 18 dicembre, alle 18, è stato presentato l’evento artistico “Oltre i confini”, con le creazioni di Carla Castaldo.
Le opere di Carla Castaldo sono il risultato di un’estatica contemplazione. Oltre ogni possibile confine, fuori dal corpo, fuori dalla realtà visiva. Da qui il titolo di questo evento artistico, non una mostra dove al fruitore viene presentata un'opera, ma un evento simulativo che trasporta chi ne usufruisce nella visione stessa.

L'artista produce messaggi di luce, pura energia che esce fuori dai 7 chakra, per dare vita a immagini surreali, popolate da minuziosi particolari, dove la natura si fonde con i tanti simboli rappresentati, in una girandola di colori caldi e avvolgenti. Messaggi misteriosi, che racchiudono codici per attraversare veri e propri varchi verso l'ignoto. Il lavoro artistico di Carla Castaldo, simile a un portale per compiere un viaggio, conduce chi lo guarda in mondi senza tempo.

 

“Oltre i confini”, le opere di Carla Castaldo in mostra a ​Palazzo Serra di Cassano
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In poche parole

27 Dicembre 2017 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca

 

 



    

 

In poche parole...
     Cosa potrebbe stare "in poche parole..."?
     "Poche" è un aggettivo indefinito, plurale, femminile.
     E' anche un sostantivo, singolare, femminile, in francese.
     Significa: "tasca".
     Poche parole potrebbero stare in tasca, in un foglietto ripiegato dove sono state scritte.
     Il foglietto potrebbe essere tirato fuori dalla tasca, aperto e le poche parole, costì, impresse, potrebbero essere lette, privatamente, mentalmente o pubblicamente, a voce alta.
     Poche parole sono succinte e pronunciarle potrebbe essere scandaloso.
     Poche parole potrebbero essere l'inizio di una prole feconda di opinioni, di convinzioni e vale la pena concepirle e partorirle, senza abortirle: tutto ciò potrebbe stare "in poche parole..."
     Poche parole, restando tali, non corrono il rischio di degenerare in un discorso prolisso, troppo lungo.

          Luca Lapi luca.lapi@alice.it

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Signora dei filtri... o dei fili... emozioni e riflessioni: parte prima

26 Dicembre 2017 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

 

Quando Elena Marchetti – l’editore di Signora dei filtri  – mi ha proposto di presentare un romanzo che aveva come protagonista Medea ho risposto:- Non se ne fa di niente … Perché, anche se la mitologia classica è sempre stata la mia passione, questo personaggio non è mai stato nelle mie corde. Ma Elena – che sa il fatto suo – ha insistito: - Leggilo, poi decidi.

Così ho iniziato a leggere … e non ho smesso più, fino alla fine.

 

Signora dei filtri ti cattura fin dalle prime pagine e non ti lascia più uscire. Perché? La storia di Medea già la sai … E allora?

 

Signora dei filtri è un romanzo avvincente perché è scritto molto bene, è un vero romanzo. Perché è la scrittura che fa di una storia un vero romanzo.

 

Per spiegare che cosa mi ha incatenato a questo libro  ho chiesto aiuto a Italo Calvino.

 

Nel 1984, Calvino viene invitato all’Università di Harvard per tenere un ciclo di conferenze sulla comunicazione poetica (letteraria, musicale, figurativa). Il tema, quindi, è libero, Calvino decide di dedicare le sue 6 conferenze (le cosiddette “Lezioni americane”) “ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura” che gli stanno “particolarmente a cuore”, da conservare nel “nuovo millennio ”. Valori, qualità e specificità che ho ritrovato in Signora dei filtri, perciò userò spesso le parole di Calvino per descriverli.

 

Nelle “Lezioni Americane” parla di Sherazade, la narratrice delle Mille e una notte e dice di lei: L’arte che permette a Sherazade di salvarsi la vita ogni notte sta nel saper incatenare una storia all’altra e nel sapersi interrompere al momento giusto. È un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini:nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio d’ascoltare il seguito”.

 

È di Calvino la definizione di “romanzo come grande rete” (di personaggi, di luoghi, di situazioni), come “sistema di infinite relazioni di tutto con tutto”.

 

Quello che avvince (cattura, come una rete vera e propria) nel romanzo di Patrizia è proprio la presenza di innumerevoli storie che potrebbero essere lette anche ognuna per conto proprio: la storia di Medea e della sua “durezza” (che è poi assoluta “fragilità” affettiva); la storia di Giasone e della sua “fragilità” (che lo rende “duro” rispetto ai sentimenti) – Giasone e Medea sono molto diversi ma anche specularmente molto simili; la storia di Morgar, la prima “Signora dei filtri”; la storia di Eeta e della sua passione per l’oro; la storia di Pelia e della sua passione per il potere; la storia di Orfeo e del suo diario; la storia di Absirto, il fratello crudele; la storia dell’Osservatore, il Drago che sa leggere nel cuore degli uomini; la storia della generosa Kria, che segue Medea anche nell’esilio; la storia della fragile Glauce, vittima di un giuoco più grande di lei; la storia Chirone, l’uomo-cavallo; la storia degli Argonauti e delle loro avventure …

La storia di un personaggio spiega, completa, “illumina” quella dell’altro: la madre di Medea, il suo modo di essere madre e donna, esalta la figura di Morgar e il suo ben diverso modo di essere madre e donna; la cugina-bambina, così morbida e tenera, che Giasone forse potrebbe sposare se non fosse costretto a partire per la sua impresa, sottolinea per contrasto la femminilità inquietante di Medea; la maledizione della regina di Lemno sui futuri figli di Giasone rimanda al dramma che si consumerà a Corinto ...

Queste storie quindi si intersecano l’una all’altra come i fili che  creano la rete (Patrizia è una vera “Signora dei Fili”!). Si danno ritmo e spessore, come in un brano musicale in cui sono presenti le parti soprani, dei contralti, dei tenori e dei bassi - le voci chiare e le voci scure - e ognuna può essere letta e cantata separatamente, ognuna ha il suo fascino e la sua importanza. Ma è dal loro intrecciarsi, dalla loro rete, che nascono l’Inno alla gioia di Beethoven o Va pensiero di Verdi.

E ciò che fa da sfondo integratore a tutte queste storie e che permette loro di diventare una unità (cioè un romanzo forte e potente) è che esse – nella loro varietà - mettono però sempre in scena – vissute in modo diverso e osservate da punti di vista diversi – le stesse passioni, quelle primordiali, che caratterizzano la vita e l’esperienza di ogni essere umano: l’amore (fra uomo e donna, fra genitori e figli, fra amici), il desiderio (per una persona, per il potere, per il denaro) e l’odio (che nasce dalla negazione dei primi due).

Signora dei filtri, secondo me, non vuol essere un’altra versione del mito di Medea.

I protagonisti si muovono – è vero – in luoghi e tempi mitici, ma la realtà che vivono è universale, sono persone dei nostri tempi e dei nostri luoghi: adulti mai cresciuti, incapaci di essere genitori, travolti dal desiderio di potere, impauriti dalla diversità, prigionieri del pregiudizio, prigionieri di passioni che non riescono a controllare e che fanno passare ogni limite. Di questo leggiamo tutti i giorni sui giornali e tutto questo caratterizza da sempre la storia dell’uomo. Ed è di questa storia – non del mito di Medea - che Signora dei filtri ci vuole parlare.

Sempre in Lezioni Americane, Calvino riflette su “un’epidemia pestilenziale che sembra abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione a diluire i significati, a smussare le punte eccessive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze

Per definire l’uso della parola che Patrizia fa quando scrive basta capovolgere questa drammatica descrizione. Per lei, invece, calza a pennello un’altra espressione che Calvino usa per il buon uso della parola: “ incantesimo verbale”.

Il linguaggio usato da Patrizia è forte, potente, non fa sconti: quando racconta l’odio e la passione, come quando racconta l’amore e la tenerezza. Si potrebbe dire che è un linguaggio epico, come quello di Omero e dei classici – Euripide, Seneca, Apollonio Rodio – a cui Patrizia dice di  rifarsi.

È un linguaggio immaginifico, cioè (uso ancora parole di Calvino) pieno di “immagini visuali nitide, incisive, memorabili” (un esempio per tutte: la descrizione del passaggio delle Simplegadi) che prendono forma e danno vita a un “cinema mentale” capace di farci vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi.

Per creare questo  incantesimo verbale che ci tiene avvinti al romanzo, la nostra Sherazade utilizza  abili strategie linguistiche, degli “anelli magici” rappresentati da  anticipazioni, indizi, “frasi fatali”, posti a fine paragrafo che rimandano a un “dopo” verso il quale devi andare ( “Un giorno ti vedrò morire…” pensa Medea guardando il fratellino; “Non ci sono solo i figli di Ipsipile nel tuo futuro, per tua sfortuna” dice l’indovino a Giasone; “Cosa c’è di più grave di questo?” si chiede Giasone alla fine del capitolo dove si racconta la morte di Glauce …)

A volte queste anticipazioni si manifestano attraverso i sogni e i  desideri dei personaggi.

Nei desideri che Medea bambina confida a Morgar sono  già presenti gli Argonauti e il loro arrivo a Iolco : “Vorrei che gli uomini di là dal mare potessero raggiungerci e comunicare con  noi. Vorrei imparare le loro lingue e vestirmi con i loro vestiti, vorrei mangiare quello che mangiano e conoscere i loro dei”;  nel sogno che Morgar fa la notte prima di morire compaiono la nave Argo e i figli di Medea con il loro tragico destino: “Sognò una barca alata, possente, con due file di rematori, sognò due bambini distesi sopra un letto, con gli occhi chiusi e il viso bianchissimo” .

Anche i temi ricorrenti sono anelli magici che danno coesione a questa molteplicità di storie: quello dei luoghi misteriosi (le paludi della Colchide, la caverna dove vive il Pitone sacro, i sotterranei dove Eeta nasconde l’oro, l’isola di Lemno, l’isola degli Orsi, la terra che forse è delle Amazzoni, l’isola dove Medea vive i suoi ultimi anni); quello degli dei e dei sacrifici (il dio Sole, il dio del Fuoco, la Signora-Vergine Madre, il Dio di Orfeo, con le relative cerimonie misteriose e sconvolgenti); quello del Drago (la creatura inquietante che compare e scompare all’improvviso nei momenti chiave per guidare Medea verso il suo destino).

Fra tutti questi temi ricorrenti, quello che mi ha colpito di più e che mi sembra particolarmente significativo riguarda la presenza dei bambini.

Il romanzo di Patrizia è costellato di bambini.

Il dramma di Medea – comunque sia stato letto da antichi e moderni – ha come pernio i figli, i bambini, e nel romanzo questi sono ovunque. Sono i figli dei protagonisti ma – soprattutto- sono i protagonisti stessi: gli adulti quando erano bambini.

In un romanzo che ha come epilogo l’orrore più grande che una madre – un adulto, una persona -  possa commettere: l’uccisione dei figli, dei bambini – questo orrore aleggia per tutto il libro ed è il filo che dà vita alla rete dei bambini: bambini fragili, teneri, spesso soli, spesso preda della violenza degli adulti e che spesso diventano a loro volta violenti e predatori di altri bambini.

Signora dei filtri ci racconta in modo diretto o indiretto la storia di tanti bambini infelici divenuti spesso adulti portatori d’infelicità. Ne cito solo alcuni.

Achille bambino, evocato dal padre Peleo, Argonauta, che intaglia per lui una tenera “figurina di legno”: Peleo l’ha lasciato quando “aveva appena imparato a camminare” e non sa se lo rivedrà più. Questo tenero piccino cresciuto senza padre, una volta adulto diventerà Achille “dallo sguardo bieco” (così ce lo descrive Omero) che trascina nella polvere il corpo di Ettore, Achille “la bestia” di Christa Wolf.

Ila, il servitore che Eracle violenta. Anche lui è poco più di un bambino: Eracle lo chiama “pulcino” e non vorrebbe fargli del male, ma non riesce a governare se stesso. Eracle, l’eroe – predatore, è stato a sua volta un bambino aggredito, maltrattato, perseguitato dall’odio ingiusto di Era.

Chirone, il padre adottivo di Giasone. Quest’uomo saggio è un bambino-mostro nato da una violenza subita dalla madre Filira  quando anche lei era appena una bambina.

Il bambino Meleagro, ora valoroso Argonauta. Il suo destino è vivere quanto il tizzone che brucia  nel braciere al momento della sua nascita: sarà proprio la madre Altea, che ha conservato gelosamente il tizzone, a ributtarlo nel fuoco per vendicare i fratelli uccisi da Meleagro.

La bambinetta di “soli tredici anni” che Eeta si è preso come nuova amante. Solo questo si dice di lei, ma basta e avanza per raccontare l’orrore.

Glauce, la principessa-bambina vittima di una storia più grande di lei. Così la descrive Medea: “La figlia del re, nemmeno adolescente e già coperta d’oro dalla testa ai piedi … le era sembrata una bambina agghindata come una donna …”; così la vede Giasone “Ridicolo chiamarla signora, una bambina gravata dal peso dei pendenti che portava alle orecchie”; e anche Orfeo la vede così: “ Al suo fianco (di Giasone)  Glauce continuava a masticare in silenzio, come una bambina alla quale sia stato ordinato di finire tutto quello che ha nel piatto” …

E infine Medea, la bambina non amata, arrabbiata e sola. Nessun altro autore – credo – ha messo a fuoco la figura di Medea bambina. Signora dei filtri inizia proprio con la storia della sua infanzia, segnata – fra l’altro – dalla nascita di un fratello che la madre adora, quella stessa madre che invece la respinge, la fa sentire sola.

La solitudine accompagna Medea fin da bambina.

Non somiglia a nessuno” – dicono di lei. Medea è sola perché è diversa, anche se non vorrebbe esserlo: “ … lei non voleva essere diversa, non voleva stare in disparte mentre le altre ragazze giocavano o si bagnavano nel fiume. Non voleva che sua madre la guardasse in quel modo, corrugando la fronte … “

Medea è strana. Questo aggettivo la caratterizza, viene usato da tutti quelli che la incontrano. Giasone, appena la conosce, pensa di lei “Che strana donna …”  Kria, a cui Medea salva il bambino, la definisce “bella di una bellezza strana”; Orfeo parla spesso dei suoi occhi, “occhi obliqui”che dardeggiano”  “occhi nervosi”  “neri come la notte”  “inquietanti ed estremamente intelligenti”. Gli strani occhi di Medea vedono ciò che gli altri non vedono, vedono “dentro” e “oltre”, anche contro la sua volontà. Medea non vorrebbe vedere dentro Giasone, leggerne i limiti e scoprirne le menzogne: “ … Si accorse che (Giasone) non diceva la verità … Era la sua disgrazia accorgersi di tutto, avvertire ogni vibrazione, intuire i pensieri della gente e l’ostilità che la circondava”.

Quindi Medea è strana.

C’è un grande poeta che, per definire se stesso, usa l’aggettivo strano: Giacomo Leopardi ne “Il passero solitario” e il senso che questo grande poeta e grandissimo cultore della parola dà a “strano” credo calzi a pennello anche per Medea. Leopardi, paragonandosi al passero che vive isolato da tutti sull’antica torre di Recanati, dice

 

Quasi romito, e strano/ Al mio loco natio,/Passo del viver mio la primavera.

 

Il poeta si sente estraneo al suo paese, al luogo dov’è nato e dove vive da solo, isolato, da straniero. Anche Medea si sente così. La sua diversità – come la diversità di Leopardi – è alla base della sua solitudine, e la rende straniera e sola, nel suo paese e nella sua casa, fin da bambina.

Medea uccide i figli perché non vuole che cadano in mani di estranei, perché non siano “umiliati” dal padre che avrebbe preferito a loro – dei bastardi – i figli di un matrimonio per lei “falso e sacrilego”. Morendo per mano sua “dolcemente” i figli “resteranno con lei per sempre”, non saranno mai “soli”, “strani” e “stranieri”, come lei e Morgar sono state: “Medea era una straniera in casa propria esattamente come Morgar lo era in terra di Colchide”.

L’origine della solitudine di Medea va ricercata nel disamore della madre. La regina Idia respinge sempre la figlia e ha cura solo del nuovo nato, del bambino crudele che deve garantirle l’amore del marito (“Absirto rise, riacciuffando uno scarafaggio che tentava di fuggire. La regina gli accarezzò i capelli rossi e lanosi: “Bravo il mio bambino”). Anche quando la piccola Medea, nonostante si senta non amata e abbandonata, cerca un contatto con lei, va incontro a un rifiuto (“Madre, posso tingere io i tuoi capelli” propose speranzosa “No, Medea, le tue mani sono sempre fredde”).

Alla fine questa solitudine imposta si trasforma in bisogno. Divenuta adulta, Medea ha sempre bisogno di solitudine ed è solo l’amore a farle scoprire e sentire il bisogno dell’altro.

 

Continua...

 

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Quando Yeshua' era nato

25 Dicembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #unasettimanamagica, #postaunpresepe

 

 

 

 

Auguro Buon Natale a tutti i lettori di signoradeifiltri con questo brano tratto dal mio romanzo L'uomo del sorriso,  Marchetti Editore, 2015

 

Il vento del deserto era lo stesso quando Yeshua’ era nato, come se un cerchio si stesse chiudendo. Ricordava le pareti pietrose della grotta, il pavimento macchiato di sangue, Yosef che, con le ginocchia, premeva sul suo ventre per aiutarla a spingere. Ricordava l’odore di stalla, il fiato caldo del bue, la mangiatoia nella quale aveva adagiato il bambino, maledicendo l’ostessa che non li aveva accolti. Ricordava il calore delle braccia di Yosef, ansimante e sudato, che stringevano lei e il piccolo appena nato. «Ora siamo una famiglia, Maria» le aveva detto. «Sei stata brava».

Più di ogni altra cosa, ricordava il primo istante in cui aveva stretto a sé il bambino. Il corpicino si era adattato subito all’incavo delle sue braccia, Yeshua’ si era acciambellato contro di lei come fosse ancora nel suo grembo, le piccole labbra avevano cercato il capezzolo. Lei aveva tastato con le mani ogni parte del piccolo corpo, aveva posato la guancia sul ventre per sentirne il calore, aveva annusato l’odore per imprimerselo dentro, riconoscendolo poi per sempre, sentendo che quella era la perfezione, che lei era venuta al mondo per dare la vita a lui. Dopo, niente era più stato come in quell’istante. Solo distacco, lontananza, freddezza.

Oggi, ai piedi della croce, l’amore che provava per suo figlio era così grande che non bastava un cuore solo a contenerlo. E il suo cuore di madre ora stava esplodendo, pompava sangue all’unisono col cuore del figlio, accompagnandolo, respiro dopo respiro, fino all’ultimo soffio di vita.

Quando Yeshua' era nato
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Vigilia di Natale

24 Dicembre 2017 , Scritto da Pietro Pancamo Con tag #pietro pancamo, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Oggi, ad esempio, consegni le pizze, triste fattorino, in questa sera ascensionale ch’esala, nella neve, dall’asfalto al cielo. Vorresti fare il traduttore, cambiar lingua alle parole, ma ti obbliga a tutt’altro la realtà. «Pazienza, mi rassegno», hai deciso già da anni. E mentre i due lampioni chini sulla via, cioè il vicolo piccino che attraversi proprio ora, ti ricordano l’infanzia, rifletti un poco più sereno sulla cupa delusione esistenziale che t’infesta sia la vita che le tante sfacchinate, vagabonde e assai randagie, d’ogni giorno; e concludi i tuoi pensieri rivolgendo una preghiera all’amico preferito, il tuo... Babbin Gesù: «Fa’ che il lavoro mi nobiliti la rabbia...».

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Racconto di Natale: parte quarta

23 Dicembre 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Sembrava una puntata di quel vecchio telefilm con quel tale vestito di bianco che gestiva un'isola dei desideri, sempre affiancato da un orrendo nanerottolo. Il desiderio espresso da Pasqualo pareva quello di mettersi nei panni del capo-famiglia, giusto per la sera del Santo Genetliaco di Cristo. Per quell'ora aveva ormai assolto a ogni onere. Per chiudere in bellezza la curiosa esperienza gli mancava però un elemento appena.

Infatti, dopo aver scalciato in un angolo Ciruzzo e essersi ricomposto nella giacca, nella camiciola linda e pinta, nell'aplomb irreprensibile di sempre, approcciò il padrone di casa con occhio malandrino: «Di', caro, mò sèmo amici, nòne? Mò sèmo mèjo che fratelli, onnò? Se sèmo spartiti 'n po' de tutto, come dù bboni compari che se vònno bene,» lo circuiva. Natale ciondolava il testone più per esaurimento nevrastenico che per assentire... «Ehmbè Natale mio, come co' tutti l'amici più veri è giunta l'ora che me sbottono...»

«Com'avìte fatto con la signora mia?» si affrettò a chiedere l'altro, con una sincera preoccupazione dipinta sul volto.

«Mannò, ma che hai capito... Vie' qua che te spiego mèjo... Ah coso, senti un po', me servirebbe un po' de liquidi...»

«Tenìte sete?»

«Macché sete... De conquìbbus, ah scemo!... Me sérveno le svanziche… como dite vosotros? Li dindi,... ri sordi, 'nzomma... Vedi, caro, sto un po' a secco. Come hai potuto constatare, stasera sò sortito un po' de prescia e nun ho fatto an tempo a svuotà à cassaforte... A casa mò nun ce posso annà, daa banca nun ce posso passà ché l'amici mia me cerchéno... Vabbeh, per farla concisa, che moo potresti concedere un prestitino? Tanto per levare le tende quer paio de ggiorni, se me sò spiegato...»

A Natale De Dominiccis si fece il volto del peccato mortale. Quella richiesta dovette risuonare alle sue orecchie né più né meno come al dannato l'assegnazione di bolgia del Minosse dantesco. Guardò il capo da sotto a sopra, con due occhioni che avrebbero toccato la sensibilità di chiunque. Tranne quella di Pasqualo, che anzi lo sollecitava: «Facciamo una cosa di giorno, ah Natalì...»

Natale scomparve per il tot tempo necessario a rimestare in chissà quale doppiofondo. Infine riapparve dallo sgabuzzino col libretto di risparmio del primogenito, intonso e ben tenuto come la reliquia del meglio messia.

«È ò libretto al portatore 'e Gaetano mio. L'àmmo mettùto inzieme co' tanti sacrifici...»

E Pasqualo Del Grosso, che non difettava di umanità, dopo averglielo furtivamente sfilato di mano con un esempio di prestidigitazione davvero rimarchevole, se lo strinse al cuore, mormorando commosso: «Lo apprezzo moltissimo!» Dopo di che si sbatté la porta d'uscita alle spalle, salutando tutti quanti con un generico: «Se vedèmooooo!»

Siccome, come ogni novella natalizia che si rispetti, non di meno la nostra può rinunciare al più feerico happy end, il paziente lettore, che abbia avuto la bontà di seguirci sin qua, sappia che appena dopo l'epifania, proprio il giorno dello sfratto esecutivo, mentre già si trovava sbattuta sul marciapiede, tra due valige di cartone e la carogna del cane, che non aveva retto a quell'ulteriore infamità, la famiglia De Dominiccis-Squanquaronzio si vide recapitare una festosa cartolina espressamente giunta dalle isole Cayman.

Ne lessero il retro, incuriositi:

«Ciao cari, grazie alla vostra esigua ma tempestiva elargizione sono infine riuscito a prendere il primo volo che mi ricongiungesse alle mie proprietà off-shore. Qua sono irrintracciabile.

Nella speranza che ve la passiate bene quanto me, un caldo abbraccio,

P. Del G.»

Natale e congiunti stavano ancora rileggendo, a dire il vero un filino amareggiati, quelle poche righe, quando si accorsero che il portalettere era rimasto inspiegabilmente lì accanto a loro, anche a consegna avvenuta. Quando gli rivolsero lo sguardo, il solerte funzionario fu lieto di puntualizzare: «La cartolina non è stata debitamente affrancata. Spiace, ma c'è da pagare la penale, signori miei...»

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TV

22 Dicembre 2017 , Scritto da Pietro Pancamo Con tag #pietro pancamo, #poesia, #unasettimanamagica

 

 

 

 

 

 

I
Gli occhi
come i piatti di una bilancia
che ha per sostegno
un sentimento a ritroso:
mezzo chilo d’amore
e mezzo chilo d’odio
tengono i piatti in equilibrio.
Risultato?
Uomo da niente,
uomo di niente.

 

II
Sentimenti di Natale
rabboniscono il televisore.
E adesso
il tuo cuore
è un ornamento
che sai appendere
al rametto stilizzato

di un sogno narcotico,
di un sorriso plagiato.

 

Terzo comandamento: ricordati
di santificare il televisore.

 

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