postaunpresepe
Davanti al presepe
Oggi la finestrella del nostro calendario dell'avvento si apre su un pezzo vintage, per ricordare il compianto Marcello de Santis, che non è più con noi da tempo.
Suonano ancora le campane… è passata da poco la mezzanotte; uno scampanio limpido e gioioso in questa silenziosa notte stellata. Ho un forte raffreddore e non vado a messa, come gli anni passati. Gli altri sono già usciti, mi hanno salutato frettolosamente, e incappottati con scialli e cappelli, per far fronte al vento gelido che da ieri ulula di giorno e di notte, sottobraccio a due a due stretti stretti per scaldarsi meglio, e per trasmettersi meglio la festosità di questa notte santa, si sono recati alla vicina chiesa: mia moglie e mia figlia, e i miei cognati, che passano il Natale con noi. Sono andati, lasciando la tavola imbandita con i piatti vuoti o quasi, e una gran confusione di stoviglie, bottiglie (con vino e spumante ancora a metà), pezzi di dolce nei piattini, e bicchieri mezzo pieni e mezzo vuoti. La televisione è accesa su un programma qualsiasi dall’inizio della cena, nessuno la guardava, del resto, ma adesso le voci che da essa escono, anche se attutite, sono confuse con i rintocchi vicini e lontani delle campane delle varie chiese del paese, che si rincorrono nell’aria gelida, sotto un cielo di ghiaccio, dove è sospesa la facciona d’argento della luna. Uno starnuto di tanto in tanto mi scappa, fragoroso, e porto il fazzoletto ormai bagnato sul viso, davanti alla bocca, e al naso. Provo a tirare su per liberare il respiro, ma … eh, ha da fa’ il suo corso… mi ritornano le parole di qualcuno… qualcun altro mi dice pigghiate quaccosa… (prenditi qualche cosa) … e che mi prendo ancora!… … ‘n’aspirina… te la si’ piàta ‘n’aspirina? ci ho provato: con aspirine (il suggerimento è arrivato in ritardo), con i suffumigi di camomilla (consiglio di mia cognata), con la bomboletta spray da inserire su per il naso, più su, se vo’ che fa effetto! eppo’ arespira forte!) (mio nipote), con la pomata da spalmare sul petto, ma quessa ‘nn’è bona! t’à da sparma’ lo vicsvaporùbbe! (ma questa non è buona devi spalmarti il vix vaporub!) effetto stupefacente e immediato! (il mio consuocero)). Ho obbedito come un suddito al suo re, e sto peggio di prima. Ma tant’è, devo aspettare che faccia il suo corso e passi da solo. E sì che non sono soggetto ai ricorrenti raffreddori e influenze annuali. Neppure ricordo l’ultima volta che l’ho beccata! Per questo, debbo dire, ho molta cura di me stesso, mi copro quando devo, e cerco di non espormi alle correnti d’aria. Ma stavolta… nenè nenè anduvina sa ccom,’è… (nenè nenè indovina com’è? detto popolare). Le campane hanno smesso di suonare. Sto solo, almeno per il tempo della messa, poi ci saranno di nuovo frastuono e allegria e la tombola tradizionale, tra il vociare natalizio consueto di ogni natale. M’avvicino al presepe che è stato costruito sul ripiano del mobile alto in sala; le lucine s’accendono e si spengono grazie al circuito alternato, e da sotto la carta di cielo blu addossata alla parete, splende la luna e brillano le stelle dorate. Guardo il ruscello con acqua vera, che scorre e va a finire in un piccolo lago (una volta il laghetto si faceva con un pezzo di specchio con intorno il muschio), e da qui riparte in un circolo chiuso invisibile, per poi ritornare. Guardo le tre o quattro pecore davanti alla statuina del pastore, e distanti, presso le ultime capanne del paesaggio, i tre magi che arriveranno alla grotta (provvederemo noi a spostarli in avanti un poco ogni giorno), solo la notte della befana. Eccola, la grotta, c’è la madonna, inginocchiata, nel suo manto celeste; e dall’altro lato, in piedi, appoggiato a un rudimentale bastone, san Giuseppe. Per la fretta della messa hanno dimenticato di porre nella stalla il bambino Gesù, che è appena nato. So dov’è, la statuina; sta dentro un cassetto in camera; la prendo e la porto al presepe… la metto al suo posto, nel giaciglio di paglia, sotto una piccola flebile luce, che illumina la mangiatoia con il bue e l’asinello accovacciati a fianco della stessa. La quiete della sala è rotta solo dal sottovoce della televisione e dallo scroscio leggero della cascatella che dà origine al ruscello che scende al lago. … meno male che ho messo il bambinello, se n’erano scordati, nella fretta di andare a messa; mi sembra brutto un presepe senza bambinello, adesso ch’è nato.
Marcello de Santis
Natale in lockdown
I giorni in lockdown da pandemia scorrono, sembrano vuoti ma si arriva velocemente a sera con quella sensazione d’invecchiare senza aver vissuto e con le articolazioni doloranti per l’inattività forzata. Ormai ci siamo abituati. L’inverno scorso ci siamo fatti quattro mesi così. Ora siamo più forti, più preparati. Le notizie quotidiane sui morti, però, ci assalgono come secchiate di acqua gelata, ma convivere col virus è diventato anche questo, la triste abitudine alla morte, anche a quella di chi si conosce. Ha un senso pensare al Natale in queste condizioni?
Certamente lo ha per chi è religioso. La nascita di Gesù, più che dare speranza, ci mette di fronte al ciclo inesorabile di vita e morte. Ma lo ha anche per chi non crede. In primis i bambini e non solo loro. Abbiamo tanto bisogno di leggerezza, di speranza, di sentire che la vita continua sempre e comunque. Un anno di pandemia ci ha segnato tutti, fisicamente, economicamente ma anche psicologicamente.
Io non credo in Dio, non più dall’età della ragione. Non credo in Dio come non credo in Babbo Natale. Eppure mi piace il rumore delle campane, l’odore dell’incenso, il muschio e le pecorelle del presepe. E mi piace che Babbo Natale arrivi su una slitta nella notte più magica.
Quando ero piccola l’albero si faceva sempre con le stesse decorazioni da un anno all’altro. Erano palle di vetro soffiato, delicate e preziose, se una si rompeva, ti disperavi. Ma da qualche tempo mi piace cambiare i colori degli addobbi e intonarli alle decorazioni della stanza, alla tovaglia di Natale, persino ai miei vestiti. È una stupidaggine consumistica, forse, ma anche creativa.
Il leitmotiv quest’anno sarà rosso, verde e color legno rustico. Un po’ difficile da trovare, quest’ultima tonalità. Perciò ho ordinato on line. Sì, a causa della pandemia non ho potuto fare il consueto giro per negozi che mi rilassava e divertiva, né, probabilmente, spulcerò i mercatini per gli acquisti frivoli dell’ultimo minuto. Che piaccia o no, quest’anno Babbo Natale arriverà travestito da corriere di Amazon.
Concerto dell’Epifania e Bacio del Bambinello

Domenica 5 Gennaio, alle ore 21:00, a Giulianello (LT), presso la Chiesa di San Giovanni Battista, si terrà il Concerto dell’Epifania che vedrà esibirsi la corale polifonica locale “Schola Cantorum”, organizzatrice e promotrice dell’iniziativa, e il Coro polifonico “Armonia Mundi”. L’appuntamento rientra nella 3ª edizione di “PACE TRA I POPOLI – NATALE 2019”, il cartellone di eventi per le festività messo a punto dal Comune di Cori e dalla Pro Loco Cori con il contributo della Regione Lazio – Le Feste delle Meraviglie – e BCC di Roma – Agenzia di Cori.
La “Schola Cantorum” è il coro della Parrocchia di San Giovanni Battista di Giulianello fondato nel 1994 da don Antero Speggiorin per curare il canto nella liturgia. I cantori non sono professionisti, ma portano avanti l’impegno con fede, passione e spirito di comunione, prestando servizio in parrocchia con costanza e dedizione. Per l’occasione proporrà una selezione di brani del repertorio liturgico di grande bellezza e forza, con l’intervento di incantevoli voci soliste.
Il Coro “Armonia Mundi”, formazione a quattro voci miste diretto dal M° Matteo Sartini, nasce in seno alla Parrocchia Santissimo Nome di Maria di Genzano di Roma nel 2003. Il suo repertorio concertistico spazia dalla polifonia pura alla musica sacra classica e lirica e operistica. Domenica presenterà un programma che guarda alla tradizione popolare italiana, francese e americana, con brani sacri di Mozart, Verdi, Adam. Insieme alla Corale ci saranno due voci soliste: il Soprano Angelica Ercolani e il Mezzosoprano Michela Moroni.
L’ingresso ad offerta libera servirà a finanziare le opere della Parrocchia, in particolare la prosecuzione dei lavori di ristrutturazione e restauro della facciata danneggiata della cinquecentesca Chiesa di San Giovanni Battista, luogo sacro di rilevanza storica e architettonica, ma anche simbolica per tutta la comunità, essendo l’unica parrocchia del borgo, intorno alla quale si è sviluppato l’antico Castrum Julianum. Nel parcheggio della Chiesa si potrà inoltre godere del suggestivo Presepe realizzato da giovani parrocchiani, ricco di effetti, statue in movimento, cascata, suoni e musica.
Lunedì 6 Gennaio, sempre a Giulianello, si rinnova la tradizione del Bacio del Bambinello. La statuetta del Bambin Gesù, scolpita nel XVI secolo da un devoto francescano sul legno d’ulivo del Getsemani, è custodita all’interno della sacra cappella della Chiesa di San Giovanni Battista, ed è stata benedetta da Sua Santità Giovanni Paolo II durante l’udienza papale del 2 Dicembre 1998. Come dal 1798, la mattina dell’Epifania, dopo la santa messa delle ore 10:30, la statuetta viene fatta sfilare in processione per le vie del paese, portata in spalla dagli storici “Incollatori”. Alle ore 15:30, avrà luogo il Bacio del Bambinello, un rito che da sempre riesce a coinvolgere tanti cittadini, che trovano tranquillità e conforto nello sguardo rasserenante e fiducioso del Gesù Bambino.
Nessun dogma

Nessun dogma, ma solo verità “emporicamente” dimostrabili in questo Natale di regali e mercatini.
Tu pure, o Gesù Bambino, nella tua fredda stalla sei ora lì a testimoniare che il mondo degli uomini, come risaputo, è sempre (e quindi tutto) una benedetta mangiatoia.
Pietro Pancamo
PREGHIERA DI NATALE

Natale in giro per l'Italia: Livorno

Mi viene da pensare a cos’era il Natale negli anni sessanta. Non quello di tutti, il mio.
Vivevo in una famiglia nucleare: padre, madre, io. Mio fratello non era ancora stato progettato. Una città di provincia della Toscana, un appartamento in un quartiere popolare, arredato in modo funzionale e moderno, ché noi eravamo una famiglia al passo coi tempi. Mia madre lavorava, guidava la Bianchina e faceva la spesa alla Smec, il primo supermercato che abbia messo piede in centro. Vivevamo il boom economico con speranza, fieri del progresso che avrebbe portato solo civiltà, orgogliosi del frigorifero, del tostapane, del frullatore, dell’acqua gassata con le presine dell’Idrolitina, del vino in bottiglia sulla tavola.
A quei tempi, l’albero non si faceva a novembre, non si faceva l’otto dicembre, non si faceva neanche il quindici, si faceva il ventidue o ventitré dicembre. E sapete perché? Perché allora il tempo era ancora il tempo. Un mese era un mese, lungo, infinito. Tutto si concentrava nella settimana di Natale, la settimana più magica dell’anno.
Non c’erano le sciroccate e le zanzare, andavamo a scuola col berretto di lana e le ginocchia intirizzite. L’albero era vero, perdeva gli aghi per terra, profumava di bosco la casa. E l’odore del pino si mescolava al cherosene della stufa che, dal corridoio, doveva riscaldare tutto l’appartamento. Le palle erano di vetro, ne compravamo una ogni anno, nuova e preziosa, le luci non erano led cinesi ma pupazzi di neve, casine, fantastici trenini che s’illuminavano da dentro. Non mancavano mai, appesi ai rami, figurine di cioccolata e un sacchetto di monete da mangiare.
Ho dei flash, di me e mamma che addobbiamo l’albero in salotto, è giovedì sera, la televisione è accesa su Rischiatutto. Mamma ha portato delle scatole piene di fili argentati e, per la prima volta, abbiamo decorato insieme tutta la casa, attaccandoli alle porte, agli specchi. Dal lampadario penzola una composizione di nastri e palle che ha fatto lei, con le sue mani, come le ha spiegato una collega di ufficio.
Al piano di sotto abitavano mia nonna (vedova) e la mia prozia (zitella). Loro andavano a messa e preparavano il presepe, in un angolo della sala. Un cimelio di famiglia, lo aveva costruito il bisnonno Fortunato nell’ottocento, ricavandolo da un caldano, mettendo da parte stagnola, sughero, pezzi di legno. Era bellissimo, aveva tutto: il pozzo, la fontana, la mangiatoia, la lanterna, persino la chiesa con le campane che suonavano la nascita del bambino che poi l’avrebbe fondata. Ricordo l’odore di muschio secco, la folla dei pastori stretti uno di fianco all’altro, dipinti a mano, qualcuno un po’ sbreccato, scolorito. Ricordo le stelle di latta, il filo argentato con le lucine. Capitava che la zia ricomprasse un filo nuovo, a volte, cambiasse lo scotch, ma la roba era quella, conservata in una scatola da scarpe terrosa; roba povera, a pensarci, ma io la trovavo meravigliosa.
E quando nonna m’insegnava a cantare Tu scendi dalle stelle, mi sembrava di essere lì anch’io, mentre Gesù nasceva nella grotta “al freddo e al gelo”, il bue e l’asinello lo riscaldavano col loro fiato e la cometa splendeva in cielo. Credevo a tutto, era tutto vero, il Bambino Divino, Babbo Natale che attraversava la notte per lasciare i regali sotto l’albero.
A scuola si festeggiavano solo gli ultimi giorni, proprio a ridosso delle vacanze, allestendo piccoli presepi e alberelli addobbati con qualcosa portato da casa. Ricordo un anno che la maestra regalò a tutti una palla dorata e luccicante da appendere all’albero, la aprivi e dentro c’era un piccolo pensiero per ognuno di noi, a me toccò un anellino rosa. E scrivevamo letterine di Natale, non tanto per chiedere regali, quanto per domandare perdono ai nostri genitori delle marachelle, per promettere di essere più buoni, per dire “babbo, mamma, vi voglio bene”, parole che il pudore dell’epoca non ci permetteva di esprimere in giorni meno speciali.
La via principale della città era rallegrata dalla “luminara” ma io, anche oggi che sono vecchia, trovo più affascinanti gli addobbi dei negozi di quartiere, quelli poveri - le lucine che si rincorrono sulla porta della tabaccheria, le palle colorate poggiate sui ripiani polverosi della mesticheria - li preferisco ai grandi apparati dei centri commerciali. Amo il Natale della gente normale: il foglio di carta roccia, il rotolo di cielo stellato, il pungitopo e la borraccina raccolti in campagna.
Da noi, in Toscana, la vigilia non si festeggiava, era un giorno qualsiasi, i negozi chiudevano tardi la sera, non come adesso che alle quattordici è già tutto morto e la gente va a prepararsi per il cenone, quasi fosse l’ultimo dell’anno. Era un giorno di attesa, di trepidazione, di festa vissuta dentro. Si mangiava normale, poco per non appesantirci in vista del venticinque, si apparecchiava in cucina come sempre. In tv non mancava mai qualcosa di bello, un cartone incantato, un film fiabesco; andavo a letto col cuore in gola, con un po’ di paura, chiedendomi cosa sarebbe successo se, per caso, avessi scorto Babbo Natale. “Perché”, mi spiegavano i miei genitori, “quelli che vedi in giro, non sono veri Babbo Natale, sono solo travestimenti per far festa, Lui, l’originale, è misterioso e lontano, non lo si può vedere e passa solo se siamo stati buoni.” Il regalo, insomma, te lo dovevi meritare, non lo trovavi scontato all’Ipercoop. L’uomo barbuto vestito di rosso non faceva “ohohoh” all’americana, non viveva al polo nord con una renna di nome Blizzard, ma era, piuttosto, un’entità un po’ inquietante.
La mattina di Natale, anzi di “Ceppo”, come dicevano i vecchi, si faceva colazione col caffellatte e, ancora in pigiama, si aprivano i regali. C’era tanta roba da farmi sgranare gli occhi. Bambole, “ciottolini”, libri, matite. C’era un cesto rosso con un biglietto scritto di pugno da Babbo Natale in persona: “Perché tu sia più ordinata”, c’era un mangiadischi che, bastava schiacciarlo col dito, e potevi sentire le fiabe sonore, c’era il quarantacinque giri di Un cuore matto - ero follemente innamorata di Little Tony - e anche la Pappa col pomodoro con Rita Pavone nei panni di Gianburrasca.
A pranzo venivano su anche nonna e zia, mangiavamo i tortellini in brodo, il cappone lesso con le radici di Genova, il panettone di Milano che costava un mucchio di soldi - non come ora che ne trovi tre al prezzo di due - il panforte, i ricciarelli, i cavallucci, il torrone. Ma anche frutta secca, datteri della Tunisia con la ballerina in bilico sulle punte, zibibbo, fichi secchi aperti a panino e farciti di noci e noccioline.
Di pomeriggio nonna e zia tornavano giù, a casa loro, a riposarsi, mentre noi guardavamo i programmi televisivi, film, cartoni animati, commedie di teatro e, intanto, io giocavo con tutto quel ben di Dio che Babbo Natale mi aveva portato; si vede che, nonostante i dubbi, i timori e i sensi colpa, alla fine ero stata davvero buona. E, naturalmente, divoravo i libri nuovi. A santo Stefano, quando era invitata l’altra nonna, quella paterna, li avevo già finiti.
Non c’è nulla di speciale in questi miei ricordi, nessun messaggio, niente che caratterizzi una generazione. Posso solo dire che i bambini si nutrono di pensiero magico e chi glielo sottrae compie un crimine, li priva della fantasia, del desiderio, delle cose che noi adulti rimpiangeremo tutta la vita e non avremo mai più, per quanti sforzi facciamo.
Natale in tutta Italia

Amici scrittori, amici lettori, questo invito è rivolto a voi e nasce da un'idea di Walter Fest e mia.
Mi correggo, è rivolto a tutti coloro che vogliano mettere su carta - pardon on line – le proprie parole e riflessioni su un tema ben preciso: il Natale.
Il Natale qui, là, ovunque in Italia. A Venezia che sprofonda sott’acqua, all’Aquila nella zona rossa, a Matera capitale alluvionata della cultura, a Genova sotto il ponte crollato, ad Accumuli e ad Amatrice, a Norcia, in tutte le zone allagate, terremotate e incendiate, a Taranto con l’Ilva in pericolo. Ma anche A Pisa, a Firenze, a Roma, a Palermo, a Cagliari, in tutte le regioni, in tutte le città e in tutti i paesi, pure quelli intatti e risparmiati dalla furia del clima impazzito, in tutti i luoghi meravigliosamente artistici di questa nostra patria bella e ferita.
Cosa farete per Natale, come saranno le vostre feste? Come vivrete quei momenti, cosa è cambiato dai ricordi del tempo che fu a oggi?
Scrivete quanto e cosa volete, anche solo due righe. Nessuna giuria, nessuna classifica, non si vince nulla, solo il piacere di raccontare e raccontarsi. Potete essere pro o contro il Natale, potete amarlo come me, o detestarlo, ci piacerà comunque ascoltare le vostre storie. Potete inventare una novella o scrivere una poesia, potete piangere, ridere o innamorarvi. Potete fare il presepe o aspettare babbo Natale, potete chiudervi in camera e attendere che le feste siano passate, potete portare coperte ai cani randagi, potete suonare nel concerto della chiesa o cantare nel coro, potete aiutare la vostra vicina a fare l’albero, potete cucinare un dolce tipico o comprare il pandoro in offerta al discount.
signoradeifiltri.blog vi invita a condividere le vostre riflessioni, a farci partecipi della cultura, delle bellezze artistiche e delle tradizioni natalizie dei vostri splendidi paesi. Pubblicheremo tutti i vostri contributi, compreso le fotografie, facendo solo un poco di editing se necessario.
Cominciate fin da oggi a inviare i vostri contributi e continuate a farlo fino al 23 dicembre, non oltre.
Spedite a ppoli61@tiscali.it
Vi aspettiamo numerosi e buone feste a tutti!
La cicogna

- Vieni Maria ancora un piccolo sforzo.
- Oh! Giuseppe non ce la faccio più, credo che sia arrivato il momento di fermarsi, capisci, dobbiamo fermarci non importa dove.
- Va bene, ho capito, ancora due passi, vedo una costruzione più avanti, vedremo di ripararci là dentro.
Giuseppe, tirando le redini dell’asino sul quale c’era la sofferente Maria, aprì la porta di quella che sembrava una stalla. In effetti lo era, un unico locale pieno di paglia nelle mangiatoie e un grosso bue che riposava disteso in un angolo. Vide entrare l’intruso ma non mosse un muscolo, rimase a sonnecchiare sdraiato nella paglia. Maria, con notevole sofferenza, scese dall’asino e andò a sdraiarsi anche lei sulla paglia, con le spalle appoggiate a una mangiatoia piena di fieno. Il calore cominciò a farsi sentire e lei ne trasse beneficio. Giuseppe, intanto, liberava il povero asinello dal giogo lasciandolo vicino al bue, che sollevò un occhio ma lo richiuse subito dopo.
Da bravo falegname Giuseppe pensò subito di preparare una specie di culla per il prossimo nascituro. Prese le misure di due pezzi di mangiatoia e, con gli arnesi che portava sempre con sé, allestì alla meglio una sorta di culla. La riempì di paglia, possibilmente quella più fine, spezzettata, per evitare spuntoni che potevano esser pericolosi per il bambino. Mentre lavorava non perdeva di vista Maria, che aveva cominciato a lamentarsi di nuovo per i forti dolori. Capì che il momento era vicino, non avendo altro da fare uscì fuori all’aperto in attesa di sentire il primo vagito. Maria, come tutte le donne sapeva cosa fare, avrebbe portato a termine il suo compito.
Passavano i minuti e l’aria diventava sempre più fredda, Giuseppe fuori la porta sentiva il freddo entrare dentro di lui come una tenaglia che tentava di strappargli pezzi di carne. In cuor suo voleva entrare e aiutare la sua sposa ma sapeva che non era permesso, doveva solo aspettare. Era intento a guardare il cielo che piano piano stava schiarendosi. Stava facendo notte ma, stranamente, il cielo diventava sempre più pulito. Le stelle uscirono a migliaia e anche l’aria gelida sembrò calare d’intensità. Vide molto lontano una luce splendente che lasciava una scia d’argento, la direzione era verso il punto dove si trovava lui. Distratto dalla meraviglia del cielo ancora non si era accorto che si stavano avvicinando alla porta della stalla diversi animali, quando se ne accorse per poco non fece un salto dalla sorpresa. Vicino a lui e tutto intorno c’era un assortimento di animali piccoli e grandi, erano arrivati in silenzio e se ne stavano lì tranquilli. Notò, fra gli altri, molti uccelli di diverse razze e dimensioni. C’erano molti passerotti, una coppia di colombe, un falco solitario, due gufi dagli occhi sporgenti che giravano di continuo la testa come dei vecchi professori. A terra cani gatti, volpi, topolini, mucche e pecore, anche un lupo e un orso arrivati chissà da dove. Erano tutti insieme prede e predatori, erano fermi insieme a Giuseppe in attesa. Volevano essere i primi a rendere omaggio al redentore.
Nel silenzio della notte improvviso si udì un vagito. Un soffio d’aria avvolse chi era fuori ad aspettare. Un vento tiepido che avrebbe portato il suo soffio d’amore in tutto il pianeta. Giuseppe si decise ad entrare andò subito vicino Maria che con aria stanca ma felice gli porse un fagottino formato con un pezzo delle sue vesti. Dopo averlo baciato, Giuseppe lo mise nella improvvisata culla e gli animali cominciarono a passare davanti alla culla. Passando chinavano la testa come un segno di omaggio, in Lui riconoscevano il Signore di tutti loro.
Quando arrivò il turno della cicogna, lei sulle esili zampe fece una specie di inchino, ma non poté evitare di rattristarsi per le condizioni precarie in cui si trovava quel piccolo. Per essere il Signore di tutti gli esseri viventi giaceva in un posto molto scomodo. Sapeva che la paglia può essere traditrice, alcuni fili sono davvero duri e il neonato ne poteva soffrire. Non si mosse da dove era e, con dolore infinito, cominciò a strapparsi tutte le piume che aveva. Soffriva in silenzio, una alla volta si strappò le piume, quelle più soffici e morbide che aveva sotto le penne, quelle che nello strappo portavano via anche lembi di pelle. Quando ebbe raccolto un bel mucchio, con il lungo becco lavoro con abilità ricoprendo il panno deve era steso il bambino. Soddisfatta e piangente per il dolore si apprestava a uscire quando il sacro bambino la guardò e il suo sguardo fu una benedizione per lei. Da quel giorno la cicogna è diventata un uccello protetto e accettato da tutte le latitudini. È il simbolo della nascita e dell’amore per i neonati.
Quando tutti gli animali furono andati via cominciarono ad arrivare persone del villaggio, pastori dal circondario, viaggiatori che avevano seguito la scia della stella cometa e in breve davanti a quella stalla ci fu il mondo in attesa di omaggiare la nascita del Messia. Arrivarono giorni dopo anche alcuni maghi dal lontano oriente portando doni a chi doveva regnare così in terra, come in cielo.
Ora viene Natale

Ora viene Natale e tutti quanti andiamo per strada a comprare i regali
fermiamoci un momento a ragionare
siamo sicuri che Natale è fatto per comprare?
Io per esempio ho nostalgia di quando ero piccolo e con zia Sofia
facevamo l'albero e pure il Presepe
coi pastori avanti e i Re Magi dietro
la sera della vigilia cantavamo
tu scendi dalle stelle e piano piano
il Santo Bambinello mettevamo
scusate se vi parlo dei tempi antichi
ora c'è il progresso l'abbondanza
ma abbiamo perso la buona creanza
prima di tutto veniva l'educazione
se eri maleducato, uno schiaffone e
“ora stai zitto e fai il buono”
ora basta a scrivere e parlare il dialetto
mi sono stancato di pensare
forse perché sono stanco
forse perché sono vecchio
AUGURI A TUTTI E BUONA NOTTE AL SECCHIO
Mo ve' Natal e tutt quant iam pe strad a cumpra' i regal.
Fermamc nu mument a raggiuna'
sem sucur che Natal è fatto pe cumpra'?
I Per esempio teng nostalgia di quand ero piccolo e ch zia Sofia,
facevam l'albero e pur lu Presepe
ch li pastur annanz e li Re Magi arret.
La sera della vigiglia cantavam
Tu scendi dalle stell e pian pian,
lu Sant Banbnell mettavam.
Scusat se vi parl di li temp antic,
mo ch ci sta' lu prugress e l' abbundannz
però avem pers lu cor e la crianz.
Prim di tutt veniva leducazion
e se er scusumat nu schiaffaton, e
"mo zitt e mosc e pensa a fa lu bon "
Mo abbast a scriv e a parla' in dialett
mi so stufat di pensa',
fors perché so stracc
forse perché so vecchio
Quando Yeshua' era nato

Auguro Buon Natale a tutti i lettori di signoradeifiltri con questo brano tratto dal mio romanzo L'uomo del sorriso, Marchetti Editore, 2015
Il vento del deserto era lo stesso quando Yeshua’ era nato, come se un cerchio si stesse chiudendo. Ricordava le pareti pietrose della grotta, il pavimento macchiato di sangue, Yosef che, con le ginocchia, premeva sul suo ventre per aiutarla a spingere. Ricordava l’odore di stalla, il fiato caldo del bue, la mangiatoia nella quale aveva adagiato il bambino, maledicendo l’ostessa che non li aveva accolti. Ricordava il calore delle braccia di Yosef, ansimante e sudato, che stringevano lei e il piccolo appena nato. «Ora siamo una famiglia, Maria» le aveva detto. «Sei stata brava».
Più di ogni altra cosa, ricordava il primo istante in cui aveva stretto a sé il bambino. Il corpicino si era adattato subito all’incavo delle sue braccia, Yeshua’ si era acciambellato contro di lei come fosse ancora nel suo grembo, le piccole labbra avevano cercato il capezzolo. Lei aveva tastato con le mani ogni parte del piccolo corpo, aveva posato la guancia sul ventre per sentirne il calore, aveva annusato l’odore per imprimerselo dentro, riconoscendolo poi per sempre, sentendo che quella era la perfezione, che lei era venuta al mondo per dare la vita a lui. Dopo, niente era più stato come in quell’istante. Solo distacco, lontananza, freddezza.
Oggi, ai piedi della croce, l’amore che provava per suo figlio era così grande che non bastava un cuore solo a contenerlo. E il suo cuore di madre ora stava esplodendo, pompava sangue all’unisono col cuore del figlio, accompagnandolo, respiro dopo respiro, fino all’ultimo soffio di vita.