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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Quando a Venezia ci si giocava la camicia

31 Gennaio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #storia

 

 

 

 

Dicono che tutto ebbe inizio nel 1172. Un capo mastro di origine bergamasca, tale Nicolò Barattieri, riesce a rizzare due enormi colonne trasportate dall’Oriente come bottino di guerra. Erano rimaste abbandonate per decenni sul molo di San Marco perché nessuno sapeva come fare.

A lavori conclusi alle loro sommità svetteranno le statue di San Totaro, cioè San Teodoro, e del leone alato di San Marco, segnando per sempre l’accesso all’area marciana per chi proveniva dal mare. Ci sarebbe stata anche una terza colonna, ma andò perduta nel fango della laguna durante le operazioni di scarico.

Il Barattieri si era già segnalato per la realizzazione della cella del campanile di San Marco mettendo in campo tutto un marchingegno di casse di legno mosse da carrucole che agevolarono il trasporto dei materiali sino alla cima della torre. Resterà nella storia anche per aver costruito il primo Ponte di Rialto, tutto in legno. Anche nel caso delle colonne impiegò un ingegnoso e complicato sistema di corde bagnate, paranchi e zeppe.

A lavoro ultimato ebbe pure il suo bravo tornaconto: ottenne dal doge Sebastiano Ziani che attorno alle colonne fosse decretata una zona franca dove praticare il gioco d’azzardo fino ad allora proibito ovunque nella Serenissima. Pare fossero molto di moda i dadi, tanto che entreranno a far parte dello stemma di famiglia, fino che un discendente dell’ingegnoso bergamasco deciderà di abiurarli come simboli di un deprecabile passato connesso con il vizio. Infatti, con il tempo il termine “barattieri” era finito per designare i gestori di banchi per il gioco d’azzardo, una consorteria regolata da norme fisse, tacitamente riconosciute e accettate dai biscazzieri, cioè i padroni delle bische.

Cosicché il malaffare prese a dilagare ovunque. Il gioco era per lo più favorito dal calendario veneziano che segnava un’infinità di feste, numerose ricorrenze di santi protettori di parrocchie e corporazioni, sagre e altro, una manna per i barattieri di ogni parte che piovevano in città per svuotare le tasche agli allocchi. Nel 1487 era stato poco saggiamente permesso il gioco in occasione delle feste nuziali e durante il lungo periodo del carnevale quando tutta la città indossava la “bauta”, cioè la maschera, anche bari e truffatori. Il doge Andrea Gritti lo aveva revocato, ma il danno era fatto. Le colonne di piazza San Marco erano oramai diventate il ritrovo della peggior feccia. Ma carte e dadi sbucavano dappertutto, per strada, nelle case e nei cosiddetti “Casin dei Nobili”, case da gioco contrabbandate per salotti da conversazione. Ci si rovinava anche nei “redutti”, ovvero bische clandestine, e più di un’attività nascondeva sotto vesti legali quella dell’azzardo. Biscazzieri per antonomasia erano i barbieri, poco importando loro dei pochi ducati di multa o di qualche settimana di carcere perché l’azzardo fruttava più del mestiere di “conzateste” o radere barbe. Famosa tra Rinascimento e Barocco la bisca nascosta nella bottega di barberia di Vicenzo Gobbo a San Stin nel sestiere di San Polo. Il Vincenzo era pure finito in carcere, ma la bisca aveva continuato a prosperare.

Giocatori, bari, biscazzieri, “tagliatori” e tutto il serraglio di prostituzione e lenoni connesso si beffava di guardie e zaffi, quando addirittura non venivano presi a botte e talvolta anche peggio. Alcuni bari godettero di grande fama, come Zuane Martini, detto “Balla” o “Balletta”, tanto noto che ho deciso di farne un personaggio del mio libro giallo Il Signore di Notte ambientato nella Venezia del 1605. Anche la bisca del Gobbo nel racconto diventa meta delle indagini.

L’insanabile piaga infestò in modo trasversale la società veneziana in ogni epoca e senza distinzione di rango. L’azzardo era nell’aria, compenetrato nella città stessa, amalgamato con i traffici commerciali e con gli arricchimenti, connesso alla storia di Venezia fin dai tempi più remoti e non solo dal 1172. Le sentenze degli Esecutori Contro la Bestemmia e quelle delle altre magistrature che li avevano preceduti per competenza in materia non incutevano alcun timore. Il male non era regredito d’un passo neppure di fronte alle più severe sentenze di bando, messa alla berlina e carcere.

L’elenco dei modi per buttar via soldi era davvero lungo: piastrelle, primiera, gilé col bresciano, trappola, stusso, cricca, minoreto, trentaun per forza, sequentia, chiamare, dar la cartaccia e banco fallito. Un gioco molto diffuso era la basseta, un vero flagello. Il proverbio veneziano “la matina una messeta, dopo pranzo una basseta e la sera una doneta”, cioè alla mattina la messa, al pomeriggio il gioco della “basseta” e la sera una donna, l’avrebbe detta lunga, ma c’era poco da ridere perché il gioco era una peste che divorava i pochi denari dei poveracci e interi patrimoni dei ricchi. Susciterà clamore la disavventura di un giovane patrizio che al gioco aveva perso ogni avere, perfino le fibbie d’oro che adornavano le sue calzature. Nel tentativo di rifarsi alla fine si era giocato pure la propria promessa sposa. Nessuno ha tramandato come si era chiusa la vicenda della poveretta.

Il gioco aveva pesato anche sulle casse dello stato. Tra il 1776 e il 1788 per rimpinguarle il governo aveva deciso di aprire le porte del patriziato a quaranta famiglie, vendendo il titolo per 100.000 ducati. In precedenza, tra il 1646 e il 1669, questa misura era già stata adottata con successo in altre due occasioni quando c’era stata la corsa per accaparrarselo. Questa volta non fu così: solo tredici famiglie furono disponibili a scucire la somma. Tra le ragioni di tanta disaffezione alcuni studiosi hanno individuato nel gioco del lotto la rovina di molte famiglie. Bersaglio di numerose proibizioni, come quella del 7 luglio 1603 con la quale il Consiglio dei Dieci aveva tentato di non “permetter alcuna sorte di Loti”, perché evidentemente ce n’era più di un tipo, era stato infine regolamentato dal governo nel 1734.

“Chi è causa del suo mal …” si potrebbe concludere. Invece, preferisco sottolineare la grandezza dell’antica Repubblica di Venezia, oltre undici secoli di gloria, retta in generale da governi avveduti, quando non geniali, da personaggi responsabili e quasi sempre all’altezza delle situazioni. Va bene! Qualche vizietto glielo possiamo concedere.

 

Gustavo Vitali

 

Per ulteriori informazioni sul libro giallo Il Signore di Notte contattare l'autore del libro: Gustavo Vitali – 335 5852431

 

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Prostitute e cortigiane nella Venezia del Rinascimento

30 Gennaio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Ho appena pubblicato il libro Il Signore di Notte, ambientato nella Venezia nel 1605, alle soglie del Barocco, un giallo fitto fitto, ma con l'aggiunta di brevi divagazioni storiche per contestualizzare il racconto nella sua epoca.

Ci sono anche riferimenti al secolo precedente, cioè il Rinascimento, un periodo per la Serenissima di grande splendore artistico e non solo, a discapito di altri ambiti dove erano cominciati i primi sintomi di quel declino sebbene ancora lungi da venire.

Una delle particolarità della società veneziana in ogni sua epoca, e in particolare durante il Cinquecento, è stato il gran numero di donne dedite alla prostituzione. Gli storici hanno giustificato questo fenomeno con la stessa connotazione di una città tutta orientata verso il commercio e con molti “foresti”, mercanti soprattutto, che vi si recavano per curare i propri affari. Si trattava per lo più di uomini soli … il resto potete immaginarlo.

A favore delle “femene publiche” ci si erano messi pure i costumi del tempo: le ragazze di buona famiglia, ma anche le figlie di comuni cittadini, vivevano sotto controllo dei genitori e godevano di ben poche libertà fino al giorno delle nozze. Quindi gli scapoli avevano rare occasioni di trovare compagnia femminile: circuire qualche poveraccia chiusa contro voglia in convento (casi come quello manzoniano della monaca di Monza e del “tristo” Egidio erano tutt’altro che eccezioni!) oppure darsi all’amore prezzolato.

Fatto sta che a metà del 1500 ne furono censite 11.654 in una città già popolosa di suo, passata dai 130.000 abitanti nel 1540 ai quasi 170.000 nel 1563, terza d’Europa dopo Parigi e Napoli che verso la fine del secolo ne contavano più di 200.000.

La prostituzione a Venezia era fortemente controllata dal governo a partire da dove ammessa e dove no. In pratica era stata confinata entro certi limiti toponomastici, o almeno così avrebbe dovuto esserlo. Per accalappiare i forestieri le meretrici fin dal XIV secolo avevano esercitato la professione nei dintorni di Rialto dove la presenza di mercanti e denaro era scontata. Nel 1421 il governo aveva deciso un giro di vite: le donne dedite al mestiere erano state relegate nel quartiere Castelleto, un vero e proprio ghetto vigilato dalle guardie e aperto dal mattino fino all’ultima campana della sera. Poi tutte a casa, pena la frusta.

Neanche mezzo secolo dopo il giro della prostituzione si era trasferito nelle case del patrizio Priamo Malipiero, sempre in zona Rialto, per poi dilagare un poco ovunque, tanto che dopo il decesso del nobiluomo gli eredi avevano chiesto sgravi fiscali: affittare alloggi alle prostitute rendeva oramai assai poco, visto che nel frattempo erano sparse in mezza città.

Se regolamentare la prostituzione aveva dato scarsi risultati, al contrario tassarla ne aveva dati di ottimi. Dalle imposte sull’amore prezzolato ogni anno pareva uscissero i soldi per allestire quattro galee e nel 1514 le meretrici erano state bersaglio di una pesante tassa straordinaria destinata a finanziare il dragaggio dei fondali dell’Arsenale.

Come detto pocanzi, un uomo solo aveva poche scelte per soddisfare certe voglie. Questo aveva determinato un ulteriore aspetto della società veneziana: l’omosessualità, tanto diffusa che al fenomeno si era fatta perfino una certa abitudine. Tuttavia, contro quello che era ritenuto un vero flagello, ancorché generato dagli stessi costumi che tagliavano i ponti verso rapporti eterosessuali fuori dal matrimonio, e sollecitate dall’incessante tuonare della Chiesa, le istituzioni ne avevano pensate di ogni, ma c’era stato anche dell’altro. Pareva che un bel giorno, tra omosessualità dilagante e nutrita concorrenza, i proventi delle prostitute avessero subito una forte contrazione, al contrario delle gabelle che erano rimaste intatte. Queste avevano sollevato un gran polverone e animate proteste a seguito delle quali il Consiglio dei Dieci, una delle tante magistrature dell’organigramma della Serenissima, era prontamente intervenuto. Ecco la sua “illuminata” delibera: facendo leva sulle attrattive più arrapanti della bellezza femminile, aveva imposto alle prostitute di esibirsi alle finestre di casa a seno scoperto o gambe nude per invogliare gli uomini alla loro frequentazione. Accertata una conseguenza: un ponte di Venezia aveva preso il nome di Ponte delle Tette.

Questo ponte esiste ancora oggi nella zona delle Carampane in contrada San Cassiano, dove era stato infine confinato il grosso della prostituzione sulla quale avevano continuato a piovere restrizioni. Carampane con il tempo diventerà anche l’epiteto per designare una donna avanti con l’età e dalla bellezza sfiorita: vecchia carampana!

Allora come oggi nella professione più antica del mondo si potevano individuare livelli d’ogni sorta: c’erano donne che rimediavano giusto un boccone, magari rischiando la morte per malattie orribili, e quelle che potevano permettersi paggi e servitori, tanto che tra le restrizioni di cui pocanzi una imponeva il divieto di assumere domestici minori di anni trenta. Per altro le limitazioni erano spesso allegramente disattese e senza nessun mal di testa da parte degli organi di controllo. La funzione sociale della prostituzione e il suo cospicuo gettito fiscale facevano chiudere un occhio al governo, anzi tutti e due. Probabilmente più per quest’ultimo motivo che non per il primo.

Un discorso a sé meritano le cortigiane, da non confondersi con le normali prostitute con le quali bastava pagare per entrare nel loro letto, anche a prezzi stracciati e squallore incluso. Al contrario le prime erano disponibili solo per persone di un certo rango e con le tasche ben provviste; per nulla scontato ottenerne i favori, perché queste dame non accettavano chiunque nelle proprie grazie. Erano spesso donne di buona educazione che sapevano intrattenere gli amanti, oltre che soddisfarne gli ardori. Spesso vantavano una cultura raffinata e tra loro non erano rari i talenti in ambito letterario e artistico. Frequentavano i salotti e gli uomini non disdegnavano affatto farsi accompagnare da loro in momenti conviviali. Erano definite “cortigiane honeste” per distinguerle dalle normali meretrici, dette “cortigiane di lume”.

Circa le prime, avevano avuto notorietà i componimenti di Pietro Aretino celebranti le lodi di Angela Dal Moro, alla quale era rimasto appiccicato il nomignolo di “zaffetta” perché figlia di uno “zaffo”. Gli zaffi erano gli informatori della polizia e questo tradisce le umili origini della donna dalle quali si era affrancata grazie al lavoro di cortigiana, ma anche con lo studio, abbinando profonde conoscenze d’arte, musica, letteratura ad attrattive fisiche, modi amatori raffinati ed eleganza. Aveva goduto di un fascino capace di suscitare forti emozioni negli uomini che la avvicinavano. D'altronde, senza fascino e tutto il resto non si poteva svolgere questa professione che poteva garantire agi e ricchezze, ma anche dolori, come per una sua collega della quale leggerete poco avanti.

Della Zaffetta era rimasto ammaliato il grande Tiziano che la ritrasse nuda, niente in confronto dell’ossessione avuta per lei dal collega Paris Bordon che la utilizzò come modella in un numero impressionante di opere. Il che è tutto dire per un pittore che aveva realizzato capolavori come la “Sacra Famiglia”, la “Sacra Conversazione”, il “Sant'Ambrogio” e una pala per la chiesa di Sant'Agostino a Crema.

Veronica Franco (1546 – 1591) di certo la più famosa, poetessa oltre che cortigiana d’alto rango. Su di lei si sono spesi fiumi di inchiostro e dedicati anche dei film. Appare anche nel recente documentario “Io sono Venezia”, più volte trasmesso sui canali RAI, una carrellata sulle origini e storia della Serenissima (vedi link). La foto a corredo di questo articolo rappresenta l’attrice che la interpreta.

La Franco, donna affascinante, bellissima, era diventata tanto conosciuta da essere richiesta perfino dai monarchi in visita al governo, come Enrico III di Francia che soggiornò a Venezia nel 1574. Il “Catalogo delle principali e più honorate cortigiane di Venezia”, un opuscolo del 1565 con nomi, indirizzi e tariffe delle donne dal letto facile più in vista, a suo proposito aveva annotato che un suo bacio sarebbe costato sei scudi, cinquanta il servizio completo.

Ovviamente non aveva potuto godere del rispetto dato alle donne “normali” e aveva dovuto farsi strada da sola. Aveva studiato da autodidatta e cercato i propri mecenati tra uomini colti ed entrando a far parte di circoli culturali. Dopo la pubblicazione e il successo dei suoi lavori letterari, aveva fondato un'istituzione caritatevole a favore delle cortigiane e dei loro figli.

Lasciata Venezia per sfuggire alla peste del 1575, aveva avuto un rientro amaro: i suoi beni erano stati saccheggiati. Per lo più nel 1580 era stata processata dall’Inquisizione per incantesimi, un’accusa comune per le cortigiane dell'epoca. Ne era uscita assolta. ma la sua vita non sarebbe tornata a essere quella di prima. Perse tutte le ricchezze, dopo la morte del suo ultimo benefattore, si ritrovò priva di sostegno finanziario. Dei suoi ultimi anni si sa poco.

Di questo mondo ora oscuro, ora sfavillante, dell’amore mercenario e dell’erotismo a tariffe variabili troveranno molto altro i lettori de’ “Il Signore di Notte”, un giallo con importanti risvolti storici.

Per ulteriori informazioni sul libro giallo Il Signore di Notte contattare l'autore del libro: 

 

Gustavo Vitali – 335 5852431

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Compassione

28 Gennaio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #racconto

 

 

 

 

 

L’apprendista misura il rumore dei suoi passi sul terreno viscido e ripassa nervoso i discorsi pensati per l’occasione. Al di là di un giardino con aiuole bordate di sassi e insolite piante dai minuscoli fiori gialli, la casa. Alcuni gatti lo vedono. È un incontro di sguardi più che umani che fuggono oltre la balaustra tra i riflessi del mare. Nonostante l’aria invecchiata è ancora una bella villa fin du siècle. Due immancabili palme svettano sulle irregolarità del tetto. I licheni ricoprono i gradini di marmo di Carrara lasciando il passo, più in basso, al muschio e di lato alla cymbalaria.

Il ragazzo distoglie lo sguardo sbrigativo dai gatti e attraversa deciso il giardino una volta ben curato, calpesta aiuole e tutto quello che incontra senza riguardo. Non ha più bisogno di ripassare nessun discorso, perché non ci sarebbero stati discorsi.

La casa era stata per lui proibita per molti, troppi anni, vietata a tutti i poveracci come lui che abitavano le casupole umili del borgo, al di là della ferrovia dove nessuna pianticella dai fiori minuscoli aveva mai rallegrato la povertà. Tutta vietata, salvo il giardino, enorme.

Oggi, in questo giorno di fine aprile con un bel sole a scaldare le membra dopo il freddo della montagna, le cose sono cambiate. Il giovane non è più l’apprendista giardiniere al seguito del padrone di anni or sono, quando si spaccava braccia e spalle per tagliare rami, regolare siepi e zappare aiuole in cambio di poche monete e sguardi di commiserazione quando non di sprezzo. Tanto tempo è trascorso da quando l’elegante signora della bella villa fine secolo attraversava con aria spocchiosa mista a disgusto le strade scalcinate del villaggio sulle quali si aprivano gli usci degli indigenti con gli odori di povere minestre a permeare l’aria degli alloggi.

Anni da quando il padrone della bella villa con le sue squadracce irrompeva nel borgo per bastonare i rossi, quando il padre veniva trascinato via per insegnargli il buon vivere a suon di olio di ricino e manganello; anni da quando il gerarca era salito di grado ed erano stati altri ceffoni, non più quelli delle squadracce, ma dalle mani della milizia; anni da quando avevano trovato il suo cadavere gettato in un fosso. Invece, erano trascorsi solo mesi, eppure lunghi come anni, da quando aveva preso la via della montagna per unirsi ai ribelli che di miseria e soprusi erano stanchi. Poi si era dato Ivanov come nome di battaglia e si era calcato in testa un basco con cucita in fronte una stella rossa, tanto perché fosse chiaro a tutti da che parte stava.

Con quel basco in testa e imbracciando un mitra recuperato da un lancio di rifornimenti per i partigiani da parte dell’aviazione alleata, si era nascosto nei boschi condividendo con altri disperati come lui giorni di pericoli e di stenti, scampando alle retate di tedeschi e repubblichini, rischiando ogni momento di finire sulla forca e sognando il sole dell’avvenire che gli avevano promesso. Si era nascosto, attaccato quando era stato possibile, mai fuggito.

Adesso il ragazzo è tornato per regolare i conti nel solo modo che ha imparato: premendo il grilletto di un’arma.

Avanza deciso attraverso il parco oramai trascurato mentre si assesta lo Sten a tracolla a bilanciare il peso di un tascapane dalla parte opposta e procede diritto verso i gradini di marmo una volta belli lustri, oggi preda del muschio. Li sale. Sta per sfondare con un calcio l’uscio a lui tanto a lungo proibito, quando resta sorpreso nel vedere accostate le due ante finemente intarsiate, ma senza più il lucido dei tempi andati.

Le apre. Nell’atrio tutto è silenzio e la casa pare deserta. Dalle porte che si aprono sul vano vede un salone, le poltrone in pelle del salotto, poi una sala da pranzo, tutte grandi, enormi, arredate in finto Chippendale, come si conviene nelle case della gente per bene. Le tapparelle non sono abbassate del tutto e lasciano filtrare fasci di luce fioca a tagliare la penombra. Sembra che nessuno da tempo abbia più usato quelle sale.

Avanza senza curarsi del rumore degli scarponi sul pavimento ancora lucido fino ai piedi di una scala in finta Calacatta che del prezioso marmo ha solo il bianco crema e le tenui venature giallo dorate. Le ringhiere occhieggiano all’Art Nouveau come un poco lo pretende tutta la villa, ma sono pastrocchi di fantasia, senza uno stile definito e che ne fanno giusto un esempio di cattivo gusto, come mobili e tutto quanto.

Sta per perlustrare le stanze, ma ecco una voce giungere da sopra:

«Sei tu, Marietta?»

Marietta è la serva di casa, arrivata giovanissima a servizio dalla campagna, fedele, minuta, una bellezza slavata, incolore. L’aveva conosciuta quando di nascosto dai padroni gli aveva portato un bicchiere di quello buono per tirarlo su di forze. Lui non era mai rimasto affascinato dalla ragazza sciupatella e aveva goduto del vino, non della serva.

A chiamare era stata una voce flebile di donna. Il giovane non risponde e inforca le scale che lo portano a una grande anticamera dove si aprono le camere da letto. Sulla porta di una di queste appare la padrona che alla sua vista ha un attimo di sgomento. Poi si volta e scappa dentro. La insegue d’impulso, ma si arresta non appena varcata la soglia: davanti a lui in un enorme letto d’ottone giace un ragazzo che potrebbe avere la sua età. La donna si protende per difendere quel corpo, allarga le braccia come per impedire che gli sia fatto del male, ma l’ex apprendista non è lì per fare giustizia di ammalati.

Qui la luce del sole penetra abbondante dalle tapparelle rimaste mezzo scostate e il ragazzo ha modo di osservare la donna: non è più la gran signora dalla puzza sotto il naso; indossa una vestaglia modesta, ha il viso sbattuto più dal dolore che dal tempo, lo sguardo spaventato invece di quello arrogante dei tempi migliori, quando aveva attorno a sé un marito e tre figli altezzosi come lei. Su un comodino molte medicine, farmaci costosi comprati a caro prezzo alla borsa nera, ma che non avrebbero guarito il figlio, tanto meno salvato.

Il partigiano Ivanov si riprende dalla sorpresa e intima con voce determinata fino alla crudeltà:

«Dov’è il porco?»

La donna non risponde, ma l’iniziale spavento diventa paura quando sente il rumore secco e metallico dell’otturatore: il ragazzo ha messo il colpo in canna e con grande soddisfazione vede il terrore accendersi nei suoi occhi. Finalmente!

«Dov’è?» intima di nuovo alzando il tono e fa un passo avanti nell’atto di assestare un manrovescio su quelle guance raggrinzite e senza più traccia di belletti. La donna si porta di scatto una mano al volto per difendersi dallo schiaffo ed esclama:

«Ce l’avete davanti!»

Ha usato il “voi” per rivolgersi all’intruso. In altri tempi sarebbe stato un “tu”, ma la situazione non è più quella e il riguardo le è uscito di bocca d’istinto: meglio assecondare, oramai finito il tempo del disprezzo.

Subito dopo indica il comò dove è posata una cornice con il ritratto del “porco” in divisa nera d’ordinanza, orbace in testa, sguardo fisso e piglio fiero. Accanto altre due più piccole, come si fosse inteso rispettare una sorta di gerarchia post mortem: sono le foto dei figli in divisa del Regio Esercito, caduti in Africa. Il terzo è lì nel letto, febbricitante e semi incosciente.

Adesso nel giovane rimbalzano sentimenti molto diversi. Ha le mani sudaticce mentre spiana l’arma con il dito sul grilletto. Vorrebbe decidere di chiudere la partita con quello che resta dell’odiata famiglia, ma l’espressione addolorata dalla donna, il suo terrore, il respiro affannoso del ragazzo e quanto c’è di disfacimento nella casa glielo impediscono. Ivanov è arrivato tardi e a nulla serve lo Sten pronto a far fuoco perché altri eventi hanno già fatto giustizia per lui.

Ancora un secco clic clak e leva il colpo di canna, abbassa lentamente l’arma e insieme lo sguardo, ma non sembra che questo rassicuri la donna. Lo rialza per osservare meglio intorno: la decadenza della villa fine secolo gli appare adesso come mai prima, ma c’è dell’altro: è la sofferenza palpabile nell’aria e che sembra impregnare tutto, muri, arredi, persone. E poi il futuro, anzi nessun futuro per quei due, il figlio per la malattia e la madre per una povertà alla quale difficilmente sarebbe riuscita ad abituarsi. Le povere minestre sarebbero spettate anche a lei.

Ivanov indietreggia, poi si volta di botto e scende le scale di corsa, lascia spalancato l’uscio e attraversa frettoloso il grande giardino. Fugge per prima volta da quando aveva preso la via della montagna.

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GIORNO DELLA MEMORIA 2021 _ Cori partecipa alla diretta streaming da Auschwitz

27 Gennaio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Quest’anno, a causa della pandemia, non potrà aver luogo la tradizionale visita istituzionale dell’Amministrazione Comunale alla gemellata Città di Auschwitz in occasione del 76° Anniversario della Liberazione del campo di sterminio.

 “Un’esperienza emotivamente forte – ricorda il Sindaco Mauro Primio De Lillis – che ci costringe ad un’immersione in un pezzo di storia aberrante dell’umanità ma che rappresenta un monito per restare sempre vigili e attivi sui valori dell’uguaglianza e della fratellanza. Sono dispiaciuto che quest’anno non sia stato possibile organizzare il viaggio ad Auschwitz per gli studenti delle scuole di Cori e Giulianello, che ormai si ripeteva da 12 anni, perché sono convinto che ognuno di quei ragazzi che ha fatto quell’esperienza sia tornato più forte in quei valori.

Il Sindaco di Oświęcim, Janusz Chwierut, ha invitato tutti i Sindaci delle città gemellate alla cerimonia che si terrà in forma di video conferenza il 27 gennaio e che verrà trasmessa a partire dalle ore 16,00 sui canali social dell’Auschwitz Memorial.

Il Comune di Cori rilancerà la cerimonia online sulla propria pagina facebook perché vogliamo far arrivare un piccolo segno della nostra vicinanza alla città gemella di Auschwitz, e perché vogliamo far condividere questo momento commemorativo a tutti quei nostri concittadini ed a quei ragazzi che quest’anno non potranno partecipare alla cerimonia di Auschwitz.

 

Credo fermamente che solo rinsaldando valori e comportamenti di uguaglianza e fratellanza possiamo guardare al futuro e vincere anche la battaglia contro il COVID-19 che da un anno accomuna tutto il mondo”.

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Il mio nuovo romanzo

26 Gennaio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #federica cabras

Il mio nuovo romanzo

 

Ho il piacere di condividere con i lettori l’uscita del mio nuovo romanzo per la collana romance Milena in love, la cui referente è la bravissima Federica Cabras, di Officina Milena:

 

L'ultima luna.

Africa, primi anni Ottanta. Mary Connelly condivide lo stesso pazzo amore per la savana di suo padre Jeff, ricco industriale inglese trasferitosi in Kenya. Lei è cresciuta lì, con quelle albe trasparenti e quei tramonti infuocati, con quella terra rossa e quei cieli mai veramente sgombri di nuvole. Non c’è posto al mondo che Mary e suo padre amino come la riserva del Masai Mara, non hanno bisogno di nient’altro per essere felici.

Ma la madre, l’angloindiana Violet, che ama follemente il marito ma non si è mai sentita legata alla figlia, sogna l’Inghilterra e non si rassegna a quella vita. Riesce almeno a vincere su un punto: la famiglia ha bisogno della medicina inglese. Così, a Casa Connelly arriva il dottor Morgan Lawson, giovane, inquieto, subito catturato dall’dall’atmosfera esotica, dal fascino di una terra che non è come la si vede in cartolina ma, quando ti afferra, non ti lascia più.

Mary è infastidita, non ama ciò che è inglese, non vuole estranei in casa sua. Entrambi alla ricerca di se stessi e del senso della vita, si scrutano, si girano intorno guardinghi, si cercano pur senza ammetterlo. Del resto, quando la scintilla scocca, non c’è nulla da fare.

 

Su di me:

Patrizia Poli è nata a Livorno nel 1961. Laureata in lingua e letteratura inglese, dal 2012 amministra il blog culturale collettivo signoradeifiltri.

Ha pubblicato: L’uomo del sorriso, Marchetti Editore 2015, segnalato al XXVI premio Calvino, Signora dei filtri, Marchetti Editore, 2017, Una casa di vento, Marchetti Editore, 2019.

Appassionata di letture, cinema, viaggi e animali

 

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Il pattinaggio

25 Gennaio 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #paula martins, #racconto

 

 

 

C'era una scuola di pattinaggio nella mia città in Mozambico, dove mia madre mi aveva iscritta.

All'inizio avevo quattro anni, ma di questo periodo non ricordo tanto. Quello che ricordo bene è successo due anni dopo, quando ne avevo sei. Pattinavo in coppia. Eravamo lungamente applauditi, tanto festeggiati. Non per il fatto di essere bravi (quanto bravi potevamo essere noi?), ma perché eravamo buffi. E inaspettati.

Ricordo una volta in che Rui, il mio partner, aveva sbagliato mossa. Indignata, l'ho tirato dalla parte giusta, con irritazione e determinazione. A sua volta, lui ha tirato me, che ho rispostato lui… e questo è andato avanti così per un interminabile mezzo minuto. Mezzo minuto mentre pattini, è tanto! Gli spettatori, colti alla sprovvista, scoppiarono a ridere e a applaudire, una vera raffica di applausi che non smetteva mai. Mezzo minuto dopo ricominciammo a pattinare insieme alla musica, come se niente fosse.

Da questo evento non si può certo ricavare resilienza o qualche altra caratteristica positiva. L'immagine che si raccoglie è quella di una immensa testardaggine. Non essendo una caratteristica così bella, è stato un elemento molto utile in tutto quello che dopo mi è successo.

 

 

                                                                     

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Gustavo Vitali, "Il Signore di Notte"

24 Gennaio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #gustavo vitali

 

 

 

 

Il Signore di Notte

Gustavo Vitali

 

Libro autoprodotto

pp 513

19,00

 

 

È difficile recensire questo libro. Il signore di notte di Gustavo Vitali è senza dubbio un testo di grande valore.

Ma.

Un giallo storico, ben scritto, ben sviluppato, con tutte le cose al posto giusto, a partire da un’ottima scrittura – appena qualche ripetizione o allitterazione di troppo -, per continuare con azione e colpi di scena. Soprattutto un’ambientazione vivissima e piena di atmosfera, dove ogni oggetto, ogni luogo, ogni usanza, sono visti, odorati, assaporati, ricreati attraverso una documentazione ineccepibile. C’è persino una buona interpretazione psicologica dei personaggi. Francesco Barbarigo – il magistrato investigatore seicentesco che indaga insieme al più serio e concreto capitano Stella– è ben tratteggiato nei suoi pregi e difetti molto umani, al punto da non risultare poi nemmeno troppo simpatico.  

Niente da eccepire, quindi, un notevolissimo lavoro di scrittura e di storia ben amalgamati.

Ma… ma non posso negare che la continua sospensione delle vicende in favore della ricostruzione storica, applicata in modo maniacale a qualsiasi elemento - dall’architettura, alle ambientazioni, agli usi e ai costumi - alla fine inevitabilmente interrompe il flusso della trama e – considerate anche le cinquecento e più pagine – diventa pesante. Trasforma il romanzo in un libro per addetti ai lavori, per appassionati. Lo rende, insomma, meno fruibile dal lettore comune.

Francesco Barbarigo – personaggio effettivamente esistito – Signore della Notte al Criminal, deve indagare sulla morte di Nicolo Duodo, un nobile in miseria, costretto ad accattare incarichi burocratici per tirare avanti. All’inizio Barbarigo coglie il suggerimento del proprio amatissimo fratello Gabriele, e indaga su un “bravo”, certo Rimondo, che col morto avrebbe avuto dei dissapori importanti. Ma la verità sta da un’altra parte.

Durante l’inchiesta il Signore della Notte s’ imbatte in varie figure e, nel contempo, porta avanti anche la sua vita privata, fatta di affetto per il fratello più godereccio, fatta della scoperta di essere stato oggetto inconsapevole di un amore omosessuale e, soprattutto, del contrastato e inquietante rapporto con la bella Gigliola.

Nonostante tutto, ripeto, non si può negare il merito dell’opera, la sua fantastica capacità di farci rivivere la Venezia del cinquecento e seicento. Sentiamo lo sciabordare dell’acqua nei canali, i lamenti dei prigionieri sul Ponte dei Sospiri, vediamo i colori sgargianti delle vesti maliziose delle nobildonne e le tavole imbandite, assistiamo ai duelli nei vicoli bui e nelle calli. Uno splendido e inimitabile affresco d’epoca, un’opera che denota non solo interesse storico ma vero e proprio amore per la splendida, concreta ma evanescente, Serenissima.

 

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Antonio Messina, "Come una nuvola dentro un cortile"

21 Gennaio 2021 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Antonio Messina e la poesia del tempo perduto

Come una nuvola dentro un cortile
Nulladie Edizioni - pagine 55 – Euro 11

 

Antonio Messina è un autore che conosco e apprezzo da quasi vent’anni per aver pubblicato buona parte della sua produzione fantasy e per ragazzi con Il Foglio Letterario Edizioni, romanzi e racconti premiati dal consenso del pubblico e della critica, scritti con uno stile sopraffino, lontani dalla poetica del best-seller quanto vicini a quella della letteratura.

La poesia di Messina traccia una linea di demarcazione netta con la sua narrativa, perché meno solare e fantastica, più introspettiva e densa di contenuti nostalgici. Come una nuvola dentro il cortile sorprende per freschezza d’immagini e poetica del ricordo fuse in un intenso afflato lirico che prende per mano il lettore esortandolo a condividere identiche emozioni. La Sicilia è la terra natia del poeta, il luogo dove tornare con la mente e con il cuore, come il vecchio professore de Il posto delle fragole di Bergman si fermava a rivedere la casa paterna rivivendo il passato con intensi flashback immaginari. La lirica diventa canto di un esule volontario che ripensa cortili, arenili, rocce, mulattiere, strade di paese, padri che rientrano stanchi dal lavoro dei campi, figure materne lontane e perdute. Il poeta è convinto che siamo come le nuvole / passioni nell’istante / frammenti di altrui pensieri …, in fondo non altro che piccoli uomini d’aria che si abbandonano alla vita. Uomini perduti, in attesa della morte, uomini che fluttuano in un cielo di stelle, che un tempo sono stati bambini, per brevi istanti vivono ancora un’infanzia immaginaria, piccoli esseri di latta, dentro le madri, in una notte eterna piena di stelle.

Antonio Messina compone un’opera unitaria, elegiaca e sognante, un maturo casellario di ricordi, legato al sapore del tempo perduto di proustiana memoria. Racconta la terra natia abbandonata e gli affetti presenti, sente che piove tra le rovine della sua vita, sa che non potrà attendere la figlia, perché non ne avrà il tempo. Spera che resti un posto nell’angolo sperduto del suo cuore, per lui che è solo pietra nell’infinito in attesa della morte, piccolo uomo fatto di vento, figlio distratto, smarrito in un sogno.

Come una nuova dentro il cortile è una raccolta preziosa, intrisa di immagini suadenti, persino struggenti, pervasa da un flebile ottimismo, perché tornerà l’estate, prima o poi, non dobbiamo disperare, anche se il poeta preferisce continuare a coltivare la solitudine immerso in una dimensione di sogno, perché in fondo sognare è meglio che pensare.

 

Per comprare il libro 

 

Gordiano Lupi
www.ilfoglioletterario.it

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La felicità

20 Gennaio 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #racconto, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

In Mozambico avevo un bel gruppetto intorno a me, e questo era una barriera agli scherzi degli altri. Però, anche questa barriera ti sottoponeva al ridicolo. Pur condividendo tanti segreti e barzellette, le amiche si tormentavano ogni tanto, mi tormentavano, a dire il vero anch'io lo facevo con loro. Ma non era tanto importante, eravamo amiche. Abitavamo vicinissimo le une alle altre, e siccome c'erano pochissime auto in giro, lo spazio era nostro per giocare e correre, per gareggiare in bicicletta. Di notte, era frequente andare a dormire a casa di una o dell'altra, tutte noi lo facevamo, in un miscuglio felice e spensierato.

Ricordo una cosa un po' cattiva che facevamo, tutte noi, come un esercito ben addestrato: toglievamo piccoli gocci di whiskey dai bicchieri degli ospiti di casa, e li conservavamo in una bottiglia. Quando toccava a una di noi andare a dormire da qualche amica, c'era sempre un piccolo sorso di whiskey accuratamente conservato. Quando tutti in casa dormivano, era la nostra ora assieme a quel liquido, la cui attrazione piuttosto amara era principalmente l'essere vietato.

Certo che questo evento ansiosamente aspettato non era un granché: ci ubriacavamo nella nostra piccola stanza, avevamo conversazioni stupide, e, alla fine, non andavamo da nessuna parte. Per di più, il giorno seguente avevamo un dolore nella testa insopportabile. Ma tutto questo è vivere, tutto questo è apprendimento, tutto questo è felicità. Insomma, tutto questo è amicizia.

Si non ci fosse l'amicizia, avresti vissuto quei momenti felici?  

 

 

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Federica Cabras, "Animas"

16 Gennaio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #federica cabras

 

 

 

 

Animas

Federica Cabras

 

Officina Milena, 2020

pp 198

15,00

 

Federica Cabras ha due anime. Una è moderna, arguta, divertente, e scrive romanzi d’amore e d’allegria, infarciti di dialoghi spassosi e battute. L’altra è l’opposto: morbosa, tellurica, ancestrale, affascinata dalla sua terra e dalla morte. È quest’ultima la Cabras migliore, la Cabras deleddiana, che ritroviamo in Animas, il romanzo della piena maturità artistica.

Animas è ambientato in Sardegna, come tutti gli altri testi dell’autrice, ma questa è la Sardegna più cupa e vera, quella delle faide, della pastorizia, del sangue e del trapasso. Animas è un romanzo gotico a tutti gli effetti – oggi lo si chiamerebbe thriller o horror -, basato su maledizioni, leggende della notte dei morti, incubi e defunti che non muoiono per davvero. Banale dire che la protagonista del racconto è la terra dei nuraghi, ma è proprio così, la Sardegna più buia e atavica balza agli occhi con tutte le sue tradizioni, i sui colori, gli odori e, soprattutto, la lingua.

Il personaggio principale è Graziella Ruinas, una di quelle fiere donne sarde che camminano a testa alta e a petto in fuori, che rispettano i loro uomini ma non si sentono da meno di loro. Ognuno al suo posto, uomo e donna, con orgoglio e amore. Siamo negli anni cinquanta e una maledizione grava sui maschi della famiglia Ruinas. Chi di loro muore nella notte fra il trentuno ottobre e il primo novembre – la notte dei morti – resta sulla terra per sette anni, non in forma benevola o protettiva, bensì maligna, tesa a tormentare i vivi e far loro perdere la ragione e persino la vita. È ciò che accade a Giovanni, il padre di Graziella. Sfortunatamente cade dalle scale e muore proprio nella notte meno indicata. E su queste cose, più antiche della terra stessa, si sa, persino Dio può poco.

Strani accadimenti cominciano pian piano a verificarsi, che porteranno Lucia, la madre di Graziella, sul baratro della pazzia. Ma Graziella non ci sta, indaga, vuol capire da cosa deriva ciò che la sta travolgendo, e vedere di rimediare in qualche modo. Da sola, nonostante l’aiuto del cugino Umberto, anche lui un Ruinas, anche lui in pericolo. Fra i due giovani nascerà una tenera e ruvida storia d’amore, di quelle che si vivevano allora, fra campi assolati e monti nevosi, fra bestie da pascolare e fuoco da attizzare, senza inutili smancerie ma fondate su un amore profondo ed eterno.    

Sardegna, dicevamo, terra di pastorizia e allevamento, terra dove gli animali sono rispettati per il cibo e il lavoro che forniscono ma non certo amati, non da tutti, non come nelle altre regioni, non negli anni cinquanta soprattutto. Graziella, però, è diversa. Lei ama gli animali. Si affeziona teneramente ai cuccioli di cane, prova compassione quando vengono uccise le pecore, i buoi e i maiali che serviranno alla famiglia per nutrirsi. Questa pietà - umana, nuova, moderna -, agli occhi del paese è sbagliata, è ciò che fa marcire la carne macellata. Ma – vedremo alla fine – sarà proprio un atto di compassione (come ne Il signore degli anelli), sarà l’amore per gli animali e il senso del perdono, a rimettere a posto le cose, a trasformare la morte nella speranza di una nuova vita libera.  A collegare la Sardegna di un tempo a quella di oggi.

L’unico difetto del testo è il far progredire la trama un po’ troppo a colpi di sogni, ma questo aumenta l’impressione onirica e misteriosa. Nell’insieme, un romanzo bello e compiuto, molto ben scritto, pieno di atmosfera, di sentimenti potenti, mai tenui o sottintesi, sempre accecanti come gli elementi naturali di questa aspra terra.

 

 

 

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