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gustavo vitali

Libri in Piazza e Salone Internazionale del libro

31 Marzo 2022 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #eventi

 

 

 

 

Sono una cinquantina gli stand che attendono i visitatori di “Libri in Piazza” in programma il 2 e 3 aprile a Rivoli (Torino), comprese tre emittenti radio televisive. Due le aree che li suddividono, una dedicata al genere “comics” e l’altra agli editori.

La manifestazione prevede un nutrito programma di eventi collaterali, dalla cerimonia di benvenuto con le autorità locali e la madrina Elena Mirullo, agli incontri con gli autori, dalla presentazione di opere e scrittori nella Sala Convegni di piazza Martiri della Libertà, agli aperitivi letterari presso le attività commerciali di via Piol.

Infine lo stand dell’organizzazione, il CSU, Collettivo Scrittori Uniti, gruppo di appassionati di scrittura nato con l’obiettivo di promuovere libri durante le fiere nazionali. Sito nei pressi della Sala Convegni, ospiterà numerose opere e tra queste, per la prima volta in piazza, il libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605.

Il tutto condito da incontri musicali dal vivo nonché approfondimenti su tematiche di attualità e attività video-ludiche.

 

Non ha bisogno di presentazioni il Salone Internazionale del Libro, giunto quest’anno alla XXXIV edizione che come sempre si preannuncia ricca di incontri ed eventi straordinari.

Sotto il titolo “Cuori Selvaggi”, le riflessioni ruoteranno attorno al tema della ricerca di speranza per il futuro, ricerca che non ci abbandona mai a dispetto del mondo inquieto, turbolento e pieno di enormi problemi nel quale viviamo.

Gli 81 mila metri quadrati dell’ultima edizione sono stati attraversati da oltre 150 mila visitatori. Con la concreta prospettiva di replicare il successo, l’esposizione del 2022 terrà banco nel capoluogo piemontese dal 19 al 23 maggio presso il Lingotto Fiere di via Nizza e non solo. Infatti l’iniziativa Salone Off porterà libri e spettacoli fuori dai padiglioni, con uno sguardo privilegiato alle periferie e all'area metropolitana.

Tra i numerosi attori della più grande fiera italiana dell’editoria, autori, librai, bibliotecari, docenti e studenti, case editrici e tanti, tanti lettori, il padiglione 2 ospiterà ancora una volta lo stand del Collettivo Scrittori Uniti. Qui saranno disponibili le opere di numerosi scrittori, compreso il libro Il Signore di Notte, opera d’esordio di Gustavo Vitali, che, come segnalato nel sito del libro medesimo, sta ottenendo lusinghiere recensioni da parte di lettori e addetti ai lavori. Nelle giornate di giovedì 19 maggio e venerdì 20 sarà presente lo stesso autore.

 

 

 

 

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Un giallo nella Venezia dei dogi

3 Febbraio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali

 

 

 

 

Venezia, 16 aprile 1605.

Dal mattino di quel giorno partono le indagini per scovare l’assassino di un nobile caduto in miseria sullo sfondo dell’antica Repubblica Serenissima tra Rinascimento e Barocco.

La trama di questo nuovo libro giallo, con importanti risvolti storici, scorre agile tra complicate vicende nelle quali non mancano scontri, agguati e nuovi omicidi alcuni dei quali riemergono dalle nebbie dove erano stati confinati per anni. Appaiono sulla scena le figure più disparate, dai banditi ai bari, dalle prostitute ai nobili ricchissimi, come a poveracci che campano malamente. Poi ebrei, usurai, bellimbusti, la devastante brutalità dei “bravi” e quella non da meno degli sgherri, ma sono solo alcuni dei personaggi che il lettore incontrerà nelle oltre 500 pagine del romanzo. Particolare interessante: al contrario della vicenda che è tutta di fantasia, molti dei protagonisti sono davvero vissuti ai tempi e riportati a nuova “vita letteraria” grazie a un grosso lavoro di documentazione.

Su tutti la figura del protagonista, Francesco Barbarigo, rampollo di un antico casato e membro della magistratura chiamata I Signori di Notte, un corpo di sei patrizi delegati all’ordine pubblico, giudici e insieme capi di una delle tante polizie di allora, tutt’altro che l’abusato stereotipo dell’eroe positivo. È invece un uomo complicato, controverso, spinto dall’ambizione, che si incarica con superficialità di un’indagine complessa e per la quale non è affatto preparato. Vorrebbe spargere sicurezza, ma lo agitano indecisioni che lo portano a cambiare idea da un momento all’altro. Vorrebbe apparire come una persona limpida, ma lo angosciano ricordi del passato ed è schiavo di repentini sbalzi d’umore. A complicare ancor più la situazione si aggiunge un intreccio amoroso con una donna bellissima, una relazione per lui, non bello e a tratti perfino goffo, del tutto insperata, ma della quale nulla capisce e che gli porterà nuovi turbamenti.

Con fare facilone e arrogante, e senza voler ammettere le proprie deficienze, insegue le ipotesi più stravaganti e si affanna su piste fasulle, indaga a casaccio e senza nessuna strategia. Intravvede in un ricercato il colpevole ideale che potrebbe tirarlo fuori dalle rogne, ma si sbaglia di grosso. Si infila così in clamorose sconfitte prima che in suo aiuto accorra Domenico Stella, un capitano delle guardie che ha tutta quell’esperienza e quelle capacità in lui del tutto assenti.

Lo stile del testo è ironico e dissacratorio, a tratti pure comico. Sono messi alla berlina, oltre che questo investigatore improvvisato, anche i tanti difetti della società dell’epoca, mentre ambienti, protagonisti e tutto il contorno sono descritti in modo tanto abile che il lettore ha l’impressione di essere presente ai fatti.

Il Signore di Notte e il suo capitano dovranno penare un bel pezzo prima di scrivere la parola fine a questo giallo dalla trama fitta e intrigante. Le indagini nel frattempo si sono spostate a Murano, ma Venezia rimane come sfondo della storia. Alla fine i due riusciranno a venire a capo di tutto in un finale sorprendente e dopo altri colpi di scena che ribaltano certezze date per acquisite. La tensione resta viva fino all’ultima pagina dell’ultimo capitolo.

 

 

Per ulteriori informazioni sul libro giallo Il Signore di Notte contattare l'autore del libro:  Gustavo Vitali – 335 5852431 – gustavo (AT)

 

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La schiava che il sultano amò

1 Febbraio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

 

Quella di Rosselana è una storia di schiavitù, passione, amore, intrighi, potere, sangue e poesia.

Donna di nation Rossa, giovane non bella ma grassiada”, aveva scritto di lei Pietro Bragadin in un rapporto diplomatico al governo di Venezia.

Sulle origini di questa donna tra verità e leggenda c’era solo l’imbarazzo della scelta, tutte ben confuse a partire dal nome: Roxolana, Roksa, Roksolana e in occidente Roxelana o “la Rosselana” per i suoi capelli rossi. Infine Hürrem Haseki Sulṭān o Khurrem Sulṭān, in turco la sultana ridente. Il suo vero nome pare fosse stato Alexandra Anastasia Lisowska, almeno prima di finire nell’harem di Costantinopoli.

Oltre che nativa della Russia, che allora neppure esisteva, una terra chamata Moscovia semmai, era stata avallata anche come ucraina, polacca, persiana, perfino come un’improbabile contessa italiana. Verosimilmente era ucraina, figlia di di Hawryło Lisowski, un prete ortodosso, nata a Rohatyn forse tra il 1502 e il 1506, quando gran parte dell’Ucraina faceva parte del Granducato di Lituania, confluito poi nella confederazione con la Polonia.

Confuse pure le notizie su come Rosselana fosse finita nell’harem di Costantinopoli: rapita dai tartari, venduta a mercanti genovesi e portata al mercato di schiavi della capitale turca, secondo la più probabile. Pare l’abbia poi comprata l’albanese Ibrahim Pascià, gran visir e cognato di Solimano il Magnifico e donata al vecchio Selim I, padre di Solimano. Costui, ormai troppo anziano per certe prestazioni, l’avrebbe ceduta al figlio quando la schiava aveva circa quindici anni. Insomma, nomi, paesi d’origine e rotte commerciali non aiutano a fare chiarezza.

Fatto sta che Solimano è attratto dalla sorridente Roksolana: i due diventano intimi, confidenti, infine amanti. Lui, quando è lontano da corte perché impegnato nelle frequenti campagne militari, si fida solo delle notizie da palazzo ricevute da lei. Non è solo amore, ma anche convenienza: ha bisogno di qualcuno di affidabile che gli fornisca informazioni sulla situazione a palazzo e sceglie l’amata.

Dell’harem in occidente si aveva, e ancora si ha, uno stereotipo lontano dal vero, vale a dire un luogo di perdizione con schiave licenziose e discinte pronte a soddisfare i sollazzi di sultani debosciati. Invece l’harem era per molti versi tutt’altro: si faceva politica, si pianificava il futuro, si intrigava, oltre che tutto il resto. Era governato dalle madri e dalle mogli dei sultani e le concubine educavano i propri figli progettando per loro un avvenire migliore, cosa che poteva accadere. Nell’impero ottomano perfino uno schiavetto genovese, prediletto di un sultano, da uomo diventerà capo della flotta turca, come la schiava ucraina diventerà sultana.

Un giorno scoppia un incendio nell’harem ubicato nel cosiddetto Palazzo Vecchio, una costruzione staccata dal Topkapi, letteralmente “Porta del Cannone”, che era invece quello da cui si governava l’impero. Rosselana si trasferisce al Topkapi in attesa che la struttura venga ripristinata, ma nell’harem non farà più ritorno. È diventata una “haseki”, cioè la concubina preferita del sultano, scalzando ogni altra donna dal suo cuore.

Solimano aveva già avuto chissà quanti figli, di sicuro il primogenito Sehzade Mustafà designato quale erede legittimo, figlio della sua prima moglie, Mahi Debran Gulbahar, chiamata anche Gyulbahar, o Mahidevran. Per ironia della sorte e per sottolineare una pratica consolidata, anche questa proveniva dal mercato degli schiavi di Costantinopoli, ma è il solo aspetto che le due donne hanno in comune.

Mahidevran è rosa dalla gelosia per l’ascesa della rivale dai capelli rossi. Tra loro scoppia un alterco, vengono alle mani e Rosselana ha la peggio. Interviene Solimano con il quale la ex schiava gioca d’astuzia e dapprima si rifiuta di mostrare le ferite; Solimano insiste e lei cede solo dopo una lunga manfrina. Mahidevran viene immediatamente allontanata da corte e lui prende Rosselana come moglie ufficiale forse nel 1534. La corte ottomana è contraria al matrimonio, ma il sultano fa quello che vuole.

In verità la tradizione voleva che le preferite dei sultani avessero sostanzialmente due ruoli mai sovrapposti: amante e madre dell’erede al trono. Dopo aver dato alla luce il maschio, cessavano di essere le favorite e dovevano andarsene da palazzo con il figlio per allevarlo fino a quando avrebbe preso il posto del padre. Non sarà così per Roksolana che resterà a corte nonostante sei maternità, prima a rompere la tradizione e con grande scandalo dei dignitari della Sublime Porta, ma non sono loro a comandare.

Come Hürrem Haseki Sulṭān, Rosselana si è insediata nel centro del potere dove intrighi e complotti non finiscono mai. Tra leggende e verità, sempre ben confuse, in Occidente sulla sua fama ci si atteneva al peggio, cioè più o meno quanta ne godeva pure tra i suoi. Era dipinta come spregiudicata, assetata di potere, dedita a ogni genere d’intrallazzo. Al contrario, altre fonti ne parlano come una persona impegnata in opere di bene, protettrice degli studiosi e della religione, una delle donne più istruite e colte del tempo: riceveva ambasciatori, intratteneva corrispondenze con sovrani, nobili e artisti di tutto il mondo. Un personaggio controverso, esattamente come la sua storia.

Secondo i nemici tra le sue vittime c’era stato Ibrāhīm Pascià, gran visir nominato da Solimano: era stato ucciso e le sue proprietà confiscate. Pare che Hürrem mal tollerasse l'influenza di Ibrahim sul sovrano e il suo appoggio per la successione al trono di Sehzade Mustafa, a sua volta messo a morte con l’aiuto di un altro gran visir, Rustem Pascià. Secondo voci più benevole, invece, Rosselana avrebbe scoperto un complotto di Mustafà contro il padre e il sultano non ci aveva pensato due volte a farlo strangolare, salvo poi vegliarne il corpo per giorni impedendo a chiunque di toccarlo. In realtà Solimano amava i figli tanto quanto la moglie, ma la questione della successione alla Sublime Porta, con eredi che tentavano di prendere anzitempo il posto dei padri ammazzandoli, stava diventando una situazione imbarazzante per la monarchia ottomana e qualcosa andava fatto. Decise per le spicce.

Per altro, in assenza di norme precise per regolare la successione, la legge del fratricidio inserita nel Kanunname, in pratica il codice delle leggi, sanciva che, con l’assenso dei dottori garanti della legge coranica, detti Ulema, il sultano potesse uccidere i propri parenti in modo da sbarazzarsi di possibili pretendenti. Insomma, pare valesse il detto nostrano “poca brigata, vita beata”.

Solimano e Rosselana violeranno un’altra legge della corte ottomana: la concubina, infatti, non avrebbe potuto avere più di un figlio maschio, ma Hürrem ne avrà ben cinque, più una femminuccia. Incapaci di spiegare come possa aver raggiunto tanto potere, i suoi contemporanei l'accuseranno addirittura di aver stregato il sultano.

Tristissima la sorte dei figli: l’ultimo maschio, Cihangir, muore di dolore per la sorte toccata al fratellastro Mustafà al quale evidentemente era molto legato; Mehmet di vaiolo, Abdallah e la piccola Mihrimah in tenera età. Rimangono Selim e Bayezid.

Quest’ultimo si comporta come se fosse già sul trono scavalcando il padre, dispone, comanda, riceve ambasciatori come se il sultano vero non contasse nulla. Ma la goccia che fa traboccare il vaso è quando tenta di far fuori il fratello Selim, l’ultimo nato e, pare, prediletto da Roksolana. Il tentativo fallisce e Bayezid con dodicimila armati si rifugia in Persia, un traditore per i suoi, a quel tempo in guerra con i persiani. Per lui le cose volgono presto al peggio perché i due imperi firmano la pace e Solimano impone come condizione che gli uomini di Bayezid vengano tutti uccisi. Lui e i suoi cinque figli gli sono invece consegnati e sarà il sultano in persona a ordinare l’esecuzione dell’intera famiglia nel 1561. Costo dell’operazione quattromila monete d’oro che lo shah persiano Tahmasp incassa a lavoro ultimato.

Nel frattempo Rosselana si è ammalata. Solimano non si allontana un solo giorno dal suo capezzale, ordina perfino il rogo di tutti gli strumenti musicali di corte per non disturbare la sua quiete, ma la sposa spira tra le sue braccia il 18 aprile del 1558. Viene inumata in un mausoleo decorato con scene del Paradiso Terrestre. Poco distante sarà eretto quello del marito ed entrambi annessi alla moschea che porterà il suo nome.

Dopo la morte di Roksolana, Solimano il Magnifico, che qualche pecca se l’era dovuta pur riconoscere, vivrà il resto dei suoi giorni distrutto dal dolore, in solitudine, triste, sempre più lontano dalla gestione del potere. Scriverà poesie dedicate all’amata. Morirà il 6 settembre 1566 durante l’assedio di Szigetvár in Ungheria. Aveva annunciato che quella sarebbe stata la sua ultima campagna militare e che non sarebbe tornato. Sarà di parola.

Nei secoli soprattutto l’aspetto amoroso di questa storia ha ispirato scrittori e artisti e pure lo scrivente, che artista non è mai stato e come scrittore è solo un dilettante, ha pensato di accennarne nel suo libro Il Signore di Notte, un giallo ambientato a Venezia nel 1605.

 

 

Gustavo Vitali

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Quando a Venezia ci si giocava la camicia

31 Gennaio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #storia

 

 

 

 

Dicono che tutto ebbe inizio nel 1172. Un capo mastro di origine bergamasca, tale Nicolò Barattieri, riesce a rizzare due enormi colonne trasportate dall’Oriente come bottino di guerra. Erano rimaste abbandonate per decenni sul molo di San Marco perché nessuno sapeva come fare.

A lavori conclusi alle loro sommità svetteranno le statue di San Totaro, cioè San Teodoro, e del leone alato di San Marco, segnando per sempre l’accesso all’area marciana per chi proveniva dal mare. Ci sarebbe stata anche una terza colonna, ma andò perduta nel fango della laguna durante le operazioni di scarico.

Il Barattieri si era già segnalato per la realizzazione della cella del campanile di San Marco mettendo in campo tutto un marchingegno di casse di legno mosse da carrucole che agevolarono il trasporto dei materiali sino alla cima della torre. Resterà nella storia anche per aver costruito il primo Ponte di Rialto, tutto in legno. Anche nel caso delle colonne impiegò un ingegnoso e complicato sistema di corde bagnate, paranchi e zeppe.

A lavoro ultimato ebbe pure il suo bravo tornaconto: ottenne dal doge Sebastiano Ziani che attorno alle colonne fosse decretata una zona franca dove praticare il gioco d’azzardo fino ad allora proibito ovunque nella Serenissima. Pare fossero molto di moda i dadi, tanto che entreranno a far parte dello stemma di famiglia, fino che un discendente dell’ingegnoso bergamasco deciderà di abiurarli come simboli di un deprecabile passato connesso con il vizio. Infatti, con il tempo il termine “barattieri” era finito per designare i gestori di banchi per il gioco d’azzardo, una consorteria regolata da norme fisse, tacitamente riconosciute e accettate dai biscazzieri, cioè i padroni delle bische.

Cosicché il malaffare prese a dilagare ovunque. Il gioco era per lo più favorito dal calendario veneziano che segnava un’infinità di feste, numerose ricorrenze di santi protettori di parrocchie e corporazioni, sagre e altro, una manna per i barattieri di ogni parte che piovevano in città per svuotare le tasche agli allocchi. Nel 1487 era stato poco saggiamente permesso il gioco in occasione delle feste nuziali e durante il lungo periodo del carnevale quando tutta la città indossava la “bauta”, cioè la maschera, anche bari e truffatori. Il doge Andrea Gritti lo aveva revocato, ma il danno era fatto. Le colonne di piazza San Marco erano oramai diventate il ritrovo della peggior feccia. Ma carte e dadi sbucavano dappertutto, per strada, nelle case e nei cosiddetti “Casin dei Nobili”, case da gioco contrabbandate per salotti da conversazione. Ci si rovinava anche nei “redutti”, ovvero bische clandestine, e più di un’attività nascondeva sotto vesti legali quella dell’azzardo. Biscazzieri per antonomasia erano i barbieri, poco importando loro dei pochi ducati di multa o di qualche settimana di carcere perché l’azzardo fruttava più del mestiere di “conzateste” o radere barbe. Famosa tra Rinascimento e Barocco la bisca nascosta nella bottega di barberia di Vicenzo Gobbo a San Stin nel sestiere di San Polo. Il Vincenzo era pure finito in carcere, ma la bisca aveva continuato a prosperare.

Giocatori, bari, biscazzieri, “tagliatori” e tutto il serraglio di prostituzione e lenoni connesso si beffava di guardie e zaffi, quando addirittura non venivano presi a botte e talvolta anche peggio. Alcuni bari godettero di grande fama, come Zuane Martini, detto “Balla” o “Balletta”, tanto noto che ho deciso di farne un personaggio del mio libro giallo Il Signore di Notte ambientato nella Venezia del 1605. Anche la bisca del Gobbo nel racconto diventa meta delle indagini.

L’insanabile piaga infestò in modo trasversale la società veneziana in ogni epoca e senza distinzione di rango. L’azzardo era nell’aria, compenetrato nella città stessa, amalgamato con i traffici commerciali e con gli arricchimenti, connesso alla storia di Venezia fin dai tempi più remoti e non solo dal 1172. Le sentenze degli Esecutori Contro la Bestemmia e quelle delle altre magistrature che li avevano preceduti per competenza in materia non incutevano alcun timore. Il male non era regredito d’un passo neppure di fronte alle più severe sentenze di bando, messa alla berlina e carcere.

L’elenco dei modi per buttar via soldi era davvero lungo: piastrelle, primiera, gilé col bresciano, trappola, stusso, cricca, minoreto, trentaun per forza, sequentia, chiamare, dar la cartaccia e banco fallito. Un gioco molto diffuso era la basseta, un vero flagello. Il proverbio veneziano “la matina una messeta, dopo pranzo una basseta e la sera una doneta”, cioè alla mattina la messa, al pomeriggio il gioco della “basseta” e la sera una donna, l’avrebbe detta lunga, ma c’era poco da ridere perché il gioco era una peste che divorava i pochi denari dei poveracci e interi patrimoni dei ricchi. Susciterà clamore la disavventura di un giovane patrizio che al gioco aveva perso ogni avere, perfino le fibbie d’oro che adornavano le sue calzature. Nel tentativo di rifarsi alla fine si era giocato pure la propria promessa sposa. Nessuno ha tramandato come si era chiusa la vicenda della poveretta.

Il gioco aveva pesato anche sulle casse dello stato. Tra il 1776 e il 1788 per rimpinguarle il governo aveva deciso di aprire le porte del patriziato a quaranta famiglie, vendendo il titolo per 100.000 ducati. In precedenza, tra il 1646 e il 1669, questa misura era già stata adottata con successo in altre due occasioni quando c’era stata la corsa per accaparrarselo. Questa volta non fu così: solo tredici famiglie furono disponibili a scucire la somma. Tra le ragioni di tanta disaffezione alcuni studiosi hanno individuato nel gioco del lotto la rovina di molte famiglie. Bersaglio di numerose proibizioni, come quella del 7 luglio 1603 con la quale il Consiglio dei Dieci aveva tentato di non “permetter alcuna sorte di Loti”, perché evidentemente ce n’era più di un tipo, era stato infine regolamentato dal governo nel 1734.

“Chi è causa del suo mal …” si potrebbe concludere. Invece, preferisco sottolineare la grandezza dell’antica Repubblica di Venezia, oltre undici secoli di gloria, retta in generale da governi avveduti, quando non geniali, da personaggi responsabili e quasi sempre all’altezza delle situazioni. Va bene! Qualche vizietto glielo possiamo concedere.

 

Gustavo Vitali

 

Per ulteriori informazioni sul libro giallo Il Signore di Notte contattare l'autore del libro: Gustavo Vitali – 335 5852431

 

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Prostitute e cortigiane nella Venezia del Rinascimento

30 Gennaio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Ho appena pubblicato il libro Il Signore di Notte, ambientato nella Venezia nel 1605, alle soglie del Barocco, un giallo fitto fitto, ma con l'aggiunta di brevi divagazioni storiche per contestualizzare il racconto nella sua epoca.

Ci sono anche riferimenti al secolo precedente, cioè il Rinascimento, un periodo per la Serenissima di grande splendore artistico e non solo, a discapito di altri ambiti dove erano cominciati i primi sintomi di quel declino sebbene ancora lungi da venire.

Una delle particolarità della società veneziana in ogni sua epoca, e in particolare durante il Cinquecento, è stato il gran numero di donne dedite alla prostituzione. Gli storici hanno giustificato questo fenomeno con la stessa connotazione di una città tutta orientata verso il commercio e con molti “foresti”, mercanti soprattutto, che vi si recavano per curare i propri affari. Si trattava per lo più di uomini soli … il resto potete immaginarlo.

A favore delle “femene publiche” ci si erano messi pure i costumi del tempo: le ragazze di buona famiglia, ma anche le figlie di comuni cittadini, vivevano sotto controllo dei genitori e godevano di ben poche libertà fino al giorno delle nozze. Quindi gli scapoli avevano rare occasioni di trovare compagnia femminile: circuire qualche poveraccia chiusa contro voglia in convento (casi come quello manzoniano della monaca di Monza e del “tristo” Egidio erano tutt’altro che eccezioni!) oppure darsi all’amore prezzolato.

Fatto sta che a metà del 1500 ne furono censite 11.654 in una città già popolosa di suo, passata dai 130.000 abitanti nel 1540 ai quasi 170.000 nel 1563, terza d’Europa dopo Parigi e Napoli che verso la fine del secolo ne contavano più di 200.000.

La prostituzione a Venezia era fortemente controllata dal governo a partire da dove ammessa e dove no. In pratica era stata confinata entro certi limiti toponomastici, o almeno così avrebbe dovuto esserlo. Per accalappiare i forestieri le meretrici fin dal XIV secolo avevano esercitato la professione nei dintorni di Rialto dove la presenza di mercanti e denaro era scontata. Nel 1421 il governo aveva deciso un giro di vite: le donne dedite al mestiere erano state relegate nel quartiere Castelleto, un vero e proprio ghetto vigilato dalle guardie e aperto dal mattino fino all’ultima campana della sera. Poi tutte a casa, pena la frusta.

Neanche mezzo secolo dopo il giro della prostituzione si era trasferito nelle case del patrizio Priamo Malipiero, sempre in zona Rialto, per poi dilagare un poco ovunque, tanto che dopo il decesso del nobiluomo gli eredi avevano chiesto sgravi fiscali: affittare alloggi alle prostitute rendeva oramai assai poco, visto che nel frattempo erano sparse in mezza città.

Se regolamentare la prostituzione aveva dato scarsi risultati, al contrario tassarla ne aveva dati di ottimi. Dalle imposte sull’amore prezzolato ogni anno pareva uscissero i soldi per allestire quattro galee e nel 1514 le meretrici erano state bersaglio di una pesante tassa straordinaria destinata a finanziare il dragaggio dei fondali dell’Arsenale.

Come detto pocanzi, un uomo solo aveva poche scelte per soddisfare certe voglie. Questo aveva determinato un ulteriore aspetto della società veneziana: l’omosessualità, tanto diffusa che al fenomeno si era fatta perfino una certa abitudine. Tuttavia, contro quello che era ritenuto un vero flagello, ancorché generato dagli stessi costumi che tagliavano i ponti verso rapporti eterosessuali fuori dal matrimonio, e sollecitate dall’incessante tuonare della Chiesa, le istituzioni ne avevano pensate di ogni, ma c’era stato anche dell’altro. Pareva che un bel giorno, tra omosessualità dilagante e nutrita concorrenza, i proventi delle prostitute avessero subito una forte contrazione, al contrario delle gabelle che erano rimaste intatte. Queste avevano sollevato un gran polverone e animate proteste a seguito delle quali il Consiglio dei Dieci, una delle tante magistrature dell’organigramma della Serenissima, era prontamente intervenuto. Ecco la sua “illuminata” delibera: facendo leva sulle attrattive più arrapanti della bellezza femminile, aveva imposto alle prostitute di esibirsi alle finestre di casa a seno scoperto o gambe nude per invogliare gli uomini alla loro frequentazione. Accertata una conseguenza: un ponte di Venezia aveva preso il nome di Ponte delle Tette.

Questo ponte esiste ancora oggi nella zona delle Carampane in contrada San Cassiano, dove era stato infine confinato il grosso della prostituzione sulla quale avevano continuato a piovere restrizioni. Carampane con il tempo diventerà anche l’epiteto per designare una donna avanti con l’età e dalla bellezza sfiorita: vecchia carampana!

Allora come oggi nella professione più antica del mondo si potevano individuare livelli d’ogni sorta: c’erano donne che rimediavano giusto un boccone, magari rischiando la morte per malattie orribili, e quelle che potevano permettersi paggi e servitori, tanto che tra le restrizioni di cui pocanzi una imponeva il divieto di assumere domestici minori di anni trenta. Per altro le limitazioni erano spesso allegramente disattese e senza nessun mal di testa da parte degli organi di controllo. La funzione sociale della prostituzione e il suo cospicuo gettito fiscale facevano chiudere un occhio al governo, anzi tutti e due. Probabilmente più per quest’ultimo motivo che non per il primo.

Un discorso a sé meritano le cortigiane, da non confondersi con le normali prostitute con le quali bastava pagare per entrare nel loro letto, anche a prezzi stracciati e squallore incluso. Al contrario le prime erano disponibili solo per persone di un certo rango e con le tasche ben provviste; per nulla scontato ottenerne i favori, perché queste dame non accettavano chiunque nelle proprie grazie. Erano spesso donne di buona educazione che sapevano intrattenere gli amanti, oltre che soddisfarne gli ardori. Spesso vantavano una cultura raffinata e tra loro non erano rari i talenti in ambito letterario e artistico. Frequentavano i salotti e gli uomini non disdegnavano affatto farsi accompagnare da loro in momenti conviviali. Erano definite “cortigiane honeste” per distinguerle dalle normali meretrici, dette “cortigiane di lume”.

Circa le prime, avevano avuto notorietà i componimenti di Pietro Aretino celebranti le lodi di Angela Dal Moro, alla quale era rimasto appiccicato il nomignolo di “zaffetta” perché figlia di uno “zaffo”. Gli zaffi erano gli informatori della polizia e questo tradisce le umili origini della donna dalle quali si era affrancata grazie al lavoro di cortigiana, ma anche con lo studio, abbinando profonde conoscenze d’arte, musica, letteratura ad attrattive fisiche, modi amatori raffinati ed eleganza. Aveva goduto di un fascino capace di suscitare forti emozioni negli uomini che la avvicinavano. D'altronde, senza fascino e tutto il resto non si poteva svolgere questa professione che poteva garantire agi e ricchezze, ma anche dolori, come per una sua collega della quale leggerete poco avanti.

Della Zaffetta era rimasto ammaliato il grande Tiziano che la ritrasse nuda, niente in confronto dell’ossessione avuta per lei dal collega Paris Bordon che la utilizzò come modella in un numero impressionante di opere. Il che è tutto dire per un pittore che aveva realizzato capolavori come la “Sacra Famiglia”, la “Sacra Conversazione”, il “Sant'Ambrogio” e una pala per la chiesa di Sant'Agostino a Crema.

Veronica Franco (1546 – 1591) di certo la più famosa, poetessa oltre che cortigiana d’alto rango. Su di lei si sono spesi fiumi di inchiostro e dedicati anche dei film. Appare anche nel recente documentario “Io sono Venezia”, più volte trasmesso sui canali RAI, una carrellata sulle origini e storia della Serenissima (vedi link). La foto a corredo di questo articolo rappresenta l’attrice che la interpreta.

La Franco, donna affascinante, bellissima, era diventata tanto conosciuta da essere richiesta perfino dai monarchi in visita al governo, come Enrico III di Francia che soggiornò a Venezia nel 1574. Il “Catalogo delle principali e più honorate cortigiane di Venezia”, un opuscolo del 1565 con nomi, indirizzi e tariffe delle donne dal letto facile più in vista, a suo proposito aveva annotato che un suo bacio sarebbe costato sei scudi, cinquanta il servizio completo.

Ovviamente non aveva potuto godere del rispetto dato alle donne “normali” e aveva dovuto farsi strada da sola. Aveva studiato da autodidatta e cercato i propri mecenati tra uomini colti ed entrando a far parte di circoli culturali. Dopo la pubblicazione e il successo dei suoi lavori letterari, aveva fondato un'istituzione caritatevole a favore delle cortigiane e dei loro figli.

Lasciata Venezia per sfuggire alla peste del 1575, aveva avuto un rientro amaro: i suoi beni erano stati saccheggiati. Per lo più nel 1580 era stata processata dall’Inquisizione per incantesimi, un’accusa comune per le cortigiane dell'epoca. Ne era uscita assolta. ma la sua vita non sarebbe tornata a essere quella di prima. Perse tutte le ricchezze, dopo la morte del suo ultimo benefattore, si ritrovò priva di sostegno finanziario. Dei suoi ultimi anni si sa poco.

Di questo mondo ora oscuro, ora sfavillante, dell’amore mercenario e dell’erotismo a tariffe variabili troveranno molto altro i lettori de’ “Il Signore di Notte”, un giallo con importanti risvolti storici.

Per ulteriori informazioni sul libro giallo Il Signore di Notte contattare l'autore del libro: 

 

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Compassione

28 Gennaio 2021 , Scritto da Gustavo Vitali Con tag #gustavo vitali, #racconto

 

 

 

 

 

L’apprendista misura il rumore dei suoi passi sul terreno viscido e ripassa nervoso i discorsi pensati per l’occasione. Al di là di un giardino con aiuole bordate di sassi e insolite piante dai minuscoli fiori gialli, la casa. Alcuni gatti lo vedono. È un incontro di sguardi più che umani che fuggono oltre la balaustra tra i riflessi del mare. Nonostante l’aria invecchiata è ancora una bella villa fin du siècle. Due immancabili palme svettano sulle irregolarità del tetto. I licheni ricoprono i gradini di marmo di Carrara lasciando il passo, più in basso, al muschio e di lato alla cymbalaria.

Il ragazzo distoglie lo sguardo sbrigativo dai gatti e attraversa deciso il giardino una volta ben curato, calpesta aiuole e tutto quello che incontra senza riguardo. Non ha più bisogno di ripassare nessun discorso, perché non ci sarebbero stati discorsi.

La casa era stata per lui proibita per molti, troppi anni, vietata a tutti i poveracci come lui che abitavano le casupole umili del borgo, al di là della ferrovia dove nessuna pianticella dai fiori minuscoli aveva mai rallegrato la povertà. Tutta vietata, salvo il giardino, enorme.

Oggi, in questo giorno di fine aprile con un bel sole a scaldare le membra dopo il freddo della montagna, le cose sono cambiate. Il giovane non è più l’apprendista giardiniere al seguito del padrone di anni or sono, quando si spaccava braccia e spalle per tagliare rami, regolare siepi e zappare aiuole in cambio di poche monete e sguardi di commiserazione quando non di sprezzo. Tanto tempo è trascorso da quando l’elegante signora della bella villa fine secolo attraversava con aria spocchiosa mista a disgusto le strade scalcinate del villaggio sulle quali si aprivano gli usci degli indigenti con gli odori di povere minestre a permeare l’aria degli alloggi.

Anni da quando il padrone della bella villa con le sue squadracce irrompeva nel borgo per bastonare i rossi, quando il padre veniva trascinato via per insegnargli il buon vivere a suon di olio di ricino e manganello; anni da quando il gerarca era salito di grado ed erano stati altri ceffoni, non più quelli delle squadracce, ma dalle mani della milizia; anni da quando avevano trovato il suo cadavere gettato in un fosso. Invece, erano trascorsi solo mesi, eppure lunghi come anni, da quando aveva preso la via della montagna per unirsi ai ribelli che di miseria e soprusi erano stanchi. Poi si era dato Ivanov come nome di battaglia e si era calcato in testa un basco con cucita in fronte una stella rossa, tanto perché fosse chiaro a tutti da che parte stava.

Con quel basco in testa e imbracciando un mitra recuperato da un lancio di rifornimenti per i partigiani da parte dell’aviazione alleata, si era nascosto nei boschi condividendo con altri disperati come lui giorni di pericoli e di stenti, scampando alle retate di tedeschi e repubblichini, rischiando ogni momento di finire sulla forca e sognando il sole dell’avvenire che gli avevano promesso. Si era nascosto, attaccato quando era stato possibile, mai fuggito.

Adesso il ragazzo è tornato per regolare i conti nel solo modo che ha imparato: premendo il grilletto di un’arma.

Avanza deciso attraverso il parco oramai trascurato mentre si assesta lo Sten a tracolla a bilanciare il peso di un tascapane dalla parte opposta e procede diritto verso i gradini di marmo una volta belli lustri, oggi preda del muschio. Li sale. Sta per sfondare con un calcio l’uscio a lui tanto a lungo proibito, quando resta sorpreso nel vedere accostate le due ante finemente intarsiate, ma senza più il lucido dei tempi andati.

Le apre. Nell’atrio tutto è silenzio e la casa pare deserta. Dalle porte che si aprono sul vano vede un salone, le poltrone in pelle del salotto, poi una sala da pranzo, tutte grandi, enormi, arredate in finto Chippendale, come si conviene nelle case della gente per bene. Le tapparelle non sono abbassate del tutto e lasciano filtrare fasci di luce fioca a tagliare la penombra. Sembra che nessuno da tempo abbia più usato quelle sale.

Avanza senza curarsi del rumore degli scarponi sul pavimento ancora lucido fino ai piedi di una scala in finta Calacatta che del prezioso marmo ha solo il bianco crema e le tenui venature giallo dorate. Le ringhiere occhieggiano all’Art Nouveau come un poco lo pretende tutta la villa, ma sono pastrocchi di fantasia, senza uno stile definito e che ne fanno giusto un esempio di cattivo gusto, come mobili e tutto quanto.

Sta per perlustrare le stanze, ma ecco una voce giungere da sopra:

«Sei tu, Marietta?»

Marietta è la serva di casa, arrivata giovanissima a servizio dalla campagna, fedele, minuta, una bellezza slavata, incolore. L’aveva conosciuta quando di nascosto dai padroni gli aveva portato un bicchiere di quello buono per tirarlo su di forze. Lui non era mai rimasto affascinato dalla ragazza sciupatella e aveva goduto del vino, non della serva.

A chiamare era stata una voce flebile di donna. Il giovane non risponde e inforca le scale che lo portano a una grande anticamera dove si aprono le camere da letto. Sulla porta di una di queste appare la padrona che alla sua vista ha un attimo di sgomento. Poi si volta e scappa dentro. La insegue d’impulso, ma si arresta non appena varcata la soglia: davanti a lui in un enorme letto d’ottone giace un ragazzo che potrebbe avere la sua età. La donna si protende per difendere quel corpo, allarga le braccia come per impedire che gli sia fatto del male, ma l’ex apprendista non è lì per fare giustizia di ammalati.

Qui la luce del sole penetra abbondante dalle tapparelle rimaste mezzo scostate e il ragazzo ha modo di osservare la donna: non è più la gran signora dalla puzza sotto il naso; indossa una vestaglia modesta, ha il viso sbattuto più dal dolore che dal tempo, lo sguardo spaventato invece di quello arrogante dei tempi migliori, quando aveva attorno a sé un marito e tre figli altezzosi come lei. Su un comodino molte medicine, farmaci costosi comprati a caro prezzo alla borsa nera, ma che non avrebbero guarito il figlio, tanto meno salvato.

Il partigiano Ivanov si riprende dalla sorpresa e intima con voce determinata fino alla crudeltà:

«Dov’è il porco?»

La donna non risponde, ma l’iniziale spavento diventa paura quando sente il rumore secco e metallico dell’otturatore: il ragazzo ha messo il colpo in canna e con grande soddisfazione vede il terrore accendersi nei suoi occhi. Finalmente!

«Dov’è?» intima di nuovo alzando il tono e fa un passo avanti nell’atto di assestare un manrovescio su quelle guance raggrinzite e senza più traccia di belletti. La donna si porta di scatto una mano al volto per difendersi dallo schiaffo ed esclama:

«Ce l’avete davanti!»

Ha usato il “voi” per rivolgersi all’intruso. In altri tempi sarebbe stato un “tu”, ma la situazione non è più quella e il riguardo le è uscito di bocca d’istinto: meglio assecondare, oramai finito il tempo del disprezzo.

Subito dopo indica il comò dove è posata una cornice con il ritratto del “porco” in divisa nera d’ordinanza, orbace in testa, sguardo fisso e piglio fiero. Accanto altre due più piccole, come si fosse inteso rispettare una sorta di gerarchia post mortem: sono le foto dei figli in divisa del Regio Esercito, caduti in Africa. Il terzo è lì nel letto, febbricitante e semi incosciente.

Adesso nel giovane rimbalzano sentimenti molto diversi. Ha le mani sudaticce mentre spiana l’arma con il dito sul grilletto. Vorrebbe decidere di chiudere la partita con quello che resta dell’odiata famiglia, ma l’espressione addolorata dalla donna, il suo terrore, il respiro affannoso del ragazzo e quanto c’è di disfacimento nella casa glielo impediscono. Ivanov è arrivato tardi e a nulla serve lo Sten pronto a far fuoco perché altri eventi hanno già fatto giustizia per lui.

Ancora un secco clic clak e leva il colpo di canna, abbassa lentamente l’arma e insieme lo sguardo, ma non sembra che questo rassicuri la donna. Lo rialza per osservare meglio intorno: la decadenza della villa fine secolo gli appare adesso come mai prima, ma c’è dell’altro: è la sofferenza palpabile nell’aria e che sembra impregnare tutto, muri, arredi, persone. E poi il futuro, anzi nessun futuro per quei due, il figlio per la malattia e la madre per una povertà alla quale difficilmente sarebbe riuscita ad abituarsi. Le povere minestre sarebbero spettate anche a lei.

Ivanov indietreggia, poi si volta di botto e scende le scale di corsa, lascia spalancato l’uscio e attraversa frettoloso il grande giardino. Fugge per prima volta da quando aveva preso la via della montagna.

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Gustavo Vitali, "Il Signore di Notte"

24 Gennaio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #gustavo vitali

 

 

 

 

Il Signore di Notte

Gustavo Vitali

 

Libro autoprodotto

pp 513

19,00

 

 

È difficile recensire questo libro. Il signore di notte di Gustavo Vitali è senza dubbio un testo di grande valore.

Ma.

Un giallo storico, ben scritto, ben sviluppato, con tutte le cose al posto giusto, a partire da un’ottima scrittura – appena qualche ripetizione o allitterazione di troppo -, per continuare con azione e colpi di scena. Soprattutto un’ambientazione vivissima e piena di atmosfera, dove ogni oggetto, ogni luogo, ogni usanza, sono visti, odorati, assaporati, ricreati attraverso una documentazione ineccepibile. C’è persino una buona interpretazione psicologica dei personaggi. Francesco Barbarigo – il magistrato investigatore seicentesco che indaga insieme al più serio e concreto capitano Stella– è ben tratteggiato nei suoi pregi e difetti molto umani, al punto da non risultare poi nemmeno troppo simpatico.  

Niente da eccepire, quindi, un notevolissimo lavoro di scrittura e di storia ben amalgamati.

Ma… ma non posso negare che la continua sospensione delle vicende in favore della ricostruzione storica, applicata in modo maniacale a qualsiasi elemento - dall’architettura, alle ambientazioni, agli usi e ai costumi - alla fine inevitabilmente interrompe il flusso della trama e – considerate anche le cinquecento e più pagine – diventa pesante. Trasforma il romanzo in un libro per addetti ai lavori, per appassionati. Lo rende, insomma, meno fruibile dal lettore comune.

Francesco Barbarigo – personaggio effettivamente esistito – Signore della Notte al Criminal, deve indagare sulla morte di Nicolo Duodo, un nobile in miseria, costretto ad accattare incarichi burocratici per tirare avanti. All’inizio Barbarigo coglie il suggerimento del proprio amatissimo fratello Gabriele, e indaga su un “bravo”, certo Rimondo, che col morto avrebbe avuto dei dissapori importanti. Ma la verità sta da un’altra parte.

Durante l’inchiesta il Signore della Notte s’ imbatte in varie figure e, nel contempo, porta avanti anche la sua vita privata, fatta di affetto per il fratello più godereccio, fatta della scoperta di essere stato oggetto inconsapevole di un amore omosessuale e, soprattutto, del contrastato e inquietante rapporto con la bella Gigliola.

Nonostante tutto, ripeto, non si può negare il merito dell’opera, la sua fantastica capacità di farci rivivere la Venezia del cinquecento e seicento. Sentiamo lo sciabordare dell’acqua nei canali, i lamenti dei prigionieri sul Ponte dei Sospiri, vediamo i colori sgargianti delle vesti maliziose delle nobildonne e le tavole imbandite, assistiamo ai duelli nei vicoli bui e nelle calli. Uno splendido e inimitabile affresco d’epoca, un’opera che denota non solo interesse storico ma vero e proprio amore per la splendida, concreta ma evanescente, Serenissima.

 

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