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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Weekend tra amici (2013) di Stefano Simone

30 Marzo 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Regia: Stefano Simone. Scritto da: Francesco Massaccesi. Editing & Colour correction: Stefano Simone. Musiche: Luca Auriemma. Arredamento: Dino D’Andrea. Effetti Cg: Andrea Ricca. Interpreti: Matteo Perillo, Michele Bottalico, Filippo Totaro, Peppe Sfera, Tonino Potito, Nicla Loconsole, Michela Mastroluca, Raffaella Piemontese, Adolfo Renato, Tecla Mione. Origine: Italia. Anno: 2013. Durata: 62’.

Marco, Gianni, Stefano e Fabrizio, amici da sempre, si riuniscono come ogni anno per un torneo calcistico trasmesso in televisione che vede rivali le loro quattro squadre. Ogni personaggio è tormentato da un’angoscia diversa: solitudine, famiglia, divorzio, inferiorità sociale. Il calcio è il detonatore dei problemi insoluti delle loro vite, il catalizzatore di un odio represso, che esplode in un tranquillo weekend di paura, tra le mura di una casa di campagna, dove tutto era predisposto per una cena in compagnia, davanti al televisore, come ai vecchi tempi.

Stefano Simone gira il suo film più maturo, restando nel genere thriller stile Kenneth (2008) e Unfacebook (2011), ma abbandonando i riferimenti fantastici presenti in Cappuccetto Rosso (2009), Una vita nel mistero (2010) e nello stesso Unfacebook. Weekend tra amici è intriso di crudo realismo, un thriller claustrofobico e introspettivo, teatrale, un melodramma che scava nella psicologia dei personaggi e porta alla luce i demoni che albergano nella nostra psiche. Simone va ben oltre gli angusti confini del genere, scrive il suo miglior cinema d’autore, che risente delle influenze di Ingmar Bergman e William Friedkin. Un elogio al soggettista sceneggiatore Francesco Massaccesi (un cognome che promette bene), perché - a parte alcune lungaggini - non abbiamo notato buchi di sceneggiatura. Ottimo il montaggio, serrato quanto basta per creare la tensione di un cinema claustrofobico, girato quasi tutto in una stanza. Il meccanismo è quello dei 12 piccoli indiani di Agata Christie, solo che non stiamo cercando un assassino, ma il demone che prende forma e uccide senza un motivo apparente. La musica di Luca Auriemma - che conosciamo dai tempi di Cappuccetto Rosso, una costante nel cinema di Simone - è perfetta per caratterizzare tensione e momenti culminanti. Brani sintetici e sonorità meridionali, a tratti pare di sentire uno scacciapensieri, sono il leitmotiv di una colonna sonora ideale per rendere il clima angosciante della pellicola. Effetti speciali credibili, realizzati in economia, ma realistici: le parti efferate sono prive di sbavature, se tralasciamo il primo morto nella doccia che - per un istante - si vede respirare. Mi soffermo sulla recitazione, da sempre nota dolente del cinema di Simone, perché questa volta gli attori sono tutti bravi e ben calati nella parte, recitano con tono drammatico notevole, forse troppo impostato e teatrale, ma recitano, e catturano l’attenzione dello spettatore. Matteo Perillo (il dentista) ha una marcia in più, un vero professionista, interpreta in maniera convincente il dramma interiore della solitudine. Nicla Loconsole è una bella presenza sexy, persino misteriosa, che compare per un breve flash, ma purtroppo è poco utilizzata dal regista. La regia è attenta, la macchina da presa alterna primi piani, particolari, panoramiche, esterni paesaggistici che descrivono il colore locale, fotografa il crescendo di follia ricorrendo a una colorazione intensa con un tono rosso dominante.

Weekend tra amici parte con il tono della storia di formazione, un racconto alla Salvatores, stile Italia Germania 4 a 3 (1990) di Andrea Barzini e Compagni di scuola (1988) di Carlo Verdone, seguendo una tematica minimalista e costruendo una nostalgia del tempo passato che sfocia nel dramma. I quattro amici si riuniscono per passare un fine settimana insieme, per godere la visione del loro sport preferito, ma non riescono a lasciare da parte loro stessi, i problemi, le angosce che tormentano un difficile quotidiano. La vita scorre, la giovinezza è ormai perduta, i sogni sono infranti, resta il dramma di una generazione sconfitta. Simone e Massaccesi realizzano una dura critica al mondo del calcio ricorrendo a dialoghi serrati, molto tecnici, che i non ferrati nella materia faticheranno a comprendere. La critica alla violenza va di pari passo con il perbenismo di chi si disinteressa - ed è peggiore degli ultras - perché tanto ha l’abbonamento in tribuna d’onore. Lo stadio visto come sfogo sociale alle frustrazioni non è un’idea nuova, ma Simone inserisce citazioni colte (Blake, Cechov…) e intuizioni d’autore interessanti, oltre a mettere il dito sulla piaga: il gioco del calcio scatena gli istinti peggiori dell’uomo. Un crescendo di delirio e un tono sempre più cupo apre le porte a sequenze di puro metacinema quando uno degli amici afferma che con il cinema alto non si fanno incassi, svela i meccanismi della suspense e del sottotesto. Solitudine, rancori, famiglia vista come gabbia dalla quale è impossibile uscire, incomprensibile follia, tutto conduce alla più incredibile delle tragedie, una vera e propria ecatombe da melodramma spagnolo. Stefano Simone si dimostra ancora una volta un regista promettente, capace di mettere in scena un testo difficile e colto, intriso di riferimenti classici e letterari.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Pietro Mascagni

30 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #musica, #personaggi da conoscere

Pietro Mascagni (1863 - 1945) era nato in piazza delle Erbe, suo padre aveva un'avviata panetteria sotto casa ed era molto conosciuto a Livorno. Alto, dinoccolato, sempre rasato, con l'aria da ragazzo, gli occhi chiari, il ciuffo ribelle, Pietro aveva un'anima labronica spontanea, immediata, incapace di tacere e poco diplomatica. Oscillava fra l'entusiasmo e l'abbattimento, l'euforia e la malinconia. Per tutta la vita si mostrò esuberante, lottando per non far trapelare la tristezza, il malumore.

Suo padre non fu contento quando decise di dedicarsi completamente alla musica e s'iscrisse al conservatorio di Milano, dove divise una stanza con Giacomo Puccini, contribuendo a creare, forse, l'atmosfera goliardica e l'ambiente che furono d'ispirazione per la "Boheme". In conservatorio si trovò male, seguiva i corsi con irregolarità, ebbe a ridire col direttore Ponchielli, alla fine se ne andò e cominciò a lavorare come direttore d'orchestra in giro per l'Italia finché non gli fu offerto un posto fisso a Cerignola. Nel 1888 s'iscrisse a un concorso, indetto dalla casa editrice Sonzogno, per un'opera in un singolo atto. Chiese la collaborazione dell'amico Giovanni Targioni Tozzetti e di Guido Menasci, che riadattarono un dramma tratto dalla novella "Cavalleria Rusticana" di Verga. L'opera fu terminata il giorno della scadenza del concorso e vinse su 73 partecipanti. Fu un successo immenso, ripetuto in ogni teatro in cui fu presentata e mai più uguagliato da nessuna opera successiva, né "Iris", né "L'amico Fritz", né "Le Maschere" etc. Peccato che Verga accusò Mascagni di plagio, vinse la causa e ottenne un forte risarcimento. "Cavalleria Rusticana" è la prima opera musicale verista a pieno titolo, della "Giovane scuola italiana" - come "I Pagliacci" di Leoncavallo e la "Boheme" pucciniana - laddove le altre opere mascagnane sono, prima vagamente decadenti, secondo il gusto dell'epoca, poi espressioniste, soggettive, tese a riprodurre la realtà con gli occhi dell'anima. La sua musica è definita esasperata perché ricca di acuti e di declamato. Mascagni morì nella camera del suo albergo a Roma, nel 51 il suo corpo fu traslato al cimitero della Misericordia, dove si può ammirare il mausoleo.

Pietro Mascagni (1863 - 1945) was born in Piazza delle Erbe, his father had an established bakery downstairs and was well known in Livorno. Tall, lanky, always shaved, with a boyish air, clear eyes, a cowlick, Pietro had a spontaneous, immediate, unsophisticated and undiplomatic soul. It oscillated between enthusiasm and despondency, euphoria and melancholy. All his life he was exuberant, fightingagainst sadness, and bad mood.

 

His father was not happy when he decided to devote himself entirely to music and enrolled at the Milan conservatory, where he shared a room with Giacomo Puccini, helping to create, perhaps, the goliardic atmosphere and the environment that were the inspiration for the "Boheme". In the conservatory he was not happyl, he followed the courses with irregularities, he quarreled with the conductor Ponchielli, at the end he left and started working as a conductor around Italy until he was offered a permanent place in Cerignola.

In 1888 he enrolled in a competition, organized by the Sonzogno publishing house, for a work in a single act. He asked for the collaboration of his friend Giovanni Targioni Tozzetti and Guido Menasci, who adapted a drama based on the novel "Cavalleria Rusticana" by Verga. The work was completed on the day of the competition deadline and won out of 73 participants. It was an immense success, repeated in every theater in which it was presented and never again equaled by any subsequent work, neither "Iris", nor "Amico Fritz", nor "Le Maschere" etc. Too bad that Verga accused Mascagni of plagiarism, he won the case and got a strong compensation.

"Cavalleria Rusticana" is the first fully-fledged verista musical work of the "Young Italian school" - such as "I Pagliacci" by Leoncavallo and the "Boheme" by Puccini - where the other Mascagni works are, at first vaguely decadent, according to the taste of the era, then expressionist, subjective, aimed at reproducing reality with the eyes of the soul. His music is defined exasperated because it is rich in high notes and declaimed.

Mascagni died in the room of his hotel in Rome, in 51. His body was moved to the Misericordia cemetery, where you can admire the mausoleum.

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Segnalazione concorso "L'arte in versi"

29 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #redazione

Segnalazione concorso "L'arte in versi"

Blog Letteratura e Cultura

Rivista di Letteratura Euterpe

Rivista Segreti di Pulcinella

Blog Intingendo d’Inchiostro

Deliri Progressivi

organizzano il

II Concorso Nazionale di Poesia “L’arte in versi”

Edizione 2013

Il concorso “L’arte in versi”, nato nel 2012 per volontà di un gruppo di poeti e scrittori di organizzare un’attività letteraria e culturale fruibile a tutti, torna con la nuova edizione.

L’antologia dell’omonimo premio della I edizione verrà presentata sabato 9 Febbraio 2013 alle ore 10.00 alla Biblioteca Villa Bandini in FIRENZE dove pure verrà diffuso e presentato il nuovo bando.

BANDO DI PARTECIPAZIONE

1.Il concorso prevede due sezioni.

-POESIA All’interno della sezione si distinguono due sotto-categorie:

a.Poesia in lingua italiana

b.Poesia in vernacolo (accompagnata, però, da relativa traduzione in italiano)

-TESTO DI CANZONE (per cantautori, gruppi musicali ed altro)

2.Il concorso non è tematico e si potrà partecipare con componimenti di qualsivoglia tipologia.

3.La partecipazione al concorso è totalmente gratuita.

4.Saranno accettati sia testi editi che inediti. Nel caso si presenti un testo già edito, l’autore deve indicare con precisione il riferimento al libro/rivista nel quale è stato pubblicato (titolo, casa editrice, ISBN o ISSN, pagina, anno).

5.Non saranno accettati testi la cui lunghezza sia superiore ai 30 versi.

6.Ogni autore può partecipare presentando un massimo di due testi per ciascuna sotto-categoria. Nel caso si invii più di un testo, ciascuno dovrà apparire su un file separato.

7.Assieme ai file con i testi, il partecipante deve inviare un documento in Word con le seguenti informazioni:

Nome e cognome

Indirizzo di residenza

E-mail

Numero di telefono

Titoli delle opere con le quali partecipa

Attestazione di paternità (copiando questa attestazione): Attesto che la poesia che presento al suddetto concorso è frutto del mio ingegno, ne dichiaro la paternità e l’autenticità.

Autorizzazione al trattamento dei dati (copiando questa attestazione): Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi del D.Lgs. 196/2003 e successive modifiche.

8.Non verranno accettate opere che presentino elementi razzisti, denigratori, pornografici, blasfemi o d’incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione di ciascun tipo.

9.Non saranno accettate opere da parte di familiari dei membri della giuria, fino al secondo grado di parentela.

10.Eventuali testi presentati che sono plagi o furbeschi “copia e incolla”, non saranno pubblicati se la giuria se ne renderà conto e, comunque, la responsabilità della paternità dell’opera ricade sugli autori partecipanti e non sugli organizzatori-membri di giuria del concorso, secondo quanto stabilito al punto 7 del presente bando.

11.L’invio dei materiali avverrà solamente per via elettronica e gli elaborati dovranno pervenire esclusivamente in formato Word entro e non oltre il 15 Maggio 2013 all’indirizzo internet blogletteratura@virgilio.it specificando nell’oggetto “II CONCORSO L’ARTE IN VERSI”.

12.I testi debbono essere completi di tutte le informazioni richieste. La mancanza di qualche elemento richiesto, significherà l’esclusione dal concorso. Ogni richiesta di informazione deve essere rivolta esclusivamente allo stesso indirizzo mail.

13.La commissione di giuria è composta da:

Alessio De Luca, scrittore e cantautore

Annamaria Pecoraro, poetessa, scrittrice, Direttrice di Deliri Progressivi

Emanuele Marcuccio, poeta, aforista, curatore editoriale

Iuri Lombardi, poeta e scrittore, redattore di Segreti di Pulcinella ed Euterpe

Lorenzo Spurio, scrittore, critico-recensionista, curatore Blog Letteratura e Cultura e Direttore Rivista Euterpe

Luciano Somma, poeta, autore di canzoni e critico d’arte

Martino Ciano, scrittore

Marzia Carocci, poetessa, critico-recensionista, editor di Edizioni Agemina

Michela Zanarella, poetessa e scrittrice

Monica Fantaci, poetessa, curatrice del Blog Intingendo d’Inchiostro

Patrizia Poli, scrittrice, responsabile arte e cultura per la rivista Livorno Magazine e collaboratrice del blog CriticaLetteraria

Salvuccio Barravecchia, poeta e scrittore

14.La commissione selezionerà i migliori trenta testi pervenuti che verranno pubblicati nell’opera antologica del concorso. Ulteriori testi considerati meritevoli potranno essere selezionati a discrezione della Giuria.

15.Tutti gli autori presenti in antologia potranno acquistare il volume nella quantità che desidereranno a prezzo molto vantaggioso, usufruendo di un ampio sconto. Tutti gli altri potranno, invece, acquistare l’opera a prezzo intero. Si sottolinea che a nessuno è richiesto l’acquisto obbligatorio di copie.

16.A tutti gli autori –selezionati o meno- verrà data comunicazione dell’esito del concorso entro il mese di Ottobre 2013, come pure della giornata di presentazione dell’antologia del premio.

17.Eventuali proventi derivanti dalla vendita del volume antologico saranno regolarmente documentati e diffusi attraverso gli spazi internet in nostro possesso e saranno, comunque, destinati a finanziare future attività artistico-letterarie sempre all’interno dell’obiettivo principale della promozione culturale.

18.La partecipazione al concorso implica l’accettazione dell’intero bando di concorso.

02/01/2013

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Massimo Bontempelli e Giuseppe Verdi

29 Marzo 2013 , Scritto da Roberto Oddo Con tag #musica, #saggi, #roberto oddo

La materia di quella creazione essendo la passione umana, quell'arte, sincera fino all'estremo sacrificio, è e deve rimanere sempre e tutta immersa nella vita: la vita non come sostanza ignota ma come fenomeno manifesto: la vita come natura, perché la passione altro non è che natura e natura vuol rimanere: è sangue, vegetazione; è anche paura, paura dell'intemperia e della sofferenza, paura dell'aldiquà. Di teatro o da camera, sacra o profana, da Palestrina a Scarlatti e a Rossini tutta la musica era stata un tentativo di sfuggire alla vita o con la contemplazione, o col trionfo del numero e del ritmo come sola verità raggiungibile, o con l'assorbimento solare. Avere voluto servirsi degli ultimi portati dell'esperienza musicale di tre secoli per esaltare la vita mortale (perché senza dubbio di là dall'uomo verdiano non esiste immortalità) fu impresa di coraggio immane. Lo sforzo di questo sacrificio è l'atto che mantiene la musica di Verdi in continua febbre.

La prolusione su Verdi che Massimo Bontempelli (Como 1878 - Roma 1960) pronunciò il 2 febbraio 1941 al Teatro La Fenice, corona i Sette discorsi raccolti dall'editore Bompiani nel 1942. L'attività "accademica" di un italiano progressivamente corroso dal fascismo - che in un primo tempo lo aveva convinto - sembra dunque, in quel volume, addirittura chiudersi nel nome di un musicista che ha attraversato tutta la sua opera. Vero è però che, nello stesso 1942, Bontempelli dà alle stampe anche un breve saggio sull'opera di Malipiero (sempre per Bompiani) con illustrazioni musicali di Raffaele Cumar; ed è vero anche che, sempre nei primi anni del secondo conflitto mondiale, l'autore offre il suo estro per altri incontri (A Galileo poeta, Apocalisse di San Giovanni, Al non possedere quadri, Alla lirica italiana, ma anche A Pergolesi). Verrà solo nel 1958 il volume Passione incompiuta (Mondadori), raccolta degli scritti musicali più originali (tra cui lo stesso su Verdi), sorta di doppio di quell'antologia di meditazioni sull'arte figurativa, Appassionata incompetenza, che intanto aveva pubblicato con Neri Pozza (1950). Né l'incompetenza né l'incompiuto possono dar ragione al pudore e al desiderio esplorativo (e - in definitiva - passionale) di un autore che alla musica e alle arti ha dedicato buona parte della sua esperienza intellettuale, facendone in «900» uno dei baluardi della cultura moderna. Basti, a confermarlo, ciò che Bontempelli dice nell'incipit del discorso pronunciato (il 15 settembre 1940) in memoria degli Scarlatti:


Il mondo è fatto di pittura e avviluppato di musica. [...] Il mondo di spazi plastici creato dalla pittura l'uomo lo vien avvolgendo in serie di suoni, che sono porzioni del tempo scelte e individuate cioè fatte anch'esse espressive: e questa è la musica.

Poggiati i piedi sulla pittura e fasciato il capo di musica, l'umanità può correre con affetto al suo ultimo fine.

(Non mi domandate quale ufficio può avere in una distribuzione di questo genere la sola arte che non ho nominata, voglio dire la poesia, o arte dello scrivere nelle sue varie forme. Per quanto ci abbia spesso pensato, non sono mai riuscito a capirlo.)

La musica non può essere dunque considerata un'occorrenza sporadica nella vita e alla penna di Massimo Bontempelli, che per molte sue commedie aveva anche composto da sé l'accompagnamento. Si direbbe, anzi, che era un'occasione di confronto continuo, un campo nel quale versarsi con intelligente arte di candida, quanto ostinata, meraviglia. Forse privo del pudore sornione o dell'affilatissima penna chirurgica da specialista del suo amico Alberto Savinio, Bontempelli vanta però una dimestichezza invidiabile con una propria ricerca comunicativa e con il proprio linguaggio comunicativo (era Luigi Baldacci, il suo più grande critico, a riconoscergli questa dote). Siamo, cioè, di fronte a un autore che vantava un preciso registro espressivo e sapeva benissimo cosa selezionare nelle altre arti in funzione di un proprio disegno letterario, estetico e culturale. All'interno di questo percorso centripeto, l'opera di Giuseppe Verdi, ora nell'irrinunciabile confronto con Wagner, ora nella preferenza accordatagli rispetto al più moderno Puccini, occupa un ruolo di primo piano.

Addirittura, oserei dire che, se torniamo un attimo al discorso tenuto in onore di Scarlatti, ci rendiamo conto anzi che sotto molti aspetti questo è una preparazione a quello su Verdi:

... noi stiamo da quasi mezzo secolo vivendo alle spalle del teatro musicale dell'Ottocento. Ma una buona parte del melodramma ottocentesca è tuttora viva anche nella sua funzione di spettacolo, per la ragione che dopo il Falstaff non è più nato tra noi un teatro musicale che non sia epigono del più recente passato ed è meno peggio vivere di parassitismo che di epigonismo.

Nel teatro dell'Ottocento, Verdi viene selezionato quale irrinunciabile punto d'arrivo per il nuovo secolo: Bontempelli sa benissimo, però, che sul nome del Cigno di Busseto pesano insieme una cappa di inamovibilità mistica e una forma espressiva ormai superata. Verdi soffre, in sostanza, di una asfissiante classicità, che quasi impedisce al suo ascoltatore di prendere posizione e ascoltarlo a cuore libero. Prova ne sia che, nel proporre la sua visuale sul compositore, il poliedrico "accademico d'Italia" (come prima Savinio) sente il bisogno impellente di argomentare la formula di apertura del suo discorso. A differenza di quanto accade in altri discorsi, dove lo la scaletta è ben più fantasiosa, Bontempelli si diffonde qui in un lungo ragionamento, che altro non è se non lo sviluppo del celeberrimo incipit (al quale allude perfino la Breve storia della musica di Massimo Mila): Giuseppe Verdi è quello che un giorno ha portato di colpo la musica dal cielo in terra.

La sintassi non lascia adito a dubbi e qui lo scrittore sembra voler dire che il Novecento ha trovato la musica sul suo percorso terrestre, dopo il lungo trasporto metafisico che l'ha segnata, e che questo risultato è opera di Verdi. Bontempelli individua in Verdi la svolta improvvisa e risolutiva, che consiste nell'avvolgere l'uomo in una bolla fatale: al suo interno, l'uomo vive e amplifica le sue passioni nell'immanenza, senza alcuno spiraglio possibile per il trascendente, ovvero per smorzare il dolore. Lo stesso Miserere del Trovatore, dove pure sembra di poter accedere a un senso di superiore rassegnazione, vede i singhiozzi dei due innamorati e il mondo fosco e febbrile (insieme romantico e barocco, ma non medievale...) in vantaggio rispetto a qualsiasi salvifico misticismo. L'uomo dell'opera di Verdi è un uomo senza speranza di essere redento, la sorgiva forza creatrice del suo demiurgo lo sprofonda in travagli materiali e grevi.

Il Cigno di Busseto ha, dalla sua, una forza estranea al melodramma che si lasciava alle spalle: si tratta del coraggio e della capacità di innovare l'arte fin dalle sue fondamenta senza guardare ai modelli, e forse senza preoccuparsene. Dell'Ottocento (il secolo duro a morire), Verdi non raccoglie i principi estetici e i manifesti programmatici, bensì il senso più immediato dell'opera, l'eredità sana e sanguigna del teatro più popolare. Bontempelli - che ha alle spalle abbastanza esperienza per dialogare con i suoi lettori e i loro presunti capricci - cerca perciò di prevenire le proteste e immagino che non sia estraneo in lui il ricordo della propaganda didattica fascista con spettacolini di strada. In ciò è forse piuttosto frettoloso nell'assimilare i burattini alle marionette: gli uni, guanti sagomati che gli animatori conducono dal basso attraverso la scena, le altre, sagome a tutto corpo guidate dall'alto attraverso i fili; figure nobilitate dalla tradizione epica e poi simbolo di potere accentratore queste, ombre servili e davvero popolane quelle, oggetto talvolta di raffinatissime rivisitazioni.

Poco importa, però, il malinteso filologico, perché l'autore, che lo liquiderebbe con caustici commenti, è chiarissimo nel collegare l'opera di Verdi con la forza istintiva del genio che guarda al suo secolo e lo sintetizza nei personaggi e nel dramma, più che nell'ascesi lirica della musica. E, del resto, l'abbiamo visto, il teatro di figura era più che trasparente anche nel ritratto che di Verdi traccia Alberto Savinio. Più sorprendente è, semmai, l'insistenza di Bontempelli sul termine barocco, che la convenzione moderna - almeno in musica - vuole semmai antitetico rispetto al romanticismo verdiano. Vediamo, però, che lo scrittore riesce quasi a convincerci quando dice:

Il barocco è scatenamento della immaginazione, traboccamento, predominio dell'avventura sull'estasi, del fasto sull'intimo, del prepotere sul convincere; e, nella forma, della voluta sul rettilineo. Il barocco è fervido e ingegnoso, naturalista e antimetafisico, ama l'ebbrezza ma non raggiunge il dio Dioniso, perché è il trionfo del sensibile terrestre. Vedete quanto siamo vicini al centro e all'apice della musica di Verdi? In fondo, il barocco è una forma di disperazione. E la musica di Verdi è volentieri disperata.

Ognuno dei termini usati ha una sua storia nella prosa di Bontempelli e i suoi lettori ricorderanno senz'altro quel senso dell'avventura che, da La vita intensa e La vita operosa ai suoi più maturi romanzi, attraversa la narrativa dell'autore. C'è, in esso, tutto il retaggio (dialettico finché si vuole, ma pur sempre retaggio) futurista della velocità, dell'incanto metropolitano, come metropolitano è il Verdi di Bontempelli, un personaggio tra gli altri di un panorama ampio e policromo in rapida fermentazione. Forse la voce, tra tutte, meno propensa allo slancio metafisico dell'estetica, ma puro genio e miniera d'innocenza e, soprattutto, energia, grazia e poesia. Non è forse un caso se, nell'opera di Bontempelli, il ritratto di Verdi prende corpo soprattutto durante la seconda guerra mondiale. Fatto sta che, nella sua opera, il "contadino tagliato giù alla buona" sembra strafare, lasciare il mondo esangue al cospetto della sua forza tellurica: e questa sarebbe proprio la misura della sua sovversione terrestre.

In questa febbre appaiono flussi cupi, una tristezza che non sa farsi malinconia, sfugge ogni zona di solitudine. La passione non ama la solitudine. Malinconia e solitudine assorbirebbero l'uomo in quel piano aereo ove si finisce col convincersi che azione e passione sono inutili travagli. Fatta di passione (e la passione è sentimento che vuol farsi azione) la forza della poesia verdiana è spesso prepotenza; non la prepotenza ferma di Rossini ma quella tempesta che travolge, prepotenza della natura dal cielo in giù. Tutte le esuberanze, i folgoranti corrucci di cui vive l'opera verdiana, sono d'indole orgogliosamente tellurica. E sebbene quel mondo sia tutto natura, non è l'intera natura; il cielo e il mare vi sono tempestosi a ogni ora (anche quel mare e quel cielo che ogni uomo ha dentro sé nell'anima); vi manca il sole del gran mezzogiorno, vi manca il mare immobile senza respiro, vi manca il nero della notte tra stella e stella; che sono le tre note trascendenti della natura.

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Alberto Savinio e Giuseppe Verdi

29 Marzo 2013 , Scritto da Roberto Oddo Con tag #musica, #saggi, #roberto oddo

Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea De Chirico, Atene 1891 - Roma 1952) ha questa sua dote singolare: riesce a essere armonico e aggraziato anche quando la sua arte esprime una profonda dissonanza nei confronti di avventori più o meno fedeli. Nel campo musicale la sua ironia, la sagacia dello specialista si fa poi più tagliente e drammatica, meno disposta a scendere a compromessi. Gli scritti musicali di Savinio sono raccolti in un prezioso (e ormai raro) volume, Scatola sonora, curato da Fausto Torrefranca nel 1955 (ed. Ricordi), riedito nel 1977 con l'introduzione di Luigi Rognoni (Einaudi Letteratura). In vent'anni, dunque, il volume ha cambiato traiettoria e destinatari: come se fosse impallidito il tratto tagliente della sua penna e lo si volesse riversare in un calderone - in fondo - un po' anonimo, il vivace e irrefrenabile Savinio è entrato nel novero dei grandi intellettuali di primo '900. Ovvero, "sull'arte di depotenziare un'intelligenza elettrica e superba" (arte tutta italiana, del resto).

Il Verdi di Alberto Savinio non è, insomma, un capitolo a sé di uno scrittore e pittore appassionato di musica e forte di studi musicali serissimi, compositore egli stesso. I pezzi dedicati a Giuseppe Verdi - perlopiù recensioni - sono stati raggruppati in un piccolo corpus unitario che, nell'edizione Einaudi - quella che io ho tra le mani - va da p. 140 a p. 163. A questi scritti (ricordiamolo: indipendenti in origine), per avere un panorama più organico del Verdi di Savinio, è bene aggiungere il capitolo Verdi Uomo Quercia di quel libro straordinario che è Narrate, uomini, la vostra storia. Si tratta di un album di ritratti esemplari (dei quali, forse, il più suggestivo - e non è un caso - è quello dedicato alla danzatrice Isadora Duncan) e il paesanotto delle Roncole vi figura in una decina di auree pagine, terragne e sonore, in buona e varia compagnia tra l'intellettuale e poeta rivoluzionario greco Lorenzo Mavilis e il torero andaluso Cayetano Bienvenida. Questo per dire che Verdi rappresenta per Alberto Savinio una voce tra le altre in un mondo organico e polifonico e l'artista non gli accorda una preferenza tematica pregiudiziale.

Ciò non vuol dire, però, che il suo timbro vada perduto tra quelli altrui; e insomma, se noi ce lo ritagliamo qui in occasione del bicentenario della sua nascita, bisogna pur dire che l'immagine che emerge del musicista italiano è a suo modo univoca e compatta. Vero è che cifra della scrittura saviniana è un'ironia esplosiva, fatta di apparenti ritrattazioni (in realtà di tornitura semantica), ma lo scrittore ha gioco facile qui a proporci l'immagine di un uomo - e di una musica - scarnificato, prismatico, fatto di armonie e di idee. Attraverso i pezzi di Scatola sonora - che coprono le opere maggiori - il lettore va scoprendo un Verdi roccioso, forte, essenziale, a volte immediato, a volte invece pronto a raggiungere la specifica e più alta qualità della musica.

Anche a voler evitare il confronto con Wagner, topos delle tifoserie europee tra '800 e '900, è nel capitoletto dedicato a L'interpretazione di Verdi - attraverso il fatidico nemico - che abbiamo un quadro più esatto di quel che cerchiamo qui. Wagner vi appare qui come uno stratega, un pianificatore delle emozioni che sommergerebbero il pubblico senza pietà con la forza propulsiva di un bel fiume nordico, di una cascata. Per conto suo, invece, un'opera di Verdi è un fiume torrenziale, in balia delle piogge invernali, dell'arsura estiva e delle secche: è allo spettatore che tocca ritrovare la continuità in una partitura che sembra accendersi in mille occasioni musicali superbe, ciascuna delle quali è nuova e costringe a ripensare il brano e il suo contesto.

Il nostro padre melodico, lo si legge quasi con un sobbalzo, è un musicista freddo, nel senso di una passione che cede il posto all'intelligenza necessaria a interpretarlo, a capirlo, a farsi un'idea autonoma delle sue opere. Come altrove, lo spettatore viene invitato a non lasciarsi trapassare dalla musica, ma essere sempre protagonista del momento della fruizione. L'essere della musica un'estranea cosa, una Non-Mai-Conoscibile può forse mettere fuori gioco un pubblico impreparato o ignaro, ma è tale da richiedere un vero e proprio atto cooperativo, e guai a esaurirsi nella mera ricezione. L'insistenza su questo punto proprio per Verdi, autore popolare quant'altri mai (e Savinio pone sempre quest'aggettivo tra virgolette), fa pensare e forse va messa in relazione con quanto dice l'autore sulla Traviata (la sua Tristana, ma anche opera più commovente nel ricordo che nel presente): la tragedia di Violetta Valéry ci guadagnerebbe di più da un organetto di strada (macinino dei ricordi), dal contatto diretto e immediato con la tristezza cittadina (sono melodie cittadine, incapaci di varcare la cinta daziaria), sì, ma anche dalla spersonalizzazione dei personaggi a favore di un teatro di marionette.

Va detto che questa delle marionette era idea fissa anche di Massimo Bontempelli, del cui rapporto col Cigno di Busseto parleremo in un prossimo post. Ma il discorso che si fa qui è di natura diversa: per Alberto Savinio, Verdi rinuncia all'intermediazione della marionetta, trattando i suoi personaggi come creature umane; d'altra parte, la passionalità un po' fosca e accesa delle marionette attira il popolo e l'essere supremamente intelligente, categorie dalle quali distingue l'uomo di buona intelligenza e di buona cultura, che invece sceglierebbe Wagner. A Verdi spetta questa posizione, diciamo così, divaricata tra l'eccellenza e l'appeal popolare che costerebbe al musicista un'interpretazione spesso frettolosa e inadatta a valutarne il vero genio.

Verdi, pur nella sua ignoranza del vero Dio, è patetico, ossia oscuramente tormentato da questo ignorare, e degno perciò del Nobile Castello. E questo suo patos, questo suo calore senza oggetto, questo suo grido senza eco, queste sue domande senza risposta hanno lo stupore lucido, la tragica atonicità, la spaventosa inespressione delle nature morte metafisiche [...]. Badiamo alle confusioni. È questo tessuto metafisico che, per quanto insospettato in lui, ha salvato Verdi dal povero, dal triste destino dei musici "soltanto" popolari; che lo fa degno di scoperte e riscoperte, che consente di passeggiare in quella parte della sua opera, dai classificatori definita "più verdiana", con la curiosità, con l'affetto, con lo stupore con cui si visita un acquario o un museo di storia naturale. (Scatola sonora, p. 155)

Savinio, che pure considera Il Trovatore come il capolavoro di Verdi (in nessun'altra delle tante sue opere l'ispirazione è così alta), e vi ritrova momenti di assoluta verticalità (intesa quale audacia dell'anima a librarsi nei cieli, liberandosi dalle pastoie della stessa drammaturgia), si avvicina via via ai due più tardi capolavori: Otello e Falstaff. Otello è qui considerato come un'opera autobiografica, l'opera che condensa il dramma essenziale del vivere o morire, attraverso il sentimento umano, umanissimo della gelosia, quale atto d'amore. Falstaff, come il Parsifal, è una preparazione alla morte: ma Savinio vi vede non un'uscita, bensì un ingresso nel grande ritmo dell'universo. Si ripropone allora il confronto tra Wagner e Verdi proprio in questa forma di "estrema unzione" della propria opera e ciò accade non in astratto, ma attraverso un discorso tecnico, di tonalità: il Lab maggiore del Parsifal (tonalità della crema, tonalità del lattemiele) contro l'asciutto Do maggiore, decoroso e elementare, da disegno.

Torna qui l'ideale di un Verdi che va spogliandosi della più dozzinale qualità melodrammatica italiana, che invece, nella sua essenza più pura, è molto cara ad Alberto Savinio, stando alle pagine meravigliose che lo scrittore dedica a Vincenzo Bellini (il nostro musico più greco) e a Gaetano Donizetti (il più genuinamente, il più costantemente, il più singolarmente ispirato tra i tre maggiori melodrammatisti). Né è da Rossini che Savinio vuol svincolare Verdi, anche quando dice che questi con maggiore coraggio e anche maggiore ingenuità ha cantato i drammi della vita, ha sentito il bisogno in ultimo di scrivere il Falstaff, per ritrovare mediante quest'opera di là dal bene e dal male la naturale innocenza della musica italiana. (Scatola sonora, p. 91) Tuttavia, è vero che dopo il Guglielmo Tell, Savinio denuncia un crollo improvviso del carattere alto e aristocratico dell'opera italiana. Toccherà allora all'Uomo Quercia, quest'uomo nodoso, uguale a tanti altri, quest'uomo contadino e un po' plebeo, ignaro del mistero della musica e delle fantasticherie romantiche, riportare il melodramma da dove era venuto, anzi, a un punto più alto e nobile. Giuseppe Verdi, con i suoi ricordi di banda, con i suoi maldestri tentativi di nobilitazione orchestrale (che aggiungiamo noi, un cinquantennio dopo, si segnaleranno in modo analogo in Gershwin), riacquista nelle pagine di Savinio un colore speciale, colmo d'affetto e di tenerezza:

Neppure lui si conosceva. E giudicando la sua musica secondo criterio musicale, le dava appena dieci anni di vita.

Eppure le altre musiche morranno ma la sua continuerà a vivere. Perché non è staccata dal mondo come le altre e sterile, ma plasmata e riplasmata con forti e grosse mani di rurale, impastata con gli elementi stessi della terra: il bene e il male della terra, il suo amore e il suo odio, la sua dolcezza e la sua crudeltà, la sua stupidità, la sua indifferenza, la sua pazzia. (Narrate, uomini, la vostra storia, p. 157)

(fonte http://das-kabarett.blogspot.it/)

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Ida Verrei: giovani che leggono

28 Marzo 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei: giovani che leggono

Desideravo esprimerle il mio sincero apprezzamento e ringraziarla per aver saputo creare una storia così delicata, che contrasta in maniera suggestiva con lo sfondo degli orrori della guerra e della minaccia fascista, tragico periodo che coinvolge anche me, seppur in maniera indiretta.

La terribile novità della dittatura s’insinua come una nebbia nella trama della vita tranquilla e abitudinaria della protagonista, contaminando e sconvolgendo a poco a poco il suo piccolo mondo, l’incanto dei racconti popolari e delle tradizioni slovene.

Un’esistenza innocente, costellata di sogni d’amore, affetti familiari e amicizie sincere, di luoghi ameni popolati di piccole creature di fiaba.

Nel mio immaginario, i volti dei fascisti assumono quindi l’aspetto di mostri crudeli, che crudelmente spezzano le ali delle fate di vetro del mondo di Liana e soffocano la magia dei luoghi carsici o, piuttosto, strappano la giovane donna a quella magia che le resterà però sempre nel cuore.

Le sue parole hanno infuso in me quella stessa magia.

Con stima

Una ragazza che ha avuto il piacere di leggere “Le Primavere di Vesna”

Camilla Paola Maglione (18 anni)

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Segnalazione nuova uscita

28 Marzo 2013 , Scritto da Redazione Con tag #redazione

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Giovanni Fattori

28 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #pittura, #personaggi da conoscere

Giovanni Fattori

"Il disegno del Fattori”, dice l’Argan, “non è il disegno accademico, generico ed evasivo; è, com’era nella cultura figurativa toscana del Quattrocento, un disegno che penetra, definisce, incide.”

Giovanni Fattori (1825 – 1908) è nato a Livorno ma si è poi trasferito a Firenze, entrando in contatto con il gruppo dei pittori che si riuniva al caffè Michelangelo, in via Larga (ora via Cavour).
Parte come romantico ma la sua maturità artistica e il suo momento più prolifico si concentrano dopo i quarant’anni quando, insieme a Telemaco Signorini e a Silvestro Lega, diventa uno dei principali artisti macchiaioli. Il fenomeno è precursore dell’impressionismo e si lega al quadro ideologico risorgimentale, del quale il pittore fa parte come fattorino del Partito d’Azione e del cui assedio di Livorno conserverà memoria indelebile.
Secondo la teoria macchiaiola, il pittore deve rendere il vero come lo percepisce il suo occhio, con chiazze colorate di luce e di ombra, senza pregiudizi culturali. Fattori, infatti, si considera “uomo senza lettere”, capace di cogliere il presente, il momento in atto. E, tuttavia, l’identificazione dell’artista col soggetto non si raggiunge mai, si ha sempre una testimonianza, un commento, una valutazione etica. Uno dei suoi temi preferiti è la vita militare, colta nella quotidianità, l’altro grande soggetto è il paesaggio rurale della Maremma, con butteri, erbaiole, acquaiole, buoi e cavalli.
Nella sua vita, Fattori è spesso in difficoltà economiche, torna a Livorno per assistere la moglie malata la quale, poi, muore di tubercolosi. Il pittore, allora, si dà a viaggiare, visitando l’Europa, gli Stati Uniti e il Sudamerica. Dalle nostre parti, soggiorna anche a Fauglia e a Castiglioncello, ospite di amici.
Verso la fine della sua carriera artistica si dedica all’acquaforte, tecnica consistente nell’incisione di una lastra di metallo tramite acido.
Muore a Firenze nel 1908.

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Eliécer Ávila lancia Somos+, nuovo movimento politico

27 Marzo 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #politica estera



Il giovane Eliécer, da poco entrato nelle fila della dissidenza, ha
lanciato un nuovo progetto politico.

27 marzo 2013

Eliécer Ávila Cicilia, il giovane noto a chi si occupa di cose cubane
per aver messo in difficoltà Ricardo Alarcón nel 2007, oggi si è
presentato come "un umile servitore" per lanciare il
progetto "Somos +", volto a "costruire uno Stato
moderno, con un governo che imposti una politica diversa nei confronti
dei cittadini (...) per unire le famiglie che stanno soffrendo
lontananza e separazione".

Ávila ha affermato: "La maggioranza dei cubani non condivide
l'operato del governo. Visto che siamo la maggioranza, vogliamo
poter esprimere le nostre opinioni. E in ogni caso sarebbe lecito
farlo, anche se fossimo soltanto una minoranza".

Eliécer Ávila Cicilia ha descritto la nuova organizzazione in un
documento video lanciato in rete dalla Polonia (dove si trova adesso):
"Somos mas non sarà un partito politico, ma un movimento. Alla
base ci saranno democrazia e rispetto dei diritti umani. Vogliamo
riunire tutti i cubani che vivono all'interno e all'esterno
dell'Isola. Vogliamo creare uno Stato moderno, prospero,
tollerante e democratico. Vogliamo conoscere a fondo la realtà vissuta
da ogni cubano per cercare di trasformarla. Il mio obiettivo personale
è quello di rientrare a Cuba come uomo politico e di poterne uscire
quando lo riterrò opportuno, indossando la solita veste".

Eliécer Ávila Cicilia si presenta come il vero uomo politico per la
nuova Cuba, così come Yoani Sanchez è l'intellettuale, la
giornalista, la scrittrice del cambiamento, lui è il teorico di una
politica nuova.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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Il marchese del grillo (1981) di Mario Monicelli

27 Marzo 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Il marchese del grillo (1981) di Mario Monicelli

Regia: Mario Monicelli. Presentato da Renzo Rossellini per Gaumont D.A.C.. Fotografia: Sergio D'Offizi (Colore Telecolor). Sceneggiatura: Lorenzo Baraldi. Costumi: Gianna Gissi. Produttore Esecutivo: Marco Tamburella. Direttori di Produzione: Francesco Casati, Marc Maurette, Giuseppe Auriemma. Collaboratrice ai costumi: Bruna Parmesan. Arredamento: Massimo Tavazzi. Aiuto Regista: Amanzio Todini. Musiche: Nicola Piovani (dirette dall'autore). Montaggio. Ruggero Mastroianni. Soggetto: Bernardino Zapponi. Rielaborato da: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli. Sceneggiatura: Benvenuti, De Bernardi, Monicelli, Pinelli, Sordi. Produzione: Italia/Francia. Produttori: Luciano De Feo per Opera Film Produzione srl (Roma) e Gaumont S.A. (Parigi). Interpreti: Alberto Sordi, Carolyne Berg, Riccardo Billi, Flavio Bucci, Camillo Milli, Cochi Ponzoni, Marc Porel, Pietro Tordi, Leopoldo Trieste, Paolo Stoppa, Giorgio Gobbi, Isabelle Linnartz, Tommaso Bianco, Marina Confalone, Alfredo Cohen, Elena Daskowa, Salvatore Iacono, Elena Fiore, Isabella Bernardi, Andrea Bevilacqua, Angela Campanella, Giuseppe Furelli, Ettore Geri, Jacques Herlin, Elisa Mainardi, Bruno Rosa, Sandro Signorini, Compagnia del Teatro di Alibert diretta da Angelo Savelli, REnzo Rinaldi (Bacco), Ivan De Paola (Hermes).

Mario Monicelli si dice lusingato e stupito che questo film interessi così tanto il pubblico americano, perché in fondo racconta le vicissitudini di un personaggio della Roma papalina ai tempi di Pio VII, non è dato sapere quanto reale. Certo, la casata Del Grillo è storica, visto che a Roma esiste ancora il Palazzo del Grillo e c'è la Salita del Grillo (dove viveva il regista). Monicelli cura prima di morire una versione de luxe in dvd, sottotitolata in inglese, riservata al pubblico nordamericano, ricca di extra e di contenuti inediti. Il film vede protagonista uno straordinario Alberto Sordi che rappresenta tutti i vizi e i difetti della nobiltà romana: pigrizia, arroganza, infingardia, codardia, superstizione, bigottismo, corruzione e ricerca del quieto vivere. Onofrio, il marchese Del Grillo, inganna la noia di giornate monotone nella Roma del Papa Re (1800), durante l'avanzata napoleonica, facendo scherzi feroci ai poveri, ai borghesi e ai suoi pari. Lancia frutta ai questuanti insieme a durissime pigne, ripaga con soldi roventi chi pretende i danni, fa allontanare la sorella da Roma perché ha un alito pestilenziale, ironizza sulla madre bigotta, incita la cugina a gettarsi sugli uomini, mura la bottega di un negoziante, non paga un falegname, corrompe i giudici del processo per debiti, prima lo fa condannare e poi lo rimborsa. Il film è un contenitore di scherzi sulla falsariga di un Amici miei (1975) in costume, debitore delle atmosfere ideate da Luigi Magni (Nell'anno del Signore, 1969 e In nome del papa Re, (1977), anticipando di un anno la nuova stagione di Amici miei (Atto II, 1982). Una commedia all'italiana in costume che a tratti vira sul sexy quando il marchese se la spassa con la giovanissima amante romana o quando esibisce in un plastico nudo la sua conquista francese. Ottimo Flavio Bucci nei panni del folle brigante Don Bastiano, prete che si è dato alla macchia e fa il predone, ma muore da eroe incitando il popolo a inginocchiarsi. Frase indimenticabile: "Mi dispiace. Ma io so' io e voi non siete un cazzo!", che rappresenta bene il personaggio del Sordi - Marchese, strafottente e arrogante, ma in fondo buono e generoso. Bravo Paolo Stoppa come Papa Pio VII che fa le corna invece di benedire quando il Marchese esclama: "Morto un Papa se ne fa un altro!". Sordi è straordinario anche nei panni di Gasperino il carbonaio, sosia del Marchese, che utilizza per uno scherzo feroce ai familiari. L'attore romano passa dal ruolo di nobile colto e annoiato a quello di popolano rozzo e ubriacone con grande disinvoltura. Lo scherzo giunge ai massimi termini quando Gasperino sta per essere ghigliottinato al posto del marchese, ma per fortuna il Papa concede la grazia. Bravo Gobbi come servitore, diligente Riccardo Billi come falegname. Il marchese Del Grillo è uno spaccato di vita della Roma del 1800, credibile e realistico, dipinto con i colori della commedia all'italiana da un Monicelli in gran forma, per descrivere con graffiante ironia ascesa e disfatta di Napoleone, ma anche gli ultimi anni del Papa Re. Ottime le musiche di Nicola Piovani. Suggestiva la fotografia di Sergio D'Offizi.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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