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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

simone giusti

Franco Forte, "Fuga d'azzardo"

8 Novembre 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #recensioni

 

 

 

 

 

Fuga d'azzardo

Franco Forte

 

Centoautori, 2015

173 pagine, 12,50

 

La fuga di Kimberly da un mondo senza scrupoli e senza pietà. Una valigia piena di soldi, un sogno duro da conquistare.

 

Kimberly è una di quelle donne che solo a guardarle ti fanno impazzire, e lei lo sa. È così che ha scalato i vertici dell’Organizzazione fino a diventare la donna di un pezzo grosso. Ma ora Kimberly è in fuga, ed è sola. Chissà se ce la farà.

Fuga d’azzardo non è un romanzo, è un film d’azione stracarico di suspense e traboccante di sensazioni che fanno male. È una martellata che quando finisci di leggerlo senti che ha piantato un chiodo dentro di te.

 

Franco Forte non è uno sprovveduto, lui sa come usare la parola, la piega a suo piacimento per darci immagini forti ed evocative. Immagini che ti rimarrebbero ficcate in gola come spine di pesce immerse nella melassa se non sapesse miscelarle a meraviglia con l’arte che solo in pochi riescono a giostrare, come in punta di dita, per farti rimanere quel malloppo di melassa e spine solo per un attimo, lì in bilico tra l’esofago e la trachea, il tempo giusto perché ti graffi e ti faccia male, per poi fartelo scivolare giù dritto fino allo stomaco e farlo esplodere con uno strabordante effetto psichedelico che ti attanaglia le meningi e ti costringe a pensare, a pensare a quei personaggi che credono di vivere e invece sopravvivono nel terrore di un’esistenza strappata, ma soprattutto a pensare a lei, o meglio, a pensare con lei, Kimberly, che buona non è, che simpatica non è, che non avrebbe niente per attirare la nostra empatia, ha solo la bellezza, e una dose massiccia di disturbante sensualità, eppure non è per quello che facciamo il tifo per lei, lo facciamo perché lei rappresenta un po’ i sogni di tutti noi, o quasi, di tutti noi che siamo in fuga ogni giorno, in fuga verso un sogno, in fuga d’azzardo sperando di farcela anche se la paura è tanta e forse non ce la faremo mai. Ecco cosa Franco Forte riesce a tirar fuori con questo romanzo qui. Tira fuori la verità di una vita dannata in fuga da qualcosa che mai ci lascerà.

 

Memorabile il ricordo del killer, doloroso il risveglio di Kimberly, una staffilata che ti fa dilatare le pupille il finale. Un romanzo da godersi piano piano, se ce la fate. Perché io non ce l’ho fatta a smettere, e ora mi sento come in crisi per la botta d’emozioni che quel romanzo ti dà.

 

Quando il romanzo di genere si fa potente letteratura. Ecco ci qua.

 

Fuga d’azzardo è un romanzo che non scorderete più.

 

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Paola Tavella e Agostino Toscana, "Deadflowers"

26 Marzo 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #recensioni

 

 

DEADFLOWERS

Paola Tavella – Agostino Toscana

(140 pagine, bookabook. E-book a 5€; Cartaceo a 12)

 

Una storia cruda e crudele che ruota attorno a un vecchio colpo degli anni di piombo. Un colpo andato a finire male.

Sono passati trent’anni. Chris è tornato e ha il grilletto più facile di prima. Rimette insieme la vecchia banda. Indio, che è quasi come un fratello, ma soprattutto Dori, la sadica ragazzina che amava i coltelli e che ora è divenuta una donna che si guadagna da vivere in un modo spietato e disumano. Peccato che sulle loro tracce ci sia una banda di fascisti e un vecchio sbirro incattivito.

Deadflowers non è un romanzo, è un film d’azione giocato in modo straordinario tra flashback che si rincorrono fino alla fine sprigionando un senso drammatico che picchia duro nel cuore.

I due autori tracciano personaggi veri, descritti per dettagli, personaggi di cui si sentono gli odori. La narrazione è scarna ma fortemente empatica, di quelle che ti entrano dentro subito e ti scavano con le unghie laccate di rosso e le punte metalliche dei pugnali. I capitoli sono brevi, i titoli grandi, in grassetto, che sembrano martellate. Ci raccontano una città, una grande città, e come tutte le grandi città è piena zeppa di gente spenta che insegue la sopravvivenza e, sebbene in mezzo a milioni di persone, è sola. Ci raccontano di gente che vive aggrappata a un passato che gli è rimasto cucito addosso come una pelle strappata, gente che ha smesso di vivere molto tempo fa quando ha iniziato a ricordare. Di gente che aveva un sogno e la vita è andata al contrario, di gente che dà la colpa a chiunque perché non si rende conto, o forse sì, che la colpa è solo sua, perché la vita che si ritrova se l'è voluta, se l'è cercata e costruita, passo dopo passo, e lo stesso vale fino all’ultimo gesto dell’ultima scena. Un susseguirsi di azioni stupide di barche ancorate in un porto che non c’è più.

Deadflowers è carne e sangue, schegge d’ossa, coltelli e pallottole, rabbia e disillusione. Un romanzo pulp che potrebbe essere un film. È già pronto, già sceneggiato. Un romanzo pulp che ci racconta tutto ciò che non si deve fare se si vuol vivere una vita vera.

 

«No. Ero morto prima. Quando tu eri via. Ero morto in quel bilocale di merda sulla Tiburtina, ero morto mentre cenavo con quella stronza di mia moglie e quel coglione di mio figlio, ero morto quando al lavoro non mi cagava più nessuno, ero morto quando dovevo ricattare i tossici e gli spacciatori per arrotondare la pensione. Ora sono vivo, Chris, vivo!»

 

Deadflowers è l’autostrada per l’Inferno, è saltare le uscite e schiacciare fino in fondo sull’acceleratore.

 

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Massimiliano Massa, "La guerra degli Elohim"

9 Marzo 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #recensioni, #fantasy

 

 

LA GUERRA DEGLI ELOHIM

Massimiliano Massa

(400 pagine, Amazon. E-book a 0,99; Cartaceo a 15,49)

 

Io ho detto: «Voi siete Elohim, siete tutti figli dell’Altissimo». Eppure morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti. (Salmi 82:6/7)

 

John Miller è un giornalista newyorkese di basso profilo. Passa le sue giornate occupandosi di servizi scadenti per la tv d’intrattenimento. La sua vita cambia di colpo non appena un tizio che neanche conosce gli chiede di poter rilasciare un’intervista molto particolare. Il tizio è un professore ed è in possesso di un video del KGB con rivelazioni scottanti.

La guerra degli Elohim parte come un thriller con tutte le carte in regola per trasformare la lettura in un’avventura intricatissima fra vecchi segreti della Guerra Fredda e realtà celate dietro il sipario di un complotto internazionale. Eppure dietro il thriller spionistico si nasconde un romanzo che affonda la sua ricerca fino all’origine dell’uomo.

La guerra degli Elohim è un romanzo con tantissimi strati di lettura. È un’avventura thriller-fantasy-fantascientifica, ma è anche uno sprone per porsi domande e iniziare a indagare, ed è ancora di più, è un passo per renderci consapevoli del Velo di Maya attraverso cui siamo abituati a filtrare la realtà. Insieme a John Miller avremo la possibilità di vivere un’avventura memorabile, ma non solo, di vivere un’avventura che ci cambierà così nel profondo da migliorare il mondo in cui viviamo.

Cambia te stesso e cambierai il mondo. Ma per farlo dovrai prima capire.

Questo è il messaggio del romanzo. Un messaggio cucito in una trama formidabile e in un intreccio da grandioso film d’azione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Anthropoid

17 Febbraio 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #cinema

 

 

Anthropoid

Un film di Sean Ellis. Con Jamie Dornan, Cillian Murphy, Harry Lloyd, Toby Jones, Charlotte Lebon. Storico. Gran Bretagna, Francia, Repubblica ceca 2016.

Official Trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=blAKCJcXC5c

 

 

Mi metto a cercare su Netflix. Cerco un bel film. Sfogliando mi fermo su Anthropoid. La locandina è intrigante. Non ci penso, lascio che sia l’istinto ad agire per me e clicco su play.

Già dai primi secondi capisco che è un film di spessore. Già da quei primi secondi dei titoli di testa a metà tra un documentario e un film mi arriva una botta in gola. Una di quelle che ti costringe a deglutire. E poi arrivano le prime inquadrature. Colore freddo, camera mossa ma non fastidiosa; un senso d’angoscia mi pervade e devo per forza continuare.

È così che è iniziata la visione di questo film che racconta un episodio drammatico e crudele (come tutti gli episodi) della Seconda guerra mondiale. Due paracadutisti cecoslovacchi esiliati arrivano su suolo ceco occupato dai Nazisti con un ordine ben preciso: assassinare il numero tre del Reich, il temuto Reinhard Heydrich. I due si muovono in una Praga magnificamente ricostruita, strisciano in un sottosuolo di spie e collaborazionisti; c’è anche tempo per un paio di storie d’amore. Ma non è il solito film. Quel senso d’angoscia che mi ha pervaso sin dall’inizio rimane. Perché questo film non racconta di atti eroici né di patriottismo, non racconta di ideali o di libertà, non racconta niente di tutto ciò che i film di guerra a cui siamo abituati hanno raccontato finora. Questo film ti disorienta. In questo film non si capisce chi è il bene e chi il male. Sì, lo so, sarebbe ovvio individuare il male nei nazisti, e in effetti è così. Ma questo è un film che non ti risparmia dai tremori e dalle crisi di chi è costretto a puntare la pistola su di un uomo per poi sparare, non ti risparmia dai sensi di colpa di chi sa di fare la cosa giusta (perché è Londra che lo comanda, perché Heydrich è un dannato macellaio, perché gli alleati sono quelli buoni che ti vogliono liberare), eppure i sensi di colpa ci sono, perché sai che uccidendo Heydrich metterai la tua firma sull’eccidio di altre decine, centinaia e addirittura migliaia di persone. I sensi colpa vengono ai protagonisti perché sanno che quell’azione di guerriglia che Londra ha comandato sarà un atto di autolesionismo spinto agli estremi. Ma quei sensi di colpa non vengono solo a loro, il film è fatto così bene che vengono anche a te che te ne stai sul divano in un paese in pace, in un paese libero, in un paese civile.

E così, mentre la prima parte del film più lenta e d’angosciosa attesa (ma anche di sottile speranza) lascia il posto alla seconda in cui la violenza si sprigiona come da una bolla di rabbia, idiozia e odio, mentre i mitra iniziano a gracchiare, e le pistole, e le bombe, mentre succede tutto questo, tu inizi a sentirti in trappola come i protagonisti di questa storia. Senti su di te tutto il peso delle pasticche di cianuro spaccate tra i denti come mentine e delle ultime pallottole lasciate per se stessi perché non c’è vita dopo la cattura. Senti su di te una successione di decisioni stupide, ottuse e mascherate da ideale con cui tutta quella gente si è auto-assassinata, in cui ha ceduto a quella spirale della morte che si chiama guerra. Con tutto quel macigno addosso che ti soffoca e ti disgusta, ecco che di colpo riconsideri tutti i tuoi valori. Riconsideri tutto ciò che ti hanno insegnato. L’eroismo, il sacrificio, l’ideale. E ti accorgi che non sono altro che idee non tue che qualcun altro ti ha ficcato nel cervello fin da bambino. E allora capisci perché tutto questo è accaduto, era accaduto prima e accade tuttora. Capisci che accade perché la gente dimentica se stessa per abbracciare ideali che non sono suoi, e così poi va a finire che la gente si odia, che la gente si vede diversa e la diversità fa paura.

Il film si chiude con una sequenza di inquadrature magistrali. Sono la concretizzazione della metafora raccontata fin dall’inizio. Si chiude con un colpo nel petto che ti lascia turbato e con la testa intasata da mille pensieri, tanto che devi per forza metterti alla tastiera e scrivere questa cosa qui.

Ottima sceneggiatura. Ottima regia. Attori più che convincenti; veri. Ottima fotografia.

Anthropoid era il nome in codice dell’operazione per assassinare Reinhard Heydrich. Non penso che potessero farci un film migliore.

 

 

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Simone Giusti, "Pisa Connection"

22 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #simone giusti

Pisa Connection

Simone Giusti

Marchetti Editore, 2015

pp 108

10,00

Simone Giusti, di cui avevo letto il delicato racconto per bambini Il giardino di bosco fitto, inaugura la nuova collana Pulp, da lui diretta per Marchetti Editore, col romanzo breve Pisa Connection. Tutto un altro stile, tutta un’altra grinta ma sempre la medesima ottima scrittura.

La vicenda ruota attorno ad un attentato islamico da compiersi ai danni del presidente del consiglio, mentre questi tiene un discorso in Piazza dei Miracoli a Pisa. Mi vengono i brividi a pensare che il romanzo è stato pubblicato pochi giorni prima dei tragici fatti di Parigi e, allora, i balordi terroristi drogati, che una risata dovrebbe seppellire, non sembrano nemmeno più tanto grotteschi e paiono usciti dalle cronache degli ultimi giorni.

Il tizio aveva detto di aver seguito i loro movimenti, soprattutto quelli di Fael che aveva un portale facebook con trecentoventisei iscritti su cui condivideva idee fondamentaliste assieme a video rap, foto di donne seminude e promozioni di kebab in piadina. La pagina si chiamava Al-Kebab, in copertina aveva un ninja che affetta una cipolla rossa. La scritta in arabo con caratteri dorati e sbrilluccicanti riportava: ne resterà soltanto uno. Un utente stordito una volta gli aveva segnalato la copertina come foto di decapitazione.” (pag 77)

A questo attentato s’intreccia l’odissea di Jimbo, un tossico alla disperata ricerca della sua dose quotidiana di metanfetamina. Jimbo non è descritto se non per pochi tratti: i capelli radi, la canottiera svolazzante, il motorino scassato. Jimbo è uno dei tanti drogati che incrociamo per strada, scansandoci con un po’ di disgusto quando ci chiedono uno spicciolo “per la benzina”. La sua esistenza si compie ogni giorno dal tramonto all’alba, concentrandosi tutta nella ricerca della dose. Jimbo non pensa, se non per quel che gli serve, non s’interessa del mondo circostante, non mangia, non beve ma ogni notte compie un viaggio mitico, una sorta di quest della dose che gli procurerà il flash e lo renderà immune a dolore e fatica per altre ventiquattro ore.

Attorno a lui pullula una miriade di personaggi bizzarri e squallidi, ai quali è dedicato di volta in volta un capitolo, così si scivola da un capitolo all’altro, da un personaggio all’altro, mentre, nel contempo, la trama avanza e ci ritroviamo alla fine in un batter d’occhio.

Quella che viene descritta non è la Pisa di quando frequentavo l’università negli anni ottanta, è la città che ci viene incontro non appena usciamo nel piazzale della Stazione, fra negozi di kebab, pizza al taglio e paccottiglia cinese per turisti. È un sottoproletariato di puttane e protettori, di extracomunitari, di drogati, di carabinieri, di terroristi a burro e formaggio e poliziotti che sembrano usciti da un film di Scuola di polizia (il mitico Tackleberry), tutti scandagliati dall’interno senza censura, nei loro pensieri più vili e meschini. L’unica pietà è per la vicenda della prostituta Fatjona, raccontata con una commozione che traspare. Tutto il resto è sporcizia, degrado, droga, sesso, emarginazione, è pulp insomma.

Simone Giusti sembra trattare gli argomenti con ironia e leggerezza, cercando simpatie per il povero, triste, Jimbo ma si capisce che sa di cosa parla, non ha creato delle figure a caso ma si è documentato e la descrizione del dopo attentato (pag 104-105) ha qualcosa di sinistramente profetico.

Sotto il linguaggio semplificato e il turpiloquio, s’intravedono molte letture, ma non solo, anche molto cinema, in una multimedialità che caratterizza i giovani autori. Il bagaglio culturale, insomma, non deve più per forza essere solo letterario, potendo ormai, l’immaginario collettivo, attingere a più fonti, come cinema, appunto, televisione, fumetto, videogames e persino i giochi di ruolo, di cui Giusti si dichiara appassionato.

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