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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

franca poli

Bellissima Brigitte

29 Settembre 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #personaggi da conoscere, #cinema

 

 

 

 

 

Non si dichiarano gli anni delle signore, Brigitte è sempre giovane nell'immaginario collettivo, è sempre quella della foto: bellissima, sensuale, selvatica, ironica e sfuggente.
Le sue labbra hanno disegnato le forme di un'epoca e il suo corpo ha fatto sognare intere generazioni. È curioso come di lei, passata alla storia, non si ricordino pellicole memorabili, BB ha recitato con una naturalezza disarmante, ha interpretato se stessa e questo forse è il segreto che la fa ricordare come persona ben oltre i film in cui ha recitato. La Bardot però non era solo bellissima, è una donna con grande personalità e soprattutto è intelligente e l'intelligenza è una dote che rende una donna estremamente sensuale. Negli anni la Francia ha scoperto che l'attrice, nonostante il successo, nonostante la vita in Costa Azzurra, non era una bambola di vetro e ha dovuto fare i conti con il suo impegno, la sua coerenza, le sue idee. La Bardot ha abbandonato la carriera senza remore e ha scelto la strada più difficile fregandosene delle conseguenze.
Nelle sue dichiarazioni, sempre controcorrente, ha criticato aspramente “la gauche al caviale”, ha sparato a zero sul sessantotto definendolo “uno sconquasso porno-politico” e nel 2001 la sua “lettera aperta alla mia Francia persa”, le è costata una condanna. Non contenta del muro che le hanno eretto contro, ha scritto un libro attirando la definitiva vendetta dei democratici politically correct. Nel suo libro si scagliava contro il pericolo di un'invasione islamica e per qualche parola di troppo è stata processata e condannata una seconda volta dalla giustizia francese, perché si sa che le idee vanno bene tutte, ma solo se sono allineate. Ecco le sue parole "Sono contro l'islamizzazione della Francia. Quest'obbedienza obbligatoria e questa sottomissione mi disgustano". E ancora: "Non abbiamo più il diritto di essere scandalizzati quando clandestini o mendicanti danno l'assalto alle nostre chiese per trasformarle in porcile umano, defecando dietro l'altare, pisciando contro le colonne, diffondendo i loro odori nauseabondi sotto le volte sacre del coro". Oppure: "Eccoci costretti a far venir fuori una dignità politicamente corretta nel mischiarci, nel mescolare i nostri geni, nel cancellare le nostre radici e lasciare così incrociare per sempre le nostre discendenze da predominanze laiche o religiose fanaticamente emerse dai nostri antagonismi più viscerali".
“Frasi che trasudano intolleranza” secondo il procuratore della Repubblica di Parigi, che chiese la condanna e definì il suo scritto un "grido di odio", stigmatizzando il carattere violentemente anti-musulmano del libro. 
Brigitte non si è mai fermata e ha continuato a battersi a dire la sua, famose le battaglie animaliste contro la macellazione ebraica e quella islamica. Tutti errori imperdonabili per la società moderna che ci vuole tolleranti, accoglienti e pecoroni.
Ma l'errore più grosso la Bardot lo ha fatto quando ha scelto di invecchiare. Esattamente, ha deciso semplicemente di invecchiare naturalmente senza ricorrere a lifting, chirurgia plastica, sempre controcorrente in un mondo, soprattutto quello del jet set, dove la caccia contro le rughe e le altimetrie delle tette o del sedere è sfrenata. E mentre intorno si vedono facce di plastica, tutte uguali, che puzzano di morte, lei si è lasciata scorrere il tempo addosso e ne è uscita più bella che mai. Una bellezza che racconta la sua storia in ogni ruga di espressione in ogni piega del suo intramontabile sorriso. 
Dalla sua autobiografia scelgo di raccontare un episodio molto simpatico che a mio avviso la identifica completamente.
Ancora in carriera, attrice di successo, vestita di tutto punto, tacchi a spillo e occhiali scuri, si trovò un giorno a visitare un canile. Vide ammassati dentro le gabbie anguste cani sporchi e gatti dal pelo arruffato che la guardavano come solo gli animali sanno fare. Non seppe resistere, non aveva idea di come fare, ma aveva deciso che là dentro non doveva rimanere neanche un prigioniero. Irruente, decisa come suo solito, li caricò tutti sulla sua Rolls Royce, davanti dietro nel bagagliaio e mentre i cani abbaiavano, in una tremenda baraonda, e i gatti le saltavano in testa, la videro allontanarsi ridendo a tutta velocità verso Parigi.
Brigitte donna vera, simbolo di libertà, di trasgressione e tradizione.

 

“.....Senza di te quella bottiglia è sempre troppo vuota al mio funerale canterai “plaisir d'amour” sarà come rinascere, come ammirarti in tv poi butteremo dalla torre chi vuoi tu! Si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima a me poco importa, la tua bocca già svela la tua divinità” ( da Armilustri Absinthium)

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C'era una volta la Romagna: "la vendemmia"

4 Aprile 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

Ogni anno sul finire dell'estate il nonno si eclissava e lo si poteva trovare nella penombra della cantina, intento a brigare fra tini e bigonci. Travasava il poco vino vecchio rimasto in piccole botti, dove sarebbe stato custodito, al fresco dei vecchi muri sgretolati, in un angolo polveroso pieno di ragnatele, fino all'occasione di berlo e doveva essere un giorno importante. Il matrimonio di un parente stretto, la nascita di un nipote maschio, la mietitura.

L'uva era matura e gli zii arrotavano roncole e falcetti, noi facevamo la guardia agli uccelli voraci, affinché non volassero sui tralci a beccare i grappoli.

Il giorno della vendemmia seguivamo gli uomini annusando l'odore dolce e asprigno a un tempo che, stuzzicando le nostre narici, si sprigionava nella vigna, portavamo ognuno un piccolo paniere, una piccola roncola e, pieni di buoni propositi, volevamo aiutare. Gli zii erano in alto sulla scala a tagliare, a raccogliere, le zie a svuotare le ceste sul carro che, pieno d'uva, procedeva lento fra i filari.

Foglie picchiettate di verderame cadevano sulle nostre teste e a quel punto, acquattati fra i pampini, sghignazzando, iniziavamo ad aggredire a morsi i grappoli maturi, il succo colava denso come inchiostro sul mento, lungo le braccia, sul petto. Sento ancora oggi l'acquolina in bocca al ricordo di quel dolce sapore che già sapeva di lambrusco.

I grandi guardavano le nostre faccine sbrodolate, ma nessuno ci sgridava, solo vedendo rincorrerci l'un l'altro, una zia scendeva dal carro e ci toglieva di mano le roncole. Credo che il contatto diretto con la natura, correre, sudare, insegni ai bambini a vivere meglio emozioni e sentimenti, aiuti a essere più autonomi e più spontanei. Eravamo liberi di giocare, di correre a perdifiato, di sporcarci di erba e fango, di sprofondare le caviglie nel fresco della terra umida. Siamo grandi adesso, abbiamo gli stessi occhi, ma non vediamo gli stessi colori.

In poche ore il carro era pieno, il nonno si affacciava sulla porta della cantina e si accertava che lo scarico dell'uva procedesse senza che nemmeno un grappolo andasse perso. E così si ripartiva per un nuovo carico e fino a sera si facevano parecchi viaggi.

Giunti a fine giornata, nessuno di noi aveva fame, sazi d'uva, correvamo in cantina, dove il nonno aveva riempito di grappoli i bigonci e li aveva disposti in cerchio, mentre la nonna arrivava col secchio e costringeva tutti a lavarsi i piedi prima di iniziare la pigiatura.

Appena montavo sul mio mucchietto di grappoli, il freddo contatto coi piedi nudi mi faceva rabbrividire, poi iniziavo a pressare, a calpestare, a schiacciare con tutta la forza come un puledro imbizzarrito e a poco a poco il succo sprizzava dai chicchi, tiepido, ogni disagio spariva e procedevo sempre più forte, sempre più veloce, in gara con i miei cugini a chi scendeva più giù, finché arrivavo a toccare il fondo coi piedi, ubriaca di eccitazione.

Il nonno, di tanto in tanto, veniva a controllare se il lavoro era ben fatto, toglieva i raspi e, quando immergendo la grossa mano nel mosto, si accertava che nessun chicco fosse sfuggito ai miei pedi scarni, mi sollevava con le sue braccia forti e mi deponeva su un altro bigoncio, con un sorriso di malcelato orgoglio.

La pigiatura era un'altra occasione di festa che ci vedeva tutti insieme impegnati a lavorare scherzando, ridendo, le donne cantavano maliziose reggendosi la sottana attorno alle ginocchia, gli uomini si sfidavano in gare di velocità e resistenza, raccontando storielle piccanti. Il nonno era l'unico serio, guardava severo che tutto filasse liscio, ma lasciava fare, fino a quando qualcuno non rallentasse il ritmo per le troppe risate, allora faceva la voce grossa e tutti riprendevano il lavoro a testa bassa. Il silenzio durava pochi minuti, giusto il tempo di sentire il ronzio delle vespe invischiate nei grappoli e lo sciabordio dei piedi nel mosto: un ciac ciac che mi ricordava il rumore delle scarpe nelle pozzanghere quando uscivamo fuori di corsa dopo un violento temporale. Poi tutti ricominciavano a ridere senza un perché.

I primi a crollare dopo tanta ginnastica, dopo tante risate, eravamo noi bambini. Quando la nonna capiva che eravamo troppo stanchi ci faceva scendere, ci lavava di nuovo i piedi viola, raggrinziti, e ci mandava a dormire. Cadevo velocemente in un sonno profondo, stanca, mentre un benefico calore scorreva lungo le gambe.

Nei giorni seguenti sotto l'occhio vigile del nonno si procedeva alla torchiatura e la nonna faceva bollire nel paiolo il mosto per ricavarne la saba, un dolce sciroppo d'uva da utilizzare per i dolci.

Quando aveva finito di preparare raviole ripiene di mostarda e altre leccornie profumate, ci chiamava in cucina a pulire cucchiai di legno, terrine, mestoli e pentole. Un lavoro per nulla ingrato, golosi, in cambio di un mestolo da leccare, ci impegnavamo a compiere tanti lavoretti come portare la “broda” al maiale o raccogliere l'erba per i conigli. Promesse dure da mantenere una volta lasciata la cucina.

Dopo qualche tempo, quando il primo vino nuovo era pronto, il nonno chiamava tutti per l'assaggio, ne dava un bicchiere ciascuno anche a noi bambini. Tracannato d'un fiato, dolce al palato come uno sciroppo, un allegro calore ci investiva le orecchie e ci sbellicavamo dalle risa indicando l'un l'altro i baffi rossi lasciati dal vino subito sopra le nostre labbra e via di corsa a far capriole nell'erba con la testa leggera e le gambe molli.

Da qui nasce la mia passione per il vino. Un percorso di profondità, di bellezza e perfino di storia. Un difficile cammino fatto di pazienza, di dedizione e apprendimento, alla fine sulle labbra rimane l'ombra di un racconto profumato.

Ricordi di serate in allegria, di amici, di risate e di canzoni. Di vendemmie sotto il sole settembrino e di sorrisi complici tra i tralci. Di odori e di bella compagnia, ricordi di un rosso tramonto o di un bianco inverno con le caldarroste e il vin brulé. Del morbido suono di un sughero che viene stappato dalla bottiglia, di una famiglia riunita intorno al grande tavolo delle feste, della sicurezza e della protezione avvertita sulla pelle, delle gioie brindate, dei dolori annegati e della facilità di aprirsi, seduti davanti a un bicchiere. Della semplicità dei gesti, il riscaldarsi dei cuori, la libertà dei pensieri e delle azioni. Il sentimento a volte si annusa, chi ama il vino si inebria, non si perde, lo vive e lo sposa.

 

Giunta al termine della mia rubrica settimanale, del mio nostalgico vagheggiare, concludo la rievocazione di quel culto mistico della terra, di quel remoto paradiso, che a volte mi appare come un sogno perduto, irripetibile, eppure così piccolo, un piccolo pugno di terra racchiuso in una mano piena di calli. Questa è la mia terra fatta di colori e di sapori, terra funesta e mattacchiona, terra di passioni, di impeti estremi, terra che non si manifesta facilmente se non tardi e solo a chi l'ama profondamente.

Questa la cornice in cui si disegnava la nostra infanzia e io mi sono sentita spesso spettatrice e attenta osservatrice del microcosmo di uomini, animali e oggetti che costituivano il mio mondo fatto, come natura vuole, di allegria e dolore, di lavoro e di festa, di vita e di morte.

 

Grazie a tutti per l'attenzione.

C'era una volta la Romagna: "la vendemmia"
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C'era una volta la Romagna: "la primavera"

28 Marzo 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

L’arrivo della primavera è sempre stato un momento importante nell’attività contadina. Quando ero piccola, la notte del 28 febbraio era il giorno del Lòm a Merz (il lume a Marzo) in cui la fine dell’inverno portava danze e balli. Per l’uomo, e soprattutto per l'agricoltore, la primavera è da sempre vista come un momento propiziatorio, in questo contesto il fuoco costituiva il dialogo con le forze vitali e creative della natura, forze che, dopo i rigori dell'inverno, tornavano prorompenti riportando alla vita le piante. All'imbrunire le campagne si riempivano di fuochi scoppiettanti che sembravano occhieggiarsi l'un l'altro a distanza, duravano ore ed ore, anche l’intera notte, mentre uomini, donne e bambini si radunavano attorno per scaldarsi, per propiziare l'arrivo di una buona stagione di raccolti e, mentre la malasorte ardeva tra le fiamme, cantavano e ballavano. Noi bambini spesso accendevamo un fuoco più piccolo, alla nostra portata, che consentisse di saltarlo in lungo e in largo, in una sorta di prova di coraggio, mentre recitavamo poesie dialettali “lom lom a Merz ogni spiga faga un berch...” Un canto augurale, così come ci aveva insegnato la nonna, nell’auspicio che da ogni spiga di grano si potesse alzare una bica intera.

La tradizione dei fuochi si fa risalire al tempo degli antichi romani, quando l’anno iniziava il primo di marzo e con il fuoco si festeggiava la fine dell’anno vecchio e l’avvento di quello nuovo, bruciando il tempo passato e purificando l’arrivo di quello imminente. L'origine di questa tradizione si perde dunque al tempo dei riti pagani, le funzioni che i nostri avi praticavano per onorare e invocare la protezione di Cerere e di Bacco, per noi sfociavano in feste di coinvolgente allegria al ritmo dell'organetto o dell'armonica a bocca.

I primi fiori a spuntare dopo l'inverno erano le violette, le primule, le giunchiglie che facevano l'occhiolino lungo i fossi o all'ombra degli alberi, e per noi bambini di campagna era un vanto poterne raccogliere un mazzolino da portare alla maestra che gradiva sempre il pensiero e, quando gliele porgevamo timidamente orgogliosi, vi affondava le narici e si inebriava di freschezza, sorridendo.

La natura era uno scoppio di colori, le temperature più miti, le giornate più lunghe, gli animali facevano capolino dalle tane e le farfalle ricominciavano a volare di fiore in fiore. Abbracciando con gli occhi l'aia e i terreni intorno era facile vedere piccoli pulcini uscire all'aperto, campi traboccanti di erba e uccellini volare. Il verde dei prati diventava improvvisamente brillante e in noi bambini cresceva la voglia di correre, saltare, ridere, sentivamo sulla pelle il brivido della vita che ricominciava. La maggiore attività fisica aumentava a dismisura il nostro appetito, così spesso mia cugina ed io andavamo alla ricerca di una merenda in più, un uovo raccolto dal nido, liscio, ancora tiepido fra le mani. Ci infilavamo di nascosto nel fienile, una gallina spaventata schizzava via dal suo nascondiglio, lasciando le uova appena deposte occhieggiare tra la paglia. Succhiavamo ingorde il nostro tuorlo, direttamente facendo un piccolo foro sul guscio e, guardandoci negli occhi ridenti, complici, alzavamo il braccio in un brindisi. Le case di città, come cubi di cemento, le auto che ci portano ovunque, ci hanno chiuso in trappola e succede che la primavera passi senza che ne accorgiamo.

Quello di cui ho maggiore nostalgia, pensando alle mie primavere in campagna, è quando vedevo tornare le rondini. Le code a punta, il petto bianco, laboriose, riparavano i nidi fatti di paglia e mota, abbandonati l'autunno precedente, volavano basse garrendo e formavano splendidi cerchi nell'aria, mettendo allegria.

Per i romani le rondini erano una manifestazioni dei Lari, le divinità protettrici della case degli uomini: infatti costruiscono il nido proprio sotto i nostri tetti e vivono vicino a noi. Per il nonno significava l'inizio dei lavori nei campi, dopo l'ozio invernale, la stagione buona stava cominciando. Le rondini fanno parte della nostra vita, “sono sante e benedette” diceva la nonna. Delicate, pazienti e così come loro ci insegnava ad essere nella vita .

Ero così affascinata da questo piccolo e speciale uccello che quando a scuola la maestra ci diede da studiare a memoria la poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, mi veniva il groppo in gola e non riuscivo a recitarla

 

Ritornava una rondine al tetto:

l'uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

la cena de' suoi rondinini...

 

mi fermavo a questo punto con le lacrime agli occhi.

I mesi trascorrevano allo scandire dei raccolti, dell'intenso lavoro dei campi che si snodavano perenni al ritmo delle stagioni. Nascevano nuovi animali a popolare non solo le stalle ma anche il cortile, le verdure da piantare nell'orto, i campi di trifoglio e la fienagione, molto importante per chi allevava bestiame e per la nonna anche le rose del giardino erano colture altrettanto importanti e andavano curate, perché, quando arrivava maggio, il mese della Madonna, lei voleva averne grossi mazzi da offrire in processione.

Noi bambini invece tenevamo sempre sotto controllo l'albero delle ciliege, era quello che ci premeva di più, appena vedevamo rosseggiare i dolci frutti fra le foglie facevamo a gara ad arrampicarci sull'albero per raccoglierli, per appenderli alle orecchie come orecchini di rubino e per farne grosse scorpacciate. Agili, scattanti, la gara era aperta fra noi e i fringuelli: una guerra all'ultima ciliegia. Poi, col tempo, arrivavano i fichi e le albicocche, tutte delizie preziose e ricche di importanti vitamine per la nostra crescita.

Giunta l'estate, la sera i campi di grano si popolavano di luci intermittenti, piccole lucciole che erano la gioia dei bambini. Spesso prima di andare a dormire correvamo fuori per riempirne un vasetto e usarle come luce di compagnia sul comodino. Le lucine si accendevano e si spegnevano a intermittenza e gli occhi stanchi si chiudevano guardando dentro il vetro incantati dal ritmo, sempre più debole, di piccole stelle che si spegnevano. La prima volta che ho visto una stella cadente è stato un'estate quando ancora non attribuivo significati di reconditi desideri a tale spettacolo. La notte era calata e si stava rientrando con l'ultimo carro di fieno. Il cielo si era acceso, puntellato di stelle, era terso, luminoso, io e mia cugina sul carro, sdraiate sulla montagna di erba odorante, guardavamo in alto assorte in pensieri più grandi di noi, perse in sensazioni che soltanto la meraviglia della natura può ispirare. Pancia all'aria, solleticata dai gambi e dalle foglie dell'erba medica, dondolata dal ballonzolio del carro traballante, ascoltavo, assonnata, il cri cri dei grilli che saliva dai campi e pareva musica assordante nel silenzio della campagna. All'improvviso una lunga scia luminosa, brillante nuvola di fuoco, si distese nel cielo, una luce incandescente nel buio. Una briciola di polvere e roccia staccatasi da un meteorite, a scuola lo aveva spiegato la maestra, ma vederla davvero lasciava senza fiato, una stella cadente e gli occhi si illuminarono, mentre stringevo la mano di mia cugina che guardava a bocca aperta. Fu un breve momento, trattenni il respiro provai ad ascoltare, ma non faceva rumore, provai a odorare e non sentii nessun profumo, eppure è tuttora uno spettacolo indimenticabile che mi riempie occhi, naso e gola ogni volta che ci penso, mentre il brivido di un attimo mi percorre la pelle.

 

LA STRELA CADAINTA

Am son svulté l’eltra not in un pré.....

Dio cum a sira cuntainta

A un semil spetacual a n’ira mega preparé:

a i ò vest una strèla cadainta!

Ad totti ca li èter l’ira la piò bela

Comm una cumatta, con la co iluminé

La sluseva, la fruleva, l’ira la mì strèla

E a l’impruvis l’è vgnù vers ed mé……

La m'à illuminé

La m’à abrazé.....

Mama t’i tè?

Finalmaint t’è dezis ed turner que da me!

 

LA STELLA CADENTE (traduzione)

Mi sono sdraiata l’altra notte in un prato

Dio come ero contenta

A un simile spettacolo non ero preparata:

ho visto una stella cadente!

Di tutte le altre era la più bella

Come una cometa, con la coda illuminata

Luccicava, si muoveva, era la mia stella

E all’improvviso è venuta verso di me….

Mi ha illuminato

mi ha abbracciato

Mamma sei tu?

Finalmente hai deciso di tornare quaggiù.

C'era una volta la Romagna: "la primavera"
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C'era una volta la Romagna: “le mucche”

21 Marzo 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

Il nonno aveva una piccola stalla piena di mucche e ne era orgoglioso, le curava, le puliva, dava loro da mangiare e da bere, due volte al giorno mattina e sera, prendeva una piccola seggiola e si accostava per mungerle. Si sedeva nella posta, poggiava la testa contro il ventre della vacca che lo lasciava fare calma e paziente, poi iniziava a tirare le mammelle ora una, ora l'altra, fino a farne uscire un lungo schizzo di latte che finiva caldo e schiumoso dentro il secchio tenuto stretto fra le ginocchia. Lo schizzo colpiva l'alluminio del secchio con forza e provocava un suono metallico, schizzo dopo schizzo ne usciva una specie di musica che calava di intensità mano a mano che il secchio si riempiva.

Mi raccontava mia madre che durante i lunghi inverni di neve e gelo, ben prima dell'avvento della televisione, le stalle erano state per le famiglie contadine il punto di ritrovo serale. Si andava “a veglia” una sera da una famiglia e una sera dall'altra per stare tutti insieme e le stalle diventavano il centro della vita sociale e familiare. Fuori nel cielo sereno splendeva fredda la luna e dentro si sentiva il vento fischiare da un vetro rotto o dalla fessura di una porta, mentre le mucche, sdraiate, ruminavano piano, e ogni tanto qualcuna lasciava andare un rumoroso respiro che faceva compagnia. Con il caldo delle bestie e la luce di un lume a petrolio, le donne filavano la lana, la nonna era maestra nel far “prillare” il fuso, rammendavano, lavoravano ai ferri creando calzini, guanti e sciarpe, mentre gli uomini, aggiustavano gli attrezzi, intrecciavano ceste di vimini, facevano scope di saggina e quando era festa suonavano l'armonica e giocavano a carte.

A tenere banco però erano i racconti dei vecchi, una sorta di libro orale tramandato di padre in figlio, dal quale trarre favole che i contadini, molti dei quali analfabeti, pur non sapendo leggere, raccontavano benissimo. Le nonne narravano storie di morti che vagavano nella loro terra senza pace, di folletti e di spiritelli che popolavano le campagne e, durante la notte, si infilavano nelle stalle per fare dispetti, così la mattina facevano trovare le criniere dei cavalli annodate in piccole trecce.

La campagna era piena di luoghi dove dicevano che “ci si vedeva” e “ci si sentiva”, specialmente di notte lungo le strade fiancheggiate da siepi o nei pressi di mulini e sotto i ponti.

I bambini più grandicelli ascoltavano a bocca aperta, un pochino spaventati, tornando a casa, a passo svelto, non si allontanavano mai dai genitori e si guardavano intorno circospetti, tenendosi per mano, perché una volta in campagna la notte era veramente buio, un buio nero, avvolgente, che oggi non possiamo nemmeno immaginare.

Quando arrivava l'estate le mucche venivano portate all'aperto, lungo il dorsale della collina c'erano distese di terre non coltivate che, adibite a prato, servivano per il pascolo. Si usciva la mattina ben presto, dopo la prima mungitura, la strada era lunga ma le mucche pareva sapessero da sole dove andare. Il nonno per farsi aiutare addestrava dei cani da pastore. Li chiamava tutti Lupo, perché appena uno invecchiava un poco, aveva sempre un altro cucciolo che lo affiancava e imparava il mestiere. Lupo e Lupino, i comandi secchi, dati in dialetto, facevano scattare i cani che, di corsa, scodinzolanti, andavano davanti al branco e, abbaiando, radunavano le mucche per condurle dove l'erba era più fresca e soprattutto lontano dai campi coltivati a trifoglio, perché, anche se le bestie ne erano golosissime, le faceva gonfiare e stare male.

Ricordo un'estate, il cane era vecchio, si ritirava sotto un carro, dove trascorreva quasi tutta la giornata, raramente ne usciva, non voleva nemmeno mangiare, quasi sentisse di non poterselo più guadagnare. Il Lupo giovane la mattina gli andava vicino festoso, lo annusava e abbaiando lo invitava ad uscire per accompagnare le mucche al pascolo, lui si girava dall'altra parte con gli occhi umidi, le orecchie basse e il muso appoggiato per terra. Solo a sera, al ritorno del branco, si rizzava faticosamente e muoveva qualche passo. Quasi cieco, mezzo sordo, usciva da sotto il carro e aiutava, abbaiando stanco, a far rientrare le mucche nella stalla, poi con la coscienza di aver assolto al suo dovere, ritornava quieto sotto il carro. Una mattina andai a portargli la scodella del latte, ma Lupo non si muoveva, non alzò il suo “musone” triste per salutarmi. Chiamai urlando lo zio che, venuto, alzava le zampe una ad una e le lasciava cadere, “l'è mort” disse senza tante cerimonie e, presolo per la coda, lo tirò fuori da sotto il carro. Lo sollevò tra le braccia e tutti in fila, in silenzio, andammo a seppellirlo sotto una siepe di biancospino. Io faticavo a trattenere le lacrime, mia cugina raccolse alcuni fiori gialli dal campo e li posò sulla terra mossa.

A primavera quando improvvisamente la siepe fiorì, immaginai che fossero le chiazze bianche del pelo di Lupo ad aver ammantato i rovi. Ho imparato tanto nelle mie estati in campagna, le cose belle mi hanno insegnato ad amare la vita, le brutte invece ad affrontarla.

Spesso durante il giorno era nostro compito andare “dietro “ le mucche, il nonno ci diceva come e dove portarle e il Lupo di turno, bravissimo, faceva il resto. Noi in realtà giocavamo, facendo capriole nei prati e la sera quando calava il sole ci avviavamo verso casa, le mucche si fermavano al laghetto per abbeverarsi a lungo e durante l'ultimo tratto in salita io e mia cugina ci facevamo trainare attaccandoci a una coda. Arrivati sull'aia a noi spettava il bagno, e al cane la zuppa, a cui si avvicinava rigorosamente soltanto dopo essersi sincerato che ogni bestia fosse sistemata nella sua posta. Allora si sdraiava, esausto, al riparo da tutti e rosicchiava per ore il suo osso che teneva stretto tra le zampe anteriori. Gli piaceva farsi accarezzare dalla brezza serale, disteso vicino la stalla con la testa in ombra e la schiena verso il tramonto, la coda si agitava, spazzando la terra e sollevando la polvere, appena passava un bambino.

Una sera, ricordo, c'era fermento intorno alla stalla, una delle mucche doveva partorire e noi bambini curiosi ci eravamo precipitati all'interno dove, seduti in prima fila su una balla di fieno, guardavamo lo zio che fungeva da veterinario. Arrivò il nonno, arrabbiatissimo, guardandoci truce e agitando il cappello come faceva quando scacciava le mosche, ci mandò via in malo modo, perché “non erano spettacoli adatti ai bambini”. Ovviamente nessuno di noi pensò minimamente di ubbidire, troppa era la curiosità di vedere un parto in diretta. I più piccoli volevano sapere se avrebbero visto sant'Antonio Abate in persona portare il vitello, perché questa era la versione che raccontava loro la mamma ogni volta che al mattino trovavano un nuovo nato nella stalla. A spinte e gomitate ci sistemammo, assiepati fuori da un finestrone proprio di fronte alla posta dove giaceva la mucca con le doglie. Restammo colpiti a vedere lo zio che si accertava della salute dell'animale e la accarezzava con la stessa dolcezza che usava con noi bambini. La mucca era accovacciata al suolo e mandava muggiti sempre più forti e angoscianti. Una sacca d'acqua color giallastro pendeva da sotto la coda. Gli occhi attoniti, la bocca aperta, trattenevamo quasi il respiro, il momento era giunto, vedemmo prima comparire le zampe anteriori del vitello e subito dopo il naso. La vacca muggiva straziata per il dolore e faticava a fare uscire il suo piccolo, allora lo zio, svelto, accertatosi che fosse disposto in maniera corretta, legò i piedi con una corda e l'aiutò tirando forte. Fu questione di pochi secondi e sgusciò fuori il vitellino tutto ricoperto da una pellicola biancastra. Lo adagiarono vicino alla madre, che cominciò a leccarlo e pochi attimi dopo era asciutto, pulito e tentava di mettersi in piedi, cadendo goffamente sulle ginocchia. Ci abbracciammo, eravamo contenti, le gote rosse per l'emozione. Guardavamo il vitellino, in adorazione, come se fosse figlio nostro. Tra gli adulti spesso sentivamo esprimere grande ammirazione per qualcosa di naturale come una quercia secolare, un grosso toro o un'abbondante nevicata, era la natura a far da padrona in campagna. L'uomo lavorava la terra, la donna lo aiutava e reggeva la casa, le bestie servivano entrambi. C'era una sorta di mutua solidarietà fra uomini e animali e c'era gratitudine nella comune fatica. A ognuno il suo. Quella sera fu difficile addormentarci, la scena era stata eccitante e inconsapevolmente ci rendevamo conto di aver assistito allo spettacolo più bello che la natura possa offrire: il miracolo della vita.

C'era una volta la Romagna: “le mucche”
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C'era una volta la Romagna: "la sfoglieria"

14 Marzo 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

In campagna un'altra occasione di festa si presentava quando l'aia era pronta per la sfogliatura delle pannocchie di granturco.

Il mucchio delle pannocchie era al centro dell'aia e tutto intorno le zie mettevano delle cassette rovesciate che fungevano da seggiolini.

Si accendevano i lanternini a petrolio che venivano appesi fuori dalle finestre, perché la sfogliatura si faceva rigorosamente dopo cena e i vicini arrivavano a frotte, era un'occasione per mantenere, rafforzare i legami della vita comunitaria. Si cantava e si raccontavano storie mentre e, seduti sulle cassette, si iniziava il lavoro. Noi bambini ci ingegnavamo alla meno peggio con le manine inesperte, mentre gli uomini usavano un punteruolo acuminato.

Avevo una passione per le pannocchie un po' acerbe, le cercavo con attenzione nel mucchio, perché conservavano ancora i “capelli” lunghi e colorati e le riponevo da un lato per usarle come bambole.

Il nonno, mentre sfogliava con maestria, iniziava a parlare di aratura e di semina, i ragazzi più grandi di noi invece si avvicinavano piano piano alle ragazze, parlottando loro nell'orecchio. Sentivamo scoppi di risa maliziosi e vedevamo il nonno guardarli burbero, di sottecchi, per accertarsi che, distraendosi, non smettessero di pulire le pannocchie e di gettarle, nude, alle loro spalle, nel mucchio che cresceva piano piano.

La polvere nera del petrolio velava i vetri dei lumi, la luce fioca si faceva rossa e tremolante, ma la luna intanto saliva alta in cielo e illuminava l'aia apparendo tra le fronde delle acacie che si muovevano soffiate dal vento fresco della notte. La nonna si affacciava sulla soglia, accaldata e arrossata in viso, con le crescentine appena fritte e le caraffe di vino, una breve pausa in allegria che consentiva ancora qualche giocoso scherzo fra maschi e femmine. Le ragazze si alzavano svelte e servivano per primi gli uomini che, ridendo a bocca piena, si ingozzavano per nascondere la timidezza.

A notte fonda le teste cominciavano a ciondolare per il sonno e gli occhi si facevano piccoli, lo sguardo vagante, allora per restare sveglie le ragazze provavano ancora a cantare, con voci squillanti, qualche allegro stornello. Io le sentivo a tratti intermittenti, persa nella nebbia del dormiveglia, appisolata in mezzo alle foglie delle pannocchie ammucchiate da un lato, abbracciata alle mie cugine e alle bambole di granturco.

La mattina successiva le pannocchie venivano distese sull'aia e le zie le percuotevano con lunghi bastoni sottili. Sotto i colpi violenti i chicchi saltavano via e, poco distante, i polli guardavano, con l'occhio fisso, in attesa che uno arrivasse nelle vicinanze. Nel pomeriggio il granturco veniva steso a essiccare al sole e questo era il momento di noi bambini. Venivamo comandati a guardia dei polli che si facevano sempre più temerari e noi dovevamo metterli in fuga quando qualcuno, più audace, allungando il collo, beccava un granello e fuggiva a balzelloni.

Ogni tanto uno di noi non resisteva e spiccando un salto si faceva una corsa a piedi nudi in mezzo al granturco tiepido e pungente.

La nonna, da lontano, sotto un albero, ci guardava attenta mentre preparava nuovi sacconi di cartocci (bucce delle pannocchie), che sarebbero stati usati come fragranti giacigli nei nostri letti estivi.

Intanto noi, guardando i biondi chicchi, pregustavamo la polenta che sarebbero diventati. La nonna mescolava lentamente nel paiolo, col grosso mestolo di legno, la farina con l'acqua, affinché non si formassero grumi. Quando la polenta era cotta la rovesciava fumante sul tagliere in mezzo alla tavola, condiva tutto a spicchi, con salsiccia, ragù e parmigiano o costolette di maiale, e poi tagliava le fette con un grosso filo bianco e ognuno si prendeva la parte che gli piaceva di più. Inutile dire che la prima fetta era del nonno e l'ultima dei bambini che si lamentavano, bisticciando per chi aveva avuto la fetta dallo spessore più grosso.

La natura è maestra e ci dona il succo della vita. Ho sempre legato i ricordi a un profumo e ho tante boccette nel cuore: il tabacco del sigaro del nonno, la polenta della nonna, il mosto nella cantina di mio zio, la menta delle caramelline del babbo, lo zucchero a velo di mia madre. Profumi e ricordi insieme, si viaggia nel tempo e scompaiono rughe e capelli d'argento.

C'era una volta la Romagna: "la sfoglieria"
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C'era una volta la Romagna: il raccolto

7 Marzo 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere, #poesia

 

 

Al tempo della mietitura si andava tutti nei campi, anche i bambini, presi dall'euforia dell'occasione, si rendevano utili spostando mannelli, piccoli fasci di spighe, o portando da bere ai mietitori. Finito il raccolto si trasportavano a casa i covoni e si faceva una grossa bica (o barcone) a forma di parallelepipedo con grandi spioventi. Il giorno della trebbiatura era una vera festa. Si sentiva in lontananza il battito di un trattore che si avvicinava lentamente trainando una lunga carovana composta da macchina per la trebbia, scala, carretto dei carburanti e lubrificanti. Enorme, arancione, si presentava come una grande cassa di legno, montata su un carro a quattro ruote della lunghezza di circa sei o sette metri, e arrivava nell’aia come un mostro, impegnandola quasi completamente. Al seguito venivano tutti gli uomini a salario che avrebbero aiutato nel compito di prendere i covoni, scaraventarli dentro una specie di grosso imbuto in cima a quel diavolo rumoroso e ansimante, che sbuffando faceva uscire inspiegabilmente da sotto il grano in chicchi, mondato dalle spighe, mentre la paglia usciva da dietro, raccolta in balle legate col filo di ferro. Noi bambini restavano a bocca aperta nel vedere tale trasformazione e confabulavamo chiedendoci chi fosse nascosto dentro quel grosso cassone, e quanta fatica doveva fare per lavorare così bene, in fretta e al chiuso. Spesso, troppo spesso, si rompeva la grossa cinghia di trasmissione che dal trattore faceva funzionare la macchina trebbiatrice, e allora si sentiva volare dalla bocca degli operai addetti ogni sorta di imprecazioni per santi e madonne. A noi scappava, maliziosamente, da ridere, e il nonno, arrabbiato, ci prendeva a scappellotti perché, misteri della fede, “un uomo in un momento di nervoso poteva anche bestemmiare, ma un bambino mai e poi mai doveva sentire!”

Gli uomini, col cappellaccio calato fin quasi sugli occhi per difendersi dalla polvere e dalla pula che volavano intorno, si proteggevano il viso con grossi fazzoletti legati dietro la nuca, che coprivano naso e bocca, tanto da sembrare quei banditi che vedevamo sui giornaletti di Tex Willer assaltare le diligenze. Così fantasia su fantasia ci mettevamo anche noi il fazzoletto e iniziavamo a correre battendo la mano sul sedere come se stessimo incitando un cavallo e giocavamo a rincorrerci, “indiani e cowboy”, urlando e saltando per tutta l'aia.

Mente noi giocavamo, per parecchie ore si udivano, martellanti, il battito frenetico del trattore e il rombo cupo della trebbiatrice. Anche in lontananza si poteva vedere il polverone sollevato, mentre le biche dei covoni calavano e contemporaneamente crescevano i pagliai.

Il grano raccolto in grossi sacchi di tela di juta veniva accatastato nel granaio e sarebbe stato in parte venduto dal nonno al mercato e in parte portato al mulino per ottenere la farina necessaria alla famiglia tutto l'anno: pane e pasta si facevano ancora in casa.

Infine una parte di grano si conservava per la semina successiva. Il nonno faceva depositare questa grande quantità di chicchi in una stanza vuota della casa vecchia, la stanza veniva riempita per tutta l'ampiezza e quasi per metà in altezza. Alla porta d'ingresso mettevano di traverso un grosso asse di legno che non consentisse al grano di spandersi all'esterno, ma per noi era perfetto da usare come trampolino per piacevolissimi tuffi nella nostra “piscina privata”. Incuranti della polvere del grano che mordeva le carni, affondando nei chicchi profumati e morbidi che si modellavano lentamente sotto il nostro peso, immaginavamo di essere al mare e di nuotare incalzati dalle onde verso l'isola del tesoro.

 

AMO LA TERRA

“Amo la terra che mi ha

partorito:terra di pianura,

nera e grassa che alimenta i

tralci e matura le messi.

Terra umida in cui è dolce

affondare le mani e piantare

profonde radici.

Amo la terra di rossa creta

dove correvo l’estate

graffiandomi i piedi,

“calanchi” che scivolano a

valle, si sciolgono, si

increspano, ondulati come il

mare.

Amo la terra secca e brulla

quando d’inverno il gelo

disegna arabeschi sulle zolle

nude e un giorno vi farò

ritorno:

lei si aprirà accogliendomi

nel suo seno e non avrò

freddo, non avrò paura nel

caldo abbraccio di mia

madre.

E poi sarò di nuovo viva: sarò

albero, sarò fiore.”

Affresco di Nicoletta Mainetti

Affresco di Nicoletta Mainetti

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C'era una volta la Romagna: vita da fanciulli

28 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

 

D'estate era bello vivere in campagna, niente scuola, niente levatacce, niente compiti, si andava per i campi in cerca di lucertole e girini. Al fiume ci divertivamo a camminare sui sassi del greto, aspettando il primo che scivolava in acqua, per ridere tutti a crepapelle. A metà mattina la nonna ci chiamava a perdifiato, c'era da portare la “colazione” agli uomini che lavoravano nei campi lontano da casa.

Per loro la giornata era iniziata all'alba, con zuppa di pane raffermo nel caffellatte, così venivamo incaricati di portare borse piene di ogni ben di Dio. Al nostro arrivo si sedevano all'ombra di un frondoso olmo, ce n'era sempre uno al centro del campo per consentire ristoro dalla calura estiva. Dalla borsa di corda preparata dalla nonna uscivano piatti capovolti uno sull'altro per conservare i cibi al caldo e legati con un tovagliolo per evitare si rovesciassero. Dentro c'erano per lo più uova fritte con prosciutto o pancetta e friggione (un intingolo di pomodoro e cipolla) poi nella borsa trovavano posto, oltre a pagnotte di pane, bottiglie di acqua e di vino che si appannavano al sole, perchè erano state conservate al fresco del pozzo. Il nonno e gli zii bevevano il vino da un unico bicchiere che veniva sciacquato con l'acqua prima di passarlo al vicino, poi si pulivano con la manica la bocca e la faccia sudata. Noi li guardavamo, restando in attesa di riportare le stoviglie a casa e nel frattempo eravamo bersaglio dei lazzi degli zii che si godevano quei pochi minuti di riposo. Un sassolino tirato di nascosto, giochi di parole, sciocchezze per farci ridere. Da me che ero la “cittadina” si pretendeva che imparassi il dialetto. E l'ho imparato talmente bene che mi è più facile esprimere in dialetto sentimenti ed emozioni di livello personale, mentre con l’italiano cerco di scovare la società e le sue contraddizioni. La campagna era silenziosa si sentiva il rumore del pane masticato in fretta e il ronzio delle mosche. Gli uomini dopo lo spuntino sarebbero tornati a casa per il pranzo e per un breve riposo all'ombra degli alberi, sdraiati nell'aia su un sacco “d'ortica” col cappello calato sugli occhi, per poi riprendere il lavoro nel pomeriggio, dopo le ore più calde, e ritirarsi a tarda sera. In quei rari momenti di tranquillità, nell’accecante silenzio della calura pomeridiana, quando anche i miei cugini sonnecchiavano, mi sedevo sotto il tiglio dietro casa e, accompagnata dal frinire sordo delle cicale, leggevo un libro ad alta voce, cantilenando le storie alla mia bambola di pezza.

Quando, tornando a casa dai campi, rompevamo un piatto, perché qualcuno non era stato attento o aveva sgambettato a bella posta chi portava la borsa, la nonna, non sapendo chi punire, puniva tutti. La sculacciata era la punizione generale, toccava aspettare il proprio turno e prenderla, poi fra di noi pareggiavamo i conti, perché chi si sentiva punito ingiustamente si faceva giustizia a suon di calci e sberle e dai lividi del giorno dopo la nonna sapeva chi era stato il colpevole.

La sera, spossati, sporchi, ci spogliavamo sull'aia e ci lavavamo dentro catinelle di acqua scaldata al sole, era una specie di bagno comunitario, come nelle piscine termali di oggi. Finita l'immersione serale, ci spettava una bella tazza di latte fresco col pane e si andava a letto. Erano notti calde, dormivamo con la finestra aperta, tre o quattro per letto, e la luna faceva capolino tra i guanciali toccando con una lieve, pallida carezza i nostri visini ubriachi di sole e di stanchezza. Gli occhi si chiudevano presto in sogni di immensi campi di papaveri e grano, echeggianti di grilli neri come la notte, mentre le mani stringevano avidamente l'ultimo tozzo di pane rimasto.

La domenica veniva veramente una sola volta a settimana e il nonno comandava di andare a Messa, vestiti a festa, puliti, pettinati, era vietato sporcarci. Al ritorno, si mangiava il brodo, la carne e a a volte anche il dolce, se la nonna aveva avuto il tempo di prepararlo e noi immancabilmente litigavamo per la fetta più grande. Mi piaceva molto di più quando, durante la settimana, mordevamo lo stesso panino seduti sui gradini di casa, con i nastri sciolti in testa, i vestiti un po' laceri, la maglietta della sorella più grande e i pantaloni macchiati d’erba sulle ginocchia. Mi piaceva di più quando ridevamo per ogni stupidaggine e urlavamo correndo per casa. Mi piaceva perché ci volevamo bene, non si litigava per il pezzo più grande della torta. La domenica ci facevano belli e diventavamo cattivi.

C'era una volta la Romagna: vita da fanciulli
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C'era una volta la Romagna: il capofamiglia

21 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

 

Le famiglie erano numerose, spesso nella medesima casa i bambini vivevano con tanti zii, tanti fratelli e nella famiglia patriarcale il nonno era l'unico, indiscusso, capofamiglia, l'unica vera autorità riconosciuta da tutti. Comandava sui figli, sui nipoti, sui lavori da compiere, decideva quali le bestie da vendere, e quali le spese da fare al mercato. Nella piazza del paese, dove si svolgeva ogni settimana il mercato agricolo, il nonno andava a trattare l’acquisto e la vendita del raccolto o degli animali, erano contrattazioni estenuanti che potevano durare per ore, poi, improvvisamente, il tutto si concludeva con una stretta di mano, una pacca sulle spalle e l’accordo tra galantuomini era fatto.

Aggrappata alla giacca di mio nonno assistevo alle trattative e ricordo che quando lo sentivo parlare della vendita di un capo di bestiame mi chiedevo quale mucca sarebbero venuti a caricare per portarla al macello. Io davo un nome a tutte Bianchina, Milva, Bionda, Negra, Gina, Pina, Gioconda e le riconoscevo una per una, quando poi si trattava di un vitellino allora piangevo. Il nonno aveva un portafoglio grande fatto come un organetto e quando lo apriva pensavo a quale musica abbinarci a seconda del tempo che lo teneva aperto o lo richiudeva o lo riapriva, mentre parlava coi commercianti, trattando sul prezzo. Il nonno era tirchio, “tirava” anche sul costo di una dozzina di uova e ci ha insegnato l'amore per la terra, il valore dei soldi, dei sacrifici, della fatica e del sudore della fronte.

Dopo ogni mietitura, ordinava a noi bambini di andare a “spigolare”. Si trattava di percorrere i campi dove il grano era stato mietuto in cerca di spighe cadute dai covoni e rimaste a terra. Nulla doveva andare perduto. Noi ubbidienti facevamo a gara a chi arrivava prima correndo ognuno col suo secchio, incuranti delle ferite che ci procuravano le stoppie acuminate nelle gambe nude. Raccoglievamo grano da portare a casa che sarebbe servito per i polli e, pulendo una manciata di chicchi, li masticavamo tenendoli in bocca. La crusca formava una specie di colla dolciastra tanto da farla sembrare una gomma americana. Era la nostra gomma americana certamente più salutare e ricca di vitamine e, quando eravamo stanchi di masticare, la ingoiavamo contenti.

Negli anni il nonno si era fatto scarno, era rimpicciolito, non era più l'uomo imponente che ci prendeva a “scappellate” quando eravamo troppo monelli, stava quasi tutto il giorno tra i pagliai dietro casa, seduto con lo sguardo fisso. Si sentiva stanco e si vergognava di non essere più utile per lavorare la terra, si rifugiava nella stalla e quando non andava su e giù fra le bestie, con un forcale sulle spalle, se ne stava su una sedia spagliata, ai piedi di una posta vuota tra nidiate di pulcini pigolanti. Cominciò a declinare piano piano. Mi sembra ancora di vederlo, col suo vincastro, ormai utile solo ad allontanare le mosche, mentre le vacche ruminavano quiete. Il sigaro toscano sempre a lato della bocca, avvolto da una nube azzurrina di fumo, il pastrano addosso e il cappello a larghe falde calato in testa. Baffi rossi come i capelli, la sua ombra si allungava, tremolante in mezzo alla stalla. Il suo ricordo è forte e presente come l’ultima volta quando ci siamo salutati tanti anni fa e lui è andato ad amministrare una tenuta in Paradiso.

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Giacinto Reale, "Avanguardia di morte..."

16 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #recensioni, #giacinto reale, #racconto, #storia

 

 

AVANGUARDIA DI MORTE...”

Racconti Brigatisti

Giacinto Reale

Ediz. La Testa di Ferro

 

Ho terminato in questi giorni la piacevole lettura del secondo libro di Giacinto Reale. Autentico appassionato di storia del Fascismo, lo scorso anno aveva dato alle stampe “Se non ci conoscete...” Racconti squadristi ambientati all'inizio dell'epoca fascista. Con questa seconda opera ha completato il ciclo storico del periodo: dalle origini, all'epilogo con i personaggi della Repubblica Sociale Italiana. La peculiarità che colpisce, sia nel primo che nel secondo libro, è che gli episodi sono pensati e costruiti attorno ad accadimenti reali, portando a conoscenza di chi legge, con estrema semplicità, e quasi da farlo sembrare casuale, avvenimenti importanti e fondamentali della storia dell'epoca.

Protagonisti di questa seconda serie di racconti sono cinque personaggi che si muovono e agiscono in cinque città diverse e che, seppur scaturiti dalla fantasia dell'autore, alternano le loro vicende, come dicevo si muovono in un contesto storico autentico, assistono a fatti accaduti in quei giorni, in quelle strade, si affiancano a personaggi di rilevante importanza storica, protagonisti delle vicende della RSI. Ad alcuni di loro l'autore ha voluto dare un vissuto da squadristi della prima ora, questo per sottolineare la continuità delle aspirazioni, dei sentimenti e degli ideali che, se sembravano sopiti durante gli anni del consenso, uscirono di nuovo allo scoperto come un nervo dolente, muovendo, in quei tragici giorni, giovani e meno giovani. Così conosciamo per primo Mario, “vecchio” squadrista della Randaccio, che, dopo aver combattuto ed esser stato ferito sul fronte greco-albanese, viene colto in quel nefasto 8 settembre a fare il libraio nella sua Milano e sente imperioso il desiderio di tornare a combattere e di rendersi utile alla Patria.

Giacinto Reale fin dalle prime righe sa unire nel dipanarsi della trama spunti personali che rendono i personaggi umani e vicini al comune sentire. Il cane, la moglie, un figlio, la mamma, il fidanzato, ognuno dei cinque protagonisti porta con sé sentimenti che li accomunano e ci accomunano, rendendoci partecipi della loro vita, delle loro scelte e tragicamente della loro morte. Ognuno dei cinque personaggi entrerà a far parte di un particolare reparto dell'esercito Repubblicano, così Mario diventa ardito della “Muti” di Franco Colombo, Luisa, che è il mio personaggio preferito, si trasforma da timida studentessa in coraggiosa Ausiliaria del SAF del Generale Piera Gatteschi Fondelli. Franco, romano, impiegato a Cinecittà, torna ad essere squadrista come altri due “vecchi” della vigilia, Gino Bardi e Guglielmo Pollastrini, nella guardia armata del PFR. Attraverso il personaggio di Federico ha voluto farci approfondire la conoscenza con la RSS “Mario Carità” e ha saputo restituire un volto quasi umano a un reparto dipinto troppo spesso come gratuitamente violento, nell'estorcere confessioni con le torture e mai citato per le importanti, pericolose e coraggiose operazioni di infiltrazione nelle bande partigiane. Infine ultimo personaggio è Giulio della GNR che, pur essendo genovese, non esprime troppa simpatia per la Decima del Principe Borghese, del quale apprezza invece il valido collaboratore Umberto Bardelli, definendolo “carismatico”. Un altro imperdonabile difetto è, sempre a mio avviso, la sua malcelata antipatia per l'alleato tedesco. Due peculiarità che lo rendono ai miei occhi meno simpatico degli altri protagonisti, ma che esprimono sicuramente il sentire di molti interpreti della storia di quei giorni.

Un bel libro pieno di citazioni storiche dei 600 giorni della RSI , di discorsi pronunciati alla popolazione in momenti cruciali e che i personaggi ascoltano insieme al popolo, nelle piazze, nelle strade. In tal modo non restano frutto di fantasia, non si muovono solo tra le pagine, ma escono, ci vengono incontro pieni di vita e, consapevolmente, vanno verso la morte rendendo omaggio a tutti gli Italiani che volontariamente e in anonimato scelsero di difendere la loro terra.

Detto così sembrerebbe facile, ma questo certosino lavoro è stato possibile solo grazie alla profonda conoscenza dell'autore di una materia articolata e difficile, poco conosciuta e poco studiata, grazie alla sensibilità e all'attenzione con cui sa scegliere ambienti, parole e descrizioni. Non resta che attendere il prossimo libro per vedere dove ci condurrà e sperare che sia il più presto possibile.

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C'era una volta la Romagna

14 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

"Se ignori quello che è successo prima che tu nascessi, sarai sempre un bambino".

(Cicerone)

 

Spesso mi rendo conto che per molte persone non esiste comunità aldilà delle comunità virtuali e, se questo è vero, niente ha più senso. Stiamo perdendo di vista il contatto diretto, la comunicazione, per dare spazio all'irrealtà del non tempo, del non luogo. Io credo fermamente che occorra far parte di una comunità reale, e provare a partecipare alla sua formazione, al suo sviluppo per non cadere nel tranello che ci rende schiavi di questo sistema globalizzato e globalista. L'isolamento della rete è il trionfo del sistema, è la fine della civiltà del nostro popolo, dobbiamo recuperare valori umani a partire dalla nostra identità territoriale. Chi passa la vita in solitaria alienazione, davanti al PC e alla tv, viene descritto dai vicini come una brava persona, uno tranquillo, anche quando si scopre che in un giorno di lucida follia ha ucciso moglie e figli, mentre il “viveur” che ospita rumorose feste con amici e rincasa ogni notte con una donna diversa facendo rumore per le scale del condominio, per il pensare comune rasenta il crimine.

So di aver avuto la possibilità di vivere durante il passaggio tra due epoche e non è cosa da poco. Da piccola ho conosciuto “la civiltà contadina”, fondata sulla legge della natura, semplici regole poggiate sul principio “raccoglie chi semina”, poi sono cresciuta assorbita dall'epoca attuale “nasci, consuma, muori”, basata sulla tecnologia, col suo enorme potenziale al servizio del progresso e dello sviluppo socio-economico.

Due importanti “civiltà” nel cammino dell'uomo, ma anche enormemente distanti fra loro e il passaggio è stato troppo veloce, il passo troppo lungo, il distacco troppo repentino per conservare quello che di buono c'era da salvare e valutare bene il nuovo prima di tuffarsi a capofitto in una sconvolgente variazione di stile di vita.

Mi ritengo dunque fortunata, dicevo, per aver potuto conoscere entrambe le realtà, aver avuto modo così di confrontarle e di riflettere, ripercorrendo un viaggio in un mondo che mi ha sfiorato, ma di cui ho il ricordo vivo e, se a volte non personale, tramandato nei racconti dei miei genitori.

Quando i contadini erano tanti e gli operai pochi, quando si mangiava la carne solo la domenica, quando un ragazzo arrossiva dicendo ti amo, quando un viaggio in città era un'avventura emozionante da raccontare agli amici e quando la povertà era spesso sinonimo di onestà.”

Le contadine di trent'anni allora stremate dai parti e dalla fatica, bruciate dal sole, sembravano averne cinquanta, mentre oggi le cinquantenni, spesso restaurate dalla chirurgia estetica, ne dimostrano trenta. I bambini hanno l'Hi-pad al posto del pallottoliere, i viaggi su traballanti carrozze con sedili di legno hanno lasciato posto a voli transcontinentali e, quando muore il nonno, i soldi non si cercano più sotto il materasso, ma si va a vedere se aveva investito in Borsa. Le verdure non si raccolgono nell'orto ma si compra il minestrone liofilizzato e le vitamine della frutta e del sole si assumono con gli integratori.

Passi da gigante sono stati fatti nel campo della medicina e della scienza, non si muore più per un'appendicite, ma si può morire di inquinamento, perchè la logica del profitto e del capitalismo stanno portando alla distruzione della terra. Quando è morto Steve Jobs, l'ideatore dell'I PHONE, la notizia ha tenuto banco per settimane nel mondo mediatico e televisivo, celebrando una sorta di santificazione planetaria, mentre abbiamo ignorato che lo stesso giorno moriva l'illustre sconosciuto Wilson Greatbatch, inventore del pacemaker, un giocattolo che ha salvato e salverà milioni di vite umane.

Non tutto è sbagliato nel nuovo, ma non tutto andava cancellato del vecchio.

La fine della civiltà contadina è purtroppo sempre più accompagnata anche da un'autentica mutazione del paesaggio e della sua realtà antropica. La campagna viene spogliata della propria vegetazione, i campi di pannelli solari prendono il posto dei vasti frutteti, le case contadine isolate, oramai ridotte a ruderi e scheletri, sono solo il vago ricordo delle aie brulicanti di vita e lasciano spazio ad agglomerati di villette unifamiliari dove ognuno recinta il suo orticello e litiga col vicino per un metro di terra, mentre distese di campi incolti e abbandonati si perdono malinconicamente all'orizzonte.

I paesi dopo un lento e inarrestabile declino demografico sono ora invasi da una immigrazione massiccia e confusa che sta trasformando questi centri abitati in una babele di lingue, costumi, culture diverse, storie di persone che arrivano attratte come falene dal luccichio di un mondo che manda segnali sempre più vuoti e falsi. Gente che non si ambienterà mai, ma che piano piano stravolge le nostre usanze.

L'antico mondo contadino fatto di povertà ma anche di condivisione ha perso la sua anima, è in atto uno sconvolgimento che sta mettendo in discussione le nostre stesse radici.

Vorrei lanciare un messaggio come si faceva una volta affidando una bottiglia al mare e spero non si perderà nel vuoto dell'etere ma che viaggi spiegando le ali al vento degli ideali e della speranza, per salvaguardare la memoria storica delle nostre strade, delle nostre campagne e l'anima di gente umile ma orgogliosa: non arrendiamoci. Cerchiamo di difendere i nostri valori, le nostre tradizioni tentando di ricostruire l'antico orgoglio comunitario che ci vedeva padroni del nostro territorio.

È a questo scopo, forse inutile, sicuramente velleitario, che dedicherò qualche pubblicazione inaugurando una rubrica dal titolo C'ERA UNA VOLTA LA ROMAGNA, in cui racconterò, di volta in volta, usanze e vecchie tradizioni della terra dove vivo, sperando di tramandare ai più giovani che leggeranno un po' della nostra storia di popolo orgoglioso e matto. Ricordi indelebili delle lunghe estati trascorse dai nonni.

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