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franca poli

L'ombelico di Venere

17 Dicembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #ricette, #unasettimanamagica

L'ombelico di Venere

La tradizione bolognese ed emiliana in generale vuole che il giorno di Natale si mangino i tortellini in brodo, anch'io ne preparerò sicuramente in abbondanza per i miei commensali e, mentre pregusto il sapore inconfondibile della prelibata pasta ripiena, prima di lasciarvi la ricetta originale, voglio raccontarvene la storia.

Ma quando nacquero i tortellini e chi li inventò? L'origine si perde nella notte dei tempi e si confonde tra realtà e leggenda; quel che è certo è che nasce pur sempre, benché in tempi molto remoti, come piatto aristocratico, una ghiottoneria riservata a pochi fortunati. La disputa sulla paternità è fra Bologna e Modena, due città in verità che si sono spesso trovate in lotta fra di loro, fin da quando, come racconta nel 1624 Alessandro Tassoni, si fecero guerra per un secchio, per una “Secchia rapita” in verità. Ed è a questo poema che si ispirò, in seguito, in una simpatica parodia il poeta ottocentesco Giuseppe Ceri, che, in un suo poemetto, raccontava della spedizione terrena di tre divinità dell’Olimpo: Bacco, Marte e Venere che, venuti in soccorso dei modenesi sempre attaccati da Bologna, si fermarono a riposare una notte a Castelfranco Emilia presso una locanda, dove l'oste accidentalmente avrebbe visto l'ombelico di Venere e, innamoratosene perdutamente, andò in cucina a riprodurlo con la pasta ripiena.

"…Con grande meraviglia / Dell’oste lì presente, / Come se fosse sola / Le candide lenzuola / Spinse in mezzo alla stanza, / Le belle gambe stese, / Dall’ampio letto scese / Con un salto sì pure misurato / Che sollevossi la camicia bianca / Poco più sull’anca; / Onde l’oste felice, / (Lo dico o non lo dico?) / Di Venere mirò il divin bellico!"

"Ma non creda già/che a quella vaga seducente vista / Pensieri di conquista / L’oste pudico entro di sè volgesse; / Anzi un’idea soavemente casta / D’imitar quel bellico con la pasta / Gli balenò nel capo…"

Detto fatto:"In cucina discese; / Ed una sfoglia fresca / Che la vecchia fantesca / Stava stendendo sovra d’un tagliere, / Un picciol e ritondo pezzo tolse, / Che poi sul dito avvolse / In mille e mille forme, finché l’oste che era guercio e bolognese / imitando di Venere il bellico / L’arte di fare il tortellino apprese". (Giuseppe Ceri)

A tutt'oggi , nella dotta e Ghiotta Bologna, l’espressione tutta dannunziana “umbilichi sacri” è ancora sinonimo di tortellino. La scelta di Castelfranco Emilia come luogo in cui farli nascere, è indicativa della disputa fra le due città emiliane, essendo il paesino a quei tempi avamposto bolognese e, in seguito, sotto la provincia di Modena.

Fin qui la leggenda, ora la storia, che fa apparire il tortellino in varie epoche, anche se prima del XII secolo non è stato trovato alcun riferimento certo. Anche Giovanni Boccaccio ne fa cenno nel suo Decamerone raccontando che Calandrino, Bruno e Buffalmacco, alla ricerca della pietra che rende invisibili, finiscono nel Paese di Bengodi dove “...stavan genti che niuna cosa facevan che far maccheroni raviuoli e cuocergli in brodo di capponi.” Infatti il cappone è compagno inseparabile del tortellino per ottenere un brodo secondo la ricetta originale. Via via la storia si fa più certa e si cominciano a trovare testimonianze sicure. Alessandro Cervellati, accreditato storico bolognese, scrive che nel secolo XII a Bologna si mangiavano i “tortellorum ad Natale” e siamo nel 1500 circa quando, nel diario del Senato di Bologna, si riporta che a 16 Tribuni della Plebe riuniti a pranzo fu servita una “minestra de torteleti.” .Quanto i tortellini fossero amati dai petroniani, lo si legge anche sulla Gazzetta di Bologna del 27 dicembre 1874 "senza tortellini, non si fa Natale a Bologna.... ". Una volta conosciuti e apprezzati difficilmente ci si rinuncia, cosicchè pare che addirittura Giuseppe Garibaldi se ne facesse spedire periodicamente dei cestini dall’amico Ugo Bassi.

Difficile dire quanta verità ci sia in questi racconti; mentre non è affatto difficile decretare il grado di squisita bontà che si gusta mangiando un piatto di tortellini in brodo, ragion per cui passiamo alle cose pratiche, prendete carta e penna e segnatevi la giusta ricetta.

Ingredienti del ripieno:

300 gr. di lombo di maiale

300 gr. di prosciutto crudo

300 gr. di mortadella di Bologna

450 gr. di parmigiano reggiano con 36 mesi di stagionatura

3 uova

noce moscata q.b.

Preparazione:

Tritare il lombo, il prosciutto e la mortadella e impastare con il parmigiano, le uova e la noce moscata. Far riposare il ripieno almeno 12 ore prima di usarlo per farcire la pasta. Non cuocere assolutamente la carne prima dell'utilizzo affinchè il ripieno rimanga tenero e non perda nulla del suo inconfondibile sapore.

Ora passiamo alla pasta che si prepara con farina di grano tenero 00 e uova di gallina molto fresche. Il tutto va lavorato per almeno 15 minuti affinchè l'impasto risulti morbido e omogeneo, poi va lasciato riposare per un'oretta avvolto in un canovaccio. La sfoglia si tira rigorosamente col mattarello fino a raggiungere uno spessore non superiore al millimetro. Quindi si ritagliano quadrati di circa 4 cm di lato, su ognuno si posa una quantità di ripieno grande come una nocciola e si richiude la pasta a triangolo schiacciando i lembi e unendo le due estremità si modellano intorno alla punta del dito indice.

Il brodo va preparato la sera per la mattina e deve essere ottenuto con carne di cappone e manzo (mi raccomando con l'osso). A brodo in bollore si prendono i tortellini e si gettano nella pentola, quando salgono a galla spegnere e lasciare riposare qualche minuto prima di servirli nelle scodelle.

Adesso provateli e non fatevi ingannare da tortelloni, cappellacci, cappelletti e quant'altro, solo questi sono i veri tortellini bolognesi e... “Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, ché se la merita!” (Pellegrino Artusi )

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Il museo dei presepi

11 Dicembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #unasettimanamagica, #postaunpresepe

Il museo dei presepi

Cari amici,

due giorni fa, come vi abbiamo detto, il profilo Facebook del blog è stato chiuso.

Ieri un problema di Overblog ci ha impedito di condividere su Facebook i nostri post.

Confidiamo nella vostra pazienza e nel vostro sostegno.

E ora veniamo a noi.

Grazie alle foto di Flaviano Testa , oggi vi presentiamo il museo del presepe.

Il museo è stato realizzato nel 1961 dalla famiglia Rogati.

Autore: l'architetto spagnolo Juan Mari Oliva, insieme ad Angelo Stefanucci, presidente dei presepi d'Italia.

Il museo dei presepi
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La casina delle rose

2 Dicembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La casina delle rose

Siamo giunti alla fine della serie “i mitici anni 60” presentata da Giovanni D'Ippolito che, con il suo ultimo racconto, vede i giovani liceali di paese approdare nelle grandi città per frequentare i corsi universitari. Sullo sfondo l’Italia del boom economico, le tradizioni vecchie di secoli erano state spazzate nel giro di pochi anni per far posto al progresso e a profondi cambiamenti socio-economici. I vini e i liquori diventavano emblema di una tradizione antica che identifica una terra con i propri prodotti, simboli di una civiltà contadina che andava scomparendo. Si passava dal tempo della società agricola, scandito dalle stagioni, ai ritmi frenetici della città e della vita in fabbrica, e al suono rassicurante delle campane della chiesa di paese si sostituiva la musica ad alto volume del juke-box gettonato in ogni bar.

LA CASINA DELLE ROSE

Fra il 1968 e il 1970, il Liceo Scientifico di Bojano aveva “licenziato” i primi corsi di studenti e, per la maggior parte, i ragazzi si erano iscritti all’Università un po’ per vocazione, un po’ per andar via di casa ed acquisire quella libertà da tanto tempo agognata. Le sedi più gettonate erano le più comode e più vicine, quindi ci eravamo distribuiti fra Napoli, Roma e Firenze. Naturalmente per le vacanze, sia estive che invernali, tornavamo a Bojano dalle nostre famiglie ed era proprio durante il periodo natalizio che tutta la città si trasformava in una bisca. Si giocava nelle case private, nei circoli, nei fondaci, nelle cantine, insomma in qualsiasi posto dove si potessero approntare quattro sedie e un tavolo su cui stendere le carte. I giochi più alla moda erano poker, stoppa, zecchinetta, chemin de fer. Tenuto conto della nostra condizione di studenti, durante quelle maratone di gioco, giravano parecchi soldi, ma appunto “giravano” nel senso che un giorno vincevi e quello dopo perdevi, così che alla fine il bilancio delle vincite e delle perdite spesso risultava in pareggio.

Dopo le feste, ovvero intorno all’8 o 10 di gennaio, ognuno rientrava nella propria sede di studio per riprendere le lezioni, ma venti e più giorni di gioco accanito lasciavano sempre degli strascichi, così spesso si decideva di continuare quell’attività anche all’università. Un anno in particolare ricordo che la “febbre “ del gioco era salita a tal punto che si raggiunse l’accordo che, appena ripartiti, ci saremmo rivisti a Roma, sede centrale rispetto alle altre due, dove si sarebbe svolta una tournée di poker non stop di 48 ore presso l’appartamento che alcune ragazze bojanesi avevano in fitto vicino a piazza Bologna. L’organizzazione era perfetta gli studenti che abitavano a Roma avrebbero ospitato coloro che venivano da fuori e, dato il numero dei partecipanti, furono allestiti ben quattro tavoli da gioco nella sala dell’appartamento delle ragazze.

Dopo la sistemazione di napoletani e fiorentini presso le nostre stanze, io ospitavo Flaviano, un carissimo amico col quale ci sentiamo ancora oggi molto legati, ci recammo tutti verso la “bisca” dove, come detto, cominciò un’attività che ci tenne impegnati e svegli per più di 48 ore. Intorno all’una di notte del terzo giorno cominciò la smobilitazione, il mio amico e io, salutati tutti, ci avviammo verso casa che distava poche centinaia di metri dal “covo”. Entrati, con la massima cautela per non svegliare la padrona, ci infilammo nella stanza e, distrutti, ci gettammo sui letti completamente vestiti. Dopo pochi minuti, un gemito strozzato mi scosse dal mio torpore. “Che c’è Flò? “ chiesi usando il nomignolo che gli riservo da sempre. “Gia’ ”, così mi chiama lui ancora oggi, “il dente, mi fa male forte il dente”.

Sempre fornito di medicinali, gli diedi subito due “nisidine”, ma purtroppo, passata una mezz'oretta, non solo non avevano sortito alcun effetto, al contrario il dolore era in aumento. Avevamo sentito dire che l’unica cosa che poteva dare qualche sollievo in questi casi era mettere dell’alcool sul dente, affinché fungesse da anestetico. Sapevo anche, però, che in casa non poteva esservene, poiché la padrona era astemia e io non avevo scorte personali. Pur di non dover uscire, provai a guardare addirittura nel mio armadio in cerca di un po’ di alcol denaturato che potesse servire allo scopo, ma niente. In bagno trovai solo del dopobarba Mennen che, secondo noi, non conteneva alcool a sufficienza.

Ci decidemmo così a uscire e accompagnai il mio amico a un chiosco bar che sapevo aperto tutta la notte e che si trovava vicino casa, proprio di fronte alla monumentale scalinata dell’ufficio postale di Piazza Bologna. “La casina delle rose” era una struttura costituita da tre blocchi di vetrate, uno centrale, adibito a bar , con il bancone proprio di fronte all’ingresso e a destra e a sinistra due ambienti che ospitavano tavolini e sedie.

Erano passate le due quando entrammo con i baveri dei cappotti alzati fin sopra le orecchie, le facce stravolte, la barba lunga di due giorni, le occhiaie e uno di noi con una smorfia (di dolore) dipinta sul viso. Il locale era deserto, il barista un po’ assonnato ci scrutò guardingo, sembravamo più due gangsters usciti da un film che due studenti.

“Una bottiglia di J&B “ chiese il mio amico e, quando il ragazzo fece il gesto di incartarla, allungò la mano, gli bloccò il braccio e a denti stretti disse e due bicchieri”. Ci sedemmo al primo tavolo a destra e cominciò l’operazione “dentista”. Flaviano buttò giù altre due “nisidine” e teneva sul dente dolorante un po’ di whisky, che per tutto il tempo formava una pallina sulla guancia, poi, invece di sputarlo, lo ingoiava e così, dopo poco tempo, vuoi che l’alcool avesse fatto effetto, vuoi che non sentisse più il dolore perché si era bevuto mezza bottiglia, trovò giovamento e il suo aspetto era nettamente migliorato, anzi, aveva la faccia stranamente raggiante, così anch’io cominciai a sentirmi più tranquillo e, per solidarietà, mi concessi qualche bicchierino.

Avevamo forse inconsapevolmente inventato un forte analgesico unendo quel farmaco all’whisky? Il sonno ci era passato e cominciammo a chiacchierare animatamente di sport, l’effetto combinato aveva avuto su Flò un risultato strepitoso e iniziammo a ridere e a fare commenti ironici nei confronti della “fauna” notturna che entrava e usciva dal bar. Il metronotte con la bicicletta che durante il suo giro si fermava a prendere un caffè bollente; le prostitute con vertiginose minigonne che, fra una prestazione e l’altra, cercavano di scaldarsi con un latte portoghese; Carabinieri e Poliziotti che provavano ad accorciare il loro servizio notturno fra una sosta e una sigaretta, il padrone di un cane, in ciabatte e con il cappotto sul pigiama, che spiegava di esser dovuto scendere di corsa perché l’animale aveva male agli intestini.

Il tempo passò veloce e, erano da poco suonate le cinque, quando improvvisamente il bar si animò. Il ragazzo faceva fatica a servire tanti avventori sbucati all’improvviso: “due cappuccini”, “due cornetti”, “un caffè”, “una brioche”. Tutto quel trambusto cominciò ad infastidirci così decidemmo di uscire e ci andammo a posizionare comodamente seduti di fronte, sulla scalinata dell’Ufficio Postale, per goderci ancora un po’ di tranquillità, ma fuori era ancora peggio: autobus che andavano e venivano, una piccola folla che si accalcava al capolinea, altre persone che attraversavano la piazza di corsa, dov’era finita la pace della notte? Io e il mio amico ci guardammo in faccia increduli e ci chiedemmo all’unisono: “Dove cazzo vanno tutti a quest’ora?”.

Naturalmente era gente che andava a lavorare, prendeva i mezzi per raggiungere fabbriche e botteghe, ma per noi, giovani perditempo con poca attitudine allo studio, era una cosa allora del tutto incomprensibile. Ci avviammo verso casa e, una volta finalmente a letto, dormii profondamente, al risveglio trovai sul tavolo la bottiglia di J&B che, alzandosi dal tavolino del bar, il mio amico si era infilato nella tasca del cappotto, dentro, le ultime due dita di whisky e, sotto, un biglietto “Finiscila alla mia salute. Vado a casa a Bojano a curare il dente. Ciao e grazie di tutto.”

Dopo qualche giorno, la bottiglia era vuota e la riposi insieme ad altre di grappa, di Stock 84, Vecchia Romagna, che conservavo vuote sull’armadio della mia camera in una sorta di strana collezione.

Questo episodio mi tornò in mente, qualche anno dopo, quando in un mercatino trovai una piccolissima spilla con attaccato una minuscola bottiglia verde in plastica con la scritta J&B. La comprai e finì attaccata alla mia feluca universitaria, color bluette, unitamente a tanti altri ninnoli, simbolo di qualche episodio o periodo della mia lunga vita di studente .

La casina delle rose
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Bojano città dei motori, parte seconda

30 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Bojano città dei motori, parte seconda

Con questo spirito di gara continua, che aleggiava nell’aria del paese, due amici che non voglio nominare, si incontrarono nel piazzale della stazione mentre girovagavano senza meta con le auto, come sempre prese a prestito dai genitori. Le due macchine erano: 1) Fiat 850 Special color beige non ben definito, che di special aveva la scritta sul cofano posteriore, i cerchi che erano sempre in acciaio come nel modello base, ma, a decorazione, erano tutti bucherellati, il volante in finta radica con due razze di ferro brunito, bucate anche quelle come i cerchi, tanto è vero che spesso, durante la guida, vi ci si incastravano le dita. 2) Fiat 128 blu scuro, elegantissima, con volante, pomello del cambio e sedili in finta pelle grigio perla.

Partirono i primi sfottò: ”Dove vai girando con quella specie di macchina color cacchetta”, “Ma stai zitto con la tua puoi andare solo a un funerale” e così, come ci si aspettava, fu lanciata una sfida.

Il passeggero della 128 scese dall’auto su cui era ospitato e si improvvisò starter. Si mise con un fazzoletto bianco in mano a bordo strada, pronto a dare il via a quella che sarebbe diventata l’unica gara cittadina eseguita non a cronometro, come al solito, ma in diretta competizione fra due auto. Si era concordato di percorrere la via “di zorro” la strada che andava, cioè, dalla clinica Di Biase al mulino Bernardo, chiamata così perché il percorso disegnava una zeta.

I motori salirono di giri, lo starter diede il via e le macchine partirono sgommando. Le due auto erano pressoché appaiate e non vi fu nemmeno il tempo di ingranare la terza marcia, che già la prima curva era lì, davanti ai piloti. La gara si sarebbe decisa sul sangue freddo di chi avesse frenato più tardi e fu così che entrambi frenarono troppo tardi. La 850 all’interno della curva a sinistra toccò con la ruota posteriore il marciapiede e si sollevò fin quasi a ribaltarsi fermandosi a motore spento subito dopo la curva, la 128, invece, effettuata una brusca frenata all’ultimo istante, prese a scivolare a causa del brecciolino presente sull’asfalto e, ormai fuori controllo, con le ruote bloccate, si abbatté contro l’unico palo della luce presente su tutta la “via di zorro”. Nessuno si fece male ma si accese una interminabile discussione sulle colpe; uno diceva ”mi dovevi cedere strada” e l'altro di rimando “ma quando mai sei tu che dovevi fermarti prima”, insomma l’unico vero vincitore fu il carrozziere che, per rimettere a posto le auto, incassò un cospicuo gruzzolo dai genitori dei contendenti, che non seppero mai la verità sulla causa dei danni subiti dalle loro automobili.

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Bojano città dei motori, parte prima

28 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Bojano città dei motori, parte prima

Negli anni sessanta l'economia italiana giungeva al suo massimo livello di espansione, dando luogo al fenomeno conosciuto come il "miracolo economico" e ad altri fenomeni che hanno mutato per sempre il costume dell'intera società, cambiamenti radicali scaturiti principalmente nelle scuole e nelle università. Così anche il più piccolo paese di provincia venne risvegliato dal torpore della sua tranquilla quotidianità dall'arrivo di molte auto sempre più potenti. Il racconto di Giovanni D'ippolito si divide in due parti, una prima generale e una seconda … più privata.

BOJANO CITTA' DEI MOTORI.

Alla fine degli anni ‘60, inizio ‘70, un cospicuo numero di giovani bojanesi viveva il boom della motorizzazione, tutti i ragazzi del paese, da poco patentati, si radunavano con le proprie auto in piazza intorno al bar Manna. Le macchine erano, naturalmente, tranne per qualche rara eccezione, di proprietà dei genitori che continuavano a spostarsi a piedi, mentre i giovani prendevano l’auto anche se la piazza distava da casa, a volte, solo qualche decina di metri. Così, parcheggiate sotto i platani, facevano bella mostra di sé: Fiat 600, 750, 850 e 128, ma anche qualche Mini o addirittura MiniCooper, Afa Romeo Giulietta,o Giulietta SPRINT.

La benzina costava all'incirca 140 lire al litro e con mille lire (500 normale e 500 di super) si riuscivano a fare parecchi chilometri. Una domenica mattina, nel bel mezzo delle discussioni che si creavano su quale fosse l’auto migliore e su chi il miglior pilota, uno dei giovani disse: “Adesso basta, scommetto 5000 lire che faccio Bojano-Spinete in sei minuti!”. Immediatamente alcuni presenti, improvvisandosi bookmakers, iniziarono a raccogliere le scommesse. La sfida fu accettata, invece, da colui che la riteneva un’impresa assolutamente impossibile.

La maggiore difficoltà da superare fu quella della verifica del tempo, poiché ciò comportava che una persona, al di sopra delle parti, munita di cronometr, fosse a bordo dell’auto concorrente. Individuato il temerario cronometrista… si parte!

Quel giorno la gara fu persa e la scommessa pagata da parte del pilota battuto. Però, da quella mattina uno strano meccanismo era scattato nelle menti dei giovani bojanesi sempre alla ricerca di nuove emozioni e questo raduno domenicale divenne un appuntamento fisso, dapprima mensile poi con cadenza sempre più ravvicinata, fino a diventare settimanale. E più persone fallivano il tentativo, più erano quelli che volevano cimentarsi.

A conti fatti si sarebbe dovuta tenere una media di velocità (per fare più o meno 6 km) che non era proibitiva, sulla carta, ma che nella realtà diventava impossibile, tenendo conto che si partiva dal centro di Bojano per arrivare al centro di Spinete, percorrendo un centro abitato prima, poi una strada provinciale che, dopo Monteverde, diventava sconnessa, con numerosi saliscendi, e piena di curve.

Questa storia andò avanti per mesi fino a quando si presentò “al nastro di partenza” una Giulietta sprint tirata a lucido e “truccata”, come si diceva allora riferendosi a un motore un po’ manipolato per renderlo più spinto. Un mormorio di ammirazione si levò dalla piccola folla che, come oramai d’abitudine, si era radunata per assistere alla partenza. Il cronometrista ufficiale si accomodò a bordo e fu lo stesso che successivamente raccontò tutto ciò che era accaduto.

“Fino a metà percorso“ disse, “eravamo quasi in media, solo che si procedeva a una velocità folle, tanto che a 1 km dall’arrivo, assalito da un po’ di paura, mentii dicendo: rallenta tanto mancano ancora due minuti, ma il conducente, per tutta risposta, accelerò ancora di più, imboccò la salita che conduceva alla piazza di Spinete a velocità elevata e, dopo una curva a destra, perse il controllo della vettura e piombò a tutta velocità sulla colonnina del distributore Agip distruggendola...”

La nuova e bellissima auto era molto danneggiata, ma l’unica preoccupazione del pilota, sceso a constatare i danni, fu quella di chiedere il tempo impiegato, la risposta? 6’ e 20’’!!!! Tutto inutile…

(Continua)

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La Bianchina

26 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La Bianchina

Ancora un racconto di Giovanni D'Ippolito e dei suoi “mitici anni 60”, liceali di un piccolo paese di provincia, le prime auto usate per raggiungere la scuola dai paesi vicini erano un vero lusso e motivo di interesse per i ragazzi sempre in cerca di novità che, in questo episodio, diventano il pubblico involontario di un mondo che non c'è più.

LA BIANCHINA

Era una splendida giornata di fine maggio, a Bojano c’era il sole e soffiava una bell’aria, una di quelle giornate che ti avvisano che l’estate è vicina e tutte le finestre delle aule, che ospitavano il Liceo Scientifico posto all’ultimo piano delle scuole di Corso Amatuzio, erano spalancate. Le lezioni non erano ancora iniziate e qualcuno prendeva il sole, qualcuno chiacchierava e altri, la maggioranza, erano intenti a copiare i compiti dai quaderni dei più bravi.

Daniel Procosky quella mattina arrivando a scuola, parcheggiò la sua 850 coupé nuova fiammante, proprio sotto le finestre e, in un attimo, tutti si erano affacciati ad ammirare quel gioiello, di uno stupendo color bianco latte luccicante che aveva ancora la targa di cartone. Improvvisamente all’altezza del “tabacchino” (Armando dammi 3 nazionali semplici e due super con filtro!…55 lire) apparve l nostro compagno di classe Peppe Carano alla guida della sua Bianchina color celeste pallido completamente scappottata e, vedendoci tutti affacciati, cominciò a salutare pensando di essere lui l’attrattiva del giorno. Noi ci rendemmo conto che si approssimava velocemente all’area parcheggio, e distratto com’era, avrebbe potuto causare un incidente, allora cercammo di avvertirlo in ogni modo urlando e sbracciandoci, ma lui, al contrario, continuava a guardare verso l’alto e lasciò addirittura il volante per rispondere a quella che pensava essere una vera e propria ovazione e, troppo tardi per prendere qualsiasi altro tipo di provvedimento, in un attimo……PATATANGHETE... tamponò violentemente l’auto nuova di Daniel Procosky.

Un silenzio irreale era improvvisamente sceso sulla scena, tutti eravamo restati senza parole, impietriti. Il muso della Bianchina era completamente accartocciato e interamente infilato nel motore di quella che fino a pochi attimi prima era una favolosa 850 coupé nuova di fabbrica. Peppe cercò di aprire la portiera, ma era incastrata e, per scendere, scavalcò goffamente lo sportello, ruzzolando quasi al suolo (non era mai stato un atleta).

Non si curò dei danni causati: era il suo giorno, aveva il suo pubblico, guardò ancora una volta verso le finestre erano tutti là, a bocca spalancata e aspettavano un suo gesto, allora unì le mani e alzando le braccia le agitò come fanno i campioni che salutano dopo una vittoria. A quel punto sì che si scatenò l’ovazione accompagnata da uno scrosciante applauso che echeggiò a lungo per le strade del paese.

Giovanni D'Ippolito

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La versione di latino

23 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La versione di latino

I mitici anni 60” e ancora un'avventura raccontata da Giovanni D'Ippolito. La noia della vita di provincia, l'irrequietezza dell'età e un'irresistibile voglia di divertirsi, di giocare anche quando il bersaglio dello scherzo è il professore di latino, il risultato è deleterio per il profitto scolastico ma tutto da ridere.

LA VERSIONE DI LATINO

Frequentavamo non ricordo bene quale classe dello Scientifico, ma in quell’anno avevamo conosciuto Antonio Ranaudo, il nuovo professore di italiano e latino. Un giovane insegnante, molto simpatico e alla mano, di cui tutte le ragazze del liceo si erano subito innamorate e che usava con noi metodi interessanti e moderni rispetto al resto del corpo docente.

Una sera di inizio primavera, una delle prime in cui il clima permettesse un’uscita dopo cena, mi trovavo in compagnia di Gianni Mainelli e Gianfilippo De Camillis e ci stavamo annoiando a passeggiare per la piazza semi deserta. L’aria di primavera ci ispirava un senso di inquietudine e aumentava i nostri giovanili entusiasmi. Le ragazze non uscivano la sera e, se anche fossero uscite, non avrebbero certo soddisfatto i n nessun modo i nostri “pruriti” adolescenziali. Non ci restava allora che chiacchierare pensando alle donne, anche se in fondo l’argomento preferito finiva sempre per essere la squadra di calcio della scuola che ci vedeva partecipi certamente più delle lezioni. In quel momento di noia mortale vedemmo passare in lontananza il professore Ranaudo che, in compagnia della fidanzata, si avviava per i vicoli deserti in cerca di un po’ di intimità. Bastò uno sguardo d’intesa e non servirono parole per capire che avevamo trovato il modo per concludere quell’insulsa serata divertendoci.

Conoscevamo a memoria il dedalo delle vecchie stradine del centro storico e così, tagliando per una traversa, fingemmo di incontrare per caso il nostro insegnante. “Buonasera professore” e lui, togliendo il braccio dalle spalle della fidanzata: “Buonasera ragazzi”. Appena girato l’angolo, via di corsa per un altro vicolo e all’improvviso, sempre per caso, di nuovo l’incontro: “Buonasera professore” e di nuovo “Buonasera ragazzi”. Fra risate complici e corse trafelate, il gioco continuò per altri tre, quattro incontri fortuiti, fino a che il professore infastidito e, visibilmente indispettito, non rispose più al nostro saluto.

Orgogliosi della nostra bambinesca bravata, ci ritirammo ridendo nelle nostre case. La mattina dopo, alle prime ore di lezione, avevamo italiano. Tutti seduti ai banchi in perfetto silenzio aspettavamo il professore Ranaudo che, quando entrò, poggiò il registro sulla cattedra, lo aprì con calma flemmatica e poi guardandoci uno ad uno disse, chiamamdoci in rigoroso ordine alfabetico: ”De Camillis, D’Ippolito e Mainelli …FUORI! E nelle mie ore non entrerete mai più!”

Dopo due giorni di corridoio, però, il professore volle darci una possibilità di redenzione e ci fece rientrare in classe per eseguire la versione di latino. Alla vista del compito, il cui grado di difficoltà era inaffrontabile, Gianni Mainelli, che aveva immediatamente compreso la vendetta del professore, prese a ridere nervosamente e in modo isterico, tenendo la mano davanti la bocca (ihihihih). Il risultato generale fu che per i migliori della classe piovvero dei 4 e ci odiarono per tutto il resto dell’anno scolastico e io rimediai un 1meno meno.

Giovanni D'Ippolito

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In giro per il Molise: Sant'Elena Sannita

21 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per il Molise: Sant'Elena Sannita

Sant'Elena Sannita, dove oggi ci conduce Flaviano Testa con le sue fotografie, è un comune molisano della provincia di Isernia.

Salendo per il corso principale si arriva alla Piazza del Tiglio e, nella parte più antica dell'abitato, si erge il severo palazzo baronale, trasformazione di un castello eretto nel XV secolo.

La chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo, ricostruita dopo il terribile sisma del 1805, ha una bella e importante facciata, all'interno si trovano due sculture lignee: una del XVI secolo raffigurante la Madonna e una di San Michele risalente al Settecento e attribuita allo scultore napoletano Giacomo Colombo.

Sant'Elena è stato uno dei paesi molisani che più ha sofferto l'emorragia di giovani e forza lavoro, passando dai quasi duemila abitanti dell'inizio '900 ai poco più dei duecento attuali. Lo spopolamento del territorio costituisce una caratteristica peculiare del Molise che, come nessun'altra regione italiana, accusa un regresso demografico intenso e di antica data, risalente già al periodo immediatamente successivo all'unità d'Italia e dovuto alla scarsità delle risorse disponibili. Gravi quanto le cause sono gli effetti di questo processo sulla situazione interna dove, accanto al sempre minor numero di abitanti, si registrano preoccupanti indici di invecchiamento: nell'anno 2013 il saldo nati/morti è stato negativo per 1292 unità. Il fenomeno dunque viene da lontano e ancora non vi è stato posto rimedio.

Nello specifico, l'isolamento territoriale di Sant'Elena Sannita era aumentato dal fatto che la stazione ferroviaria più vicina si trova a Bojano, a circa 16 km di distanza, i principali uffici pubblici erano a decine di km e mancava la stazione dei carabinieri. Gli spostamenti senza mezzi di trasporto pubblico avvenivano quasi sempre a piedi o, per i più fortunati, con biciclette e carretti a trazione animale.

Un paese in cui, nonostante tutto, la grande quantità di case disabitate lascia capire l’importanza che ha avuto nel passato, essendo stato un centro di fiorenti attività artigianali della lana: si producevano coperte, tappeti e stuoie e, per la vicinanza con Frosolone, importante è stata la lavorazione dell'acciaio.

Molti partirono per fare gli arrotini girando paesi del Molise e di tutta Italia. Avevano una bicicletta con cui, attraverso un ingegnoso sistema che permetteva di agganciare alla ruota dentata una catena collegata alla smeriglia, riuscivano a eseguire il lavoro attraverso il pedale. Attesi e ricercati da tutti, affilavano ogni lama, dagli strumenti del chirurgo, ai coltelli dei macellai e dei salumieri, alle forbici e ai rasoi dei barbieri. In seguito, i primi arrotini ambulanti si trasformarono in commercianti di coltelli, forbici e articoli da barbiere e si sviluppò così una nuova attività: nelle vetrinette, tra le lame di diverse specie, cominciavano a far bella mostra vasetti di brillantina, scatolette di sapone da barba e lozioni per capelli. L’umile arrotino si trasformò lentamente, cresceva l'animo commerciale e il desiderio di realizzare migliori guadagni, fu proprio per esaudire le crescenti richieste dei barbieri che i santelenesi sono diventati anche piccoli commercianti di profumi. A Roma, infatti, sono conosciuti come creatori di un “impero dei profumi”: oltre duecento profumerie capitoline appartengono ad originari di Sant’Elena Sannita.

In seguito dalla semplice vendita si passò alla produzione e oggi S. Elena vanta un numero incredibile di suoi figli che sono rinomati profumieri a Roma e nel mondo. Dal 17 agosto 2014 il paese ospita il Museo del Profumo, collezione di pezzi rari e unici della profumeria moderna e contemporanea.

Gli emigrati hanno saputo trasmettere di generazione in generazione l'amore per il paesello natio e ogni anno nel corso della Festa dell'Emigrante che si tiene il 27 settembre, Sant'Elena si rianima. Le finestre e i portoni delle case si aprono e le viuzze deserte del centro storico echeggiano di voci di bambini che corrono liberi senza il timore del traffico cittadino. Tutti tornano per respirare aria di casa e per gustare le specialità del paese “petacce e fasciuoli” (pasta di casa senza uovo e fagioli) e agnellini al forno. Il 29 di settembre, terminata la festa del Santo patrono le luci si spengono, le auto ripartono e i sempre meno numerosi abitanti si siedono davanti la porta di casa in attesa del prossimo ritorno.

In giro per il Molise: Sant'Elena Sannita
In giro per il Molise: Sant'Elena Sannita
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In giro per il Molise: Sant'Elena Sannita
In giro per il Molise: Sant'Elena Sannita
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Una partita storica

19 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Una partita storica

Il secondo racconto di Giovanni D'Ippolito della serie “anni 60 revival”, in una radio cronaca mozzafiato alla Nicolò Carosio, rivive gli entusiasmanti momenti di una storica partita di calcio fra due Licei regionali.

UNA PARTITA STORICA

Era dall’inizio dell’anno scolastico che si parlava della sfida calcistica fra il Liceo Scientifico di Bojano e il Liceo Scientifico di Campobasso.

Eravamo giunti finalmente al fatidico giorno: una fredda e umida domenica di metà novembre. Fin dalle prime ore del mattino in cielo si erano aperte tutte le cateratte e scendeva una pioggia battente. I componenti della squadra si erano svegliati presto e scrutavano il cielo “porca miseria non si gioca...” pensavano. Si dedicarono quindi, ognuno a casa propria, alle normali attività domenicali: bagno nella vasca d’acqua caldissima, magari con Play Boy al seguito, poiché quasi tutti erano all’epoca “fidanzati” con una coniglietta di copertina. Poi, rivestiti a festa, indossando giubbotto, maglioncino a collo alto, pantaloni a zampa d’elefante e stivaletti beat col tacco, si recarono al solito appuntamento al bar per la partita di tressette. In palio boccali di birra da mezzo litro (pensare che allora non si sapeva nemmeno dell’esistenza dell’OktoberFest) e sacchetti di patatine. A seguire pranzo luculliano, tipico della domenica, con rigatoni al sugo e abbondanti salsicce al forno con patate.

Alle 13,30 improvvisa schiarita in cielo, tutti di corsa verso lo stadio, con due buste di plastica in mano: una con le scarpette e l’altra con maglietta, calzoncini e calzettoni. Si gioca!!! Il campo è quasi impraticabile, si affonda nel fango fino alle caviglie e il pallone non rimbalza.

La squadra di Bojano appare da subito molliccia e spompata, così il Campobasso pressa e, al 27’ del primo tempo, guadagna il vantaggio, se pur contestato, con un tiro dalla distanza che il bravo portiere Brunetti, in un plastico volo, riesce a intercettare e a inchiodare sulla linea di porta. L’arbitro, fra le proteste, assegna comunque il gol e si va negli spogliatoi sull’1 a 0.

Nel secondo tempo cambia tutto, la squadra di Bojano, con le sgroppate di Colalillo a destra e Di Ciero a sinistra, si riversa nella metà campo avversaria. Mainelli e Velardo impensieriscono il portiere avversario in più occasioni, con pericolosi tiri in porta, ma senza risultato. Al 43’ del secondo tempo, D’Ippolito, nel cerchio di centro campo, tenta di mettere in movimento Mainelli provando a colpire per ben due volte la palla di tacco, ma non riuscendo nemmeno a sfiorarla, dà vita, più similmente, a una goffa danza tribale. Fortunatamente subentra De Rosa che, impossessatosi della sfera di cuoio, scende nella posizione di mezz’ala destra e crossa al limite dell’area, dove Velardo, ben appostato, colpisce al volo di sinistro in maniera perfetta spedendo una cannonata che viaggia verso l’incrocio dei pali. La palla che, completamente inzuppata raggiunge ormai il peso stimabile di almeno due chili, invece raggiunge in pieno volto un difensore avversario. Il malcapitato salva così il risultato ma stramazza al suolo perdendo copiosamente sangue dal naso. L’arbitro, per attivare i soccorsi, fischia la fine e così ci si avvia verso gli spogliatoi, guardando con mestizia quello che era il meraviglioso manto erboso del Comunale, ridotto come un campo di patate dopo il raccolto.

Ci vorranno mesi per ripristinare il fondo e, nella primavera successiva, si ricomincia a giocare con apprezzabili prestazioni della squadra del Liceo Scientifico di Bojano che, se pur fortissima e quasi insuperabile nelle partite singole, non riuscì mai a vincere un torneo a punti.

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La contraerea del liceo

17 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La contraerea del liceo

Quello che vi proponiamo è il primo di una serie di racconti brevi scritti da Giovanni D'Ippolito nel 2013 in occasione dei cinquant'anni del Liceo Scientifico di Bojano, per ricordare con amici ed ex compagni di classe avvenimenti spassosi della loro gioventù.

Un revival che porterà anche molti di noi a ricordarsi giovani in un contesto sociale che oramai rivediamo solo nei film in bianco e nero del grande cinema italiano di quegli anni. Un tuffo nel passato nei mitici anni 60.

La contraerea del liceo

Le finestre del nostro Liceo erano, per la loro posizione, un osservatorio privilegiato su Corso Amatuzio. Nulla poteva sfuggire allo sguardo degli studenti che vi si affacciavano per tutto il tratto che va dalla piazza fino alla Stazione, ma quella mattina nessuno avrebbe immaginato che gli occhi sarebbero stati rivolti verso il cielo. Erano appena iniziate le lezioni quando un rombo assordante fece tremare i vetri e sobbalzare gli alunni di tutte le classi che, corsi alle finestre, scrutavano verso l’alto senza riuscire a scorgere l’aereo che aveva provocato tale trambusto. Si ritornò, sollecitati dai professori, al proprio posto, ma la distrazione era stata tanta e ognuno in cuor suo sperava che il fatto si ripetesse.

Tutti erano all’erta e, trascorsi pochi minuti, si cominciò a udire in lontananza un flebile sibilo, di nuovo gli alunni eccitati corsero verso le finestre, questa volta sarebbero arrivati in tempo per vedere, infatti si affacciarono proprio mentre il muso del jet appariva a pochi metri dai loro occhi . Un muso simile a quello uno squalo che si avvicinava minaccioso e velocissimo e che, con un boato fragoroso, sfiorò il tetto della scuola.

Io avevo capito subito chi fosse ai comandi di quel velivolo e conoscevo la manovra che avrebbe fatto: l’aereo si allontanava in direzione di San Massimo seguendo la ferrovia che il pilota usava come riferimento. Poco prima del campo sportivo di Cantalupo effettuava una lenta virata a destra e, seguendo sempre il percorso della strada ferrata, giungeva al bivio di Guardiaregia dove, all’altezza del cementificio, eseguiva ancora una lenta virata a destra e via a volo radente di nuovo verso Bojano puntando l’edificio scolastico.

Ormai tutti erano certi che ci sarebbe stato un terzo passaggio e più di qualcuno, giocando alla guerra, si era attrezzato per la difesa: avevano piazzato le sedie dei banchi sui davanzali delle finestre con le gambe puntate verso l’alto e quando il jet apparve ancora una volta, dettero vita a un fuoco di sbarramento contraereo tatatatatatatatatatatatatatatatatatataatatatatataatatata, imitando una mitragliatrice e giù a ridere a crepapelle. I professori cercavano di ripristinare l’ordine e di calmare i più esagitati con scarsi risultati, anche perché vi fu subito un quarto passaggio e le mitragliatrici alle finestre erano decuplicate.

I vetri tremarono ancora, il boato fu più forte e molti si precipitarono nel corridoio dalle cui finestre videro l’aereo allontanarsi oscillando le ali in segno di saluto. Io più degli altri, a quel movimento, sentii tremare il cuore, e fui orgoglioso perché il provetto pilota era mio fratello e aveva saputo evitare la nostra contraerea. Era un gioco ma per fortuna, pensai, non era stato colpito.

Giovanni D'Ippolito

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