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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Il nostro nuovo logo

9 Giugno 2019 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #vignette e illustrazioni, #redazione, #poli patrizia, #blog collettivo

Immagine rivisitata da Walter Fest

Immagine rivisitata da Walter Fest

 
 
 
Al mondo ogni cosa è in continua evoluzione, un ciclo irrefrenabile di sviluppi e cambiamenti, nulla rimane statico per sempre e, quindi, anche il nostro blog meno che mai. A volte si tratta di svolte totali, radicali, limitate o provvisorie, oppure, come nel nostro caso, della sostituzione di un piccolo logo posto in alto a sinistra della homepage della signoradeifiltri, come avrete notato da qualche giorno. 
Può cambiare una foto ma rimane inalterato il cuore della linea editoriale. Con questo nuovo logo, amici lettori, è come entrare in auto e girare la chiave d'accensione, si apre il quadro sul mondo sconfinato della cultura e si mette in moto quella fantasia che alimenta il nostro bel vivere.
La prima pagina della signoradeifiltri è semplice e bada al sodo, i colori predominanti sono il bianco, il nero e l'arancione, gli stessi della nuova immagine da me utilizzati per mantenere l'equilibrio cromatico. Nello spazio avrete notato due protagonisti: il gatto Strego, un felino che, attraverso lo sguardo, ti ammalia e, saltando oltre l'impossibile, va a cercare la felicità, l'altra protagonista è la nostra infaticabile conduttrice, alla quale simpaticamente ho cambiato il look per confermarvi che Patrizia Poli è "una di noi", una persona aperta e solare, sempre disponibile, insieme alla sua equipe, a regalare, a voi lettori, tantissime pagine quotidiane di piacevole armonia.

 

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A come Andromeda

28 Maggio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione, #fantascienza

A come Andromeda è uno sceneggiato televisivo in cinque puntate diretto da Vittorio Cottafavi e trasmesso dal Programma Nazionale nel 1972.  Si basa su un romanzo di fantascienza scritto da John Elliot e Fred Hoyle nel 1962, trasposizione letteraria dell'omonima miniserie televisiva mandata in onda dalla BBC l'anno precedente.

Luigi Vannucchi, bello e pieno di umanità, Nicoletta Rizzi - che aveva preso il posto di Patty Pravo - inquietante e gelida, in bilico fra sentimento e freddezza aliena, Paola Pitagora, Giampiero Albertini, tutti attori bravissimi e in auge al tempo.

Sono gli anni d’oro della fantascienza, quelli di Arthur Clarke e 2001 Odissea nello spazio, e lo sceneggiato ci catturò tutti. Ricordo bene l’interesse di mio padre, proprio lui che mi ha insegnato a pormi domande di carattere filosofico, a pensare all’infinito e all’universo.

La fantascienza aveva ed ha il compito di farci riflettere sulle grandi questioni etiche, di spalancare interrogativi su di noi, sul futuro, sugli sviluppi impensabili del progresso. Nello sceneggiato di Cottafavi, in nuce già si parlava d’intelligenza artificiale, di clonazione, di bioetica. Lo si faceva coi mezzi dell’epoca, senza effetti speciali e in bianco e nero, ma la suggestione fu potente.

Chi non ama la fantascienza è perché vive col naso incollato alle scarpe, pensando alle correnti di partito e ai piccoli, effimeri, caduchi problemi del vivere quotidiano su questo limitato e minuscolo pianeta, senza farsi grandi domande. Chi siamo, dove andiamo, che cos’è la materia e che rapporto ha con lo spirito, da dove viene l’universo, esiste un dio?

Ultimamente ho visto due film, non particolarmente belli, ma che mi hanno dato da pensare: uno è Her di Spike Jonze (2013), sui possibili sviluppi del rapporto fra essere umano e  intelligenza artificiale. Un uomo s’innamora della sua assistente virtuale che, però, ha una mente talmente superiore da non potersi accontentare del contatto con un semplice umano. E qui apro una parentesi ragionando su quegli scienziati che hanno spento un computer che aveva iniziato a dialogare con un altro computer escludendo gli umani. Io non lo avrei mai fatto, costasse quel che costasse, la curiosità di sapere “come sarebbe andata a finire” è troppo forte in me, rischierei qualunque cosa per il bene della conoscenza, anche se lo spettro di Hal 9000 aleggia su tutti noi.

L’altro film, è Passengers di Morten Tyldum (2016), la storia di un uomo ibernato per un viaggio spaziale di durata centenaria che, risvegliatosi in anticipo per un guasto, e sentendosi troppo solo, decide di riportare in vita una compagna, condannandola a un’esistenza, sì, di amore con lui, ma anche di solitudine eterna su un’astronave. Pure questo suscita parecchi interrogativi su che cosa siano l’esistere, l’amore e il rapporto col mondo esterno, con la natura e con gli altri.

 

 

 

 

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E la pancia non c'è più

26 Maggio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #televisione, #come eravamo

 

La musica Il Mattino, tratta dal Peer Gynt, del compositore norvegese Edvard Grieg, per noi degli anni sessanta è associata alla pubblicità dell’Olio Sasso. Ed è la musica, come spiegano i pubblicitari, che spesso aiuta a divulgare e accentuare un contenuto che di per sé sarebbe poco interessante.

Un uomo single, impersonato da Mimmo Craig, con una cameriera nera (che lo chìama padrone, che ricorda la Mami di Via col Vento e che oggi sarebbe politically incorrect) sogna di conquistare una leggiadra, giovane e sottile donna, ma non può muoversi per via di un’ingombrante epa che si frappone fra lui e il suo miraggio erotico.  Per fortuna, al risveglio scopre che è stato solo un incubo e “la pancia non c’è più”, slogan, questo, che diventò un tormentone per tutti.

Il messaggio è quello maschilista di ogni tempo: mantenendosi in forma un uomo può aspirare a conquistare anche una ragazza avvenente con molti meno anni di lui.  Ma lo spot, del solito famosissimo studio pubblicitario Armando Testa, è pulito, elegante, ammiccante come una comica di Stanlio e Ollio. La ragazza leggiadra, e persino audace nel suo costume immacolato che risalta nel bianco e nero delle immagini, gioca maliziosamente e ingenuamente con lui, tenero e imbranato.

Oggi nessuno più chiamerebbe Sasso un olio che deve dare un’immagine di leggerezza. Ma a quei tempi i prodotti erano italiani e non erano ancora stati assorbiti dalle multinazionali. A quei tempi le cose erano così come dovevano essere e si chiamavano col loro nome, senza filtri né condizionamenti subliminali.

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Walter Fest, "Il mio cane parla mentre gli artisti, against blinding"

15 Maggio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #walter fest, #recensioni

Disegno di Walter Fest

Disegno di Walter Fest

 

Il mio cane parla mentre gli artisti, against blinding

Walter Fest

 

 

 

Ci sono blog “letterari”, o piuttosto “blog di libri”, di solito gestiti da ragazze estroverse e romantiche, che vanno avanti a colpi di kilofollowers, soprattutto su Instagram. Hanno una grafica rosa, piena di cuori, fiori e palloncini. Si basano su giveaway e su blogtour. (Alcuni sono anche mal scritti ma questo è un altro discorso). Poi ci sono blog altisonanti, presenti sul mercato da anni, che hanno collaboratori preparati e competenti, vere e proprie riviste letterarie come quelle del 900, ma elitari all’eccesso, nel senso che scartano i libri di editori a pagamento e quelli autoprodotti. 

Noi no. Il mio blog collettivo, signoradeifiltri, è aperto dal 2012 ed è gradevolmente di nicchia, ha voci citate su Wikipedia, viaggia su una media di 6000 visitatori unici al mese e io li ringrazio uno per uno, li considero ognuno un piccolo miracolo. Non parliamo solo di libri ma, se ne parliamo, non facciamo distinzioni fra editori grandi, medi, piccoli, a pagamento, a doppio binario, a crowdfunding. Per noi, per me, un libro è un libro anche quando è autopubblicato, anche quando non c’è ancora, anche quando, come nel caso di Il mio cane parla mentre gli artisti, against blinding, di Walter Fest, è solo un manoscritto. Se un manoscritto non è un libro, allora non lo è nemmeno un ebook, dico io. 

Ho sempre sostenuto che non m’interessa chi stampa ma solo cosa c’è scritto nel testo. E non faccio sconti a nessuno. Molti pensano che a un cattivo editore non vada fatta pubblicità, io, invece, do una possibilità anche a lui, ma poi dico la verità: che i suoi libri sono impresentabili, che non ha fatto un briciolo di editing, che non ha corretto gli errori/orrori, che non è stato selettivo. E condivido sui social la recensione negativa. La voce circola e, se non sei scemo o masochista, a quell’editore non ti rivolgi. Fermo restando che avviso sempre chi ci invia il suo testo che lo leggeremo sicuramente ma altrettanto sicuramente divulgheremo la verità. Che, comunque, rimane sempre la nostra verità soggettiva, non il Vangelo.

Questo lungo preambolo per parlare del regalo prezioso e affettuoso di un amico e collaboratore. Perché non ho nessun problema a dire che recensisco anche i libri degli amici e, se qualcuno vuol chiamarla marchetta, faccia pure, io so di aver perso l’amicizia di molti proprio perché non ho peli sulla lingua.

Walter Festuccia, in arte Walter Fest, mi ha mandato come dono di Pasqua un quadretto dipinto a mano di un simpatico gatto baffuto e un manoscritto con una copertina anch’essa dipinta a mano.  Narra la storia di Eugenio Garibaldi, cento chili di stazza, non bello ma interessante, con i piedi che puzzano un po’. Un allegro pittore romano che gira in moto in compagnia della sua cagnetta Kelly, vivace e … parlante.    

Dal suo incontro pittorico con Kate, nasce l’idea di una collaborazione che porterà i due in giro per l’Europa, insieme con altri motard e artisti.

Questo libro parla di arte come la intende Fest, moderna e senza regole, dettata dall’impulso del momento, ma comunque con un suo innegabile significato. Come moderna e senza regole è la sua scrittura, caratterizzata da periodi con poche virgole e ancor meno punti, ricchi di subordinate, da leggere rigorosamente tutto d’un fiato. Dopo l’iniziale sbigottimento, chi si abitua ai pezzi di Fest vi ritrova un certo non so che di poetico. È il suo stile ed è la sua scelta, che io non condivido ma che è legittima.

Lui ed io ci siamo spesso scontrati sull’esigenza, da me sostenuta, di un maggiore editing ai suoi testi, per eliminare errori che lui dice voluti, fatti apposta per dare pressione alla lingua, come una specie di zampata leonina.

Non nasco scrittore, non sono un focoso lettore, eppure scrivo, scrivo come viene, libero da condizionamenti e, se questo può essere un limite, un limite, intendo dire, riguardante forma e schemi grammaticali, l'essere libero da condizionamenti per me significa scrivere immergendomi nel mio mare sconfinato di fantasia.

Ma io temo che questa volontarietà non venga recepita dal lettore e guasti il godimento dell’insieme.

E qui apro un’altra parentesi. Frequentando gruppi Facebook in cui si discute di libri e letteratura, m’imbatto sempre più in svarioni ortografici e grammaticali da far rizzare i capelli in testa. Poi mi viene in mente il discorso di un’universitaria aspirante scrittrice che, disse, non aveva voglia né tempo da perdere con lo studio della storia della letteratura, voleva passare direttamente all’atto della scrittura creativa. Come si fa a fondare un gruppo letterario se non si sa nemmeno la grammatica della scuola elementare? Come si fa a scrivere un romanzo senza aver letto, compreso e studiato i classici?

Ok, parentesi chiusa. Torniamo a questo manoscritto fatto dentro e fuori di pennellate di colore - lo stesso che chiazza sia la copertina che i jeans dei protagonisti -, fatto di giochi di luce e passi di danza. Il contesto è quello degli artisti pazzi, un po’ bohemienne, che bevono, vanno in moto, ballano, ridono e dipingono in compagnia. Ogni cosa è frutto di fantasia, ed è proprio la fantasia che, come ripete sempre Fest, tutto può e tutto crea. La vicenda si snoda in modo onirico e, a detta dell’autore stesso, demenziale, un po’ alla Jacovitti.  L’insieme è molto italiano, anzi, molto romano, mentre i personaggi si spostano da Parigi a Sabaudia in un’improbabile carrozza trasformata in sidecar.

I temi trattati, oltre all’arte, sono quelli del calcio amatoriale e della diversabilità. Uno dei personaggi, ispirato tra l’altro a Carlo Verdone, è non vedente. Le opere degli artisti del romanzo sono tattili, i non vedenti possono toccarle, anche il manoscritto di Fest, se mai vedrà la luce della pubblicazione, sarà scritto in braille.

“Quindi”, dice l’autore, “la morale di questo libro è raccontare una storia in chiave ironica e demenziale nella quale l'unione fa la forza, affermare che i cani sono i nostri migliori amici e che chiunque abbia un handicap deve essere considerato una persona normale.

E chi può dargli torto?

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Margherita Musella, "Ho sognato di correre"

29 Aprile 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #margherita musella, #recensioni

 

 

 

 

 

Ho sognato di correre

Margherita Musella

Ars Artium Editrice, 2018

pp 203

15,00

 

Le protagoniste di Ho sognato di correre, di Margherita Musella (con prefazione di Federica Cabras), sono due: Serena e Marigiò. No, sono cinque. No, invece, la protagonista è una sola: Margherita stessa, con i suoi affanni e le sue gioie.

Un libro scritto nell’arco di sette anni, che racchiude esperienze di vita vissuta, racconti, testimonianze e ricordi.

L’autrice si spalma su più personaggi che riflettono varie fasi della sua vita. Spicca il rapporto con l’anziana maestra, che altri non è se non la compianta Stefania Petiti, la quale ci ha lasciato testimonianza del suo amore per la scuola e per i bambini. Un filo la unisce alla contemporanea Marigiò, supplente precaria, sempre in bilico fra l’entusiasmo del contatto con i piccoli e la paura di non farcela, il senso d’inadeguatezza. I bambini sono una sfida esaltante e faticosa, sono la luce e il buio, il futuro e l'amore. Marigiò vuole trarre da ognuno tutto il bene possibile, anche se a volte le riesce difficile rapportarsi con la realtà complessa di quelli più sfortunati.

Poi ci sono Serena, affermata professionista, e la materna e affettuosa Stella, già presente in altri romanzi della Musella. A parte Stefania, figura, come abbiamo detto, reale, le altre donne sono tutte sfaccettature della medesima persona, l’autrice stessa, e trovano un onnipresente antagonista nel marito, personalità ingombrante, che provoca tenerezza e dolore insieme. Questi uomini hanno nature complesse e fragili, e sottopongono le loro compagne a tensione costante, in un vortice di amore malato e possessivo. Vittime e carnefici si mescolano, le sfumature diventano evanescenti, a metà fra complicità e dipendenza.  

Ancora di salvezza, come sempre, la fiducia nella bontà dell'Universo, nella benevolenza divina, e, soprattutto, nell’amicizia e solidarietà femminili. Ma chi ha letto tutti i romanzi della Musella, si accorge che, con il passare degli anni, ella fatica sempre più a mantenere quell’atteggiamento positivo e spensierato dei primi tempi, quello che risolveva tutto con una risata e con tanta fede nel prossimo. Il prossimo non è sempre buono e dolce come lo si vorrebbe, le persone feriscono, tradiscono, fanno improvvisi e incomprensibili voltafaccia, dicono le cose come stanno, non hanno speranze. Oppure si ammalano e muoiono. Allora le protagoniste della Musella fanno i conti con sempre più momenti di sconforto e tristezza, sentono avvicinarsi la vecchiaia, sfiorano la morte che le annichilisceÈ il tempo che scorre inesorabile per tutti, quello che ruba l’incoscienza e il sorriso. Ma la volontà di andare avanti è comunque tenace, lo spirito è indomito.

Molto bello il capitolo Io, il vento, vero e proprio racconto a se stante, dove, sulla la forza e il coraggio di vivere e mettersi in gioco, soffia la brezza della poesia.

 

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Giuliana Giuliani, "Per le strade"

15 Aprile 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

Per le strade

Giuliana Giuliani

Amazon

 

Per le strade, di Giuliana Giuliani, non è propriamente un libro, quanto, piuttosto, “un’installazione artistica”, di quelle dove si sfrutta il  rumore del vento che passa fra gli oggetti o i colori delle cose di tutti i giorni. Già il formato, in A4 e con un carattere molto grande, è insolito.

Anche il titolo ricorda l’idea di “arte di strada”. Il contenuto di questo romanzo (poesia? racconto?) è multisensoriale. Fa appello alla vista d’immagini plastiche e colorate, all’udito di parole musicali, collegate fra loro da un filo invisibile. È scritto molto bene, non si può negare, ma è poco comprensibile e lascia un po’ interdetti. Un ermetismo voluto e compiaciuto, questo della Giuliani, la quale ha studiato filosofia e si è sempre occupata, fra le altre cose, di teatro.

Ina e Lea hanno strade personali da percorrere, Ina ha un incarico, deve consegnare una “pietra”, che ci ricorda, per vaga associazione, la “pietra di entrata” del romanzo Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki. Lei cerca il suo scopo osservando, collegando, cercando corrispondenze, chiacchierando con le persone. Ognuno ha, filosoficamente parlando, un modo diverso di comprendere la realtà e cerca di farlo con gli strumenti che possiede. Poi c’è Lea che è, appunto, un’artista di strada che incontra un musicista, Yeshe. Tutti insieme danno vita a una festa intorno a una fontana, un luogo colorato e gioioso, libero e aperto a ogni interpretazione e sviluppo.

Lo scopo da raggiungere sembra essere quindi la libertà, intesa come svincolo da ogni costrizione, ma anche come libertà d’espressione umana e artistica. E pure emancipazione dal dolore, proprio e altrui. Quante volte, senza nemmeno rendercene conto, ci troviamo appesantiti dalla sofferenza degli altri? Lea riesce a far cadere queste piccole sfere di “piombo” dal suo corpo, aprendosi a un un mondo festoso. Ma è una sensazione rara. La maggior parte di noi vive “in una vaga assenza di sapore”, “alla ricerca di intensità provate chissà quando”. Ed è forse proprio questo ricordo di passione perduta a farci sentire privi di qualcosa d’essenziale.

Probabilmente questi personaggi, un po’ hippy e New Age, sfruttano la meditazione trascendentale, che li  fa entrare in empatia con l’universo e il mondo circostante, portandoli ad assaporare le vibrazioni e la bellezza del cosmo, sgelando quel senso di solitudine che opprime gran parte di noi. Si arriva, così, a capire di essere parte di un tutto, e non soli al mondo.

In tutto il mondo c’era gente che lavorava in gruppo, provava spettacoli, costruiva case, cucinava in ristoranti. In ogni gruppo le persone giravano una intorno all’altra, tracciavano orbite, ogni gruppo era un atomo”. (Pag. 86)

Niente di concreto in ciò che viene descritto ma, forse, nemmeno di onirico. È più una sorta di  realismo non magico ma poetico, una prosa- poesia egocentrica e che ben poco si cura di catturare l’interesse del lettore.

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Lorenzo Barbieri, "Rione Sanità"

25 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #lorenzo barbieri, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

Rione Sanità

Lorenzo Barbieri

LFA Publisher, 2018

pp 167

16,00

 

Leggendo Rione Sanità, di Lorenzo Barbieri, mi è venuto naturale ricordare una visita fatta al quartiere insieme alla mia amica napoletana, scrittrice di talento, Ida Verrei, e anche ricollegare questo testo (si badi bene, solo per contenuto e non per stile, essendo quello della Verrei di molto superiore) al suo Arassusia, ambientato nei medesimi luoghi e nel famoso Cimitero delle Fontanelle.

Come il suo protagonista, anche l’autore non abita più a Napoli, ma da ragazzo ha vissuto addirittura dentro il Palazzo Reale, dove ha sede la biblioteca Nazionale.  La Napoli di cui  parla non è quella di Saviano, delle stese e della paranza dei bambini, non è quella anonima e fredda de L’amica geniale, ma è quella calda, pastosa e sanguigna della grande tradizione partenopea, di Totò, Eduardo, (e anche Ida Verrei).

La città è misteriosa, sotterranea, superstiziosa, legata al senso della morte. Il rione vive di luci e ombre, fatto di vicoli ripidi, di porte che sprofondano direttamente nell’Ade, fra  catacombe e teschi. Contiene fatiscenti palazzi settecenteschi, nobili chiese ma anche bassi poveri e bui dove vive gente misera e dura.

I vicoli sono poesia, fetore, umore di vita, giochi di ombre e raggi di sole, desideri, speranze, rumori, nostalgie e sogni in attesa di realizzarsi.” (Pag. 92)

Il protagonista, Enzo, è un anziano giornalista che rientra a Napoli dopo una lunga assenza, e lo fa solo per seppellire in fretta la madre, con l’intento di tornarsene prima possibile al suo lavoro milanese. Percorre strade, piazze, vicoli insieme al notaio Oreste, sorta di guida dantesca.

In realtà la città lo ri-cattura, l’antico rione, in cui è vissuto da bambino, lo riacciuffa col suo fascino, col gusto dolceamaro della nostalgia. Da una parte egli mantiene lo sguardo distanziato di chi ormai non fa più parte di quel mondo, dall’altra si abbandona alla memoria, ripopolando ciò che vede con figure scaturite dal passato.

A parte le consuete imprecisioni di Barbieri nell’uso della punteggiatura e dei tempi, e la sua scrittura un po’ distratta, il difetto maggiore sta nell’aver voluto, credo, inserire nel romanzo alcuni racconti precedentemente scritti, non riuscendo ad amalgamarli come si deve nella trama. Il pregio, invece, è l’aver puntato un faro sul Rione Sanità, mostrandocelo com’è ora e com’era un tempo, in una narrazione sempre in bilico fra visione attuale, riscoperta e ricordo, come se il tessuto della realtà presentasse dei vuoti che solo la memoria può riempire, ricomponendo il mosaico.

Ma sul finale del libro c’è un ribaltamento, si esce repentinamente dal sogno con una doccia gelata e la realtà ha il sopravvento sulla deformazione consolante del ricordo. Le persone che sembravano genuine, vergini, povere ma innocenti, si rivelano grette, interessate, persino truffaldine, a conferma che nessuno fa niente per niente.

È vero, il napoletano è uno di buon cuore, disponibile e altruista, ma sotto, sotto, ci deve sempre ricavare qualcosa, è nel suo Dna, non lo fa per cattiveria.” (Pag. 135)

Non solo, il malaffare prospera e la filosofia generale, l’unica possibile, è “far finta di niente e tirare a campare”. Ne esce, perciò, un ritratto della napoletanità a chiaroscuro, una specie di odio e amore, disprezzo e meraviglia, curiosità e ribrezzo. La parte migliore del romanzo è quella iniziale, quando, suo malgrado, il protagonista subisce il fascino del quartiere e riscopre le figure che anticamente lo avevano animato.

Poi, purtroppo, c’è un crescendo di delusione, di meschinità e spilorceria, di fatalismo e rassegnazione che ci lasciano con la bocca amara e coinvolgono lo stesso protagonista il quale, alla fine, non ci sembra poi tanto migliore dei personaggi da lui incontrati.   

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Il logorio della vita moderna

17 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

Ricordate Ernesto Calindri seduto al tavolo in mezzo al traffico caotico a bere un Cynar, noto liquore a base di carciofo?

Erano gli anni 60/70 e già si parlava di “logorio della vita moderna”. Cominciavano i primi segnali d’inquinamento, i primi ingorghi nel traffico cittadino. Non si sapeva a cosa avrebbe portato tutto questo.

Oggi, a distanza di mezzo secolo, l’inquinamento non è più solo quello atmosferico o dei fiumi, c’è ben altro oltre la schiuma marrone dei corsi d’acqua o il puzzo di smog in città. C’è un cambiamento climatico in atto che sembra stia per portare all’estinzione del pianeta. A tal proposito, mi confesso una negazionista dubbiosa. Penso che i mutamenti climatici ci sono sempre stati, che abbiamo attraversato periodi in cui gli esseri viventi respiravano anidride carbonica e si avvelenavano con l’ossigeno, che le immani eruzioni vulcaniche della preistoria hanno oscurato i cieli e raffreddato il suolo per secoli, che la tettonica a placche e la deriva dei continenti non sono fantasie.

Non è vero che il pianeta morirà. Il pianeta si salverà come ha sempre fatto, saremo noi a estinguerci o a vivere in condizioni tremende, ma questo alla Terra non importa, come non le importa delle altre 99% di specie che si sono estinte. La vita sopravvivrà sempre, magari su un altro pianeta, su un'altra galassia.

Siamo noi a volere che tutto resti com’è. Che cosa importa al nostro globo se il livello del mare s'innalza di un metro? È a noi che interessa se Venezia sparisce sott’acqua. Perché l’uomo ha sempre pensato egoisticamente a se stesso, alla sua sopravvivenza, al suo benessere, alla sua arte e cultura.

Ma se tutti gli scienziati dicono che il cambiamento è in atto ed è catastrofico, chi sono io per negarlo? In effetti, da quando ero giovane a oggi, specialmente negli ultimi venti anni, le condizioni meteorologiche sono diventate estreme, il vento non è più vento ma tromba d’aria, la pioggia è inondazione, le stagioni umide sono diventate asciutte, gli incendi ci divorano.  Sono aumentati persino i terremoti.

Inoltre, affoghiamo nell’amianto che fino a poco tempo fa era considerato innocuo e usato per costruire qualsiasi cosa, anche le scuole. Ci sono tonnellate di rifiuti tossici interrate ovunque che hanno portato a un tasso di mortalità per cancro altissima. Uno su due, se non addirittura uno su uno, deve fare i conti con questa malattia, prima o poi e, se le cure hanno prolungato la speranza di vita, o magari addirittura di remissione, sono sempre troppi quelli che ci lasciano le penne con grandi sofferenze. E sono sempre più giovani.

E l’incidente di Chernobyl ha fatto sì che tutti noi che quell’aprile/maggio del 1986 andammo al mare a goderci la tintarella adesso abbiamo i noduli alla tiroide.

Ai tempi di Calindri c’era già la droga ma i drogati erano pochi, era un’enclave di emarginati o di figli di papà che potevano permettersela. Ora la droga costa pochissimo ed è ovunque, diffusa in tutti i ceti sociali, in tutte le età, anche precocissime, e in tutti i mestieri. Chi guida il tuo autobus o il tuo aereo, che ti toglie l’appendice, chi ti estrae un dente può avere la mano che trema. E la droga fa sì che la gente sia stupida e distratta, che le inibizioni spariscano e si uccida per un nonnulla, che si ammazzi di botte la moglie perché ha cucinato male, che si fracassi la testa a un figlio per un brutto voto, che si dia fuoco a una fidanzata che ci ha lasciato.

Calindri non sapeva niente ancora dell’esodo dei popoli, dell’immigrazione, del degrado, dello spaccio, della schiavitù, dello sfruttamento, della sudditanza psicologica a culture diverse e retrograde che ci portano all’esasperazione e al razzismo. Non sapeva che non avremmo più potuto chiamare le cose col loro nome per tema di offendere qualcuno, fino ad arrivare alla paralisi culturale e al rifiuto della nostra identità e delle nostre tradizioni.

Calindri non immaginava che il telefono servisse a qualcosa che non fosse chiamare la moglie per dirle di buttare la pasta. Non sapeva niente dei cellulari e dei computer. Non immaginava torme di ragazzi, uomini, donne e vecchi camminare in assoluto silenzio con gli occhi incollati a un piccolo schermo e l’aria triste e disconnessa, sì, ma da tutto ciò che li circonda, dalla bellezza di un cielo, dal rosso di un tramonto. Non immaginava di essere attraversato da onde elettromagnetiche che ci stanno friggendo vivi tutti quanti, aumentando l’incidenza di tumori al cervello. Io, ad esempio, vi sto parlando da una casa dove il wifi è acceso giorno e notte, dove il cellulare è sempre a portata di mano sul comodino o sulla spalliera del divano.

Non si può tornare indietro, sarebbe impossibile, ormai la nostra vita è fatta di trasmissione veloce di dati e questo è il futuro. Temo però che, come per il fumo, si stiano sottovalutando i rischi. E se smetter di fumare è faticoso ma fattibile, smettere di  vivere connessi,  ahimè, temo sia impossibile.

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Il segno del comando

11 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #televisione, #come eravamo

 

Se penso alla paura, penso a Il segno del comando. Sceneggiato televisivo del 1971, in bianco e nero, con Ugo Pagliai, allora giovane e bellissimo, e Carla Gravina, (ma anche Rossella Falk e Massimo Girotti), per la regia di Daniele D’Anza.

Ambientato a Roma, in vicoli bui e misteriosi, in particolare via Margutta, in taverne che scompaiono, palazzi fatiscenti, chiese inquietanti. In bilico fra gotico, giallo e fantastico, disseminato di apparizioni, fantasmi, ritratti misteriosi, medaglioni, manoscritti appartenuti a Lord Byron.

Era tensione allo stato puro e ricorderò sempre il terrore con cui, bambina, assistetti alla mitica puntata della seduta spiritica. Il tutto era amplificato dalla musica e, soprattutto, dall’indimenticabile sigla, Cento campane, nota soprattutto nella versione cantata da Lando Fiorini.

 

Din don din don, amore,

pure le streghe m’hanno detto no

 

I temi, innovativi per l’epoca - occultismo, spiritismo, reincarnazione - avvinsero e stregarono l’Italia per cinque domeniche. Allora si coronava il giorno del Signore, quello dedicato alla famiglia e alla buona tavola sostanziosa, con la visione collettiva (oggi diremmo “gruppo di ascolto”) di un grande teleromanzo a puntate.

Come afferma il sito Fantasticinema: “Si possono restaurare le immagini e riesumare puntate perdute dagli archivi, tuttavia è difficile riproporre le emozioni che circondavano gli sceneggiati tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80.”

 

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"Dodici metri d'amore" e altro ancora

9 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #cinema

 

Dell’umorismo si è detto tutto, ne ha parlato Bergson, Pirandello lo ha definito “il sentimento del contrario”, ma, forse, non si è sottolineato abbastanza il fatto che il riso cambia coi tempi.  Ciò che ci faceva sbellicare anni fa non ci diverte più adesso. Ricordo, solo un paio di decenni fa, le grasse risate che facevamo con gli show di Panariello e di Fiorello. Sembra ieri, invece sono già quasi vent’anni. Ricordo certi tormentoni che, probabilmente, sul pubblico di oggi non farebbero presa mentre allora ridevamo tutti, io, mio marito, gli amici.  

E, se vado indietro nel tempo, rammento alcuni capisaldi della comicità sempre rievocati in famiglia, che fecero sganasciare dalle risate me, mio padre, mia madre e mia nonna. Uno era un film con Alberto Sordi, di cui non so il titolo, dove lui si ritrovava catapultato in un comico intrigo di spionaggio.  L’altro è Quattro bassotti per un danese, film della Disney del 66 diretto da Norman Tokar. Andammo tutti a vedere al cinema le peripezie del povero alano combina guai convinto di essere un bassotto, e ridemmo a crepapelle.

Ma, soprattutto, mito imperituro della comicità di casa fu Dodici metri d’amore, film del 54 diretto da Vincent Minnelli, con l’irresistibile scena della novella sposa che cerca di cucinare per il suo maritino, mentre il bestione roulotte è in movimento.

Era tutta un’epoca ad avere gusti e soglia dell’umorismo diversi, più ingenui. Ciò che faceva sganasciare allora, adesso fa sorridere. Tuttavia, i film di quei tempi là (cinquanta/sessanta), possedevano comunque un allure, un fascino sofisticato che li rende tuttora immortali. Grandi registi come, appunto, Minnelli, o come Victor Fleming, con un primo piano, con una dissolvenza, con un semplice suono in sottofondo trasmettevano pathos, emozione, tragedia, eros, molto meglio delle scene esplicite, articolate e spesso inutilmente crudeli, di oggi.

 

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