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poli patrizia

Il cimitero dei Lupi

14 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #luoghi da conoscere

Il cimitero dei Lupi

Chiedendoci se all'ombra dei cipressi e dentro l'urne confortate di pianto sia forse il sonno della morte men duro oppure no, c'inoltriamo nel Cimitero dei Lupi, o Cimitero Comunale La Cigna, oggi ai margini dell'area portuale ed industriale della città di Livorno, vicino al torrente la Cigna, appunto, in località Santo Stefano dei Lupi. La zona prende nome dalla gronda dei Lupi, una vasta area che in epoca medievale si estendeva da Pisa al villaggio labronico, cosiddetta dalla famiglia possidente. È stato proprio l'editto di San Cloud, del 1804, cui fa riferimento Foscolo nel Carme "I Sepolcri", insieme ad una concomitante epidemia di febbre gialla, a decretare la nascita del nuovo cimitero.

È un pomeriggio di settembre, l'aria ferma e calda. Notiamo subito le baracchine dei fiori rinnovate, prima di superare l'ingresso. La Camera mortuaria è affollata, ahimè, sia di morti sia di vivi, ogni giorno c'è sempre qualcuno che se ne va e qualcuno costretto a piangere. La chiesetta di San Tobia (XIX sec) ci accoglie con i suoi muri spogli e un paio di quadri cupi ma gradevoli.
Progettato dall'architetto Riccardo Calocchieri, completato da Pampaloni e Diletti, ampliato infine da Unis, il camposanto fu benedetto nell'ottobre del 1822. Ulteriori trasformazioni si ebbero a partire dal 1910 fino ai giorni nostri. È costituito principalmente da tombe a sterro.
A parte la piccola folla raccolta davanti all'obitorio, il luogo è deserto. Riflettiamo su quanto il culto dei morti vada scemando nelle generazioni attuali e su come, venuti a mancare quei vecchi che facevano del cimitero una meta bisettimanale, in futuro quasi nessuno più attraverserà il viale monumentale che collega l'ingresso al porticato classicheggiante aggiunto da Unis. La navetta che dovrebbe trasportare anziani e disabili gira a vuoto fra i cipressi. Ci colpisce il silenzio, il senso di pace (eterna).

La prima parte del viale è la più antica e quella meglio tenuta, ricca di monumenti risalenti all'ottocento e al primo novecento. Spicca la tomba di Andrea Sgarallino (1935-1887) il quale ebbe a bandiera patria e lavoro. Patriota insieme al fratello Jacopo, iscritto alla Giovane Italia di Mazzini, si distinse nella difesa di Livorno dall'assedio austriaco nel 1949. Proprio da Santo Stefano ai Lupi, alle sei del mattino del 10 maggio, si udirono i primi cannoneggiamenti austriaci. L'11 maggio era già tutto finito. Solo alcuni decenni dopo, i resti dei livornesi fucilati furono trasferiti ai Lupi, dove Lorenzo Gori scolpì un monumento commemorativo.
Come i fratelli Sgarallino, incontriamo anche Oreste Franchini, che ebbe per maestro Mazzini e per duce Garibaldi e le cui ceneri ancora attendono l'avvento dell'ideale che fu tutta la sua vita.
C'imbattiamo in nomi noti, come Cesare Alemà, il cui monumento è sovrastato da berretto garibaldino, baionetta, spada, bandiera, tromba, foglie di alloro; Enrico Bartelloni; Francesco Chiusa; Giuseppe Ravenna e altri personaggi del risorgimento italiano ma anche della lotta antifascista, come Ilio Barontini e Vasco Jacoponi.

Ogni tomba monumentale ha la sua storia da raccontare, le sue lacrime e la sua memoria. Ci piace ricordarne una fra le tante, di sicuro meno conosciuta, quella costruita nel 1919 per Emma Zigoli.
Emma aveva diciotto anni e tutta la vita davanti, quella sera, mentre, agghindata a festa, allegra e spensierata, si recava a ballare nella sede del Partito Repubblicano, pregustando il divertimento, i chiacchiericci con le amiche, gli sguardi ammirati dei corteggiatori. Ma ci fu una sparatoria davanti al Partito e un proiettile la colpì, uccidendola. Il partito fece costruire il monumento in onore della vittima incolpevole fulminata la sera del 10 settembre 1919 per umana follia delittuosa e da allora custodisce le salme di tutti gli Zigoli, del fratello Toselli - che cadde eroe sul Montello respingendo l'invasore, e che di certo portava il suo destino scritto nel nome, chiamandosi come l'eroico maggiore morto per difendere la postazione italiana sull' altipiano dell'Amba Alagi - di Giuseppe, di Barbara - diventata cieca, si narra, dal gran piangere la morte dei figli - di Natale, di Esmeraldo - che tutti chiamavano solo Smeraldo e, chissà perché, la E del nome sulla lapide continua sempre a cadere.
Ci colpisce il Cristo effigiato da Giacomo Zilocchi per la famiglia Soriani, e il monumento alla imperitura e gloriosa memoria dei livornesi morti a Mentana, ma anche la tomba che aspetta la salma del giovanetto ventenne Alfredo Z. che colpito da contagioso malore giace in terra straniera ove vige una legge che vieta per dieci anni l'esumazione. Morto a Marsiglia nel 1882. Ci chiediamo se il giovanetto è poi mai tornato a casa.
Inoltrandoci lungo il viale, i monumenti si fanno più maestosi e insieme più moderni, riconosciamo i nomi di tante famiglie note a Livorno in campo commerciale e portuale, dai Fremura, ai Debatte, ai Tanzini ai La Comba. Alcune tombe presentano simboli laici e religiosi diversi, dalle menorah, i candelabri ebraici a sette braccia, a disegni massonici.
Il cimitero ospita anche i sacrari che raccolgono le spoglie dei partigiani, dei caduti della guerra 1915-1918, delle vittime civili e militari del secondo conflitto mondiale e dei militari italiani e inglesi morti nell'incidente aereo del 1971, quando, il 9 novembre, un aereo inglese della R.A.F cadde in mare al largo della Meloria col suo carico di giovani parà italiani.
Tanti nomi scorrono sotto i nostri occhi, soldati che hanno perso la vita combattendo, civili morti sotto i bombardamenti, come la ventitreenne Lora, ma anche lapidi in ricordo di morti ignoti a noi ma noti a Dio.
Il "Quadrato dei Francesi" costituisce l'area delle tombe dei soldati caduti durante la Grande Guerra, alcuni dei quali di origine musulmana. Le salme sono allineate, i cattolici hanno una croce mentre i musulmani un arco. Ma si vede che questi morti erano destinati a non riposare in pace, che l'orrore della guerra doveva inseguirli anche nell'al di là, se nel settembre del 1943 "una bomba di grosso calibro ha distrutto 34 su 54 delle tombe", e i resti sono raccolti ora sotto un'unica lapide.
L'immagine di pace e gradevolezza, di camposanto ben conservato, scema man mano che ci avviciniamo al loggiato. Giungiamo all'intercolonio, sotto il porticato di Unis, che ospita notevoli opere marmoree apuane. Qui regnano abbandono e degrado, i piccioni hanno imbrattato con i loro escrementi il pavimento e le tombe; tutto è decadenza, disfacimento, vediamo segnali di lavori in corso che sembrano non progredire mai. Fuggiamo assaltati da sciami di zanzare provenienti dal vicino torrente. Preferiamo il mese di novembre, quando i cieli sono solcati da nugoli di stormi che disegnano ghirigori fra i cipressi.

A est sorge il nuovo complesso di loculi, molto ben tenuti, al contrario delle logge; verso sud troviamo Tempio Cinerario, un'imponente struttura monumentale realizzata nei primi anni del novecento per conto della Società di Cremazione. Chi ha visto cremare un proprio caro, sa cosa si prova quando la bara entra nel forno, scorrendo sul carrello, e quando poi, a operazione ultimata, l'addetto ti porge un pennello col quale raccoglierti da solo la cenere del tuo estinto.
Cartelli affissi sui colombari ci informano che gli ossari hanno durata di trenta anni mentre i loculi di cinquanta, dopodiché si procederà all'estumulazione d'ufficio e alla dispersione di resti e ceneri in ossari comuni, ma il pensiero sul momento non c'inquieta.
Altre aree del cimitero sono dedicate alle diverse comunità religiose e nazionali presenti a Livorno, come il "Quadrato degli Evangelisti".
Il "Quadrato dei Valdesi" e il "Quadrato dei Turchi" sono due cimiteri preesistenti inglobati nel sepolcreto attuale, che copre 110.000 mq e ospita circa 190.000 salme. Nel riquadro turco ci colpiscono le scritte in arabo e la tomba di Memet Neyal turco nativo di Alessandra d'Egitto modello di pubbliche e private virtù cittadine disinteressato usò le sostanze a protezione degli amici. Ci rincresce scoprire che morì nel 1846.

Un arco del 1893 accoglie i nomi di tutti i livornesi che prestarono servizio nelle schiere di Garibaldi, alcuni dei quali sono sepolti sotto lapidi ornate dal berretto garibaldino. Se questi morti ci suscitano rispetto e interesse storico, fanno invece accapponare la pelle quelle di ragazzi mancati nel fiore degli anni, ricoperte di peluche, di vecchi giocattoli rovinati dalle intemperie, di biglietti ingialliti di fidanzatine, di gagliardetti amaranto.
Con questo triste pensiero ci avviamo all'uscita, ma prima ci soffermiamo di fronte alla lapide dedicata a Bruna Barbieri, detta la Ciucia, popolana forte, generosa, sempre pronta a donare, a prendere per subito dare, piena di passione, di slancio, antifascista ma benvoluta persino dai suoi nemici che ne riconoscevano la forza, l'innocenza selvaggia. La lapide è stata fortemente voluta dalla pronipote Tiziana e così recita
"In ricordo di Bruna Barbieri detta La Ciucia. Nata e vissuta nel rione della Venezia, anima pura, cuore generoso, esempio di rara generosità, dispersa tra le atrocità dell'ultima guerra".

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Un assaggio di Bianca come la Neve

12 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

Un assaggio di Bianca come la Neve

“Bianca come la neve”, disse mio padre, “così la voglio, questa figlia del desiderio.”
Mia madre cuciva accanto alla finestra, si punse, gocce di sangue bagnarono il gelido cuscino sul davanzale. Si voltò allora verso mio padre, posò il lavoro, gli tese quella mano diafana che già presagiva la sua morte: “Sì, bianca, come la neve”, disse col suo molle sorriso, “ma anche rossa, come il sangue. Sarà nostra, sarà parte di me e di te, sarà l’impronta del nostro amore.”
Nacqui con la pelle trasparente, vene blu di sangue nobile e labbra vermiglie.
Le donne che assistettero al parto sorrisero, “bella”, dissero, “questa bambina.”
Mia madre mi mise fra le mani il rosario che padre Bernardu le aveva dato, fece il segno della croce sulla mia fronte. “Che Dio ti protegga, figlia del nostro amore.”



Parla Radu Florescu.
Fu quando lei si punse ed io mi voltai. Vidi il sangue sul davanzale. Tre gocce che spiccavano sulla neve candida, sul nero dell’ebano. Bianca come la neve, nera come l’ebano, più bella di tua madre, più bella di tutti, più desiderabile e desiderata, Bianca, figlia mia.



Mia madre mi portava con sé nelle visite in paese. Entravamo, casa per casa, lei sempre bella ed elegante. Chinando la testa per varcare le povere soglie, un poco tossiva ed il suo passo era stanco. Non ci badavo, perché, “bella bambina”, mi diceva la gente, “occhi come il fondo del lago.”
Scoprii in quei giorni di essere bella, ma vidi anche bambini vestiti di stracci in mezzo alla neve, bocche sdentate, gambe rattrappite e pelli deturpate dal vaiolo. “Non tutti hanno pane in tavola”, diceva mia madre. M’insegnava ad avere pietà di chi non era fortunato come noi. “Bianca”, ripeteva, “noi Florescu abbiamo da secoli la responsabilità di questa gente”. Gli stivaletti sporchi di letame fino alla caviglia, il visone inzaccherato di fango, mi tendeva la mano, io stringevo le sue unghie come mandorle rosa, guardavo nel fondo degli occhi uguali ai miei, e sentivo di amarla perché era buona.
L’ha detto anche padre Bernardu che mia madre era buona, “una donna pietosa”, ha detto, “una figlia amata da Dio. L’amava tanto che l’ha voluta accanto.”
Dio sceglie per sé i più puri, quelli come me li lascia qui, per sempre.


Parla padre Bernardu.
Dio vede e provvede, Bianca, Dio ha a cuore la tua anima.
Tua madre si confessò a me poco prima che tu nascessi. “Padre Bernardu,” mi disse, “di giorno ero la contessa pietosa, che visitava le case dei poveri, ma di notte bevevo latte di lupa per concepire. Il desiderio, padre, era più forte della paura. Quando mi sono punta, quel giorno mentre cucivo, il sangue mi chiamava dal davanzale. Ma oggi tremo per la mia creatura.”
Pregai con lei, poi le misi fra le mani il mio rosario. “Dallo al bambino o alla bambina che nascerà.”
“Sarà una femmina, padre e, attraverso lei, io non morirò”
Ma a non morire sei stata tu, Bianca.



Mancava l’odore del pane, il mattino che trovarono mia madre morta nel letto. Aprii gli occhi, l’odore non c’era, e la pelle mi s’increspò di un brivido lungo anche a primavera. Lei non morì col buio e col freddo, morì all’alba, accolta dal sole che le somigliava. Fuori della finestra cantavano gli uccelli.
Mio padre pianse nella sua stanza e non lo vidi fino al giorno del funerale. La pioggia m’inzuppava il pellicciotto, me lo faceva pesare addosso, non capivo più se era il fardello del pelo intriso d’acqua o l’angoscia ad opprimermi.
Mio padre non ha mai saputo che gli ho disobbedito, che sono entrata nella camera proibita dove, mi dissero, mia madre dormiva e non si poteva disturbare. La morte non è dolce come ci vogliono far credere. Quando la vidi, contornata da ceri ardenti, mia madre era già come creta dilavata dall’acqua, come cenere grigia, come vetro senza colore. Era un guscio vuoto, anima e vita svaporate in quel primo sole che l’aveva portata via.
“Io non morirò”, giurai. E forse fu in quell’istante che il mio destino si compì, forse Dio mi ascoltò.
Calarono mia madre nella fossa, la terra che scendeva giù in rivoli scuri, i fiori che si sfarinavano sul legno. C’erano tutti al funerale. Gente ricca ed elegante, i Badescu e i Visnic, gli Tsepes, persino un emissario del re, e gente povera, col maialino alle calcagna, con i piedi gelati nell’erba acquitrinosa del cimitero.
Goran, terzo marchese Badescu in linea di successione, mi fissava da dietro le gambe di suo padre, la zazzera nera incollata alla fronte, le labbra imbronciate. Avevo giocato con lui quando andavamo in visita al castello sulla collina.
Io guardavo le facce e cercavo il viso di mia madre, lo ricostruivo dentro, come ho fatto da allora ogni giorno della mia vita. Volevo star sola ed insieme volevo che la gente si accorgesse di me. Cercavo gli occhi di mio padre ma li vedevo lontani, vedevo più rughe sulla sua fronte. “Madre”, chiamavo in silenzio, “dove ti potrò raggiungere?”

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Un assaggio de "Il volo del Serpedrago"

10 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

Un assaggio de "Il volo del Serpedrago"

Una ferita nella roccia rossa. Una bocca color ocra aperta nell’azzurro di un cielo che non conosce nuvole: la catena degli Ohnigah che si spacca in due prima di scendere sulla pietraia, i monti scavati dal letto secco dell’Egelloch. Di qua e di là del greto asciutto, il palmeto, nastro di smeraldo in un universo di terra rossa.

È tutto quello che Ahnu conosce del mondo, solo la sua oasi fra i monti del deserto, una piccola sorgente racchiusa nel cuore del palmeto. Durante i lunghi e infuocati mesi estivi, quella è tutta la sua acqua, torbida e fangosa, ma pur sempre acqua. A turno, un uomo fa la guardia alla pozza, da cui si possono attingere solo pochi secchi il giorno, tre per gli Ohnigah e uno per i pastori Somiah.

L’uomo che l’ha allevata le ha detto che suo padre è morto in battaglia, affidando la a lui, misero pastore Somiah fra i più poveri del villaggio. Ogni giorno l’uomo silenzioso porta le sue pecore ai margini dell’oasi. Camminano a testa china, brucando radi fili d’erba nella polvere. Il cammello si spinge un poco più lontano e col naso sposta i sassi per strappare fili d’erba secca, seguito dallo sguardo stanco, ma mai distratto, del pastore, che rosicchia datteri sputando noccioli nella sabbia.

Ahnu rimane tutto il giorno da sola nella capanna, un muro tondo di paglia e fango coperto da foglie di palma. Ogni mattina attinge il suo secchio alla pozza, cercando di non versarne nemmeno una goccia. Le sue mani reggono a stento il recipiente, mentre le altre bambine, dalla pelle lucida e scura, si divertono a spingerla. Lei cerca di non perdere l’equilibrio, fin quando vede, impotente, l’acqua oscillare nel secchio, debordare, rovesciarsi sulla polvere assetata. Là, dove prima si era creato un vortice di sabbia bagnata, resta solo una macchia umida. Lei alza gli occhi, li fissa in quelli delle altre bambine e una furia gelida le monta dentro. Vorrebbe ucciderle, stringere le mani attorno ai colli, far strabuzzare gli occhi bianchi e malevoli. Invece torna a casa col secchio vuoto. Sa che lui la sgriderà, ma non piange. Muta e ostinata va a raccogliere i datteri, poi prepara i formaggi che racchiude in forme di paglia. Un velo bianco di polvere ricopre tutte le cose e spicca sulla pelle nera dei bambini, le cui narici sono incrostate di mosche. Le madri sanno che una prima crosta d’insetti morti protegge i figli dall’assalto di quelli vivi. Ahnu cerca di difendere i suoi formaggi sventolando foglie di palma, mentre i bambini si rotolano nella sabbia ridendo e i vecchi chiacchierano accosciati.

A sera, quando il sole svapora dietro le palme, intreccia cesti in solitudine, davanti alla porta della capanna, sperando che l’uomo che l’ha allevata torni più tardi possibile o non torni mai più.

La fiamma guizza con lunghe lingue giallo arancio dalla terra battuta, il chiarore si diffonde a illuminare i muri dell’immensa fortezza. Una sentinella accovacciata in un angolo fissa distratta il bagliore.

Nel cuore della fiamma, una bimba intreccia cesti di palma. Ha i capelli chiari, i piedi avvolti in pelli di cammello.

“Vai da lei.”

La voce echeggia nella volta smisurata, la figura ammantata scompare in un buio corridoio laterale. La sentinella si alza e richiude la porta di legno che il suo signore ha attraversato.

Davanti alla fiamma rimane solo una strana creatura, che guarda perplessa l’immagine femminile che va dissolvendosi.

L’uomo raduna le pecore nel recinto dietro la capanna e lega la cammella sotto una palma. Ahnu lascia il cesto e, indifferente, entra in casa. Può vederla china sulle ciotole di coccio e sui piccoli canestri di datteri marroni. Sta crescendo, pensa, troppo in fretta.

Questa sera si sente più stanco del solito. E’ diventato vecchio senza mai riuscire a farsi amare da lei. Hanno vissuto insieme da quando la donna dalla pelle come la luna è morta, lasciando nelle sue braccia una bambina pallida, con gli occhi indagatori spalancati su un mondo ostile. L’ha chiamata Ahnu, dattero, un nome comune fra le raccoglitrici del palmeto, ed è cresciuta dura come una pietra e ostinata come un cammello riottoso. Meglio così, mille volte meglio così, meglio che lo chiami solo pastore, che non gli parli, che non senta la sua mancanza quando è fuori col gregge.

L’uomo mangia la sua cena a base di datteri e formaggio, poi si distende sulla coperta. Sente gli occhi pesanti e le membra indolenzite, ma il sonno tarda a venire. Il lavoro gli sembra sempre più faticoso, il freddo notturno l’ha arrugginito e la sua barba è bianca, la pozza dei suoi giorni sta per inaridirsi e la sabbia coprirà presto le sue ossa, ne è certo com’è certo che ritroverà il sole al risveglio e le palme polverose attorno alla capanna.

Non può lasciare Ahnu sola in questo mondo, si ripete rigirandosi sul duro terreno, deve assolutamente prendere una decisione, prima che sia troppo tardi.

La brezza si è sopita e il sole brucia già impietoso una metà del cielo. Le mosche stanno arrivando a nugoli attorno ai formaggi col loro sconcio ronzio. Ahnu modella un vaso d’argilla, le bianche mani affondate nel verde putrescente dell’antimonio di cui è pregna la terra delle sue valli. Pensa alla vita, sa di essere sola al mondo, sa che non sarà mai come le altre bambine. Non ha chiesto all’uomo che l’ha allevata perché la sua pelle sia così bianca, perché i suoi capelli siano chiari come l’erba inaridita, ma ha la certezza di non piacere a nessuno. Lo sente da come la guardano, da come bisbigliano, da come si danno di gomito quando lui le è vicino e da come, poi, la aggrediscono se lui non c’è. Le donne fanno strani segni di scongiuro al suo passaggio. I bambini tirano fuori la lingua, i vecchi la osservano da lontano. Nessuno la vuole accanto e lei non vuole nessuno accanto a sé. La solitudine un tempo subita è ora la sua compagna più fida.

Alza la testa perché qualcosa la sta osservando. Due occhi brillano pallidi fra il verde delle palme. Ahnu s’irrigidisce, scatta in piedi, indietreggia. E’ ancora piccola ma ha imparato a stare all’erta, glielo ha insegnato l’uomo che l’ha allevata, con lo sguardo, con la postura del corpo, con sibili e cenni.

Fra le foglie spunta un muso. L’essere somiglia a un rettile, ma ha piccole ali appena accennate sulla schiena e squame traslucide come scaglie di pesce. Le parla.

“Ho delle notizie per te”, lo dice sottovoce, lo dice attraverso una bocca coperta di denti aguzzi, e intanto muove la coda come un felino nervoso, “il mio padrone annuncia che avrai catene di gialla ambra, nerofumo per gli occhi e fiori d’ibisco per i capelli.”

Ahnu ha finito d’indietreggiare, ora non c’è più spazio, si appoggia al tronco di una palma, ha troppe domande che le urlano in gola. Ma le piccole ali sbattono, la creatura spicca un volo basso, radente, che scortica tronchi e fa cadere datteri a terra. Ancora non si è dileguata e già lei si chiede se non c’è un’altra vita fuori dall’orlo del palmeto, se essa scorra solo sui ritmi dell’Egelloch e sulla nascita degli agnelli. Annusa le mani che sanno di caglio, si domanda cos’è questo dolore che le esplode dentro. Della creatura non c’è più traccia, rimane solo la calura abbacinante dell’aia polverosa, il fetore dei datteri che marciscono al sole e gli escrementi di uomini e greggi.

Nel cuore della fortezza lo Spirito del Deserto annuisce compiaciuto. L’unica persona al mondo in grado di fare ciò che desidera, gli sta regalando la sua anima e la sua volontà.

L’ha svegliata quando i monti di argilla purpurea s’infuocano dei raggi del primo sole. “Sento scemare le mie forze”, le ha detto. L’ha visto rabbrividire nel caldo, come se una mano fredda gli percorresse le membra affaticate. “Sali sul cammello”, le ha ordinato. Non è mai brutale, ma nemmeno gentile.

“Vuoi vendermi, pastore?”

“No.”

Ora stanno uscendo dal palmeto. “Lui la porta via”, sente bisbigliare dalle donne che riempiono i secchi. Hanno sguardi ottusi e cattivi fissi su di lei. Ai lati del sentiero che conduce fuori dell’oasi si profilano i tronchi ruvidi delle palme. Il terreno, cosparso di noccioli rinsecchiti ed escrementi, esala un odore sgradevole.

L’universo è piatto e sempre uguale a se stesso, pensa Ahnu.

Poi, però, è fuori.

La luce del mattino la abbaglia, tanto forte è il riverbero da impedirle di guardare. Eppure solleva la testa, incredula, non più protetta dal fogliame. L’intenso cobalto del cielo si rovescia su di lei, che ha sempre visto la volta a spicchi, a barbagli diurni e notturni. Pensa di annegare e invece sta solo guardando il deserto di là del palmeto: un’immensa distesa sabbiosa, punteggiata di pietre. Attorno a lei, a perdita d’occhio, il confine del nulla: l’orizzonte dei monti che tremolano nell’azzurro, con le cime vermiglie battute dal vento. Per la prima volta, intuisce cosa possa essere la libertà.

Il pastore guida il cammello lungo il greto asciutto dell’Egelloch. Rade pozze stagnano ai bordi del fondo argilloso, contornate da cespugli avidi d’acqua. Ora può vedere da fuori il palmeto, sotto le cui fronde ha vissuto, riparata e insieme soffocata: è un nastro verde, uniforme e lucente.

All’improvviso l’uomo, che sta seguendo un percorso noto a lui solo, svolta e si avvia in direzione delle montagne. Qualche rada kasba fortificata brilla scarlatta nel sole. I monti Ohnigah appaiono vicini nella grande distesa e le cime formano una catena ininterrotta. Il pastore tace, concentrato nello sforzo di camminare. La pista segnata da pietre appuntite comincia a inerpicarsi lungo un pendio, il cammino si fa più ripido, l’uomo ansima, tossisce, sputa. Lei è indifferente alla sua sofferenza, mentre vanno avanti nella calura insopportabile. Il sudore svapora in fretta, lasciando la pelle secca, rovente. La sete non si placa, le gambe si appiccicano al pelo sporco del cammello, i parassiti addentano la carne.

Rosicchiano qualche dattero e succhiano un po’ d’acqua strada facendo, senza fermarsi.

Dopo alcune ore, Ahnu ha la schiena a pezzi, e l’uomo appare stremato. Sa che domandare a lui è inutile, non ha risposto ai suoi perché di bambina, forse non li ha nemmeno mai ascoltati. Allora parla con se stessa, come ha imparato a fare nei lunghi giorni di solitudine, cerca il motivo di quel viaggio, vuol tornare indietro con la memoria, ma non ha ricordi. Non sa chi fossero suo padre e sua madre, non conosce altri volti che quelli delle persone che vivono nell’oasi forse lasciata per sempre. Ripensa alla creatura con le piccole ali e i denti affilati. L’inquietudine è una lama che trafigge il petto.

Infine le ombre si allungano, giù nella valle, e le pareti dei monti si tingono di un riflesso violaceo. L’uomo acconsente a una breve sosta, durante la quale bevono ancora. La gola è riarsa, le parole, se uscissero, sarebbero secche di polvere, ma non escono, nessuno dei due parla. Il nudo versante su cui si sono arrampicati è ormai tutto in ombra, qualche folata di brezza serale ghiaccia il sudore sulle schiene rotte e incolla i vestiti addosso. L’uomo ora sembra diventato vecchio, l’affanno gl’impedisce di respirare. “Riprendiamo il cammino”, dice, “l’oscurità qui cala repentina, come se i fuochi dei palmeti cessassero di ardere tutti insieme.” Così ripartono, lei ciondolante, lui con la schiena curva e una mano abbrancata al collo peloso del cammello.

D’un tratto Ahnu ha paura delle ombre, delle montagne cupe ed echeggianti, dei serpenti che scivolano fra le zampe del cammello, dei sassi che rotolano giù per il burrone. “Pastore, così ti ucciderai!” No, è per lui che ha paura. Lui è come le rocce, è come la sorgente al centro dell’oasi: non lo ama ma non può immaginare che muoia. Spera che la salita finisca presto, che lui possa riposare.

Gli ultimi bagliori si stanno spegnendo sulle creste degli Ohnigah quando Ahnu, insonnolita e vacillante, alza la testa e guarda in fondo al grigio sentiero di sassi che stanno percorrendo. Un po’ più in basso della cima si stende un vasto altopiano, che s’incunea come una valle fra le vette. Davanti a loro, a ridosso della parete rocciosa, dove il sentiero si stempera nel pianoro, si vede una casupola di pietre scure.

Un filo di fumo esce dal tetto.

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L'antico cimitero degli inglesi

8 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #luoghi da conoscere

L’associazione Livorno delle Nazioni ha presentato il lavoro svolto per la conservazione del patrimonio culturale e monumentale della nostra città e, in particolare, la riscoperta e riqualificazione dell’antico cimitero degli inglesi in via Verdi. L’associazione è attualmente formata da 5 persone: Sarah Thompson, Matteo Giunti, Francesco Ceccarini, Lisa Lillie e Stefano Ceccarini. S’ispira alla Livorno delle Nazioni, comunità multietnica nata dalle leggi Livornine, promulgate dal Granduca Ferdinando I° a partire dal 1590. Per favorire l’economia e il ripopolamento di una zona malsana e malarica, si permise alle comunità ebraiche prima, e a tutte le altre poi, di stabilirsi in città. Lo scopo principale era attirare le ricche comunità sefardite. La Santa Inquisizione di Pisa, tuttavia, non era lontana e chi professava un’altra fede, anche se protetto da leggi speciali, doveva farlo con cautela e senza ostentazione. Erano proibiti i luoghi di culto non cattolici e anche i cimiteri. Prima della costruzione del cimitero, chi moriva straniero nella nostra terra finiva seppellito fuori le mura, insieme agli animali. Gli studi compiuti dall’Associazione hanno portato a nuove scoperte e a ribaltare molte teorie. La data scritta sul cartello in Via Verdi è sbagliata di almeno cento anni. Si è scoperto a Londra il testamento di un mercante inglese redatto nel 1643. Egli lascia 150 sterline per l’acquisto di un terreno di sepoltura per la nazione inglese a Livorno. Risale a tre anni dopo, 1646, la prima e più antica sepoltura, nell’angolo in alto a sinistra del cimitero, appartenente, guarda caso, a Daniel Oxenbridge, un amico di chi ha redatto il testamento. Quello di Via Verdi è il più antico cimitero inglese d’Italia, il più antico cimitero di Livorno e, addirittura, il più antico cimitero inglese del mediterraneo. Ha accolto 450 tombe dal 1646 al 1840 su mezzo ettaro di terreno. La sua importanza storica è notevolissima. Nel 1735, in una mappa, è già definito cimitero vecchio. L’autorizzazione ufficiale alle sepolture arrivò soltanto nel 1737, da allora, tutti coloro di religione non cattolica che si trovavano a morire nelle vicinanze venivano sotterrati qui, anche se non abitavano a Livorno. Era l’unico luogo in Italia in cui potevano essere interrati i protestanti di tutta l’Europa, ugonotti, valdesi, svedesi, svizzeri etc. L’ingresso principale è a U, prima della guerra c’erano un muretto basso e una cancellata ora distrutti. Nel periodo della sua costruzione il cimitero era vicino a postazioni militari e per questo motivo non poteva avere muri né monumenti troppo alti. Farsi una tomba nel cimitero inglese era costoso, almeno quanto il rimpatrio della salma, e solo i più abbienti potevano permetterselo. Principalmente si tratta di ricchi mercanti con le loro famiglie. Si è notato un raggruppamento di sepolture per corporazioni. La tomba più famosa e più visitata è quella dello scrittore scozzese Tobias Smollett, (1721- 1771) autore, fra l’altro, del famoso "The Expedition of Humphry Clinker". Smollett abitava a Montenero, morì nel 71, anche se sulla lapide è scritto erroneamente 73. La sua tomba non si differenzia da molte altre simili, ricorda un obelisco, secondo la moda dell’egittologia che imperversò dopo le spedizioni napoleoniche in Africa. Adesso è estremamente spoglia, sono state trafugate le parti in metallo, la sfera di marmo sulla sommità e le altre quattro sfere laterali. I turisti, anche quelli del settecento, spogliavano la tomba per portarsi a casa un pezzo di marmo come ricordo. È sepolto qui anche l’esploratore William Broughton, la sua tomba è stata ritrovata sopra un’altra. Durante la seconda guerra mondiale, infatti, il cimitero fu devastato dai bombardamenti. Due fotografie rinvenute a Londra lo dimostrano. Alla fine della guerra, le tombe bombardate furono malamente e frettolosamente ricomposte con pezzi dell’una aggregati all’altra ed è difficile ormai stabilire cosa appartiene a chi. Delle 130 tombe scomparse l’Associazione è riuscita fino a oggi a rintracciarne 30. Sono sepolti in questo cimitero molti appartenenti alla famiglia Lefroy, a partire dal nonno Antonio. I Lefroy sono noti perché ne parla Jane Austen che ha avuto uno sfortunato amore con uno dei discendenti. Troviamo anche: il barone Von Stosch, personaggio controverso, spia del governo inglese, amico dell’archeologo Winckelmann, che dette origine alla prima setta massonica del settecento; Francis Horner, parlamentare inglese amico di Ugo Foscolo; il padre di Vieusseux e un altro suo parente, Pietro Senn, fondatore della Camera di Commercio e della ferrovia Leopolda; John Wood, capitano del Peregrine, vascello protagonista della battaglia di Livorno del 1653, fra inglesi e olandesi; il tredicenne William Thompson, marinaio per il quale qualcuno ha voluto un destino diverso dalla sepoltura in mare; Louisa Pitt, amante di William Thompson Backford (1760 – 1844) autore del romanzo gotico Vathec; Mrs Mason, ovvero Margaret King, scrittrice e medico, pupilla di Mary Wollstonecraft, amica della di lei figlia Mary Shelley e del marito di quest’ultima Percy Bysshe Shelley, la quale aprì a Pisa un salotto frequentato dalle migliori menti dell’epoca. Un discorso a parte riguarda la tomba di William Magee Seton, marito di Elisabeth Seton, santa americana. Il parroco della parrocchia omonima è intervenuto nel 2004 con un escavatore in un terreno che non permette l’ingresso di tali mezzi - al punto che i volontari dell’associazione sono costretti a tagliare i rami pericolanti a mano. L’intervento di esumazione delle spoglie del marito di Elisabeth ha danneggiato gravemente la tomba. Da notare che William Seton era protestante e non cattolico. Il cimitero, come spiega Lisa Lillie, dottoranda all’università di Washington, non era pianificato perché le persone potessero passarvi del tempo, come nei grandi cimiteri di Pere Lachaise a Parigi o Highgate a Londra. Vi si notano tombe a prisma triangolare, di forma molto simile a quelle riscontrabili nei cimiteri ebraici in Olanda e nelle comunità sefardite, a conferma di un rapporto privilegiato fra la religione ebraica e quella protestante, entrambe basate sull’esegesi diretta dell’Antico Testamento. Le tombe dei cimiteri inglesi della Tunisia e della Grecia sono invece diverse. Oltre alla forma a prisma triangolare, si trovano anche lastre e monumenti misti a colonna, a obelisco e altri. I simboli iscritti sulle tombe diventano più complessi e più belli col procedere degli anni, man mano che dal seicento barocco si procede verso lo stile neoclassico della fine del settecento. Si hanno riferimenti alla dance macabre, secondo una moda venuta in auge dopo la peste del trecento, alla fenice, al melograno - collegato al mito di Persefone - all’ouroborus, il serpente che si mangia la coda, alle torce, alle mani intrecciate. L’Associazione ha operato il censimento e il mappaggio delle tombe, sia quelle in loco, sia quelle riscontrabili solo sui documenti, elaborando un database integrato con gli studi di tutta Europa e imperniato sulla pianta dell’architetto Soggi. I volontari si dedicano alla pulizia, al taglio dell’erba e alla raccolta dei rifiuti. Hanno cercato anche di proteggere il camposanto durante i lavori invasivi per la costruzione del parcheggio nell’area dell’ex cinema Odeon. Una collaborazione con la facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, rappresentata dal professor Giacomo Lorenzini, ha prodotto nuove conoscenze sulla vegetazione presente, sfatando la leggenda della presenza del famoso olmo della Virginia che è, in realtà, un bagolaro. L’Associazione ha cominciato a occuparsi anche del nuovo cimitero inglese, del 1840, in via Pera, attualmente non visitabile perché pericolante.

With the Livornine laws, promulgated by Grand Duke Ferdinando I °, starting from 1590, to favor the economy and the repopulation of an unhealthy and malarial zone, the Jewish communities were allowed first, and then all the others, to settle in Livorno. The main purpose was to attract the rich Sephardic communities.

The Holy Inquisition of Pisa, however, was not far away, and those who professed another faith, even if protected by special laws, had to do so with caution and without ostentation. Non-Catholic places of worship and even cemeteries were prohibited. Before the construction of the English cemetery, those who died strangers in Italy ended up buried outside the walls, together with the animals.

The studies carried out by the Livorno delle Nazioni Association have led to new discoveries and to overturn many theories about the English cemetery in via Verdi. The date written on the sign is at least a hundred years wrong. The will of an English merchant drawn up in 1643 was discovered in London. He leaves £ 150 for the purchase of burial ground for the English nation in Livorno. The first and oldest burial in the upper left corner of the cemetery dates back to three years later, 1646, belonging, coincidentally, to Daniel Oxenbridge, a friend of those who drafted the will.

That in Via Verdi in Livorno is the oldest English cemetery in Italy, the oldest cemetery in Livorno and, even, the oldest English cemetery in the Mediterranean. It housed 450 tombs from 1646 to 1840 on half a hectare of land. Its historical importance is very remarkable. In 1735, on a map, it is already defined as an old cemetery. Official authorization for burials only came in 1737, since then, all those of non-Catholic religion who found themselves dying nearby were buried here, even if they did not live in Livorno. It was the only place in Italy where Protestants from all over Europe, Huguenots, Waldensians, Swedes, Swiss etc. could be buried.

The main entrance is U-shaped, before the war there was a low wall and a railing now destroyed. During its construction the cemetery was close to military posts and for this reason it could not have walls or too high monuments.

Making a grave in the English cemetery was as expensive as the repatriation of the body, and only the wealthiest could afford it. Mostly they are wealthy merchants with their families. A grouping of guild burials has been noted.

The most famous and most visited tomb is that of the Scottish writer Tobias Smollett, (1721-1771) author, among other things, of the famous The Expedition of Humphry Clinker. Smollett lived in Montenero, died in 71, even if it 73 is written incorrectly on the tombstone. His tomb does not differ from many other similar ones, recalls an obelisk, according to the fashion of Egyptology that raged after the Napoleonic expeditions to Africa. Now it is extremely bare, the metal parts, the marble sphere on the top and the other four lateral spheres have been stolen. Tourists, even those of the eighteenth century, stripped the tomb to take home a piece of marble as a souvenir.

The explorer William Broughton is also buried here, his grave was found on top of another. During the Second World War, in fact, the cemetery was devastated by bombing. Two photographs found in London prove this. At the end of the war, the bombed tombs were badly and hastily reassembled with pieces of one aggregated to the other and it is now difficult to establish what belongs to whom. Of the 130 missing tombs, the Association has managed to track down 30 to date.

Many members of the Lefroy family are buried in this cemetery, starting with grandfather Antonio. The Lefroys are known for talking about Jane Austen who had an unfortunate love affair with one of the descendants.

 

We also find:

 

Baron Von Stosch, a controversial figure, spy of the English government, friend of the archaeologist Winckelmann, who gave rise to the first Masonic sect of the eighteenth century;

Francis Horner, English parliamentarian friend of Ugo Foscolo;

Vieusseux's father and another relative, Pietro Senn, founder of the Chamber of Commerce and the Leopolda railway;

John Wood, captain of Peregrine, vessel protagonist of the battle of Livorno in 1653, between the English and the Dutch;

thirteen-year-old William Thompson, a sailor for whom someone wanted a different fate than burial at sea;

Louisa Pitt, lover of William Thompson Backford (1760 - 1844) author of the Gothic novel Vathec;

Mrs Mason, or Margaret King, writer and doctor, pupil of Mary Wollstonecraft, friend of her daughter Mary Shelley and of the husband of the latter, Percy Bysshe Shelley, who opened a lounge in Pisa frequented by the best minds of the time.

A separate discussion concerns the tomb of William Magee Seton, husband of Elisabeth Seton, an American saint. The parish priest of the homonymous parish intervened in 2004 with an excavator in a terrain that does not allow the entry of these vehicles - to the point that the association's volunteers are forced to cut the dangerous branches by hand. The exhumation of the remains of Elisabeth's husband seriously damaged the tomb. Note that William Seton was Protestant and non-Catholic.

The cemetery was not planned for people to spend time there, as in the large Pere Lachaise cemeteries in Paris or Highgate in London.

There are triangular prism tombs, very similar in shape to those found in Jewish cemeteries in Holland and in the Sephardic communities, confirming a privileged relationship between the Jewish and Protestant religions, both based on the direct exegesis of the Old Testament. The tombs of the English cemeteries of Tunisia and Greece are different. In addition to the triangular prism shape, there are also mixed tombstones and monuments in column, obelisk and others.

The symbols inscribed on the tombs become more complex and more beautiful as the years go by, as from the seventeenth century Baroque one proceeds towards the neoclassical style of the late eighteenth century. There are references to dance macabre, according to a fashion that became popular after the plague of the fourteenth century, to the phoenix, to the pomegranate - connected to the myth of Persephone - to ouroborus, the snake that eats its tail, torches, and entwined hands.

The Association carried out the census and mapping of the tombs, both on site and those found only on documents, developing an integrated database with studies from all over Europe and centered on the plan of the architect Soggi. Volunteers are dedicated to cleaning, cutting the grass and collecting waste. They also tried to protect the cemetery during the invasive works for the construction of the parking lot in the area of ​​the former Odeon cinema.

A collaboration with the Faculty of Agriculture of the University of Pisa, represented by Professor Giacomo Lorenzini, has produced new knowledge on the vegetation present, dispelling the legend of the presence of the famous Virginia elm which is, in reality, a hackberry.

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Il museo Fattori

6 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #pittura, #luoghi da conoscere

Il museo Fattori

Entrando nella storica villa Mimbelli che ospita il Museo Fattori, ci vengono incontro gli affreschi di Annibale Gatti, la sala da fumo in stile moresco, la scala decorata con putti in ceramica invetriata. Attraversiamo poi le sale dove sono conservati i dipinti dei macchiaioli, Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Telemaco Signorini e dei post macchiaioli, Giovanni Bartolena, Vittorio Matteo Corcos, Oscar Ghiglia, Ulivi Liegi, Guglielmo Micheli, Plinio Nomellini, Llewellyn Lloyd, Raffaello Gambogi etc.
Fra i macchiaioli, attivi dal 1855, e i post macchiaioli c’è un ventennio, che ha trasformato la forza delle pennellate di Fattori in manierismo sempre meno verista e più decadente.
La sala di Fattori è inconfondibile, ti devi sedere davanti ai grandi quadri di battaglie e paesaggi, con quella botta nello stomaco che dà l’arte vera e che non puoi descrivere con nessuna nota accademica.

Pennellate grosse, personaggi tozzi, pantaloni sformati dall’uso, buoi e pagliai, battaglie risorgimentali con cavalli impennati. Il rinnovamento verista è declinato in stile toscano, maremmano, in opposizione alle rovine romantiche, alle dame in pose languide, ai poeti pensosi. Le immagini sono contrasti di macchie di colore, ottenuti tramite la tecnica chiamata dello specchio nero, utilizzando uno specchio annerito col fumo che permette di esaltare i contrasti chiaroscurali all’interno del dipinto. Punti e linee sono eliminati perché non esistenti in natura e sostituiti da macchie di colore. Cronologicamente, i macchiaioli precedono gli Impressionisti francesi, e tendono alla riproduzione del presente, così com’è colto dall’occhio nell’immediato, senza sovrastrutture culturali, ma anche senza piena identificazione, piuttosto come testimonianza e commento.

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Il caffè Bardi

2 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #luoghi da conoscere, #pittura

Il caffè Bardi

Non ci fu solo il caffè Michelangelo a Firenze, quartier generale dei macchiaioli, nel quale Renato Fucini declamava i suoi sonetti fra l’ilarità generale, insieme all’amico Edmondo de Amicis, ci furono anche i caffè livornesi, luoghi di ritrovo di artisti e letterati, dove ribollivano fermenti culturali e avanguardie.
Nella Livorno della Belle Epoque, mentre il bel mondo si pavoneggiava sul lungomare e prendeva i bagni ai Pancaldi, il caffè Bardi, all’angolo fra via Cairoli e piazza Cavour, ospitò pittori, scultori, letterati, musicisti e autori di teatro, convogliando correnti artistiche che vanno dal simbolismo al post impressionismo.
Fondato nel 1908 da Ugo Bardi, che rilevò l’attività del vecchio caffè Carlo Ragazzi, fu frequentato da artisti di ogni genere ma anche da collezionisti e appassionati d’arte e divenne il ritrovo preferito del Gruppo pittorico Labronico.
Il proprietario era un amante dell’arte, un mecenate, creò un luogo di aggregazione e svago; i pittori che lo bazzicavano si divertivano a tracciare caricature degli avventori sul marmo dei tavolini, decorando i pilasti e le lunette. I giovani artisti occupavano il cantuccio di sinistra, che essi stessi avevano abbellito, in particolare Romiti e Natali vi lasciarono affreschi.
Lo frequentava Modigliani, nelle sue rare rimpatriate, che al caffè lasciò un rotolo di disegni su carta a quadretti. Fu qui, pare, che gli fu consigliato di “buttare nel fosso” le sue sculture, dando origine, molti anni dopo, alla famosa beffa delle teste di Modì.
Erano habitué del caffè pittori come Gino Romiti, Oscar Ghiglia, Giovanni Bartolena, Giovanni March ma anche scrittori come Gastone Razzaguta, che, in Virtù degli artisti labronici, ne ha lasciato un vivido ricordo, e ancora Giosuè Borsi e persino Dino Campana e Gabriele d’ Annunzio quando si fermavano a Livorno.
Nessuno sa, però, che poco più avanti, in via Cairoli, in un palazzo che oggi ospita uffici di professionisti, medici e assicuratori, c’era l’atelier di Rosachiara, casa di mode frequentata dalle signore del bel mondo. Rosachiara è famosa perché il suo uomo sfidò a duello Mussolini, quando ancora non era il duce.
Agli ordini della padrona, con mani svelte e alacri, le sartine creavano plissé, ricoprivano di stoffa minuscoli bottoni, aprivano asole per compiacere signore esigenti e viziate.
Fra tutte spiccava Ida, alta, con gli occhi azzurri, i capelli biondi. Era così bella che la padrona la chiamava ad indossare i vestiti per mostrarli alle acquirenti. Si alzava, allora, Ida, posava il lavoro, nascondeva le dita bucate dall’ago, la povera biancheria dimessa, si spogliava negli stanzoni ghiacci dagli alti soffitti, sfilava col suo passo fiero, trafitta dalle occhiate invidiose di signore sulle quali mai il vestito sarebbe caduto così bene. Lei le oltrepassava, altera, distaccata.
E poi, ridendo, le sartine scappavano in strada per una pausa, s’infilavano nel caffè Bardi, sotto gli sguardi ammirati di artisti, pittori, studenti e bancari, che non erano abituati a ragazze tanto audaci e moderne.
E chissà se Modigliani, stanco, disilluso, ubriaco, si sarà fermato ad ammirare il lungo collo immacolato di Ida, gli occhi brillanti, colmi di speranza in una vita che sarebbe stata lunga, sì, ma che non avrebbe mantenuto le promesse.
Il caffè chiuse nel 1921, alla vigilia della fondazione del partito comunista e dell’ascesa di Mussolini.

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Doris Duranti

31 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #cinema, #personaggi da conoscere

Doris Duranti

Doris Duranti (1917- 1995) al secolo Dora Durante, fu una delle prime dive del cinema italiano, attrice del filone dei “telefoni bianchi”, stagione cinematografica che va dal 1936 al 43, cosiddetto dalla presenza sul set di sofisticati telefoni bianchi, segno di benessere economico, a differenza dei più comuni telefoni neri. Ricorrenti in questi film erano gli accenni al divorzio, allora proibito, e all’adulterio, punibile col carcere. Fu anche denominato cinema déco per la forte presenza di oggetti di arredamento che richiamavano quello stile - insieme moderno, decorativo e kitsch - fatto di lacche, di legni intarsiati, di pelle di squalo o di zebra, di linee a zig zag, a V, a raggi. Nel cinema dei telefoni bianchi si rifletteva un’Italia entusiasta, rappresentata dallo stile architettonico razionalista, una società che voleva apparire benestante e urbanizzata, laddove, invece, era ancora rurale e affamata. L’ambientazione borghese richiamava le commedie statunitensi di Frank Capra.
Doris era bella di una bellezza aggressiva ed esotica - infatti, il ruolo che la fece conoscere fu quello di un’africana - si muoveva in modo elegante, era adatta a parti da femme fatale e peccatrice.
Nel film “Carmela”, tratto da un racconto di Edmondo de Amicis, si mostrò a seno nudo, dando scandalo, e anche il via alla famosa querelle con Clara Calamai, sua eterna rivale, che aveva fatto lo stesso ne “La cena della beffe”. Per tutta la vita, Doris ci tenne a dire che era stata ripresa in piedi, col seno naturalmente svettante e alto.
Proprio sul set di Carmela conobbe il gerarca Alessandro Pavolini, ministro della cultura, sposato con tre figli. Fu amore a prima vista, un amore prima osteggiato e poi approvato da Mussolini stesso. Alla caduta del regime, Pavolini, prima di essere ucciso, riuscì a farla fuggire in Svizzera, dove venne incarcerata e tentò il suicidio tagliandosi le vene. In seguito, sposò un poliziotto e con lui si trasferì in Sudamerica. Al ritorno in Italia, conobbe Mario Ferretti, famoso giornalista, ed emigrò con lui a Santo Domingo, dove aprì un ristorante e dove morì nel 1995.
Si ricordano, in particolare, i suoi ruoli in “Cavalleria rusticana”, tratto da una novella di Verga, “La contessa di Castiglione”, “Resurrezione”, trasposizione del romanzo di Tolstoj. Ha lavorato anche con i registi Alessandro Blasetti e Giuseppe Patroni Griffi.
“Calafuria”, del 1943, è ambientato nella nostra città ed è una delle sue più riuscite interpretazioni.
In vecchiaia, pubblicò un libro di memorie da cui il regista Alfredo Giannetti trasse il film televisivo: “Doris, una diva del regime.”

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Gli stabilimenti cinematografici Pisorno

29 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #cinema, #luoghi da conoscere

Gli stabilimenti cinematografici Pisorno

La fascia costiera fra Pisa e Livorno era già stata scoperta da Holliwood negli anni venti tanto che nel venticinque sono girate al Molo Novo alcune scene di un Ben Hur muto.

Nel 1933 l'ente Autonomo Tirrenia costruisce, su progetto di Antonio Valente, gli stabilimenti Tirrenia Film. L'anno dopo Giovacchino Forzano rileva la struttura, che sorge in una palude di rettili e zanzare, dove c'è solo un fortino della Guardia di Finanza detto Mezzaspiaggia. Risistematala con 500 mila lire, frutto della compartecipazione alle spese della famiglia Agnelli e da Persichetti, poi fondatore di una casa di doppiaggio, la trasforma negli Stabilimenti Pisorno, cosiddetti perché equidistanti fra Pisa e Livorno.

Forzano è autore di teatro, librettista del Gianni Schicchi, regista teatrale e cinematografico e mette in scena molte delle proprie opere ma è soprattutto amico e collaboratore di Mussolini, che già ha voluto fortemente Tirrenia come perla di architettura fascista e di delizie balneari. Gli stabilimenti devono servire anche a produrre propaganda e attirare consenso.

Non a caso uno dei primi film girati è, significativamente, "Camicia nera".

Il mare, la lunga spiaggia di sabbia fine, i fiumiciattoli, le pinete e le colline, rendono appetibile la zona per gli americani come location ideale di molti film, e gli stabilimenti occupano 500.000 mq. Nel periodo del suo splendore, la Pisorno diventa la prima capitale del cinema, prima ancora di Cinecittà, vi recitano attori del calibro di Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Amedeo Nazzari, Domenico Modugno, Vittorio Gassman. Klaus Kinski, Philippe Noiret, la famiglia de Filippo al completo, Fosco Giachetti, Massimo Girotti, Totò, Gino Cervi e, naturalmente, la nostra Doris Duranti, diretti da registi di chiara fama come de Sica, Blasetti, Ferreri. Anche Tirrenia risplende di luce riflessa, grazie alle dive e ai divi che prendono il sole in costume sul litorale.

Muovono i primi passi negli studios di Tirrenia i fratelli Taviani e Monicelli. Sciuscià (del 46) per la regia di de Sica, è interpretato da molti attori non protagonisti presi nelle strade labroniche. Si forma proprio qui una scuola di tecnici, fonici, truccatori, poi assorbiti da Cinecittà.

Durante la seconda guerra mondiale, gli studios sono requisiti dagli americani che li trasformano in magazzini, fino al 48. Nel 61 vengono comprati da Carlo Ponti ma i costi sono alti e l'impresa si conclude già nel 69; Ponti abbandona, la Rai rifiuta l'acquisto, gli studios chiudono i battenti e muoiono lentamente.

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L'industria del corallo a Livorno

27 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi

L'industria del corallo a Livorno

L'industria del corallo a Livorno copre tre secoli, dal seicento fino alla prima metà del novecento ed è caratterizzata da alti e bassi, da fioriture e declini, decretati soprattutto dalla concorrenza francese e giapponese.
Nasce con i primi insediamenti di ebrei a Livorno nel 1602/3. Si sviluppa presto in un fiorente commercio internazionale, che porterà poi molte famiglie a emigrare nuovamente in Inghilterra, da dove il corallo parte per l'India. Sappiamo che, sia il granduca Leopoldo sia l'imperatore Giuseppe d'Asburgo, visitano le fabbriche.
Il settecento è il secolo del trionfo del corallo, viene inventato il sistema della brillantatura con polvere di pomice e segatura, e si svolgono grandiose fiere con compratori provenienti da tutta l'Europa.
Le barche di Torre del Greco pescano il corallo in Corsica e in Sardegna e il prodotto viene venduto a Livorno. Nella fretta di arrivare al porto, e temendo di trovare il prezzo già calato, gli equipaggi rischiano di perdere la barca. Ancora oggi, chi intraprende un'azione azzardata, dice: "A varca'nfunno, a mercanzia a Livorno". Si stabiliscono poi definitivamente da noi alcune famiglie di Torre del Greco, armatori e corallai insieme.
Napoleone affossa il commercio, ponendo una tassa sulla patente di pesca, allo scopo di favorire i corallai marsigliesi. Con l'ottocento, però, l'industria del corallo rinasce.
Per essere alla moda, i corredi di nozze devono comprendere collane, vezzi, croci fatte da orefici livornesi. Le maestranze sono quasi esclusivamente al femminile. Per montare i coralli occorrono mani piccole, svelte, e buoni occhi. Le ragazze lavorano per otto ore d'inverno e dieci d'estate, in stanzoni dalle grandi finestre, per sfruttare la luce naturale. Le livornesi sono pagate più che le colleghe al sud e gli stipendi sono gratificanti. Le fabbriche sponsorizzano opere pie e asili di carità, dove viene insegnato il mestiere alle orfanelle. I corallai sono soliti ritrovarsi al caffè Folletto, nei pressi di piazza Cavour.
Quando la Francia colonizza l'Algeria, da sempre fonte principale del corallo, dopo che quello sardo si è esaurito, a Livorno i profitti calano. Poi la Francia impone ai livornesi, che pescano in Algeria, di prendere la cittadinanza francese e questo dà il colpo di grazia all'industria del corallo, che si trascinerà sempre più debolmente dagli inizi del novecento fino alla sua prima metà. La concorrenza giapponese si somma a quella spietata francese, le grandi corti europee, da sempre clienti, spariscono, si susseguono guerre devastanti come quella italo turca e le due mondiali, la crisi del 29 deprime l'economia, le leggi razziali mettono in fuga le famiglie ebree.
Gli ultimi a chiudere i battenti sono i Lazzara, ma all'industria del corallo, dal seicento fino al novecento, è legato il nome di molte casate conosciute e facoltose. Solo per citarne qualcuna: i Chayes, gli Attias, i Buttel (proprietari anche di gioiellerie a Parigi), i Franco, i Palomba, i Coen.

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Il piroscafo Andrea Sgarallino

25 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #storia

Il piroscafo Andrea Sgarallino

L’Andrea Sgarallino era una nave passeggeri varata dal Cantiere Luigi Orlando di Livorno. Fin dal 1930, fece la spola fra Piombino e Portoferraio. Deve il suo nome al garibaldino livornese Andrea Sgarallino, eroe dei moti del 48.
Nel 43, durante la seconda guerra mondiale, fu requisito dalla Regia Marina, armato, dotato di livrea mimetica, e adibito a servizi militari.
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, venne di nuovo destinato a prestazioni civili, soprattutto con il compito di riportare a casa i militari smobilitati e favorire gli approvvigionamenti dell’isola. I tedeschi, che occuparono l’Elba il 18 settembre, però, gli fecero battere bandiera nazista.
Il 22 settembre, a una settimana di distanza dal rovinoso bombardamento che distrusse gli stabilimenti dell’Ilva, lo scalo e parte del centro storico di Portoferraio, l’Andrea Sgarallino fu colpito a morte.
Sono le 9,30, il piroscafo è ormai in vista della costa, in località Nisportino. Un sommergibile della marina britannica incrocia poco distante. Il capitano Herrik vede la bandiera nemica e la livrea militare e non ha dubbi: ordina l’immediato affondamento. Un paio di siluri colpiscono la nave e la spezzano in due tronconi.
Il piroscafo è avvolto dalle fiamme e da un fumo denso. Gli abitanti dell’Elba assistono impotenti, impietriti: a bordo ci sono i loro familiari, i soldati che stanno tornando a casa e che non riabbracceranno mai più. Il vento porta le urla dei disperati. Nessuno ha il coraggio di avvicinarsi perché si teme che il sommergibile sia ancora nelle vicinanze, pronto a colpire di nuovo. Poi le fiamme si spengono, la nave scompare sott’acqua. A decine i corpi vengono distesi sul molo e gli abitanti attoniti li rivoltano, per identificarli. Le donne portano lenzuola per coprire i cadaveri.
Il numero delle vittime non fu mai accertato con precisione ma si aggirò intorno alle trecento unità, sopravvissero solo quattro persone, quasi ogni famiglia elbana pianse un morto a bordo dello Sgarallino.
Il relitto oggi giace a 66 metri di profondità, al largo della costa. Nel 2003 è stato raggiunto da un gruppo di sub che ha deposto una targa commemorativa in ricordo delle vittime.
Esiste anche un canto popolare, di dubbia attribuzione: Il siluramento dell’Andrea Sgarallino che, nel ritornello, ricorda molto La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini.

“Eran tutt’a bordo, eran ben stipati
Eran più di trecento e non son più torn
ati”

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