poli patrizia
Gordiano Lupi, "Sogni e altiforni"

Sogni e altiforni
Gordiano Lupi e Cristina de Vita
Acar Edizioni, 2018
pp 318
15,50
Sogni e altiforni, di Gordiano Lupi e Cristina de Vita, è il seguito a quattro mani di Calcio e Acciaio. È composto da due testi distinti, uno poetico e uno narrativo, visti rispettivamente dalla parte del protagonista maschile e da quella della protagonista femminile.
Ritroviamo Giovanni là dove lo avevamo lasciato alla fine del primo libro. Un ex calciatore famoso che, dopo aver abbandonato il mondo dorato del calcio importante, è tornato nella sua città, Piombino, e ricomincia a interessarsi di sport facendo il direttore tecnico per una piccola squadra di ragazzi del Venturina.
Giovanni è sempre più triste, più solo e più vecchio. Giovanni è preda di abitudini cui per pigrizia non riesce a rinunciare. Divorziato da tempo, vive con la madre e fa sesso senza amore con la badante di lei.
“E la mia vita, se provo a ricordare, è stata solo un tuffo nel non fatto, un’ipotesi infinita di non detto”. (Pag 96)
Torna spesso con la mente a un amore di gioventù, Debora, che non ha avuto il coraggio di concretizzare quando era il momento. Debora è l’amore romantico e perduto, quello che rimarrà meraviglioso proprio perché non lo si è vissuto, perché è finito prima ancora di cominciare. La realtà brutale non lo ha corrotto, non lo ha contaminato.
In tutta la lunga parte scritta da Gordiano Lupi ritroviamo il suo incedere lento e poetico, quell’ingolfarsi sempre sui medesimi ricordi, ripetuti come in un loop tristissimo e nostalgico. Sehnsucht, saudade, nostalgia canaglia, chiamatela come volete, è lo strazio di un passato che non ti fa progredire, ti lascia sempre nel medesimo punto, forse perché, alla fine, è lì che vuoi rimanere, con la tua abulia intrisa di comode memorie dolceamare.
Quello che per noi è un brutto presente sarà il ricordo magico di qualcun altro, ed è così anche per Giovanni. Percorrendo i paesaggi conosciuti, torna ossessivamente all’infanzia, rivede il padre, la madre, riascolta i racconti del nonno, risente l’odore della fuliggine dell’altoforno, rivede il falso tramonto rosso dell’acciaieria ormai spenta, triste relitto di archeologia industriale.
Piaceva tutto del passato, perché tutto è trasfigurato dal tempo, piaceva il puzzo dell’acciaieria, la povertà dignitosa, i campi incolti, i muri fatiscenti, l’odore di frittura, le seme e le noccioline del cinema di seconda visione.
Quando vivi da sempre nello stesso luogo, ogni pietra, ogni anfratto, ogni angolo è pervaso di ricordi. Per qualcuno la reminiscenza è dolce e allegra, per altri, come per Giovanni, è rimpianto struggente. Di che? Di tutto e di niente, di quel momento in cui ogni cosa era ancora possibile, di oggetti poveri e brutti che, attraverso le nebbie del tempo, ora sembrano belli. Rievocazioni di un mare ondoso e cangiante, di un cielo terso, di un campetto sterrato dove tirare calci a un pallone, sentori amari e ancora selvatici di provincia, di pitosforo e tamerici, di cipressi e salmastro.
La cifra stilistica di Lupi è la ripetizione, come una dolce e tristissima onda che rotola e poi torna indietro, si avviluppa su se stessa. Ripetizione di scorci, di paesaggi, d’immagini, di sentimenti perduti.
Dall’altra parte c’è il testo narrativo, la voce di Debora. Sappiamo dalle sue parole che cosa le è accaduto dopo che Giovanni l’ha abbandonata. La scrittura è più romanzesca e più femminile, meno poetica, meno ritmata e meno perfetta di quella di Lupi.
Giovanni e Debora s’incontrano un’ultima volta per caso ma non concretizzano il loro ritrovarsi. Sanno entrambi che il passato non può tornare, che, se accadesse, non darebbe le gioie immaginate, che il sogno deve rimanere sogno e il ricordo ricordo.
Un romanzo struggente fin dalla dedica, consapevole del tempo che passa, dell’avvicinarsi della fine. “Le cose da scrivere con urgenza sono sempre di meno”. Perché ormai si è all’impasse e si vive “di ricordi senza scorgere un brandello di futuro”.
Sotto la cenere
Ti ho lavato
dove tu lavavi me
ti ho lavato
dove ora io lavo i bambini
che non ti piacciono
che non capisci.
Ti ho imboccato
con la bava
e la lingua,
di traverso.
Farfugliare esasperato
Rabbioso
occhi come lampi d’impotenza
anche tu diventi figlia
anche tu ritorni figlia
il mio niente si fa paura
il primo fremito di un dolore ritrovato
che c’era
che c’è
La baronessa di Carini
Quella mano insanguinata sul muro resterà nella storia della televisione. E gli occhi come fanali azzurri di Ugo Pagliai, che avevamo già amato ne Il segno del comando.
Uno sceneggiato del 1975, L’amaro caso della baronessa di Carini, per la regia di Daniele D’Anza, che è stato una pietra miliare della fiction televisiva. La trama è ispirata a una ballata popolare siciliana, che narra di un delitto realmente avvenuto nel '500 a Carini: la baronessa di Carini, donna Laura Lanza, moglie di don Vincenzo La Grua – Talamanca, fu uccisa dal padre don Cesare Lanza, ma la storia si svolge nell’ottocento, tre secoli dopo il fattaccio. Coprotagonista, insieme a Pagliai, la bella Janet Agren.
Mistero, presagi di morte, eros e thanatos fusi insieme, ecco tutti gli ingredienti per un polpettone romantico che aveva molto del feuilleton e che ebbe grande successo all’epoca.
Memorabile la sigla d’inizio, la struggente ballata sceneggiata da Gigi Proietti e Romolo Grano: la sfortunata baronessa si accascia sul suo amante, lasciando una striscia di sangue sul muro con la mano. Avevo quattordici anni, ero romantica e innamorata dell’amore, proprio come adesso mi piacevano le grandi storie in costume d’avventura e sentimento. Ricordo che mi divertivo a impersonare la baronessa, strisciando teatralmente la mano sul muro del pianerottolo di casa e fingendo di stramazzare. Per fortuna nessun vicino ha mai aperto la porta in quel momento.
Federica Cabras, "Imprevisti di Natale"

Imprevisti di Natale
Federica Cabras
Literary Romance, 2019
Imprevisti di Natale è una novella natalizia di Federica Cabras che potete leggere singolarmente nella versione on line, oppure in cartaceo, come parte della raccolta Strenne di Natale.
Nives Neri è già un ossimoro a partire dal nome. La sua parte dolce, luminosa e romantica è stata soffocata negli anni da quella smagata, cinica e solitaria. Non riesce a stabilire un vero contatto con gli altri, a parte l’amico di sempre, Pietro. Ma, un giorno, la sorella le chiede di tenere la figlioletta Bianca fino a Natale. Bianca ha quasi nove anni, è brillante, simpatica e le apre tutto un mondo.
Nives odia il Natale, non sa più neppure lei da quanto, e non s’innamora dal giorno in cui è stata rifiutata da un bel ragazzo di cui ormai ricorda solo gli occhi. Ma Natale è Natale e i bambini sono bambini, si sa. I bambini sono come gli animali, ti fanno vedere il mondo con i loro occhi senza malizia, di più, ti fanno capire il senso della vita: una pura immersione nell’esistere, senza complicazioni, senza sovrastrutture, senza finalità. I bambini ti rendono fisica, tattile, impregnata di realtà e, allo stesso tempo, capace di slanci fantastici. Va da sé che Nives comincerà a sentire la magia delle feste e anche per lei avverrà il tanto sospirato miracolo natalizio.
Federica Cabras scrive questa novella con allegria, divertimento e scioltezza. È brava a far fluire dialoghi scoppiettanti, atmosfere leggere e piumose. Ma non lesina commozione e sentimento, in giusta dose. Scrive un racconto che sembra un film di Natale americano, con tutti gli elementi del caso: la protagonista single incallita e disincantata, l’amore improvviso inaspettato, il miracolo di Natale che si compie immancabilmente.
Una lettura di genere, soffice e godibile, capace di restituirti un momento di pace nel trambusto non sempre felice del vivere quotidiano.
Mariarosaria Conte, "Mare nell'anima"

Mare nell’anima
Mariarosaria Conte
Book on demand di grafica elettronica, 2015
Mare nell’anima, di Mariarosaria Conte, è un romanzo che si tiene volentieri sul comodino e si legge velocemente perché è fresco, scorrevole e scritto con uno stile pulito. Tuttavia non lascia molto. A sua discolpa c’è il fatto che si tratta solo del primo della serie, forse, leggendo gli altri, lo spessore dei personaggi e del tessuto sociale si approfondirà. Così com’è, il primo volume rimanda l’idea di una storia semplice, con un’atmosfera a metà fra Elena Ferrante - di cui non ha però lo stile incisivo - e Antonella Boralevi.
Morena è la classica cenerentola. Di una bellezza inconsapevole, timida, gentile e un poco goffa, trascorre le vacanze al mare a Oti, meta di ricchi borghesi partenopei. Lei, prima di andare in spiaggia, deve fare le faccende domestiche e occuparsi della sorella minore, pigra e svogliata. Va da sé che incontrerà, e conquisterà, il principe azzurro: Davide, il ragazzo più bello e ambito della compagnia.
I cliché della fiaba ci sono tutti, in questa ennesima – forse involontaria – rivisitazione: Morena è timida e solitaria, Morena è costretta a fare i lavori più umili, Morena è poco stimata dalla famiglia, Morena va al ballo con un vestito che piove dal nulla e bacia il suo meraviglioso principe senza macchia e senza paura. Ma se la fiaba in tutte le salse ha ancora fascino, qui i personaggi sono un poco sbiaditi, primo fra tutti Davide, il bello e possibile, che subisce la sua conversione da irraggiungibile playboy a tenero e premuroso innamorato, senza che ci sia un adeguato sviluppo del personaggio.
Certamente l’estate dei sedici anni di Morena segna una svolta, quella che la trasforma da bambina succube a ragazza capace di prendere decisioni autonome, consapevole di sé, delle proprie possibilità, del proprio fascino e dei propri desideri.
Pur fra ricordi di canzoni, trasmissioni televisive e libri, l’ambientazione anni 90 è un poco vaga e sfocata, c’è un tentativo di analisi sociale dei personaggi, con le loro vite patinate che nascondono, però, difficoltà e dolori. I dialoghi risultano a volte artificiali se visti da una prospettiva adolescenziale.
Detto questo, rimane il fatto che alla fine non manca comunque la voglia di andare avanti col secondo volume della serie, per capire se la ragazzina proletaria riuscirà a conquistare il suo posto nel mondo snob e respingente dell’alta borghesia, e se il tenero amore appena sbocciato saprà resistere alla differenza di personalità e status sociale.
Natale in giro per l'Italia: Venezia.

Natale in giro per l'Italia: Livorno

Mi viene da pensare a cos’era il Natale negli anni sessanta. Non quello di tutti, il mio.
Vivevo in una famiglia nucleare: padre, madre, io. Mio fratello non era ancora stato progettato. Una città di provincia della Toscana, un appartamento in un quartiere popolare, arredato in modo funzionale e moderno, ché noi eravamo una famiglia al passo coi tempi. Mia madre lavorava, guidava la Bianchina e faceva la spesa alla Smec, il primo supermercato che abbia messo piede in centro. Vivevamo il boom economico con speranza, fieri del progresso che avrebbe portato solo civiltà, orgogliosi del frigorifero, del tostapane, del frullatore, dell’acqua gassata con le presine dell’Idrolitina, del vino in bottiglia sulla tavola.
A quei tempi, l’albero non si faceva a novembre, non si faceva l’otto dicembre, non si faceva neanche il quindici, si faceva il ventidue o ventitré dicembre. E sapete perché? Perché allora il tempo era ancora il tempo. Un mese era un mese, lungo, infinito. Tutto si concentrava nella settimana di Natale, la settimana più magica dell’anno.
Non c’erano le sciroccate e le zanzare, andavamo a scuola col berretto di lana e le ginocchia intirizzite. L’albero era vero, perdeva gli aghi per terra, profumava di bosco la casa. E l’odore del pino si mescolava al cherosene della stufa che, dal corridoio, doveva riscaldare tutto l’appartamento. Le palle erano di vetro, ne compravamo una ogni anno, nuova e preziosa, le luci non erano led cinesi ma pupazzi di neve, casine, fantastici trenini che s’illuminavano da dentro. Non mancavano mai, appesi ai rami, figurine di cioccolata e un sacchetto di monete da mangiare.
Ho dei flash, di me e mamma che addobbiamo l’albero in salotto, è giovedì sera, la televisione è accesa su Rischiatutto. Mamma ha portato delle scatole piene di fili argentati e, per la prima volta, abbiamo decorato insieme tutta la casa, attaccandoli alle porte, agli specchi. Dal lampadario penzola una composizione di nastri e palle che ha fatto lei, con le sue mani, come le ha spiegato una collega di ufficio.
Al piano di sotto abitavano mia nonna (vedova) e la mia prozia (zitella). Loro andavano a messa e preparavano il presepe, in un angolo della sala. Un cimelio di famiglia, lo aveva costruito il bisnonno Fortunato nell’ottocento, ricavandolo da un caldano, mettendo da parte stagnola, sughero, pezzi di legno. Era bellissimo, aveva tutto: il pozzo, la fontana, la mangiatoia, la lanterna, persino la chiesa con le campane che suonavano la nascita del bambino che poi l’avrebbe fondata. Ricordo l’odore di muschio secco, la folla dei pastori stretti uno di fianco all’altro, dipinti a mano, qualcuno un po’ sbreccato, scolorito. Ricordo le stelle di latta, il filo argentato con le lucine. Capitava che la zia ricomprasse un filo nuovo, a volte, cambiasse lo scotch, ma la roba era quella, conservata in una scatola da scarpe terrosa; roba povera, a pensarci, ma io la trovavo meravigliosa.
E quando nonna m’insegnava a cantare Tu scendi dalle stelle, mi sembrava di essere lì anch’io, mentre Gesù nasceva nella grotta “al freddo e al gelo”, il bue e l’asinello lo riscaldavano col loro fiato e la cometa splendeva in cielo. Credevo a tutto, era tutto vero, il Bambino Divino, Babbo Natale che attraversava la notte per lasciare i regali sotto l’albero.
A scuola si festeggiavano solo gli ultimi giorni, proprio a ridosso delle vacanze, allestendo piccoli presepi e alberelli addobbati con qualcosa portato da casa. Ricordo un anno che la maestra regalò a tutti una palla dorata e luccicante da appendere all’albero, la aprivi e dentro c’era un piccolo pensiero per ognuno di noi, a me toccò un anellino rosa. E scrivevamo letterine di Natale, non tanto per chiedere regali, quanto per domandare perdono ai nostri genitori delle marachelle, per promettere di essere più buoni, per dire “babbo, mamma, vi voglio bene”, parole che il pudore dell’epoca non ci permetteva di esprimere in giorni meno speciali.
La via principale della città era rallegrata dalla “luminara” ma io, anche oggi che sono vecchia, trovo più affascinanti gli addobbi dei negozi di quartiere, quelli poveri - le lucine che si rincorrono sulla porta della tabaccheria, le palle colorate poggiate sui ripiani polverosi della mesticheria - li preferisco ai grandi apparati dei centri commerciali. Amo il Natale della gente normale: il foglio di carta roccia, il rotolo di cielo stellato, il pungitopo e la borraccina raccolti in campagna.
Da noi, in Toscana, la vigilia non si festeggiava, era un giorno qualsiasi, i negozi chiudevano tardi la sera, non come adesso che alle quattordici è già tutto morto e la gente va a prepararsi per il cenone, quasi fosse l’ultimo dell’anno. Era un giorno di attesa, di trepidazione, di festa vissuta dentro. Si mangiava normale, poco per non appesantirci in vista del venticinque, si apparecchiava in cucina come sempre. In tv non mancava mai qualcosa di bello, un cartone incantato, un film fiabesco; andavo a letto col cuore in gola, con un po’ di paura, chiedendomi cosa sarebbe successo se, per caso, avessi scorto Babbo Natale. “Perché”, mi spiegavano i miei genitori, “quelli che vedi in giro, non sono veri Babbo Natale, sono solo travestimenti per far festa, Lui, l’originale, è misterioso e lontano, non lo si può vedere e passa solo se siamo stati buoni.” Il regalo, insomma, te lo dovevi meritare, non lo trovavi scontato all’Ipercoop. L’uomo barbuto vestito di rosso non faceva “ohohoh” all’americana, non viveva al polo nord con una renna di nome Blizzard, ma era, piuttosto, un’entità un po’ inquietante.
La mattina di Natale, anzi di “Ceppo”, come dicevano i vecchi, si faceva colazione col caffellatte e, ancora in pigiama, si aprivano i regali. C’era tanta roba da farmi sgranare gli occhi. Bambole, “ciottolini”, libri, matite. C’era un cesto rosso con un biglietto scritto di pugno da Babbo Natale in persona: “Perché tu sia più ordinata”, c’era un mangiadischi che, bastava schiacciarlo col dito, e potevi sentire le fiabe sonore, c’era il quarantacinque giri di Un cuore matto - ero follemente innamorata di Little Tony - e anche la Pappa col pomodoro con Rita Pavone nei panni di Gianburrasca.
A pranzo venivano su anche nonna e zia, mangiavamo i tortellini in brodo, il cappone lesso con le radici di Genova, il panettone di Milano che costava un mucchio di soldi - non come ora che ne trovi tre al prezzo di due - il panforte, i ricciarelli, i cavallucci, il torrone. Ma anche frutta secca, datteri della Tunisia con la ballerina in bilico sulle punte, zibibbo, fichi secchi aperti a panino e farciti di noci e noccioline.
Di pomeriggio nonna e zia tornavano giù, a casa loro, a riposarsi, mentre noi guardavamo i programmi televisivi, film, cartoni animati, commedie di teatro e, intanto, io giocavo con tutto quel ben di Dio che Babbo Natale mi aveva portato; si vede che, nonostante i dubbi, i timori e i sensi colpa, alla fine ero stata davvero buona. E, naturalmente, divoravo i libri nuovi. A santo Stefano, quando era invitata l’altra nonna, quella paterna, li avevo già finiti.
Non c’è nulla di speciale in questi miei ricordi, nessun messaggio, niente che caratterizzi una generazione. Posso solo dire che i bambini si nutrono di pensiero magico e chi glielo sottrae compie un crimine, li priva della fantasia, del desiderio, delle cose che noi adulti rimpiangeremo tutta la vita e non avremo mai più, per quanti sforzi facciamo.
Libri sotto l'albero: Giuseppe Lazzaro, "Del Tempo e della Verità"

Del Tempo e della Verità
Giuseppe Lazzaro
Pav Edizioni, 2019
pp 98
10,00
In Del Tempo e delle Verità Giuseppe Lazzaro affastella considerazioni in un flusso ininterrotto di pensiero logorroico, creando una coltura, un brodo filosofico primordiale dove rincorrere il senso della vita, una ricerca del sé più profondo e, soprattutto, della verità, quella che fa dire a Pilato: “Quid est veritas”.
Filosofia e psicologia applicate all’esistente, alla vita spicciola, perché la trascendenza è immanenza, perché alto e basso coincidono, perché “il senso più profondo di noi è già scritto nei meandri delle nostre sinapsi, tra un ormone e l’altro” (pag 25), persino Dio è connaturato alla membrana cellulare, e, più si è umani, più si coglie la nostra essenza spirituale.
Riflessioni a rotta di collo, un collage di citazioni colte – la capacità di sintesi, ci dice Lazzaro, è una virtù! - sul tempo, su Dio, sulla creatività, sulla verità, sulla fede, sulla ricerca del sé più autentico, svincolato da ogni “categoria e sovrastruttura”, ecco la materia di questa piccola composizione in prosa, che, sospetto, derivi dalla fusione di molteplici appunti, considerazioni e note a margine, sgorgati dalla lettura di saggi, romanzi e tomi filosofici.
Un uso personale della punteggiatura e dei congiuntivi sottolinea lo sbalzo fra l’ipotetico e il reale, fra il trascendente e l’immanente, che è la cifra stilistica di tutto il testo, capace di mescolare con ironia e leggerezza filosofia e vita di tutti i giorni.
Vivere non è affogare nel contingente degli impegni quotidiani, ma cercare un senso, un centro, porsi delle domande, chiedersi chi siamo, perché siamo e cosa vogliamo fare della nostra esistenza. Come afferma Francesco Paolo Pizzileo nella prefazione: “Oggi ci struggiamo perché il presente non ha densità, il presente nella vita banale diventa l’urgere delle cose da fare che assorbono e non lasciano requie, il passato ci inchioda nella situazione in cui ci troviamo gettati, il futuro ci angoscia con le sue incertezze”.
Vivere, dunque, è farci carico della nostra vita, assumerci la responsabilità di scegliere ogni giorno chi essere e come procedere, cercare la verità intrinseca. Ma a vincere, alla fine, è comunque e sempre la voglia di esistere, di metterci in gioco uscendo dal tempo transitorio degli affanni e delle meschinità, per ritrovare un significato più autentico e un diverso rapporto con l’altro da sé, fatto di accettazione e non di pregiudizio o discredito.
“Il dialogo ci salva. Il dialogo con gli altri. Ecco cosa significa sentire gli altri. Questa è catarsi. Piangere o ridere di fronte al nostro simile. Emozionarci.” (pag 73)
Libri sotto l'albero: Gianluca Pirozzi, "Come un delfino"

Come un delfino
Gianluca Pirozzi
L’Erudita, Giulio Perrone, 2019
Una storia di perdita, dolore e necessità d’essere forti. Un’angoscia che ti resta appiccicata addosso anche quando hai finito il libro, una sofferenza che senti tua, perché può capitare a tutti di non avere più improvvisamente qualcuno che si ama.
La storia comincia come un raffinato e colto bildungsroman, scritto con un bello stile quasi d’altri tempi. Vanni è figlio di uno scultore egocentrico e irascibile, che vive solo della propria arte e condiziona la famiglia con i suoi sbalzi di umore e le sue scenate. Bersaglio dei suoi malumori soprattutto la nonna Iole, a cui Vanni è molto affezionato. La prima perdita sarà proprio lei. Poi sarà la volta di Maso, il fratello minore amato e inseparabile. Un incidente con lo slittino lo porterà via troppo presto.
Vanni reagisce allontanandosi, non può respirare la stessa aria del padre, non può vivere nella stessa casa dove Maso e nonna Iole non ci sono più. Crescendo, viene a patti con la propria sessualità, prova a costruire dei legami stabili, prima con Federico e poi con Piermaria. La sua richiesta d’amore - la stessa che continua inconsciamente a porre a suo padre - viene disattesa finché non incontra lo spagnolo Tiago. Tiago è calmo, è sereno, prende la vita con naturalezza, ha fiducia che le cose vadano per il verso giusto se solo ci si lascia trasportare. Nonostante la lontananza, il loro amore è forte, è tenero, è complice. Fino alla scelta di diventare padri con l’aiuto di un’amica.
Ma la sorte ha in serbo ancora dolore, un’altra lacerazione straziante, un nuovo, tremendo squarcio che rimette in discussione tutte le certezze e tutta la felicità conquistata.
Un romanzo che si svolge su due piani: uno narrativo, costruito con sapienti balzi temporali e dialoghi perfetti, e uno centrale diaristico. Un racconto circolare, incentrato sui temi fondamentali della paternità e della morte. Vanni sente la mancanza di una figura paterna amorevole ma questo non gli impedirà di nutrire il desiderio di diventare padre a sua volta, affrontando il difficile compito di esserlo in una situazione estrema. E, dopo aver fatto per tutta la vita i conti con la morte prematura del fratello, alla fine dovrà imparare a convivere con le assenze, ricostruendo un nuovo centro.
Un romanzo delicato, bello e struggente, di quelli che vorresti leggere più spesso.
Natale in tutta Italia

Amici scrittori, amici lettori, questo invito è rivolto a voi e nasce da un'idea di Walter Fest e mia.
Mi correggo, è rivolto a tutti coloro che vogliano mettere su carta - pardon on line – le proprie parole e riflessioni su un tema ben preciso: il Natale.
Il Natale qui, là, ovunque in Italia. A Venezia che sprofonda sott’acqua, all’Aquila nella zona rossa, a Matera capitale alluvionata della cultura, a Genova sotto il ponte crollato, ad Accumuli e ad Amatrice, a Norcia, in tutte le zone allagate, terremotate e incendiate, a Taranto con l’Ilva in pericolo. Ma anche A Pisa, a Firenze, a Roma, a Palermo, a Cagliari, in tutte le regioni, in tutte le città e in tutti i paesi, pure quelli intatti e risparmiati dalla furia del clima impazzito, in tutti i luoghi meravigliosamente artistici di questa nostra patria bella e ferita.
Cosa farete per Natale, come saranno le vostre feste? Come vivrete quei momenti, cosa è cambiato dai ricordi del tempo che fu a oggi?
Scrivete quanto e cosa volete, anche solo due righe. Nessuna giuria, nessuna classifica, non si vince nulla, solo il piacere di raccontare e raccontarsi. Potete essere pro o contro il Natale, potete amarlo come me, o detestarlo, ci piacerà comunque ascoltare le vostre storie. Potete inventare una novella o scrivere una poesia, potete piangere, ridere o innamorarvi. Potete fare il presepe o aspettare babbo Natale, potete chiudervi in camera e attendere che le feste siano passate, potete portare coperte ai cani randagi, potete suonare nel concerto della chiesa o cantare nel coro, potete aiutare la vostra vicina a fare l’albero, potete cucinare un dolce tipico o comprare il pandoro in offerta al discount.
signoradeifiltri.blog vi invita a condividere le vostre riflessioni, a farci partecipi della cultura, delle bellezze artistiche e delle tradizioni natalizie dei vostri splendidi paesi. Pubblicheremo tutti i vostri contributi, compreso le fotografie, facendo solo un poco di editing se necessario.
Cominciate fin da oggi a inviare i vostri contributi e continuate a farlo fino al 23 dicembre, non oltre.
Spedite a ppoli61@tiscali.it
Vi aspettiamo numerosi e buone feste a tutti!