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recensioni

Silver, "Lupo Alberto - LE STORIE"

10 Giugno 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #vignette e illustrazioni

Silver,  "Lupo Alberto - LE STORIE"

Silver

Lupo Alberto - LE STORIE

Magazzini Salani

Pag. 390 – Euro 12,90

Lupo Alberto nasce nel 1974, sul Corriere dei Ragazzi, storica rivista per adolescenti da tempo chiusa, lasciando solo Il Giornalino della San Paolo a difendere un mondo che non esiste più, conquistato da televisione e media telematici. Viene da chiedersi - proprio per questo motivo - se ci sono ancora lettori di fumetti per ragazzi, oppure se certe (benemerite!) operazioni di riscoperta sono riservate a un pubblico di nostalgici. Per me che sono nato nel 1960 e ho scoperto Lupo Alberto nel 1974, incuriosito da un nome che conteneva una voluta citazione di un grande attore teatrale e televisivo (Alberto Lupo), non è difficile esprimere gradimento e complimentarmi con un editore lungimirante. Sono tempi di crisi, il fumetto comico non incontra più il favore del lettore, capolavori come Mafalda, Sturmtruppen (del compianto Bonvi) e Cattivik - tutti in catalogo Salani - sono dimenticati dal grande pubblico che li acclamava negli anni Settanta. In compenso assistiamo alla tristezza di Gipi al Premio Strega, celebrato in TV da Fabio Fazio, come sempre compiacente con tutto quel che viene - di buono o di cattivo - da certi ambienti della sinistra. Ma basta con le polemiche. Cerchiamo di convincere, invece, i giovani di oggi ad appassionarsi alle storie di un lupo dal pelo azzurro (purtroppo il libro per motivi economici è stampato in bianco e nero), innamorato di una gallina di buona famiglia di nome Marta e in perenne lotta con un cane da guardia chiamato Mosè. I personaggi non finiscono qui, c’è anche Enrico la talpa che non ci vede un tubo, ha ribattezzato con il nome Beppe il nostro Alberto ed è sposato con Cesira, una moglie petulante che cucina divinamente. La struttura delle storie è ripetitiva, ma non per questo meno geniale e divertente, ricalcata sullo schema del coyote della Warner Brothers che cerca di catturare lo struzzo. Il lupo tenta di intrufolarsi nel pollaio per amoreggiare con Marta, di solito non ci riesce, becca un sacco di legante da Mosé, mentre Enrico lo incoraggia.

Per festeggiare i quarant’anni di Lupo Alberto, la casa editrice Salani ha organizzato una mostra itinerante che è partita da Fano il 27 febbraio e finirà a Correggio il 12 dicembre. Molte le tappe intermedie: Napoli, Milano, Albissola, Marostica, Rovigo, Catania, Fano, Cagliari, Udine, Lucca, Torino… Il 2014 sarà l’anno di Lupo Alberto, con nuovi gadget e tanti libri dedicati al lupo più simpatico del fumetto italiano.

Guido Silvestri (1952), in arte Silver, comincia l’avventura con un striscia comica intitolata La Fattoria dei McKenzie, ma il nome che s’impone è quello del protagonista. Le strisce - pensate sul modello di quelle statunitensi - cominciano a diventare brevi racconti e il fumetto si guadagna persino una testata autonoma che durerà in edicola per molti anni. Altri tempi. Erano gli anni Settanta - Ottanta. I ragazzini leggevano i fumetti e i genitori disapprovavano. Adesso capita di avere una figlia di sette anni e di obbligarla a leggere Lupo Alberto e altri fumetti intelligenti, invece di assopire l’intelligenza davanti alla televisione che diffonde manga e telefilm idioti. Tempi che cambiano, certo, ma non in meglio…

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Nora Ikstena, "Un bianco fazzoletto"

6 Giugno 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Nora Ikstena, "Un bianco fazzoletto"

Un bianco fazzoletto

di Nora Ikstena

Traduzione di Paolo Pantaleo

Damocle edizioni, 2014

pp27

3,00

Esiste una favola di Bechstein che si chiama “Il libriccino magico”. È solo un’associazione mentale, ma fra le dita ci ritroviamo un piccolo oggetto - chiamarlo libro non renderebbe l’idea - cucito a mano con un filino bordeaux (lo stesso di cui, curiosamente, si parla anche nella fiaba) capace di farci entrare in un’altra dimensione, quella di una fresca e ventosa terra straniera.

La Damocle edizioni ha aperto una collana, diretta da Paolo Pantaleo, interamente dedicata alla letteratura lettone. Si tratta di piccoli gioiellini tascabili, rilegati con un filo che porta il colore del paese in questione. “Un bianco fazzoletto” è la seconda uscita, tradotto in italiano ma con testo a fronte in lingua originale. L’autrice, Nora Ikstena, nata Riga nel 1969, è una delle principali scrittrici lettoni contemporanee. “Lakatiņš baltais”, cioè un fazzoletto bianco, fa parte della raccolta Dzīves stāsti Ed. Atēna 2004.

Il vento fresco che sentiamo è quello della buona letteratura straniera, ed è il vento della Lettonia, terra di boschi e di laghi ma qui terra solo del cuore, del ricordo, del rimpianto. “Quello che era, era nella sua testa.”

La storia narra di un vecchio lettone, emigrato da tanti anni in America. I figli sono lontani, hanno la loro vita, la moglie è ricoverata in un istituto per malati di Alzheimer. Lui vive da solo con un gatto.

Tutta la sehnsucht, tutta la malinconia, tutto lo struggimento, sono correlati alla lingua. La moglie tedesca, sposata perché l’unica in grado di barattare la propria estraneità con la menomazione fisica di lui, non comunica in lettone. I figli sono ormai americani a tutti gli effetti e lui rimane solo con le voci che gli parlano nella sua lingua madre.

Non è casuale la scelta del testo a fronte, non è casuale l’aver tradotto molti brani solo nelle note. Perché tutto si basa sulla lingua, quella che decide l’etnia di appartenenza, che fa di un uomo ciò che è, di là da ogni documento e di là dal luogo in cui vive. Se non si può comunicare nella propria lingua madre, si rinuncia a comunicare del tutto. Così il protagonista ha radi contatti umani: con la cassiera di un negozio, con un gruppo di sbandati, con una famiglia indiana, non a caso anch’essa straniera in casa propria, anch’essa senza più radici autentiche. Ma sono rapporti laconici, fatti di gesti pratici e concreti, più che di parole. Non ha amici e non ne vuole perché non sarebbero lettoni, non condividerebbero vocaboli, usi, conoscenze. Persino col gatto parla in tedesco, come con la moglie che non c’è più con la testa, è già avviata sui sentieri di un altro mondo.

Lui è solo, di quella solitudine profonda e assoluta che parla a se stessa, che non trova sbocco. Ormai c’è solo vento di parole nella sua mente (quelle stesse riportate in lettone anche nella traduzione di Pantaleo) catene di sinonimi, patrimonio linguistico che non si deve perdere, unico contatto con una realtà lontana che, forse, addirittura non esiste più, di là dal mare. Il continuo ondeggiare fra coniugazione presente e passata dei verbi è testimone di questo vento di ricordi, di quest’attaccamento ad un tempo e un luogo che non sono più.

Ma un incontro fortuito con una ragazza ad una fermata del pullman, una ragazza con lo zaino che pronuncia parole proprio nella lingua del vecchio, servirà a confermare l’esistenza del Luogo, dell’Origine delle Parole. E allora egli la saluterà col fazzoletto, stupendola, la ringrazierà di quel riconoscimento che è come un’autenticazione, come se gli fosse stato concesso un certificato di nascita, di esistenza in vita, grazie al quale la sua angoscia potrà attenuarsi, la sua solitudine contemplare aperture, persino un placarsi dell’odio verso le origini della moglie, un cedimento all’affetto, al contatto con la realtà e con il passato più recente. Così la conferma del Luogo di appartenenza rende possibile anche il distacco da esso, l’individuazione della moglie in quanto mūza draugu, “amica di una vita”, la riscoperta dell’amore e la possibilità di accomiatarsi da lei e accettare la fine. Ar todieviņu, addio.

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MIRELLA SERRI: UN AMORE PARTIGIANO, STORIA DI GIANNA E NERI, EROI SCOMODI DELLA RESISTENZA

3 Giugno 2014 , Scritto da Giacinto Reale Con tag #giacinto reale, #recensioni, #storia

MIRELLA SERRI: UN AMORE PARTIGIANO, STORIA DI GIANNA E NERI, EROI SCOMODI DELLA RESISTENZA

Mirella Serri, “Un amore partigiano: storia di Gianna e Neri, eroi scomodi della Resistenza”, Longanesi 2014

Mirella Serri, fin qui nota per i suoi apprezzati studi sui rapporti tra intellettuali e politica, affronta un argomento conosciuto, ma ancora, per molti versi, misterioso: l’assassinio dei partigiani Giuseppina Tuissi (“Gianna”) e Luigi Canali (“Neri”), ad opera dei loro compagni di lotta, nelle settimane immediatamente successive alla fine del conflitto.

Lo fa con la sicurezza della studiosa di storia (evitando, però, gli appesantimenti di note, citazioni e riferimenti archivistici), con la capacità di scrittura della ricercatrice di letteratura italiana moderna e contemporanea, ma anche con intuito e sensibilità tutte “femminili”.

Perché, in fondo, di una storia d’amore si tratta, anche se potrà dispiacere a chi preferisce collocare i protagonisti di stagioni irripetibili in un Olimpo nel quale –a differenza di quello greco- i sentimenti sono sconosciuti.

Il “contesto”, come con brutta parola si dice, è quello della Resistenza e della guerra civile italiana: “Gianna” e “Neri” scelgono di schierarsi dal lato “partigiano” e credono di trovare nel mito del comunismo e del PCI un sostituto di quello del fascismo, al quale pure – pare di capire - avevano in qualche modo creduto prima del disastroso esito della guerra.

All’impegno militante si intreccia la loro storia privata, perché i due si innamorano, e non nascondono, benché Neri sia sposato e neo padre di una bambina, la loro storia, sfidando i pregiudizi di un ambiente – quello del PCI “stalinista” dell’epoca - intriso di moralismo laicamente bigotto.

E, poiché, nella realtà, anche gli “eroi” sono fatti di carne, sangue e umane debolezze, succede che, quando vengono arrestati, cedono (“Gianna” certamente, “Neri” probabilmente, e se lo fa, è per salvare la sua donna) alla violenza delle sbirresche torture, rivelando nomi e indirizzi dei compagni di lotta.

La faccenda poi si ingarbuglia: “Neri” riesce ad evadere (forse “aiutato” dai suoi stessi carcerieri), mentre “Gianna” è rilasciata; benchè ambedue siano condannati a morte “per tradimento” dalla giustizia partigiana, nelle convulse giornate che seguono il 25 aprile si trovano sul lago di Como, e in posizione non defilata.

“Neri” verrà addirittura sospettato di essere stato quello che ha dato il colpo di grazia a Mussolini, e “Gianna”, invece, è una delle partigiane incaricate di repertoriare l’ingente quantità di oro e danaro trovato sugli automezzi della colonna fascista in fuga.

Ed è proprio questo incarico che causerà la morte di ambedue (e anche di altri coprotagonisti, che la Serri puntigliosamente elenca): l’uomo, al quale la compagna ha riferito di aver consegnato il “bottino” alla neocostituita Federazione comasca del PCI, prova a chiedere – scontrandosi con bugie e mezze verità - dove sia finito, e dopo violente discussioni, viene fatto “sparire” il 7 maggio, mentre la donna, che si è data alla sua ricerca disperata, ne segue la sorte il 23 giugno, giorno nel quale compie ventidue anni.

Questi, in sintesi estrema, i fatti, che ci richiamano una realtà che oggi appare molto più lontana dei settanta anni trascorsi: la fideistica e totalizzante adesione ad un’ideologia e al Partito che la incarna fa sì che “Gianna” fino all’ultimo si rifiuterà di credere che ad uccidere “Neri” siano stati i suoi stessi compagni di lotta; la commistione tra privato e pubblico – della quale si avrà ancora qualche revival ai tempi della contestazione sessantottina - gioca un ruolo importante nella condanna a morte della donna, accusata di aver “rubato” il marito ad un’altra; le ingenue speranze che il tempo ha cancellato, giustificano la passione di “Neri” per lo studio dell’ “esperanto”, nella convinzione che l’uso di quella nuova lingua comune (della quale oggi non si sa più niente) sia il primo passo verso la pace tra i popoli.

La grande Storia travolge, come un rullo compressore, le piccole vite dei due giovani innamorati; la “ragione di Partito” impedirà che ad essi sia data giustizia, sino all’intervento, nel 2004, del Presidente Ciampi.

Poiché nel libro molto si parla anche delle ultime ore di vita di Mussolini e Claretta, che si intrecciano, come detto, con i destini dei due partigiani, sorge spontanea la riflessione su alcuni parallelismi possibili.

Una moglie tradita e gelosa si muove sullo sfondo in entrambi i casi: mentre, però “donna Rachele” nelle dichiarazioni del dopoguerra manifesterà il suo “perdono” per la rivale di ieri, la vedova di “Neri” ancora nel 2002, quando una “scalinata” sarà intitolata a Como alle due innocenti vittime, pubblicamente dichiarerà la sua “perplessità” sull’accostamento.

Un ruolo non secondario, nelle due vicende, giocano i personaggi secondari che intorno alle due coppie di amanti si muovono: da una parte gli esponenti del PCI condannano la coppia clandestina, e non usano nessun riguardo per evitare a “Gianna”, considerata alla stregua di una poco di buono, la tragica fine; dall’altra i mussoliniani non mancano di imputare, anche in maniera grossolana e volgare, a Claretta, fino all’ultimo, certe indecisioni e incertezze del Capo al tramonto.

Nel sottotitolo, la Serri parla di “eroi scomodi della Resistenza”, ma forse, a ben vedere, gli eroi sono sempre “scomodi” per chi voglia andare oltre la superficie delle cose e le agiografie di maniera.

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Aldo Dalla Vecchia, "Specchio segreto"

31 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione

Aldo Dalla Vecchia, "Specchio segreto"

Specchio segreto

Aldo Dalla Vecchia

Sei Editrice, 2014

pp 298

14,00

Educazione è una parola talmente superata, al giorno d’oggi, da apparire rivoluzionaria. Il garbo con cui sono condotte le interviste che Aldo Dalla Vecchia - autore televisivo e teatrale, giornalista e romanziere – raccoglie nel volume “Specchio segreto”, chiamato come il programma (cult diremmo oggi) di Nanny Loy, per celebrare i sessant’anni della televisione, sfocia in uno stile pulito, elegante, da articolista perbene di una volta.

Dopo una poco significativa introduzione di Maurizio Costanzo, sfilano sessanta interviste precedute da un piccolo commento dell’autore, che spaziano dal 1992 al 2013, rilasciate da personaggi televisivi, alcuni immensi, come Mike Bongiorno o Pippo Baudo o Raffaella Carrà, altri minori ma sempre noti al grande pubblico. Il taglio di ogni articolo è angolare, non contempla tutto il personaggio, la sua vita o la sua opera in toto, ma lo ritrae di scorcio, zoomando su qualche mania privata, come la collezione di bambole di Paolo Limiti, gli omogeneizzati serali di Cristiano Malgioglio, l’amore per le pellicce di Sandra Milo, di là da ogni animalismo. Carrellate di volti, di studi televisivi, ma anche appartamenti, divani, cucine, ninnoli, paillettes e lustrini a profusione.

Per l’autore è una specie di compendio di tutto ciò che ha visto e fatto, dietro le quinte dei programmi tv e da collaboratore di testate importanti come “Epoca” e “Sorrisi e Canzoni”. Vive la cosa da addetto ai lavori ma soprattutto da innamorato della televisione.

Per noi che leggiamo, invece, è curiosità, voyeurismo bonario e pudico. Ci lasciano interdetti certi atteggiamenti kitch. Alba Parietti che per il cinquantesimo compleanno dà una festa degna di Sorrentino, rifacendosi al film “Eyes wide shut”, fra maschere veneziane e miniature di se stessa in bilico sulla torta. Marcella Bella che descrive casa sua come se fosse normale avere “la zona relax, con palestra, sauna, bagno turco, ping pong e biliardino”.

Dal lato opposto, la stessa morbosità applichiamo nei confronti di chi, come la Panicucci, ci appare “normale”, nel suo affannoso destreggiarsi fra figli e lavoro. Lo “spezzatino con patate” che prepara per cena ci rassicura, e, tuttavia, diventa l’altra faccia della medaglia, ridimensiona e bilancia i cinquanta cappelli impilati in casa di Malgioglio. Vita da vip che stupisce sia nella sua stravaganza che nel suo opposto, l’ordinarietà.

Ma, più di ogni altra cosa, quella di Dalla Vecchia è un’operazione nostalgia. Si torna indietro, agli albori della tv commerciale, si torna alle piazze in delirio per un ragazzo col codino, di nome Fiorello, che faceva cantare la gente in strada, aiutato da un parente stretto non ancora divenuto il grande attore drammatico di oggi. Si torna a sederci sul divano con Sandra e Raimondo, accorgendoci di quanto mancano, così come mancano il grande Mike, finto ingenuo, finto ignorante ma vero gentiluomo, ed Enzo Tortora, col suo pappagallo, il suo mercatino, i suoi primi tentativi di collegare “in rete” tutto il paese, in una sorta di social network ante litteram. Vorremmo riavvolgere il nastro, avere altro tempo per risarcire il conduttore di Portobello di tutto ciò che gli abbiamo tolto, del male che gli abbiamo fatto, vorremmo risentire quelle voci e rivedere quei visi dal vivo e non solo in vecchi video d’archivio. Particolarmente straziante appare la seconda intervista a Sandra Mondaini, fatta poco prima della sua scomparsa, così piena di decoro, così laconica e gentile.

C’è, secondo lei, la nuova Sandra Mondaini”, domanda Dalla Vecchia.

“No, ma solo perché non sono mai stata niente…”

Solo chi è veramente grande possiede quest’umiltà.

Poi c’imbattiamo in qualche chicca per coloro che sono affascinati dai meccanismi televisivi e dalla guerra dell’audience, come l’intervista a Luca Tiraboschi, direttore di Italia uno. Egli lamenta che Canale 5 tenda a cooptare i programmi di successo sulle altre reti.

Colgono nel segno anche le parole di Lorella Cuccarini:

Viviamo in un momento televisivo in cui non viene richiesta una particolare professionalità. Io stessa, per esempio, tutto quello che so fare nell’ambito dello spettacolo, non lo esprimo più in televisione. Se voglio ballare e cantare, devo farlo in teatro.”

Riflettiamo che è proprio così: oggi, ai conduttori, ai ballerini, agli ospiti dei programmi si chiede solo di esserci, di fare i tronisti e gli opinionisti, un po’ come tutti quanti ormai siamo commentatori sui social network. È semmai dai concorrenti dei talent, dai perfetti sconosciuti, che viene pretesa ogni capacità: i bambini di Antonella Clerici devono stupirci con i loro gorgheggi, i giovani di “La pista” devono volteggiare come professionisti. Vip e sconosciuti, esperti e principianti, s’incrociano e si scambiano di ruolo. Si assiste al fenomeno stravagante per cui, se sei bravo a fare una cosa, ne devi, invece, fare un’altra. I personaggi famosi devono imparare a danzare, a pattinare sul ghiaccio, a morire di fame sull’isola, a imitare. Insomma, la professionalità, la gavetta, lo studio, il mestiere non sono più richiesti, basta una presenza spesso improvvisata e sguaiata, oppure la preparazione certosina ma in un campo che non è quello abituale.

Non poteva mancare, a degna conclusione, l’intervista al mostro sacro Pippo Baudo. Con lui si ripercorrono prima gli albori della tv, poi gli anni settanta, quando ancora la televisione era considerata un mezzo educativo e unificatore per il paese, e i dirigenti erano, a detta di Baudo, “di una cultura pazzesca.” Si passa quindi al mitico decennio anni ottanta, con le due colonne portanti televisive di Domenica in, grande contenitore pomeridiano che mischiava giornalismo e intrattenimento, e Fantastico, show del sabato sera, la cui più bella edizione fu il numero sette, starring Cuccarini e Martinez. Alla fine, ecco gli anni novanta, la droga del lavoro continuo, della costante presenza in video per il conduttore siciliano. Ed è con le parole di Baudo, riferite proprio a questo periodo, che concludiamo il nostro excursus.

Un artista vorrebbe che l’applauso per lui non finisse mai. Il successo è come una droga, e l’insuccesso è lo stesso: entrambi fanno male.”

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Gianluca Conte, "Cani acerbi"

30 Maggio 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Gianluca Conte, "Cani acerbi"

Cani Acerbi

Gianluca Conte

Musicaos edizioni

La prima cosa che colpisce è il linguaggio crudo, sincopato. Un insieme di lingua italiana con sbavature in dialetto che a volte stupisce per la prematura scomparsa del congiuntivo. Il ritmo, però, segue una cadenza armonica e, alla fine, si riesce a leggere con una certa fluidità. La prolificazione di parolacce, il linguaggio crudo appunto, serve a sottolineare situazioni paradossali, almeno apparentemente, perché sappiamo che nella nostra terra sono usuali.

Poi, girando le pagine, ci possiamo rendere conto che, sotto un’apparente patina di semplicità, c’è una certa ricchezza di temi. Temi attuali, che sono insiti nella società in cui siamo immersi, come l’ambiente, la prostituzione o la corruzione politica. Temi che scottano e che forse non sono mai abbastanza trattati.

Il Salento fa da sfondo, quello che chiamiamo il tacco d’Italia, è il teatro di vicende che mettono in luce commistioni e collusioni. Una terra dove è tutto semplicemente normale, anche violare la legge, glissare sulle regole della convivenza civile. Il “tutto”, quello che l’autore racconta, è rigorosamente inventato, ovvio, come dichiara la prima pagina del libro.

I personaggi principali sono due amici, uno giornalista di provincia e l’altro agricoltore “per caso”, ma non troppo perché si evince nato con la vanga in mano. Due persone animate dalla curiosità, anche se poi non affondano mai abbastanza nel loro mondo, conservando quasi sempre un atteggiamento un po’ goliardico.

Al contorno, le anime di questa terra sperduta tra le compagne del Salento, dipinte con alcune pennellate sicure, escono e s’impongono alla nostra attenzione, sempre che si riesca a non scivolare oltre o, meglio, che si riesca ad entrare dentro il racconto, che a tratti è così sincopato da costringerci a cercare il collegamento tra un’azione e l’altra.

Una lettura nel complesso interessante per la prospettiva dalla quale ci obbliga a guardare una realtà così lontana da noi cittadini, un mondo che ancora conserva alcune caratteristiche dell’Italia del dopoguerra.

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Chiara Serafina Campolattano, "Dove cedono le stelle Poesie"

21 Maggio 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Chiara Serafina Campolattano, "Dove cedono le stelle Poesie"

Chiara Serafina Campolattano

Dove cedono le stelle

Poesie

Rosa Anna Pironti Editore

La poesia della giovanissima Autrice Chiara Campolattano si rivela subito poesia di ricerca. Ricerca dell’essenza, del senso: senso ed essenza che non possono prescindere da una vita pienamente vissuta con totale consapevolezza, spesso ricerca travagliata a causa della imperfezione umana, intesa sia come limite imposto agli uomini dalla natura, sia come limite della volontà: poche incisive parole (“non si sa”, in L’Amicizia), che subito si sciolgono in leggiadre similitudini fino a giungere al concettoso, oserei dire sovrumano lemma (Assoluto), meta agognata e temuta da tutti.

Ancora una volta ritroviamo il tema dell’amicizia (Amico), così ambita su questa terra, così utile, ma il desiderio di essa s’invola più facilmente in esseri incorporei (Angeli), che, come gli antichi numi tutelari, nel silenzio e nella immaterialità sono pur sempre presenti accanto a ognuno di noi.

Sì, perché essi non tradiscono mai (custodi affidabili, amici sinceri), come invece può succedere a chi, coltivando valori effimeri, quale la bellezza, rischia di contaminare in suo nome anche l’amicizia. (Bellezza cosa buona e cattiva allo stesso tempo).

Questa ambiguità è presente, secondo l’Autrice, in molti altri comportamenti umani, quelli spinti dalla semplice curiosità, e quelli che delimitano giorni in chiaroscuro, dove luci e ombre si alternano, e sperimentano nei valori essenziali il conforto del calore umano (effetto dell’ amore, amicizia, pace) e dell’aiuto reciproco (Fraternità)(Pace)(Nella vita).

Talvolta invece è estrinsecazione di diversità, termine inclusivo e non esclusivo, così come una tavolozza di colori diversi contiene in sé tutte le sfumature dell’arcobaleno, senza nessuna esclusione (Diversità).

Ma quasi sempre questa anfibolia è sinonimo di lotta interiore tra due stati d’animo opposti che solo la lettura o la musica riescono a placare (Libri “Svago della mente”, Musica:” E’ una medicina per i mali dell’animo”).

A questo punto compaiono come una vera e propria cesura un gruppo di tre poesie che procedono con un ritmo più gradevole e sicuramente stilisticamente più efficace. Esse sono dedicate al Natale, e l’osservazione di un evento rituale nelle sue caratteristiche e tradizioni sembra trasmettere all’Autrice la gioia pura e semplice ma totale della narrazione poetica. Ma già nella terza poesia del gruppo (Presepi) l’aspetto gnomico finisce con l’appesantire e togliere vivacità ai versi.

La terza sezione, per così dire, riguarda pensieri e considerazioni che delineano la sensibilità di un’adolescente gravata da troppi pesi, e appesantita da troppe responsabilità, a cui volentieri si sottopone.

Si tratta di una consapevolezza acquisita sicuramente precocemente che considera la vita come un rischio da correre, come una vittoria da conquistare al gioco (la vita è come un gioco, in cui devi giocare ed usare tutte le tue carte ed accettare qualche piccola sconfitta).

Ciò a cui spesso l’autrice indulge è l’espressione “vita parallela” (la Libertà... è una vita parallela, in La libertà) (i libri..mondo alternativo, vita parallela, in Libri) (Sogno e realtà sono due mondi paralleli, in Sogno e realtà), segno forse questo di desiderio di fuga dalla realtà. Versi che lasciano un po’ di amarezza, a dire il vero. Non così il componimento “Perdersi”, in cui c’è tutta la determinazione di chi è artefice del proprio destino e aspira al Cielo pur rimanendo ancorato alla terra, che insegue cioè sogni ma non rifiuta la realtà e la concretezza dell’azione per la salvaguardia del mondo esterno e di quello interiore.( E ci svegliamo la mattina con l’anima in guerra pronti a cambiare il mondo degli ultimi e pronti a proteggere il nostro mondo).

Si tratta quindi di un’evoluzione graduale nella maturazione di fronte alla vita nei suoi aspetti più complessi, che alla fine viene accettata per quello che è, (la dura eppure magnifica vita,in Va’ dove ti porta il cuore)( La mia rosa, La rosa più importante che splende in un giardino di pungenti spine e dolori).

Solo con tale consapevolezza è possibile costruire dentro di sé una forte struttura capace di affrontare le avversità quotidiane, (…la sicurezza che c’è in noi è un’arma per combattere contro le avversità della società..in Sicurezza), aiutati anche dagli affetti e dai ricordi (Memoria,Ricordi).

Meritano di essere analizzate singolarmente le composizioni più lunghe.

In “C’era una volta…” l’ansimante anafora che si sussegue per parecchi versi produce un climax ascendente che genera grandissima emozione anch’essa galoppante in concomitanza con l’accavallarsi delle immagini poetiche. Sorprende la luce, sinonimo di serenità e di gioia che sembrano possedute per sempre, quasi deposte in cornice; ma è qui che crolla la gioia: “C’era una volta la cornice all’immagine del nostro non so”. Sarà sempre “un ritratto non disegnato”(Foto)

Chiusura dolente…che lascia tuttavia una speranza. Non è il nulla, è il non sapere.

Davvero ermetico il componimento “Il serpente bianco”, anche se s’intravede la lotta (tra il bene e il male? Tra due amici? Tra i componenti di una coppia legata da vincoli coniugali? Tra il “gigante e la bambina”?). L’insidia è avvenuta, il tradimento anche, l’odio contamina quel che resta, i frutti del giardino sono andati perduti. Non c’è possibilità di perdono, non c’è spazio per la commiserazione.

Eppure c’è una dolcezza dolente che si coglie nel ciliegio non più in fiore, che allude alla bellezza passata e prelude all’amarezza presente.

Avrei voluto che il componimento si chiudesse con la speranza dell’oblio, consapevole o inconsapevole, sicuramente di maggior conforto che non la metaforica ombra regalata dalla foglia.

Oblio

Senso di sconfitta, di disfacimento, di impotenza si legge tra i versi di Oblio. Una vita dimenticata, non amata, sperperata. Un volo di farfalla a riportare il tempo all’indietro, uno sguardo stanco al sole per dichiarare l’abbandono alla vita.

Orgoglio

Quando le mani e il cuore si contaminano per azioni riprovevoli, quale il dolore inferto agli innocenti nelle guerre di tutti i tipi e di tutti i tempi, è difficile recedere dalla durezza del cuore. Ma non ci potrà essere alcuna ricompensa che valga a giustificare il male commesso.

Qualcosa che non va

C’è un latente interrogativo in questo componimento poetico. Alla domanda implicita v’è una triplice risposta che in modo graduale porta l’Autrice a staccarsi da una percezione egotistica (“Io sarei stato solo io se non ci fossi stato tu” ) di se stessa per giungere a includere nella sua stessa essenza quell’interlocutore segreto a cui si rivolge quale causa del suo straniamento (“Senza stare in mezzo al cielo come l’aquilone che ha perso il filo”) e alla fine ragione del suo esistere (“io sarei stato solo io un essere pieno senza te, ma probabilmente non mi sarei bastato”). Credo questa una delle più belle poesie insieme a C’era una volta…

L’impressione del lettore, che naturalmente può essere fuorviata anche da una non adeguata empatia con chi scrive, rivela una capacità di scrittura che, se da una parte abbisogna di conoscenze tecniche e di un esercizio stilistico preciso, dall’altra è capace di riflessioni e pensieri complessi che indagano nel mistero della vita con sguardo a volte dolente, a volte deluso. Certamente sono presenti sprazzi di speranza, soprattutto allorché più matura è la consapevolezza del vivere.

Tuttavia il consiglio è di intraprendere a scrivere versi ispirati dalla Bellezza, dal miracolo della Vita, dalle passioni positive, dalla gioia delle piccole cose proprio come recitano gli ultimi versi della poesia dedicata al Natale, e soprattutto di percorrere con leggerezza adolescenziale i passi della vita che, una volta divenuti adulti, diverranno più pesanti, come avviene per tutti.

Che bello il Natale, che mai annoia,

ma ci porta sempre una gran gioia!

Adriana Pedicini

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Gipi, "unastoria"

13 Maggio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #vignette e illustrazioni

Gipi, "unastoria"

Gipi

unastoria

Coconino Press- Fandango

Euro 18 – Pag. 30

Ho comprato unastoria Spinto dalla curiosità di una graphic novel finalista al Premio Strega e vincitrice del Premio Speciale Mondello, deciso a rimuovere i miei pregiudizi sulla diversità di linguaggio tra cinema, fumetto e narrativa, sicuro che avrei scoperto un capolavoro. Niente di tutto questo. Ho incontrato un grande pittore come Gianni Pacinotti, in arte Gipi, che realizza tavole ad acquarello degne d’una mostra d’arte contemporanea, ma è molto più scarso quando disegna elementari tavole in bianco e nero. Ho conosciuto un mediocre scrittore, purtroppo, incapace di sceneggiare un fumetto d’autore e di fondere insieme due storie, quella di Silvano Landi, un cinquantenne che vede la sua vita andare a pezzi, e quella di un antenato soldato nella Prima Guerra Mondiale. Una sola trovata poetica in 130 pagine non basta per giustificare nomination al Premio Strega e assegnazione del Mondello, ma tant’è, dobbiamo accontentarci, questo passa il convento. Terminiamo l’albo (tempo di lettura: dieci minuti scarsi) con impressa nella memoria l’immagine di un adolescente che si sveglia in una notte e si vede con la faccia dei suoi cinquant’anni. Il fumetto ci spiega che un uomo cerca sempre di sopravvivere, di andare avanti, nonostante fragilità, lacrime e cadute negli abissi della disperazione. Davvero troppo poco. Non c’è scrittura in questa storia composta da due storie, imbrigliata nella pochezza narrativa di situazioni stereotipate e spesso confuse. Il fumetto è infarcito di dialoghi scarni e didascalie che non hanno niente di letterario, al punto che apprezziamo diverse sgrammaticature: cinquantanni scritto proprio così, senz’apostrofo, uso del pronome ello, desueto dai tempi del Manzoni, ed e ad dispensati a sproposito per vignette e racconto, sceneggiatura zeppa di buchi, storie slegate, narrazione sfilacciata, inconcludente. Se unastoria fosse un film sarebbe una pellicola irrisolta, se fosse un romanzo sarebbe un feuilleton ridondante, se fosse un fumetto, come dovrebbe essere, non potremmo mai paragonarlo alle storie di Art Spiegelman e Marianne Satrapi, ma neppure a Hugo Pratt e Milo Manara, al massimo un fumetto da edicola, stile Bonelli, con tutto il rispetto per le storie pubblicate da Bonelli. Il nostro è il paese delle cose incomprensibili, dei successi improvvisi, delle sopravvalutazioni create ad arte, dei fenomeni editoriali costruiti a tavolino. Piace creare scalpore e clamore, non cercare veri talenti, tanto in giro c’è pieno di gonzi che abboccano, uno tra questi il vostro povero recensore che - terminata la lettura - si è chiesto sconcertato: “E la letteratura? Dov’è la letteratura in questa graphic novel esaltata dalla critica e dalle giurie dei premi?”. In realtà la domanda non era proprio questa, ma una colorita espressione toscana che non posso riferire. Resta la pietosa bugia che ottiene il visto censura.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Jason d'Argot, "La bugia dell'alchimista"

12 Maggio 2014 , Scritto da Eleonora Tiliacos Con tag #eleonora tiliacos, #recensioni

Jason d'Argot, "La bugia dell'alchimista"

La bugia dell’alchimista

(La Lepre Edizioni, novembre 2013)

Autore: Jason d’Argot

Curatrice: Fiammetta Iovine

Può una bugia illuminare la verità? Domanda non da poco, se si parla della seicentesca Porta Magica di piazza Vittorio e del suo artefice Massimiliano Palombara, il marchese alchimista che fu amico di Cristina di Svezia e in sinergia con alcuni fra i maggiori intellettuali del XVII secolo. Emblema della Roma segreta, la porta è ciò che resta della villa suburbana dei Palombara, demolita come gran parte delle antiquitates del rione Esquilino intorno al 1870, per far posto alle case e agli uffici della burocrazia sabauda.

Il romanzo La bugia dell’alchimista ruota intorno a questo oggetto misterioso, da quattro secoli magnifica ossessione degli ermetisti, perché nella sequenza di simboli e iscrizioni che vi è incisa sarebbe criptato il segreto della pietra filosofale, o se si vuole la rivelazione dell’Arcanum Arcanissimum avuta da Palombara “per grazia divina” – come lui stesso lasciò scritto - in una domenica di ottobre del 1652.

Questa è anche la tesi dell’autore Jason d’Argot, che finora non ha svelato la sua vera identità, e di Fiammetta Iovine, che del romanzo è curatrice: la Porta Magica sarebbe la sintesi della rivelazione, la “bugia di pietra” protesa a illuminare le tenebre, secondo un tema caro a Palombara, che intitolò La bugia due differenti raccolte di rime, scritte a quattro anni di distanza l’una dall’altra.

Il gioco di specchi già insito nel titolo, nell’ambiguità di un termine che può voler dire tanto “lume” quanto “non-verità”, si moltiplica via via nel romanzo, composto da due diversi manoscritti - l’uno seicentesco, l’altro contemporaneo – e da due trame che si riveleranno simmetrici riflessi dello stesso caleidoscopio. Tutto inizia quando la ricercatrice napoletana Cristina Spirito, studiando le Carte Palombara nella biblioteca di Palazzo Massimo, trova celato nella cucitura di un faldone il diario seicentesco di Lisbetta Vincioli, fuggita dalla brutalità familiare e costretta a una vita raminga di teatrante sotto spoglie maschili, finché l’incontro con il marchese alchimista non cambierà la sua vita. Man mano che Cristina Spirito legge il memoriale di Lisbetta, accumulando al contempo elementi utili alla decifrazione dei simboli della Porta Magica, vede dissolversi o concretizzarsi dubbi, segreti, scelte esistenziali possibili. La sua quotidianità si costella di incontri importanti e inspiegabili, di episodi che Jung definirebbe “coincidenze orientate”, mentre l’aura del soprannaturale intorno a lei si fa sempre più immanente.

Sull’altro versante, quello seicentesco del diario di Lisbetta, reso con una prosa rétro ad hoc, prendono forma le vicende storicamente documentate di Palombara, di Cristina di Svezia, o di grandi eruditi come Kircher, Borri e Santinelli, in contrappunto con uno stuolo di personaggi d’invenzione che ricordano nelle tinte decise quelli di Dumas. Il tutto raccontato con una sorprendente mutevolezza di punti di vista e di scenari, dal cenacolo della regina Cristina ai lazzaretti della peste, dai laboratori alchemici ai teatri della Commedia dell’Arte, senza far mancare al lettore suspence, colpi di scena, inseguimenti, agguati e un buon campionario di nuance di amore e d’odio.

Jason d’Argot è evidentemente uno che la sa lunga e ha di certo ruspato negli archivi storici di mezza Europa per mettere insieme i tasselli del suo ampio mosaico; l’erudizione non gli impedisce però di imbastire una narrazione mossa, briosa, che a tratti cita sornionamente il feuilleton, con lo stesso spirito con cui Massimiliano Palombara lascia aleggiare ironia e “sorriso alchemico” nelle sue rime o nelle sue sciarade di pietra. Il libro è consigliato in particolare a chi già sa che l’alchimia è ricerca spirituale più che miscuglio di metalli, ma anche a chi è affezionato a un’idea di romanzo “classico” e con ampio respiro storico. I più edotti di alchimia ed esoterismo avranno anche il piacere di trovare, incastonate nella trama, recenti scoperte sui simboli della Porta Magica e un corredo di affascinanti illustrazioni, tra le quali le incisioni di Cancellieri e Piranesi.

Jason d'Argot

nasce a Smirne nel 440 d.C. e realizza la Pietra Filosofale verso l’anno 507. Dedica la prima parte della sua lunghissima vita agli studi sulla palingenesi. Per oltre seicento anni fa perdere le sue tracce e non si sa nulla di lui. Nel 1210 conosce Francesco d’Assisi ed entra a far parte della comunità francescana della Verna. Nel 1423 si trasferisce a Firenze, dove dipinge alcuni notevoli capolavori, assumendo l’identità di un noto pittore rinascimentale. Si perdono le sue tracce per alcuni anni, poi riappare a Londra nel XVI secolo e pubblica alcuni trattati scientifici che ispirarono sia Robert Boyle che Isaac Newton. Nel 1652, durante un viaggio a Roma, conosce Massimiliano Palombara. Tra il XVII e il XIX secolo è tra gli autori del manifesto rosicruciano “Fama Fraternitatis” e fonda numerose obbedienze di ispirazione framassonica. Alla fine del XX secolo scompare misteriosamente dopo aver fatto parte, sotto falso nome, di vari governi europei. Innumerevoli e universalmente apprezzate sono le sue opere letterarie, poi attribuite ad altri, che l’autore ci ha vietato di rivelare.

Jason d'Argot, "La bugia dell'alchimista"
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Mauro Cesaretti, "Se è vita lo sarà per sempre"

10 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

Mauro Cesaretti, "Se è vita lo sarà per sempre"

Se è vita lo sarà per sempre

Mauro Cesaretti

Montag

Nella silloge “Se è vita lo sarà per sempre”, di Mauro Cesaretti, primo libro di una futura trilogia, l’oggetto del contendere è La Vita, come può apparire ad un ragazzo molto emotivo: difficile, piena di delusioni e di paure. La gestione delle emozioni è il compito più arduo.

Mauro Cesaretti è un adolescente dalla ricca vita interiore, un performer che accompagna i suoi versi con la danza e il gesto. L’onda dell’emotività rischia di sommergerlo, perciò prende la penna e scrive per arginare suggestioni, turbamenti, angosce, fobie, sogni. Se troppo sensibili, si vive senza pelle, con i nervi allo scoperto: tutto ferisce, tutto ingigantisce, tutto fa male. È per questo che, a diciotto anni, Cesaretti già sente la fatica di vivere, si sente già “lasso”. E, tuttavia, non smetterebbe mai di guardare il mondo “con gli occhi del cuore”, emozionarsi ed emozionare, svelando gli oggetti nella loro essenza, togliendo loro il velo della mediocrità.

Ci parla di cose quotidiane: il gatto nel giardino, il padre, la ragazza, la poesia, la solitudine, la metafora del viaggio, il bagaglio perso che simboleggia ciò che siamo stati, i nostri ricordi, ma già considera la vita “lercia”, “lurida”, e può esserlo davvero, a tutte le età, in tutte le condizioni, perché la sofferenza non ci lascia mai. C’è comunque resistenza al dolore, non abbandono, tentativo di rinnovarsi: “l’estate seguente mi ricreo/in un getto d’acque calde.”

Quando si è molto giovani – e diciotto anni oggigiorno sono pochi – si tende a non rinunciare a niente di ciò che abbiamo scritto. Non è nemmeno ostentazione o vanità, piuttosto l’entusiasmo di condividere tutte le emozioni, e la paura di lasciare fuori qualcosa. Abbiamo perciò, qui, una ricerca stilistica ancora immatura, e con ampio margine di miglioramento. Si sperimentano varie strade senza tralasciare nulla, dal recupero di stilemi ottocenteschi a un tentativo di ermetismo blando – senza, almeno in apparenza, dilavare, distinguere, scegliere, ripulire. È una indagine che non ha ancora trovato la sua via, fra assonanze sibilanti - “La compagnia interessante /di sassi pesanti./L’allegria passante per i pressanti suoni.” – e cacofoniche – “Sarà uno scatto fermo, preso alla sprovvista/d’una svista mista tra i ripensamenti/di incombenti scelte incerte e delusioni.”

Lo studio metrico c’è, fino a trovare anche un certo ritmo gradevole che, però, non è mantenuto fino in fondo. L’autore pare sviarsi, cambiare stile ad ogni strofa, non raggiungere l’intensità voluta e persino incappare in qualche licenza di troppo. Come spesso accade, le immagini più belle sono quelle senza pretese, quasi sfuggite all’autore distratto, come “il faro sulla collina stanca.

Concludiamo proponendo una delle poesie più piacevoli:

Io e te

Siamo solo io e te.

Tutto il resto è fermo

e silenzioso.

Solo quella lacrima si muove

sul tuo volto rosato

e tutto il mondo diventa

salato e arido.

Questi sassolini bianchi

ricoperti di cenere,

vengono spolverati da

questo tuo sorriso.

Ti abbraccio forte e il tuo sguardo

mi penetra il cuore,

il tuo sguardo amaro,

ma pur sempre amichevole.

I tuoi occhi blu

brillano nel tramonto

di questa faccia seria e serena,

e mentre sei assorta in qualche pensiero,

nel vuoto dell’infinito,

il cielo si dipinge di grigio.

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Otello Chelli, "Gente della Venezia"

8 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #luoghi da conoscere

Otello Chelli, "Gente della Venezia"

Gente della Venezia

Otello Chelli

Finegil Editoriale spa 2014

Divisione Il Tirreno

Gruppo Editoriale l’Espresso

Narra la leggenda che Otello Chelli, classe 1933, abbia imparato a leggere sedendo accanto alle locandine dei giornali. Autodidatta genuino, scrive in una lingua dove ogni parola è letteraria ed intrisa di pathos, ma gli sfuggono errori e refusi che il Tirreno - da cui si può scaricare l’ebook “Gente della Venezia” - non ha provveduto a correggere proprio perché la materia di questo cantore della labronicità più intensa deve rimanere quella che è, grezza e lucente come un diamante appena estratto, aulica e popolare insieme.

Anarchico e libertario, comunista in senso quasi evangelico, Otello Chelli ha alle spalle una lunga produzione di opere sia in prosa che in poesia. Il suo romanzo “La stirpe dei Morgiano”, ormai introvabile, passa di mano solo fra gli amatori. Quello che ci lascia oggi, all’età di ottantuno anni, è un vero e proprio testamento. Prima di congedarsi vuol testimoniare un mondo che vive e palpita solo nei cuori degli ultimi superstiti. Con la generosità e lo spirito solidale, a momenti francescano, che lo anima, Chelli fa in modo che il suo lascito sia fruibile da tutti e scaricabile gratuitamente dal quotidiano della sua città.

Già, la città, quella stessa Livorno cantata da Caproni, patria di Mascagni, Fattori, Modigliani. Ma non tutta, solo un quartiere, piccolo per la verità, che si dilata e giganteggia, erge invisibili mura di fossati, di ponti, di barriere che lo separano dal resto del centro toscano: la Venezia.

Il quartiere si chiama così perché ricorda la città lagunare, fra ponti e canali, scalandroni e navicelli; è architettonicamente molto bello, ha conosciuto il suo massimo splendore nel settecento, Luchino Visconti vi ha girato “Le notti bianche”. Per Chelli costituisce un macrocosmo, un intero universo, il teatro all’aperto dei suoi sogni di bambino, il luogo dell’anima dove tutto è possibile.

Il testo è totalmente autobiografico ma di quell’autobiografismo capace di scardinare i propri limiti e ridisegnare un mondo, un territorio e un tempo, popolati da una folla di uomini e donne che sembrano usciti da un atto di Cavalleria Rusticana o da un quadro di Eugenio Cecconi, anche se i fatti narrati sono posteriori e coprono l’arco che va dagli anni trenta al dopoguerra. Gente che fu, gente del popolo, svelta di mano e di coltello, pronta a lavare un’onta col sangue e a rubare per sfamare i figli, ma capace anche di dividere tutto con gli amici. Gente di cuore che sa aiutare e compatire nel senso letterale del termine.

Il testo – non lo chiamiamo romanzo perché è piuttosto una sere di quadri, di “spezzoni”, come li definisce l’autore – rievoca figure storiche, con tanto di nome, cognome e soprannome. Si parte da Artemisia, madre del protagonista.

Artemisia aveva chiamato i figli per dare loro il solito cantuccio di pane con qualcosa dentro per insaporirlo. Lei e Pepe Nero avrebbero cenato nella fiaschetteria di Edipo con una fogliata di acciughe sotto il pesto e un litro di vino rosso.”

È un’Annina meno fine e meno caproniana, sanguigna, scarmigliata, dalla risata squillante, pronta a battersi come una tigre in favore degli otto figli ma anche dei figli delle vicine; capace addirittura di incontrare il duce in persona per difendere il marito dagli squadristi. Ma, soprattutto, generosa:

Mamma poteva contare abbondantemente sui soldi guadagnati con i miei traffici, la fame ci era sconosciuta, ma nel mio nascondiglio, ne avevo uno anche nel labirinto della Fortezza Nuova, più ne mettevo, più il mucchio scemava. Era più forte di lei. Non poteva dare da mangiare ai propri figli mentre intorno altri bambini e ragazzi stavano a guardare con gli occhioni spalancati e una luce mista di desiderio, brama e supplica. Così divideva pranzo e cena con tutte le famiglie abitanti nel nostro pezzo di colonia e anche oltre, per me era padrona di farlo, mai avrei potuto richiamarla alla moderazione nella spesa quotidiana, perché condividevo pienamente quella solidarietà, del resto generalizzata, forse il dato più bello da registrare in quei lontani giorni di tragedia.”

Dopo Artemisia, ecco la Ciucia, cui è dedicato anche il libro della pronipote Tiziana Savi,La Ciucia per tutti, Bruna per noi”, sempre con la partecipazione di Chelli. La Ciucia era un carattere borderline, una donna buona e compassionevole, che ogni giorno chiedeva – anzi, diciamo pure pretendeva – l’elemosina per consegnarla ai soldati e a coloro che soffrivano. Sparì senza che se ne sapesse più niente.

Fra i personaggi riportati in vita da Chelli, spicca la giovanissima e bellissima Doretta, innamorata di un amore infantile ma carnale, morta sotto i bombardamenti.

Ho vissuto una lunga, tumultuosa esistenza eppure, mentre mi avvio verso l’ultima tappa di questo mio viaggio sulla terra, la presenza dello spirito inquieto di Doretta è sempre più costante e qualche volta m’illudo che ella stia aspettando il momento in cui il mio corpo cederà alla morte, per allungare la sua mano, tirarmi su e correre insieme a me per le strade strette, battute dal libeccio, con i fossi pieni di navicelli e di vita, in una Venezia immortale che non sarà mai travolta dalla guerra che il 28 maggio 1943 distrusse le sue mura, ridusse alla rovina le sue case cancellando una splendida fiaba e disperse la sua gente in una diaspora senza ritorno”.

E poi Otello Bacci, il musicista assurto agli onori della rivista con Dapporto e Totò; e Silvano Ceccherini, ex capo di una banda di ladri, ex detenuto e poi scrittore; e l’amico fraterno Sansone, compagno di tante avventure pericolose e illegali, rinnegate da Chelli in favore dell’impegno politico. Come Doretta, anche Sansone è morto e mai dimenticato.

Mi inginocchiai sulla terra sotto la quale era stato sepolto e immersi un dito nella superficie marrone, fresca d’umidità, piena dell’odore buono dei campi e pensai ala sua anima: sapevo come in quel momento Sansone fosse finalmente libero.

A far da sfondo tridimensionale ai personaggi sono i luoghi ma, specialmente, i momenti storici. In particolare tre: il fascismo, i tragici bombardamenti che rasero al suolo Livorno durante il secondo conflitto, e l’occupazione americana che trasformò Livorno in una novella Babilonia di traffici illeciti, malavita, borsa nera, “segnorine” e soldati di colore, con la pineta di Tombolo convertita in terra di nessuno, in covo di banditi e prostitute.

Al di là della ricostruzione storica vivissima e partecipata, ciò che anima il racconto è la nostalgia straziante di un mondo sparito, fatto, sì, di stenti, privazioni e atti illeciti, ma anche di uguaglianza, amicizia, solidarietà, in pieno spirito labronico. Quel periodo, quello spazio, quel quartiere, incarnavano gli ideali che l’autore ha perseguito per tutta la vita. Otello Chelli è, infatti, un comunista della prima ora, di quelli che intendono l’impegno politico come lotta, ma anche amore, dedizione, onestà e purezza. Ideali destinati ad infrangersi e a rimanere sempre irraggiungibili. Ideali che, al sapore acre della sconfitta, mescolano quello del rimpianto per la giovinezza che non c’è più, per la vita che sta per concludersi. Così, quest’uomo che ha superato gli ottanta anni, quest’uomo che, dice, non ha mai avuto paura di morire, quest’uomo duro ma col ciglio bagnato del poeta, si congeda da noi tramite la riaffermazione lucida e disperata di ciò in cui ha sempre creduto.

Voltai le spalle al tumulo e mi avviai verso la città laddove avrei affrontato altri settanta anni di vita tumultuosa, inquieta, mai facile, ma ricca di impegno e sacrifici, di dolore e felicità, di ideali poi infranti dagli uomini, in me, però, rimasti vivi come allora e sempre.”

E ora, anche se nel testo esaminato non è compresa, ci piace accostare - timidamente e con pudore - una poesia di Chelli che commemora la figura di Artemisia ad una caproniana in memoria di Anna Picchi. Lo facciamo così, senza nessuna pretesa, solo col piacere di evocare sentimenti simili.

IL CARRO DI VETRO

Giorgio Caproni

Il sole della mattina,

in me, che acuta spina.

Al carro tutto di vetro

perché anch’io andavo dietro?

Portavano via Annina

(nel sole) quella mattina.

Erano quattro i cavalli

(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo

di notte era morta, e d’inverno.

Fuori c’era il temporale.

Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina

allora, anche quella mattina,

perché si mise a suonare

la sveglia militare?

Era la prima mattina

del suo non potersi destare.

IN MORTE DI MAMMA ARTEMISIA

Otello Chelli

Corsi, con il cuore che martellava dentro,

nella notte interrotta

e nei silenti, deserti corridoi dell’ospedale,

la speranza lentamente svaniva nell’affanno

di una certezza che mi strozzava in gola

l’urlo del distacco imminente da te viva.

- “Muore colei che mi stringeva al petto

con amore,

quietava i sonni miei,

e mi donava il sangue dal suo seno.” -

La porta aperta sul volto tuo disteso,

gli occhi velati, la fronte senza rughe,

una carezza e il tenue calore rimasto sulla pelle,

come il tenero petto di un passerotto implume,

mi resero il bambino disperato

che piangeva svegliandosi nel buio.

Ora non c’eri più con il tuo sguardo,

a placare le molte mie inquietudini

e gli affanni della ricerca antica

che mai mi ha dato requie.

La morte si era presa il tuo respiro,

senza l’ultimo abbraccio dei tuoi figli

ed io gemevo piano, con il viso

posato sul tuo capo reclinato.

L’alba mi vide accanto al freddo marmo,

chinato sul tuo corpo a ricordare

i momenti più belli della vita

e i giorni sfortunati.

Poi vennero i fratelli e le sorelle,

i mille pianti, i fiori

e il noce lucidato della bara,

il lento camminare sull’Aurelia,

con gli amici in attesa avanti casa

e i mattoni a serrare il nostro cuore

nella gelida morsa del dolore.

Ora, trascorso il tempo, sono sceso quaggiù,

nell’oscuro snodarsi delle tombe,

davanti al tuo ritratto.

Brillano fiochi lumi e il tuo sorriso,

tra il biancheggiar dei fiori,

è una povera immagine

della squillante risata di mia madre,

quando, giovane, bella e forte,

un bimbo rincorreva lungo il viale

accanto alla Crocetta di Saglietto.

Eppure, Mamma, il tuo ricordo,

nonostante lo scorrere di giorni mai tranquilli,

è presente, ben vivo e mi accompagna

in questa vita vissuta intensamente.

Il tuo corpo è tornato nella terra

che si frantuma attorno e che rinasce

dalle ceneri sparse

di un fuoco che ha vissuto sessant’anni.

Tu rivivi con me, con i miei giorni,

soffri e gioisci nei miei sentimenti,

ti rifletti negli occhi dei miei figli,

scorri con me le pagine diverse

degli anni che trascorrono, cadendo,

uno sull’altro, come foglie d’autunno.

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