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recensioni

Da "Twilight" a "Cinquanta sfumature di grigio", dissoluzione di un mito

20 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #saggi

Per fanfiction s’intende la continuazione di una storia cult da parte degli appassionati. I lettori affamati di altro materiale possono proseguire la storia, colmare le lacune, resuscitare i loro beniamini, creare sequel o prequel. Nel caso della fanfiction di “Twilight” di S. Meyer, ovvero il famigerato, inflazionato, “Fifty Shades of Gray” - dove Gray sta per Grigio ma anche per il cognome dell’algido, imbalsamato, stoccafissico protagonista - più che di una continuazione si tratta, a quanto pare, di una parodia che ha preso la mano alla scrittrice Erika James.

Nell’introduzione viene spiegato che ella “dreamed of writing stories that readers would fall in love with”. Bene, ci pare che sia proprio ciò che non ha fatto, mentre l’operazione era perfettamente riuscita alla Meyer. E tuttavia, quando un caso editoriale assume tale portata, quando ogni persona che incontri, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi studio dentistico o vagone ferroviario, tiene in mano una copia del romanzo incriminato, quando ogni libreria, ogni vetrina, ogni stand di autogrill trabocca di copertine tutte nere con un anodino groppo di cravatta, quando gli alberghi americani hanno sostituito la vecchia Bibbia con le Cinquanta Sfumature, allora non si può liquidare il fenomeno senza nemmeno tentare di capirci qualcosa.

Facciamo un passo indietro, torniamo all’originale, alla saga di Twilight, rivisitazione moderna ma ancora fascinosa del mito della Bella e la Bestia, dove la protagonista, appunto Bella Swan, è una ragazza qualsiasi, una Cenerentola capace di conquistare il principe dei vampiri, Edward, bello fino all’impossibile (cui l’attore del film omonimo non rende giustizia) non incenerito dal sole ma scintillante sotto di esso come un cristallo rifratto, puro di cuore, “vegetariano”, romanticamente lacerato fra i suoi istinti e l’input morale che lo spinge a sublimare il desiderio. Bella lo attira perché il suo sangue ha per lui il più dolce dei richiami, è nettare e delizia, è fragranza e rimorso. Pur di amarla, pur di starle vicino, soffocherà l’istinto omicida, lo trasformerà in protezione, che è poi quello che ogni maschio fa con la sua donna, tenendo a bada l’impulso sessuale, avvolgendolo di tenerezza. Bella Swan è vera, con problemi familiari tangibili, emozioni adolescenziali comuni a molte ragazze della sua età e una naturale propensione alla solitudine, alla malinconia.

Che resta di questi due personaggi in Fifty Shades? Edward Cullen diventa Christian Grey, privo di allure, sexy quanto un manichino da vetrina, maniaco sessuale sadico che si diverte a frustare le sue donne, ad appenderle al soffitto, a flagellarle, a inserire nella loro vagina sfere di piombo, a far loro firmare pedantissimi contratti sul ruolo Dominante/Sottomessa. Al contrario di Edward, Christian non sorride, ghigna, non è tormentato, non è romantico, “I do not make love”, dice, “I fuck hard”, ed è buono solo perché il suo maggiordomo compiacente ci dice che lo è. Christian Gray è un divoratore di fanciulle innocenti, come il suo ispiratore Alec Stoke in “Tess dei d’Urbeville” di cui, a quanto pare, la James è intenditrice. Christian regala alla sua vittima preziosissime edizioni del romanzo di Hardy forse per convincere lei (e pure noi) che nelle sue perversioni c’è qualcosa di letterario.

L’indomita, coraggiosa, Bella Swan diventa la brutta copia Anastasia Steele, un personaggio che non vediamo, che non ha volto, che è sempre tutto un bollore costante, che passa i suoi giorni ad arrossire, a mordersi il labbro e “andare in pezzi” per orgasmi multipli e stellari.

Quasi tutte le scene principali dell’originale Twilight sono fotocopiate nella fanfiction, stravolgendole e togliendo loro dignità. Non c’è trama, non c’è sviluppo, solo un susseguirsi di atti sessuali porno soft, sempre più ripetitivi al punto che, già al quarto o quinto, ci viene da sbadigliare: “oddio, no, lo fanno ancora.”

Bella Swan scopre, attraverso Edward Cullen e la sua gente, un mondo diverso, magico, sotterraneo, parallelo, dove vampiri e lupi mannari sono credibili e coerenti con questa nostra realtà moderna, con la realtà di tanti adolescenti americani.

La visita di Bella/Anastasia alla famiglia Cullen/Gray è un esempio di come l’inventiva, la fantasia e l’ironia della Meyer vengano trasformate dalla James in volgarità e pochezza. Persino i nomi dei padri dei protagonisti maschi si somigliano, Carrick, il padre di Gray, riecheggia Carlisle, il medico vampiro padre di Edward. Ma dove è finita la tensione morale, la lotta contro l’istinto che trasforma un vampiro potenzialmente letale in chirurgo compassionevole, sempre pronto ad aiutare chi soffre? Mentre Bella affronta con coraggio e ironia la famiglia vampira, sperando di non diventare lei la cena, confidando sull’istinto che le indica quelle persone come buone e capaci di proteggerla dal male, Anastasia Steele si presenta all’incontro senza mutande, fa piedino sotto il tavolo al suo dominante e sgattaiola appena può nella dependance per consumare l’ennesimo atto sessuale. Il divertimento è assente, il gioco è più osceno che erotico, la trama è solo un pretesto. Non c’è passione vera, solo l’iniziazione al sesso di una ragazzina che dice di volere di più dal suo mentore ma che, in realtà, ha in testa solo una cosa. Anastasia precipita in una spirale di perversione crescente, vittima consenziente di uno stalker, un uomo che gode a prenderla a cinghiate e la fa sentire umiliata e paga allo stesso tempo. Per riflettere, ella colloquia in continuazione con il suo subconscio e con la sua dea interiore, buona coscienza l'uno, cattiva l'altra, che sono, paradossalmente, forse i personaggi più vivi del libro, sebbene ce li immaginiamo come genietti saltellanti con un fumetto fuor dalla bocca.

Laddove l’originale vampiro sapeva commuovere, creare atmosfera, oscurità, amore, e dare corpi, volti e gestualità ai personaggi di una saga indimenticabile, qui tutto è narrato con un linguaggio ripetitivo, infarcito di una serie di mail soporifere, condito delle medesime esclamazioni infantili, “oh my”, dei medesimi aggettivi ed espressioni per descrivere scene ed emozioni sempre identici.

Quale sarà il motivo dell’incommensurabile successo planetario di una fanfiction, di una semiparodia nata su commissione? Per il primo libro la parte del leone la fa certamente la curiosità, stimolata dal passaparola, dalla sovrabbondanza di copie visibili ovunque, ma per arrivare a comprare il secondo e il terzo bisogna forse chiamare in causa lo stimolo sessuale cui si sottopongono le pruriginose lettrici, il voyerismo, il sadomasochismo latente in ognuno di noi. Oppure la voluta indeterminatezza della protagonista - la quale più che essere in realtà non è, non è bellissima, non è intelligentissima, non è brillantissima – fa sì che con lei si possano identificare milioni di donne anonime, desiderose di immaginarsi sessualmente irresistibili e capaci di catturare un bello-ricco-superfigo?

Non sappiamo la ragione di tanto furore e vorremmo che chi è arrivato alla fine della saga ce lo spiegasse perché, se errare è umano, perseverare fino al terzo libro pensiamo sia davvero diabolico.

 

By fanfiction is meant the continuation of a cult story by fans. Readers hungry for other material can continue the story, fill in the gaps, resurrect their favorites, create sequels or prequels. In the case of the fanfiction of "Twilight" by S. Meyer, or the infamous, inflated, "Fifty Shades of Gray" - where Gray stands for Gray but also for the surname of the icy, embalmed, stockfish protagonist - more than a continuation it is, apparently, a parody that took the hand of the writer Erika James.

The introduction explains that she "dreamed of writing stories that readers would fall in love with". Well, it seems to us that it is precisely what she did not do, while the operation was perfectly successful witht Meyer. And yet, when an editorial case takes on such significance, when every person you meet, at any latitude, in any dental office or railway wagon, holds a copy of the novel in your hand, when every bookstore, every showcase, every autogrill stand overflows of all black covers with an anodyne lump of a tie, when American hotels have replaced the old Bible with the Fifty Shades, then the phenomenon cannot be dismissed without even trying to understand.

Let's take a step back, go back to the original, to the Twilight saga, a modern but still fascinating reinterpretation of the myth of Beauty and the Beast, where the protagonist, precisely Bella Swan, is an ordinary girl, a Cinderella capable of conquering the vampire prince, Edward, beautiful to the impossible (to which the actor of the homonymous film does not do justice) not incinerated by the sun but sparkling beneath it like a refracted crystal, pure in heart, "vegetarian", romantically torn between his instincts and the moral input that pushes him to sublimate desire. Bella attracts him because his blood has for him the sweetest of calls, it is nectar and delight, it is fragrance and remorse. In order to love her, even to be close to her, she will suffocate the murderous instinct, transform it into protection, which is what every male does with his woman, keeping the sexual impulse at bay, enveloping him with tenderness. Bella Swan is true, with tangible family problems, adolescent emotions common to many girls of her age and a natural propensity for solitude, for melancholy.

What remains of these two characters in Fifty Shades? Edward Cullen becomes Christian Gray, free of allure, as sexy as a window mannequin, a sadistic sexual maniac who enjoys whipping his women, hanging them from the ceiling, scourging them, inserting lead balls into their vagina, making them sign very pedantic contracts on the Dominant / Submissive role. Unlike Edward, Christian does not smile, he grins, he is not tormented, he is not romantic, "I do not make love", he says, "I fuck hard", and is only good because his compliant butler tells us that he is. Christian Gray is a devourer of innocent maidens, like his inspirer Alec Stoke in "Tess of d'Urbeville" of which, apparently, James is an expert of. Christian gives his victim precious editions of Hardy's novel, perhaps to convince her (and we too) that there is something literary about his perversions.

The indomitable, brave, Bella Swan becomes the draft Anastasia Steele, a character we don't see, who has no face, who is always a constant boil, who spends her days blushing, biting her lip and "going in pieces ”for multiple and stellar orgasms.

Almost all the main scenes from the original Twilight are photocopied in the fanfiction, distorting them and taking away their dignity. There is no plot, there is no development, only a succession of soft porn sexual acts, more and more repetitive to the point that, already in the fourth or fifth, we are yawning: "oh god, no, they make sex again."

Bella Swan discovers, through Edward Cullen and her people, a different, magical, underground, parallel world, where vampires and werewolves are credible and consistent with our modern reality, with the reality of many American teenagers.

Bella / Anastasia's visit to the Cullen / Gray family is an example of how Meyer's inventiveness, imagination and irony are transformed by James into vulgarity and littleness. Even the names of the fathers of the male protagonists are alike, Carrick, Gray's father, echoes Carlisle, the vampire doctor who is Edward's father. But where is the moral tension, the fight against instinct that transforms a potentially lethal vampire into a compassionate surgeon, always ready to help those who suffer? While Bella faces the vampire family with courage and irony, hoping not to become their dinner, trusting the instinct that indicates those people as good and capable of protecting her from evil, Anastasia Steele shows up at the meeting without underwear, she caresses a foot underneath the table to its dominant and sneaks as soon as she can in the annex to consume yet another sexual act. Fun is absent, the game is more obscene than erotic, the plot is just an excuse. There is no real passion, only the initiation into sex of a young girl who says she wants more from her mentor but who, in reality, has only one thing in mind. Anastasia falls into a spiral of growing perversion, a willing victim of a stalker, a man who enjoys to make her feel humiliated. She continuously talks with her subconscious and with her inner goddess, good conscience, bad conscience, who are, paradoxically, perhaps the most alive characters of the book, although we imagine them as jumping little geniuses with a comic out of the mouth.

Where the original vampire knew how to move, create atmosphere, darkness, love, and give bodies, faces and gestures to the characters of an unforgettable saga, here everything is narrated in a repetitive language, stuffed with a series of soporific emails, topped with the same childish exclamations, "oh my", of the same adjectives and expressions to describe always identical scenes and emotions.

What is the reason for the immeasurable worldwide success of a fanfiction, of a semi-parody born on commission? For the first book, the lion's share certainly is curiosity, stimulated by word of mouth, by the overabundance of copies visible everywhere, but to get to buy the second and third, it is perhaps necessary to call into question the sexual stimulus to which the itchy readers undergo, and the voyerism, latent sadomasochism in each of us. Or the intentional indeterminacy of the protagonist – who, more than being, she “is not”, she is not beautiful, she is not extremely intelligent, she is not brilliant. This means that millions of anonymous women can be identified with her, eager to imagine themselves sexually irresistible and capable of to capture a handsome-rich-super-cool?

We do not know the reason for such fury and we would like those who arrived at the end of the saga to explain it to us because, if to err is human, to persevere until the third book we think is truly diabolical.

 

 

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Davide Puccini, "Renato Fucini opere"

18 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Davide Puccini, "Renato Fucini opere"

di Patrizia Poli

Renato Fucini – Opere

A cura di Davide Puccini

Edizioni Le Lettere

Davide Puccini, saggista, fine studioso, ma soprattutto appassionato di letteratura italiana ha curato questa nuova edizione delle opere di Renato Fucini. L’operazione, spiega, deriva dalla necessità di riproporre un autore ormai dimenticato, di cui non si trovano più le opere.

L’unico libro ancora in circolazione contiene circa 5000 errori su 1000 pagine. I testi di Fucini sono stati mal compresi, rovinati dai parenti, dagli stampatori, di edizione in edizione. Puccini ha dovuto risalire ai manoscritti, contenuti nelle biblioteche fiorentine, e compiere un’opera certosina di ricostruzione dell’originale.

Il volume è ponderoso, consta di circa 700 pagine e raccoglie tutte le opere pubblicate in vita da Renato Fucini, non le postume, ritenute inferiori. Comprende cento sonetti in vernacolo pisano più altri in lingua, tutte le novelle raccolte ne Le veglie di Neri (1882), All’aria aperta (1897) e Nella campagna toscana (1908) e il saggio Napoli ad occhio nudo (1878).

Davide Puccini ha dedicato cinque anni di lavoro all’opera di Fucini e, come abbiamo detto, ha affrontato la materia soprattutto dal punto di vista filologico. Spesso gli stampatori non comprendevano i vocaboli del vernacolo pisano. Sceglievano la lectio facilior, correggevano bimbino con bambino, sterzatori (chi puliva un albero su tre) con sterratori, rovinando un testo che aveva valore proprio per la precisione etnografica: Fucini, infatti, non sceglieva mai i suoi termini a caso, ma li usava perché erano tipici del luogo di cui stava narrando o poetando.

Nel volume sono contenute molte pagine di bibliografia, Davide Puccini ha rintracciato tutte le edizioni – al punto che è stato in grado, al termine dell’esposizione, di valutare al primo sguardo un libriccino di nostro possesso e datarlo agli inizi del novecento come edizione contenente almeno una trentina di errori.

Ma Puccini ha compiuto anche un’opera di rivalutazione contro quella critica che, dopo la morte di Renato Fucini, ne decretò la lenta decadenza e il ridimensionamento a esponente “minore della letteratura.”

In vita, Fucini ebbe grande successo. A Firenze, allora capitale d’Italia, al caffè Michelangelo, meta di artisti come Edmondo de Amicis (che ha scritto la prefazione proprio all’edizione in nostro possesso) la lettura dei sonetti in vernacolo, che scriveva per divertirsi, ebbe il successo che oggi hanno gli interventi di Benigni. Poi li pubblicò a sue spese e fu un best seller.

Fucini era consapevole dei propri limiti, sapeva di non avere il respiro lungo del romanziere, bensì il fiato corto del novellatore e, tuttavia, una volta pubblicate, le sue opere ebbero risonanza anche fuori della Toscana, furono adottate nella scuola fino agli anni trenta e Croce ne scrisse in modo lusinghiero. Ma dopo, lentamente, su Fucini calò l’oblio e non solo, fu oggetto delle critiche di molti personaggi famosi come Cassola, che lo stroncò nella prefazione ad un edizione BUR. Nel sessantotto fu considerato reazionario, poco attento alla questione sociale, laddove, invece, egli fu mazziniano e garibaldino, impregnato degli ideali risorgimentali che vedeva traditi. Nei sonetti, ma soprattutto in novelle come “Vanno in Maremma”, si sente tutta la sua dolente partecipazione alla miseria degli umili, la comprensione del fenomeno dall’interno, evitando il difetto della letteratura popolaresca (come quella, ad esempio, di Lorenzo il Magnifico).

Fu accusato anche di aver scelto una lingua troppo facile, il toscano, non si capisce cosa avrebbe dovuto fare, visto che le sue novelle sono ambientate principalmente in maremma.

I sonetti sono classici come struttura ma originali come contenuto, perché dialogati, mossi, con battute e vari personaggi fra i quali Neri Tanfucio, lo pseudonimo adottato da Fucini per pubblicare, che ritroviamo ogni volta come personaggio differente. Le poesie sono d’ambiente pisano e fiorentino, popolate di caratteri umili, beceri, degradati; sono spassose, ferocemente allegre ma sempre con una nota amara e triste. (Vedi La mamma, il bimbo e l’amia)

La lingua è un vernacolo che, spesso, ha più del livornese che del pisano. Puccini cita i fenomeni del labdacismo (la elle che diventa erre) e dell’ipercorrettismo (dove si sbaglia per paura di sbagliare).

Renato Fucini nacque nel 1843 a Monterotondo, nella Maremma grossetana, dove il padre David, medico, si era stabilito per la cura delle febbri malariche, ma era livornese di famiglia e si sentiva molto legato alla nostra città, dove frequentò le scuole elementari dei Barnabiti. Visse a Livorno dal 1849 al 1853 - nella città appena riconquistata dagli austriaci dopo i moti del 48 - e, proprio leggendo un poemetto manoscritto in vernacolo livornese, ebbe l’idea di compiere la stessa operazione con quello pisano. Fucini frequentava i macchiaioli a Castiglioncello, dove possedeva una casa, e, in particolar modo, fu amico di Giovanni Fattori al quale fornì ispirazione per il quadro “Lo staffato”. Ma le sue frequentazioni sono più ampie e non riguardano solo l’ambito toscano. Oltre al già citato Edmondo de Amicis, fu amico anche di Verga, di cui assorbì il naturalismo.

Un discorso a parte merita “Napoli ad occhio nudo”, reportage commissionatogli da P.Villari, il primo in Italia a far conoscere l’esistenza di una “questione meridionale”. Senza dilungarci, diremo che Fucini seppe cogliere al primo sguardo l’essenza della città, con la quale entrò subito in empatia, comprendendo il fenomeno della camorra in modo non superficiale e raccontando gli aspetti più crudi, dai “talponi” (confronta il livornese tarpone), cioè le pantegane che affollavano fogne e vicoli, al cimitero con 365 fosse, una per ogni giorno dell’anno, in cui i morti erano gettati dall’alto con una carrucola, senza tante cerimonie.

In conclusione, se il saggio sull’umorismo di Pirandello è ancora di là da venire, possiamo affermare, tuttavia, che quella di Fucini fu senz’altro una comicità che “fa pensare”.

Fucini morì a Empoli, nel 1921 per un cancro alla gola.

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Folco Terzani, "A piedi nudi sulla terra"

17 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Folco Terzani, "A piedi nudi sulla terra"

di Patrizia Poli

A piedi nudi sulla terra

di Folco Terzani

Mondadori, 2011

Pp. 232

18,00 €

“I valori dipendono dal punto di vista. Per esempio, per i mass media, per il pubblico, un sahdu è rovinato, è un poveretto perché rinuncia agli attaccamenti, alle case, alle cose. Mentre un sahdu, un fachiro, pensa che sono rovinati quelli che rimangono nel samsara. Sono loro che rinunciano alla conoscenza, alla dimensione di grandezza che può essere dio, per perdersi nelle storie materiali nell’illusione”. (pag. 229)

Quando si parla di quest, di cerca, vien subito da pensare al Santo Graal e a Frodo che deve distruggere l’anello del male, ma esiste anche un altro tipo di ricerca, quella interiore, dell’uomo che vive un perpetuo richiamo alla trascendenza.

Folco Terzani, figlio di Tiziano, in A piedi nudi sulla terra, ci racconta l’inquietudine che l’ha condotto a conoscere, nei suoi pellegrinaggi, un uomo votato a questo genere di ricerca, il sahdu Baba Cesare. Terziani conosce Baba Cesare in India, luogo eletto della ricerca spirituale. Per gli indù, la trascendenza è, in verità, immanenza, poiché tutto è dio e conoscere dio significa rendersi conto di questo suo essere ogni cosa. Curiosamente, però, Baba Cesare non è indiano bensì italiano, figlio di un commercialista. Egli ha abbandonato la moglie, una serie di compagne più o meno amate, e alcuni figli mai dimenticati. Il suo percorso è quello tipico del sahdu, dalla vita mondana a quella ascetica, dalla famiglia alla rinuncia. Rinuncia che è il corrispettivo di ricerca.

“Se sei in rinuncia, rinunci a tutti i valori sociali, metti tutto sullo stesso piano: l’oro, i diamanti, una pietra, un cavallo, una foglia, tutto fa parte della composizione del pianeta, no? Di cui siamo parte anche noi. Siamo tutti granelli che compongono il pianeta. Non è una teoria, è proprio così. Dobbiamo avere coscienza di quello che realmente siamo. Appena non dai dei valori sociali alle cose, realizzi che tutto è la creazione del creatore.” (pag. 127)

Solo attraverso la rinuncia a qualsiasi bene materiale – persino ai capelli se diventano oggetto di curiosità e simboli di uno status – come anche a qualsiasi attaccamento affettivo, l’asceta può affinare la sua ricerca interiore, per capire dio, per afferrarne il concetto, per rendergli grazie di averci creato, soprattutto per servirlo. Appena sveglio, il sahdu saluta il sole e riconosce dio, gli fa la puja, l’offerta rituale, la cerimonia. Ungendo di ghee il lingam di Shiva, offrendogli una collana di gelsomini, mantenendo acceso il dhuni, il fuoco sacro, con la cenere sterile e benedetta, egli dà concretezza a dio, lo materializza nella pietra, nell’idolo, nell’oggetto.

Senza contare i ciarlatani, ci sono tanti tipi di asceti in India, dagli aghori che vivono nei crematori, bevono urina dai teschi e assaggiano carne umana, ai fakir, i sahdu musulmani, a coloro che vanno sempre nudi, a quelli che usano il fallo come uno strumento, a chi tiene sempre un braccio sollevato finché non si atrofizza, a chi dorme in piedi. Più generalmente, un sahdu è un uomo scalzo, che vive di semplicità, delle uniche cose davvero possedute, il suo corpo e la sua mente, ed è pronto a rinunciare anche ad esse. Il corpo va mortificato nei suoi bisogni e così pure il cuore, se si vuole davvero trovare l’unione con dio.

“La mortificazione della carne è la liberazione dall’ego. Mortifichi questo ego, lo porti sotto la pioggia o non ti curi di te e di quello che ti può succedere, perché sei parte del tutto. Quindi hai un’idea più ampia, che ti viene dal perdere l’identità, dall’andare oltre gli attaccamenti dell’ego. Perché l’ego cos’è? L’ego è quello che ti dà le paure, no? “Io ho paura?”. Se non ci sei, di cosa hai paura? Sei uno zombie, e uno zombie non ha paura di niente. Non ha paura di essere distrutto, di non essere più “io”, di scomparire, cioè di morire. “Lasciatemi morire!” Il punto è la liberazione dell’io, in nome di dio. E se ci riesci e non ci sei più come entità separata, allora vai oltre la vita e la morte. Sei il Tutto, e il Tutto né nasce, né muore.” (pag. 146)

Baba Cesare è un santo, ma della speciale santità indiana; non lo è per il mondo occidentale. Baba Cesare entra ed esce di galera, proviene dalla cultura post beat generation, freak, psichedelica. È uno degli hippie che negli anni settanta mollavano casa e famiglia e si mettevano in viaggio via terra, senza passaporto, verso l’India, convinti di far parte di un movimento la cui essenza era peace and love. Giunti a destinazione, giravano per gli ashram, finendo poi, inevitabilmente, per affollare le spiagge di Goa, in quelli che oggi chiameremmo rave parties, feste in cui si ballava, si praticava l’amore libero, si fumava il chilum, si assumevano acidi e droghe più o meno pesanti.

“Provi questo, l’altro, provi il peyote, la mescalina, l’erba, i funghi, il veleno degli scorpioni e prendi conoscenza della natura, di quello che cresce sul pianeta, no? Alimentarsi non significa solamente alimentare la parte fisica, significa alimentare anche la mente di conoscenza. […] È dall’inizio del pianeta che l’umanità scopriva le piante, cos’era nutrimento, cos’era medicina, cosa dava un effetto particolare.” (pag. 56)

Anche in questo c’è chi si ferma allo sballo e chi va oltre, continuando la ricerca, usando la droga come esperienza per superare i confini sensoriali, per espanderli, per sentirsi parte della natura, in comunione con l’universo e con dio. Dall’incontro con Baba Cesare e con molti altri sahdu, Folco Terzani trae un insegnamento di vita senza precedenti, un’esperienza che solo l’India e la sua spiritualità può offrire.

“Ho riscoperto la bellezza degli elementi – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria. Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi dell’Himalaya, stando accucciato accanto alle fiamme di un fuoco, respirando spazio.” (pag.14)

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Lorenzo Spurio, "Jane Eyre Una rilettura contemporanea"

16 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Lorenzo Spurio, "Jane Eyre Una rilettura contemporanea"

di Patrizia Poli

Se una caratteristica distingue l’odierna critica letteraria è la multimedialità e l’accostamento della letteratura “alta” a mezzi espressivi non convenzionali e non immediatamente ad essa correlati, dalla narrativa di genere, al cinema, fino ai giochi di ruolo. La smitizzazione del mother text è accompagnata da un’estrema semplificazione del linguaggio critico e da un utilizzo di veicoli non tradizionali quali, ad esempio, le interviste virtuali.

In “Jane Eyre, una rilettura contemporanea”, Lorenzo Spurio si avvicina al testo originale di Charlotte Bronte, per poi allontanarsene, compiendo un excursus su una serie di rewriting successivi e adattamenti anche cinematografici e televisivi, a partire dal famoso prequel del 1966, “Wide Sargasso Sea”, per finire con la parodia mash up del 2010, “Jane Slayer”, dove la protagonista si trasforma in ammazza vampiri.

Invece di puntare sugli aspetti classici e tipici del romanzo della Bronte, come la travagliata infanzia di Jane a Lowood e l’amore romantico per il tenebroso Rochester, Spurio mette in evidenza caratteristiche secondarie, ma interessanti, amplificate dalle riscritture successive.

La prima di queste peculiarità è l’aspetto gotico del testo, con continui richiami a “Northranger Abbey” di Jane Austen.

L’altra è senz’altro l’importanza focale data al personaggio minore di Bertha Mason. Laddove la Bronte non ci spiega le ragioni della pazzia che affligge la prima moglie di Rochester, nei prequel e sequel presi in esame da Spurio, Bertha giganteggia con tutto il suo passato tropicale. Si ha compassione, e c’è addirittura rivalutazione, del personaggio. In ogni versione, Bertha presenta aspetti diversi ma è sempre connessa col riso demoniaco-animalesco e col fuoco, entrambi simboli del male, così come con la natura vampiresca del suo morso.

Nel suo saggio, Spurio prende in esame il colonialismo e si spinge fino a concludere che la Bronte ha inteso punire con la cecità Rochester per il suo razzismo, più che per l’inganno e l’amore adulterino nei confronti dell’ingenua Jane.

Mettendo in risalto la generica benevolenza della Bronte verso gli schiavi e le donne, Spurio tocca temi alternativi e affascinanti. Si parte dal Codice Nero, promulgato nel 1685, a sancire il concetto di schiavo come oggetto, si continua con “A Vindication of the Rights of Women”, dove Mary Wollstonecraft (Shelley), in polemica con Rousseau, rivendica i diritti delle donne, per finire con la magia nera Obeah, trapiantata in America dall’Africa, e simile al Voodoo di Haiti, patria degli zombie.

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di Ida Verrei: Un viaggio allucinato nell'impossibile

15 Gennaio 2013 , Scritto da ida verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

di Ida Verrei: Un viaggio allucinato nell'impossibile

Fiori Ciechi

Maria Antonietta Pinna

Annulli Editori, 2012

pp.137

9,00

di Ida Verrei

Due racconti lunghi, un viaggio allucinato nell’impossibile, “Fiori Ciechi” di M. A. Pinna, è una singolare avventura letteraria.

Il primo racconto, che dà il titolo al libro, non è un romanzo, pur se ne possiede la struttura e ne conserva alcuni elementi; non è una fiaba, non si conclude con “…e vissero felici e contenti…” Ma della fiaba ha la suggestione e il mistero: immaginario e reale si fondono come nella dimensione onirica e possiedono lo stesso valore; niente appare arbitrario, ma necessario e fatale; tutto esiste, perché la trasfigurazione fantastica, legata al paradosso, rende verosimile l’illogico.

In un tempo non-tempo, in uno spazio non-spazio, parallelo e avvinto alla realtà, si consuma un dramma-rappresentazione, proiezione fantasmatica del mondo contemporaneo.

Nonno Petalo, racconta”.(pag.11)

“… Sì. Dimmi dei garofani bianchi, come sono nati?”

Tanto tempo fa, agli albori della nostra civiltà, esistevano soltanto garofani rossi (o almeno così sembra), e i fiori-Dei circolavano liberamente per le strade di Florandia…” (pag. 13)

Inizia così questo inconsueto viaggio nel surreale, tutto sembra lieve, delicato, un mondo fatto di petali colorati, delle lacrime di Skotos (la notte) che danno origine a garofani neri, e di quelle di Rais (il sole) che generano garofani gialli; un mondo senza padroni, “dove ci si accontenta di poco. Del vento, del sole, di poca terra, di un flebile raggio di luna…” Ma Florandia non è questo universo idilliaco, è una Repubblica di fiori ciechi, aridi, incapaci di vedere il lato poetico della vita… perché per loro la vita è la canzone stonata di un solista… (pag. 25)

Man mano che si procede nella vicenda, ci s’imbatte in inquietanti analogie con la società attuale: lotte per il potere, il prevalere d’interessi individuali, della forza e della sopraffazione. Ma a leggere con attenzione, non sono questi i temi principali del racconto. Guerra, prepotenza, odio razziale, elaborati dalla fantasia dell’autrice, calati in un fantastico paradossale, rimandano ad angosce esistenziali che da sempre tormentano l’uomo: la ricerca dell’identità; la conservazione della memoria, perché

chi è senza memoria non ha futuro. E un oggetto in sé non è niente…”(pag.72)

il terrore del tempo che passa:

“… qui si cattura l’ombra, così si elude in qualche modo la sorveglianza che il tempo esercita su di noi… L’immagine è nostra, non invecchierà mai… Si esorcizza la morte…” (pag.71)

la ricerca dell’Idea, che non è soltanto riconducibile allo struggimento dello scrittore che scava dentro e fuori di sé, ma è soprattutto ricerca del senso della vita, bisogno di indagare il destino, il suo acre sapore escatologico… E l’espediente narrativo a cui ricorre l’autrice, è l’irrompere di un improvviso io narrante, Tibbs e Tibbs, l’artista e la sua ombra, un “doppio” inconsueto, dove la dualità non riguarda la distinzione tra bene e male, ma tra possibile e impossibile, un mezzo per abbattere i limiti della corporeità.

Inizia così un viaggio allucinato del protagonista all’interno del proprio cervello, un percorso nell’assurdo per raggiungere il luogo della creatività, alla scoperta di quell’Idea che non muore perché non si può ammazzare un’idea, sia essa buona o cattiva… L’idea ride… sul cadavere di chi avrebbe voluto ammazzarla… va… e si perde nel mondo. (pag.99)

Anche nel secondo racconto, Probobacter, forse meno fantasioso del primo, ma altrettanto al di fuori di ogni logica convenzionale, ci addentriamo in un mondo delirante: immagine amplificata di ciò che l’ottusità dell’uomo può causare. Anche qui due piani di narrazione: il mondo soffocato dai rifiuti urbani, in un parossismo di allucinazioni iperboliche, e la ricerca scientifica per la soluzione del problema, sperimentazione esasperata che condurrà alla distruzione dell’uomo stesso, con la creazione di un batterio killer che finirà col divorare uomo e rifiuti.

Visioni d’incubo, il sogno, la malattia, e ancora un “doppio”, ma questa volta è il riflesso nello specchio e il suo significato allusivo:

“…mi guardo e vedo un tizio che non conosco, un corpo estraneo…” “Chi sei?” “Io sono tu, e tu?” “Anch’io…” (pag.133)

Anche qui, al messaggio palese del tema ecologico, si affianca quello più profondo dell’angoscia di morte; del silenzio; dell’incomunicabilità, la paura di perdere “occhi e bocca”, “…un silenzio affilato di lama che uccide senza rumore”. (132)

In entrambi i racconti, Maria Antonietta Pinna è molto abile nella tecnica dello straniamento:

“Pistillo, fiore cieco e arido si è comprato uno Stradivari senza neanche saperlo suonare; (pag.76) oppure: l’Idea, sì, l’ha vista, è passata di qua. Le è sembrata… come dire… Un po’ incinta; (pag.75) o ancora: Questa povera mosca moribonda… Probabilmente pensa che siamo repellenti. In una parola le facciamo schifo… “ (pag.134)

L’autrice gioca con la fantasia, con le parole, con le immagini; sovrappone i livelli semantici; contrappone primi piani e punti di vista; usa dialoghi a più voci. Il tutto dà origine a un insieme singolare, insolito, che confonde il lettore, lo costringe a leggere e a rileggere, a fermarsi e a riflettere, a decifrare messaggi e simbolismi e, attraverso uno stile veloce, immediato, ma armonioso e musicale, restituisce il gusto della lettura.

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Giuseppe Benassi, "L'omicidio Serpenti o l'enigma del bosco sacro"

13 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 Giuseppe Benassi, "L'omicidio Serpenti o l'enigma del bosco sacro"

di Patrizia Poli

“L’omicidio Serpenti o l’enigma del Bosco Sacro”

di Giuseppe Benassi

Bastogi, 2010

15,00

Come sempre in Benassi, il giallo è un pretesto per parlare di cultura esoterica, di percorsi alchemici, ai quale egli si accosta non da adepto ma da studioso, affascinato seppur disincantato. In questo romanzo – secondo di una serie che ha per protagonista l’irriverente avvocato Borrani – più che negli altri due, i personaggi restano sullo sfondo, sono incolori come la vicenda attorno a cui ruota la trama, cioè l’omicidio del bel Rosario Serpenti, orafo ex salumiere, che, già dal suo nome, è più di ciò che appare. E tutto davvero si gioca sul contrasto fra ciò che sta dietro alle cose e l’apparenza, fra l’onirico e il reale.

“Pensò nel sogno la sua vita come un’infinita e sempre mutevole galleria di visi o di musi, di volti e di ghigni che si affacciano, salutano, dicono qualcosa o non dicono niente, e poi svaniscono nel nulla.” (177)

Non ci interessa poi tanto – e non interessa neanche all’autore – scoprire perché Serpenti sia stato ammazzato e, in questo secondo romanzo, non ha gran posto nemmeno l’interiorità del protagonista alter ego dell’autore. Tutto lo spazio è occupato dalla speculazione artistico - filosofica che porterà allo scioglimento (nemmeno poi tanto) dell’enigma del Bosco Sacro. Senza svelare troppo, diciamo che, se un filo conduttore c’è nella storia, è quello che parte dal paganesimo rinascimentale e porta fino al surrealismo di de Chirico.

“La psicoanalisi e il surrealismo”, ci spiega Borrani/Benassi, “hanno riaperto la mente dell’uomo, l’hanno ripopolata delle divinità pagane, dopo che, alla fine del cinquecento, Riforma e Controriforma si son date la mano per spegnere la capacità immaginativa di cui il rinascimento, attingendo alla classicità, è stato l’esempio più alto.” (pag 120)

Di questa capacità immaginativa è paradigma concreto il fantastico giardino di Bomarzo, o Sacro Bosco, con le sue forme bizzarre, improbabili, con i suoi mostri, i tempietti e le case inclinate, simboli forse alchemici, congiunzioni di opposti. In questo bosco Rosario Serpenti ha un’esperienza da iniziato, tramite l’olandese Dietrich, suo “maestro”, sorta di Dorian Gray che lo corrompe e, insieme, gli apre la mente. Rosario Serpenti viene ucciso quasi per espiare la colpa di essersi evoluto, trasformato da salumiere in anima libera, in gnostico che non conosce più i confini fra maschile e femminile, fra dentro e fuori, ma diventa una figura androgina, emancipata da convenzioni e moralismi. Oltre all’esperienza mistica-sessuale nel sacro bosco, fondamentale per lo sviluppo di Rosario (che nel cognome già prefigura una specie di uroboro) è la visione dei quadri di De Chirico.

“De Chirico, all’inizio del ‘900, legge le pagine di Nietzsche su Dioniso, e, illuminato da quelle letture, capendo all’improvviso che la rimozione del paganesimo fu uno dei più tragici errori della storia delle idee.” (pag120)

Sono di De Chirico, infatti, le tele che vengono ritrovate in possesso di Serpenti dopo la sua morte. De Chirico apre la mente, sposta i confini di là dal bene e del male e per questo Serpenti dovrà pagare, e, attraverso lui, l’autore punire se stesso ed esplicitare il proprio senso di colpa latente.

Lo stile del romanzo è quello, escatologico/scatologico, tipico di Benassi, che alterna citazioni colte con volgarità da bar sportivo. Traspare come sempre la poca simpatia che l’autore ha per i suoi simili, che sono solo comparse in sogni surreali, che hanno ghigni e non volti, fisicità da sfruttare sessualmente più che anime da abbracciare. Le parti più belle sono quelle, quasi inconsapevoli, dove Benassi dimentica per un momento di voler essere antipatico a tutti i costi e si lascia andare a descrizioni liriche e sentite del paesaggio toscano, con la sua luce, il suo mare, le punte dei cipressi illuminate dal tramonto.

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Alessandro Seveso, "Parole Infinite" recensione di Ida Verrei

10 Gennaio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

 “Parole infinite”

 di Alessandro Seveso

 

“Il tempo porta con sé tutti gli elementi della vita, può capitare che persone del passato tornino, prima o poi…”

La nostalgia è l’elemento dominante nell’opera di Alessandro Seveso, una nostalgia velata di malinconia, di mestizia, ma con la dolcezza di memorie dissepolte, che tornano lievi, in una sorta di mescolanza con l’onirico.

Due amiche, un viaggio in Norvegia, un’isola dal fascino misterioso, una casa accanto al mare, con l’anima benefica e protettiva; il ritrovamento, tra mobili impolverati, di fogli ingialliti dal tempo: lettere, inconsueta corrispondenza tra un vecchio e una giovane donna, uno zio e una nipote.

Inizia così un singolare romanzo epistolare, dove l’io e il tu si raccontano, una sorta di  diario a due voci, dove le distanze spazio-temporali sembrano non aver peso: due mondi lontani, che non si incontreranno mai, si incrociano e si rivelano.

È un intreccio di emozioni. Da un lato “lei” , la donna giovane e vitale che parla di un universo fatto di cromatismi, di suoni, di voci e volti, dove il Fado portoghese fa da colonna sonora e il tramonto variegato di Coimbra da scenografia; dall’altro “lui”, l’anziano uomo che vive nel freddo, tra le brume di Capo Nord, in una dimensione surreale, nel paesaggio di scogliera, dove prendono corpo i fantasmi del passato, ma anche simbologie che sono tensione verso la vita, “parole infinite” per “soddisfare una fantasia che vorrebbe andare oltre…”

Una miriade di personaggi accompagna la vita di Cristina, la nipote; un susseguirsi di eventi, di storie quotidiane, ma anche straordinarie; di sogni che si realizzano, di incontri che esaltano.

Più sfumato appare il mondo di Federico, lo zio: come appannato dalle nebbie dell’isola di Gørenleskine, un puntino quasi invisibile, dovei i giorni trascorrono lenti, segnati dalle maree, dal rumore delle conchiglie sul muro sospinte dal vento, dal volo dei gabbiani. E su tutto domina il Faro, metafora di luce salvifica, bagliore che illumina il cammino, ma che rischiara anche il passato, riporta i ricordi.

Alessandro Seveso costruisce, così, un insolito carteggio, dove la comunicazione è condivisione, ma anche scavo interiore, flusso di immagini, di parole, Ed è molto abile  nel coniugare il dialogo interpersonale con l’espediente letterario dell’epistola, dove la presenza dell’altro, continuamente evocata, libera il fluire del racconto dalla necessità di una voce narrante.   

Autore e lettore diventano insieme spettatori dei due mondi che si raccontano: le due vite separate si snodano in percorsi lontani, che pure appaiono legati da un motivo comune: l’attesa di un ricongiungimento che sia risoluzione del dualismo; di “quell’io e quel tu”, ricomposti in una dimensione atemporale. 

Sarà ancora una missiva, l’ultima, a riannodare quei frammenti di vita.

 L’autore, con vero talento narrativo, riesce a donarci nella conclusione del romanzo l’emozione di una scoperta, che è rivelazione, appunto, della coincidenza possibile tra realtà e fantasia: se narrare è comunicare, le parole infinite, nella finzione letteraria, possono misteriosamente creare l’illusione consolatoria di un dialogo senza fine,  superamento di ogni limite, lenitivo della solitudine interiore.

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