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recensioni

Gianluca Conte, "Cani acerbi"

30 Maggio 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Gianluca Conte, "Cani acerbi"

Cani Acerbi

Gianluca Conte

Musicaos edizioni

La prima cosa che colpisce è il linguaggio crudo, sincopato. Un insieme di lingua italiana con sbavature in dialetto che a volte stupisce per la prematura scomparsa del congiuntivo. Il ritmo, però, segue una cadenza armonica e, alla fine, si riesce a leggere con una certa fluidità. La prolificazione di parolacce, il linguaggio crudo appunto, serve a sottolineare situazioni paradossali, almeno apparentemente, perché sappiamo che nella nostra terra sono usuali.

Poi, girando le pagine, ci possiamo rendere conto che, sotto un’apparente patina di semplicità, c’è una certa ricchezza di temi. Temi attuali, che sono insiti nella società in cui siamo immersi, come l’ambiente, la prostituzione o la corruzione politica. Temi che scottano e che forse non sono mai abbastanza trattati.

Il Salento fa da sfondo, quello che chiamiamo il tacco d’Italia, è il teatro di vicende che mettono in luce commistioni e collusioni. Una terra dove è tutto semplicemente normale, anche violare la legge, glissare sulle regole della convivenza civile. Il “tutto”, quello che l’autore racconta, è rigorosamente inventato, ovvio, come dichiara la prima pagina del libro.

I personaggi principali sono due amici, uno giornalista di provincia e l’altro agricoltore “per caso”, ma non troppo perché si evince nato con la vanga in mano. Due persone animate dalla curiosità, anche se poi non affondano mai abbastanza nel loro mondo, conservando quasi sempre un atteggiamento un po’ goliardico.

Al contorno, le anime di questa terra sperduta tra le compagne del Salento, dipinte con alcune pennellate sicure, escono e s’impongono alla nostra attenzione, sempre che si riesca a non scivolare oltre o, meglio, che si riesca ad entrare dentro il racconto, che a tratti è così sincopato da costringerci a cercare il collegamento tra un’azione e l’altra.

Una lettura nel complesso interessante per la prospettiva dalla quale ci obbliga a guardare una realtà così lontana da noi cittadini, un mondo che ancora conserva alcune caratteristiche dell’Italia del dopoguerra.

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Chiara Serafina Campolattano, "Dove cedono le stelle Poesie"

21 Maggio 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Chiara Serafina Campolattano, "Dove cedono le stelle Poesie"

Chiara Serafina Campolattano

Dove cedono le stelle

Poesie

Rosa Anna Pironti Editore

La poesia della giovanissima Autrice Chiara Campolattano si rivela subito poesia di ricerca. Ricerca dell’essenza, del senso: senso ed essenza che non possono prescindere da una vita pienamente vissuta con totale consapevolezza, spesso ricerca travagliata a causa della imperfezione umana, intesa sia come limite imposto agli uomini dalla natura, sia come limite della volontà: poche incisive parole (“non si sa”, in L’Amicizia), che subito si sciolgono in leggiadre similitudini fino a giungere al concettoso, oserei dire sovrumano lemma (Assoluto), meta agognata e temuta da tutti.

Ancora una volta ritroviamo il tema dell’amicizia (Amico), così ambita su questa terra, così utile, ma il desiderio di essa s’invola più facilmente in esseri incorporei (Angeli), che, come gli antichi numi tutelari, nel silenzio e nella immaterialità sono pur sempre presenti accanto a ognuno di noi.

Sì, perché essi non tradiscono mai (custodi affidabili, amici sinceri), come invece può succedere a chi, coltivando valori effimeri, quale la bellezza, rischia di contaminare in suo nome anche l’amicizia. (Bellezza cosa buona e cattiva allo stesso tempo).

Questa ambiguità è presente, secondo l’Autrice, in molti altri comportamenti umani, quelli spinti dalla semplice curiosità, e quelli che delimitano giorni in chiaroscuro, dove luci e ombre si alternano, e sperimentano nei valori essenziali il conforto del calore umano (effetto dell’ amore, amicizia, pace) e dell’aiuto reciproco (Fraternità)(Pace)(Nella vita).

Talvolta invece è estrinsecazione di diversità, termine inclusivo e non esclusivo, così come una tavolozza di colori diversi contiene in sé tutte le sfumature dell’arcobaleno, senza nessuna esclusione (Diversità).

Ma quasi sempre questa anfibolia è sinonimo di lotta interiore tra due stati d’animo opposti che solo la lettura o la musica riescono a placare (Libri “Svago della mente”, Musica:” E’ una medicina per i mali dell’animo”).

A questo punto compaiono come una vera e propria cesura un gruppo di tre poesie che procedono con un ritmo più gradevole e sicuramente stilisticamente più efficace. Esse sono dedicate al Natale, e l’osservazione di un evento rituale nelle sue caratteristiche e tradizioni sembra trasmettere all’Autrice la gioia pura e semplice ma totale della narrazione poetica. Ma già nella terza poesia del gruppo (Presepi) l’aspetto gnomico finisce con l’appesantire e togliere vivacità ai versi.

La terza sezione, per così dire, riguarda pensieri e considerazioni che delineano la sensibilità di un’adolescente gravata da troppi pesi, e appesantita da troppe responsabilità, a cui volentieri si sottopone.

Si tratta di una consapevolezza acquisita sicuramente precocemente che considera la vita come un rischio da correre, come una vittoria da conquistare al gioco (la vita è come un gioco, in cui devi giocare ed usare tutte le tue carte ed accettare qualche piccola sconfitta).

Ciò a cui spesso l’autrice indulge è l’espressione “vita parallela” (la Libertà... è una vita parallela, in La libertà) (i libri..mondo alternativo, vita parallela, in Libri) (Sogno e realtà sono due mondi paralleli, in Sogno e realtà), segno forse questo di desiderio di fuga dalla realtà. Versi che lasciano un po’ di amarezza, a dire il vero. Non così il componimento “Perdersi”, in cui c’è tutta la determinazione di chi è artefice del proprio destino e aspira al Cielo pur rimanendo ancorato alla terra, che insegue cioè sogni ma non rifiuta la realtà e la concretezza dell’azione per la salvaguardia del mondo esterno e di quello interiore.( E ci svegliamo la mattina con l’anima in guerra pronti a cambiare il mondo degli ultimi e pronti a proteggere il nostro mondo).

Si tratta quindi di un’evoluzione graduale nella maturazione di fronte alla vita nei suoi aspetti più complessi, che alla fine viene accettata per quello che è, (la dura eppure magnifica vita,in Va’ dove ti porta il cuore)( La mia rosa, La rosa più importante che splende in un giardino di pungenti spine e dolori).

Solo con tale consapevolezza è possibile costruire dentro di sé una forte struttura capace di affrontare le avversità quotidiane, (…la sicurezza che c’è in noi è un’arma per combattere contro le avversità della società..in Sicurezza), aiutati anche dagli affetti e dai ricordi (Memoria,Ricordi).

Meritano di essere analizzate singolarmente le composizioni più lunghe.

In “C’era una volta…” l’ansimante anafora che si sussegue per parecchi versi produce un climax ascendente che genera grandissima emozione anch’essa galoppante in concomitanza con l’accavallarsi delle immagini poetiche. Sorprende la luce, sinonimo di serenità e di gioia che sembrano possedute per sempre, quasi deposte in cornice; ma è qui che crolla la gioia: “C’era una volta la cornice all’immagine del nostro non so”. Sarà sempre “un ritratto non disegnato”(Foto)

Chiusura dolente…che lascia tuttavia una speranza. Non è il nulla, è il non sapere.

Davvero ermetico il componimento “Il serpente bianco”, anche se s’intravede la lotta (tra il bene e il male? Tra due amici? Tra i componenti di una coppia legata da vincoli coniugali? Tra il “gigante e la bambina”?). L’insidia è avvenuta, il tradimento anche, l’odio contamina quel che resta, i frutti del giardino sono andati perduti. Non c’è possibilità di perdono, non c’è spazio per la commiserazione.

Eppure c’è una dolcezza dolente che si coglie nel ciliegio non più in fiore, che allude alla bellezza passata e prelude all’amarezza presente.

Avrei voluto che il componimento si chiudesse con la speranza dell’oblio, consapevole o inconsapevole, sicuramente di maggior conforto che non la metaforica ombra regalata dalla foglia.

Oblio

Senso di sconfitta, di disfacimento, di impotenza si legge tra i versi di Oblio. Una vita dimenticata, non amata, sperperata. Un volo di farfalla a riportare il tempo all’indietro, uno sguardo stanco al sole per dichiarare l’abbandono alla vita.

Orgoglio

Quando le mani e il cuore si contaminano per azioni riprovevoli, quale il dolore inferto agli innocenti nelle guerre di tutti i tipi e di tutti i tempi, è difficile recedere dalla durezza del cuore. Ma non ci potrà essere alcuna ricompensa che valga a giustificare il male commesso.

Qualcosa che non va

C’è un latente interrogativo in questo componimento poetico. Alla domanda implicita v’è una triplice risposta che in modo graduale porta l’Autrice a staccarsi da una percezione egotistica (“Io sarei stato solo io se non ci fossi stato tu” ) di se stessa per giungere a includere nella sua stessa essenza quell’interlocutore segreto a cui si rivolge quale causa del suo straniamento (“Senza stare in mezzo al cielo come l’aquilone che ha perso il filo”) e alla fine ragione del suo esistere (“io sarei stato solo io un essere pieno senza te, ma probabilmente non mi sarei bastato”). Credo questa una delle più belle poesie insieme a C’era una volta…

L’impressione del lettore, che naturalmente può essere fuorviata anche da una non adeguata empatia con chi scrive, rivela una capacità di scrittura che, se da una parte abbisogna di conoscenze tecniche e di un esercizio stilistico preciso, dall’altra è capace di riflessioni e pensieri complessi che indagano nel mistero della vita con sguardo a volte dolente, a volte deluso. Certamente sono presenti sprazzi di speranza, soprattutto allorché più matura è la consapevolezza del vivere.

Tuttavia il consiglio è di intraprendere a scrivere versi ispirati dalla Bellezza, dal miracolo della Vita, dalle passioni positive, dalla gioia delle piccole cose proprio come recitano gli ultimi versi della poesia dedicata al Natale, e soprattutto di percorrere con leggerezza adolescenziale i passi della vita che, una volta divenuti adulti, diverranno più pesanti, come avviene per tutti.

Che bello il Natale, che mai annoia,

ma ci porta sempre una gran gioia!

Adriana Pedicini

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Gipi, "unastoria"

13 Maggio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #vignette e illustrazioni

Gipi, "unastoria"

Gipi

unastoria

Coconino Press- Fandango

Euro 18 – Pag. 30

Ho comprato unastoria Spinto dalla curiosità di una graphic novel finalista al Premio Strega e vincitrice del Premio Speciale Mondello, deciso a rimuovere i miei pregiudizi sulla diversità di linguaggio tra cinema, fumetto e narrativa, sicuro che avrei scoperto un capolavoro. Niente di tutto questo. Ho incontrato un grande pittore come Gianni Pacinotti, in arte Gipi, che realizza tavole ad acquarello degne d’una mostra d’arte contemporanea, ma è molto più scarso quando disegna elementari tavole in bianco e nero. Ho conosciuto un mediocre scrittore, purtroppo, incapace di sceneggiare un fumetto d’autore e di fondere insieme due storie, quella di Silvano Landi, un cinquantenne che vede la sua vita andare a pezzi, e quella di un antenato soldato nella Prima Guerra Mondiale. Una sola trovata poetica in 130 pagine non basta per giustificare nomination al Premio Strega e assegnazione del Mondello, ma tant’è, dobbiamo accontentarci, questo passa il convento. Terminiamo l’albo (tempo di lettura: dieci minuti scarsi) con impressa nella memoria l’immagine di un adolescente che si sveglia in una notte e si vede con la faccia dei suoi cinquant’anni. Il fumetto ci spiega che un uomo cerca sempre di sopravvivere, di andare avanti, nonostante fragilità, lacrime e cadute negli abissi della disperazione. Davvero troppo poco. Non c’è scrittura in questa storia composta da due storie, imbrigliata nella pochezza narrativa di situazioni stereotipate e spesso confuse. Il fumetto è infarcito di dialoghi scarni e didascalie che non hanno niente di letterario, al punto che apprezziamo diverse sgrammaticature: cinquantanni scritto proprio così, senz’apostrofo, uso del pronome ello, desueto dai tempi del Manzoni, ed e ad dispensati a sproposito per vignette e racconto, sceneggiatura zeppa di buchi, storie slegate, narrazione sfilacciata, inconcludente. Se unastoria fosse un film sarebbe una pellicola irrisolta, se fosse un romanzo sarebbe un feuilleton ridondante, se fosse un fumetto, come dovrebbe essere, non potremmo mai paragonarlo alle storie di Art Spiegelman e Marianne Satrapi, ma neppure a Hugo Pratt e Milo Manara, al massimo un fumetto da edicola, stile Bonelli, con tutto il rispetto per le storie pubblicate da Bonelli. Il nostro è il paese delle cose incomprensibili, dei successi improvvisi, delle sopravvalutazioni create ad arte, dei fenomeni editoriali costruiti a tavolino. Piace creare scalpore e clamore, non cercare veri talenti, tanto in giro c’è pieno di gonzi che abboccano, uno tra questi il vostro povero recensore che - terminata la lettura - si è chiesto sconcertato: “E la letteratura? Dov’è la letteratura in questa graphic novel esaltata dalla critica e dalle giurie dei premi?”. In realtà la domanda non era proprio questa, ma una colorita espressione toscana che non posso riferire. Resta la pietosa bugia che ottiene il visto censura.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Jason d'Argot, "La bugia dell'alchimista"

12 Maggio 2014 , Scritto da Eleonora Tiliacos Con tag #eleonora tiliacos, #recensioni

Jason d'Argot, "La bugia dell'alchimista"

La bugia dell’alchimista

(La Lepre Edizioni, novembre 2013)

Autore: Jason d’Argot

Curatrice: Fiammetta Iovine

Può una bugia illuminare la verità? Domanda non da poco, se si parla della seicentesca Porta Magica di piazza Vittorio e del suo artefice Massimiliano Palombara, il marchese alchimista che fu amico di Cristina di Svezia e in sinergia con alcuni fra i maggiori intellettuali del XVII secolo. Emblema della Roma segreta, la porta è ciò che resta della villa suburbana dei Palombara, demolita come gran parte delle antiquitates del rione Esquilino intorno al 1870, per far posto alle case e agli uffici della burocrazia sabauda.

Il romanzo La bugia dell’alchimista ruota intorno a questo oggetto misterioso, da quattro secoli magnifica ossessione degli ermetisti, perché nella sequenza di simboli e iscrizioni che vi è incisa sarebbe criptato il segreto della pietra filosofale, o se si vuole la rivelazione dell’Arcanum Arcanissimum avuta da Palombara “per grazia divina” – come lui stesso lasciò scritto - in una domenica di ottobre del 1652.

Questa è anche la tesi dell’autore Jason d’Argot, che finora non ha svelato la sua vera identità, e di Fiammetta Iovine, che del romanzo è curatrice: la Porta Magica sarebbe la sintesi della rivelazione, la “bugia di pietra” protesa a illuminare le tenebre, secondo un tema caro a Palombara, che intitolò La bugia due differenti raccolte di rime, scritte a quattro anni di distanza l’una dall’altra.

Il gioco di specchi già insito nel titolo, nell’ambiguità di un termine che può voler dire tanto “lume” quanto “non-verità”, si moltiplica via via nel romanzo, composto da due diversi manoscritti - l’uno seicentesco, l’altro contemporaneo – e da due trame che si riveleranno simmetrici riflessi dello stesso caleidoscopio. Tutto inizia quando la ricercatrice napoletana Cristina Spirito, studiando le Carte Palombara nella biblioteca di Palazzo Massimo, trova celato nella cucitura di un faldone il diario seicentesco di Lisbetta Vincioli, fuggita dalla brutalità familiare e costretta a una vita raminga di teatrante sotto spoglie maschili, finché l’incontro con il marchese alchimista non cambierà la sua vita. Man mano che Cristina Spirito legge il memoriale di Lisbetta, accumulando al contempo elementi utili alla decifrazione dei simboli della Porta Magica, vede dissolversi o concretizzarsi dubbi, segreti, scelte esistenziali possibili. La sua quotidianità si costella di incontri importanti e inspiegabili, di episodi che Jung definirebbe “coincidenze orientate”, mentre l’aura del soprannaturale intorno a lei si fa sempre più immanente.

Sull’altro versante, quello seicentesco del diario di Lisbetta, reso con una prosa rétro ad hoc, prendono forma le vicende storicamente documentate di Palombara, di Cristina di Svezia, o di grandi eruditi come Kircher, Borri e Santinelli, in contrappunto con uno stuolo di personaggi d’invenzione che ricordano nelle tinte decise quelli di Dumas. Il tutto raccontato con una sorprendente mutevolezza di punti di vista e di scenari, dal cenacolo della regina Cristina ai lazzaretti della peste, dai laboratori alchemici ai teatri della Commedia dell’Arte, senza far mancare al lettore suspence, colpi di scena, inseguimenti, agguati e un buon campionario di nuance di amore e d’odio.

Jason d’Argot è evidentemente uno che la sa lunga e ha di certo ruspato negli archivi storici di mezza Europa per mettere insieme i tasselli del suo ampio mosaico; l’erudizione non gli impedisce però di imbastire una narrazione mossa, briosa, che a tratti cita sornionamente il feuilleton, con lo stesso spirito con cui Massimiliano Palombara lascia aleggiare ironia e “sorriso alchemico” nelle sue rime o nelle sue sciarade di pietra. Il libro è consigliato in particolare a chi già sa che l’alchimia è ricerca spirituale più che miscuglio di metalli, ma anche a chi è affezionato a un’idea di romanzo “classico” e con ampio respiro storico. I più edotti di alchimia ed esoterismo avranno anche il piacere di trovare, incastonate nella trama, recenti scoperte sui simboli della Porta Magica e un corredo di affascinanti illustrazioni, tra le quali le incisioni di Cancellieri e Piranesi.

Jason d'Argot

nasce a Smirne nel 440 d.C. e realizza la Pietra Filosofale verso l’anno 507. Dedica la prima parte della sua lunghissima vita agli studi sulla palingenesi. Per oltre seicento anni fa perdere le sue tracce e non si sa nulla di lui. Nel 1210 conosce Francesco d’Assisi ed entra a far parte della comunità francescana della Verna. Nel 1423 si trasferisce a Firenze, dove dipinge alcuni notevoli capolavori, assumendo l’identità di un noto pittore rinascimentale. Si perdono le sue tracce per alcuni anni, poi riappare a Londra nel XVI secolo e pubblica alcuni trattati scientifici che ispirarono sia Robert Boyle che Isaac Newton. Nel 1652, durante un viaggio a Roma, conosce Massimiliano Palombara. Tra il XVII e il XIX secolo è tra gli autori del manifesto rosicruciano “Fama Fraternitatis” e fonda numerose obbedienze di ispirazione framassonica. Alla fine del XX secolo scompare misteriosamente dopo aver fatto parte, sotto falso nome, di vari governi europei. Innumerevoli e universalmente apprezzate sono le sue opere letterarie, poi attribuite ad altri, che l’autore ci ha vietato di rivelare.

Jason d'Argot, "La bugia dell'alchimista"
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Mauro Cesaretti, "Se è vita lo sarà per sempre"

10 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

Mauro Cesaretti, "Se è vita lo sarà per sempre"

Se è vita lo sarà per sempre

Mauro Cesaretti

Montag

Nella silloge “Se è vita lo sarà per sempre”, di Mauro Cesaretti, primo libro di una futura trilogia, l’oggetto del contendere è La Vita, come può apparire ad un ragazzo molto emotivo: difficile, piena di delusioni e di paure. La gestione delle emozioni è il compito più arduo.

Mauro Cesaretti è un adolescente dalla ricca vita interiore, un performer che accompagna i suoi versi con la danza e il gesto. L’onda dell’emotività rischia di sommergerlo, perciò prende la penna e scrive per arginare suggestioni, turbamenti, angosce, fobie, sogni. Se troppo sensibili, si vive senza pelle, con i nervi allo scoperto: tutto ferisce, tutto ingigantisce, tutto fa male. È per questo che, a diciotto anni, Cesaretti già sente la fatica di vivere, si sente già “lasso”. E, tuttavia, non smetterebbe mai di guardare il mondo “con gli occhi del cuore”, emozionarsi ed emozionare, svelando gli oggetti nella loro essenza, togliendo loro il velo della mediocrità.

Ci parla di cose quotidiane: il gatto nel giardino, il padre, la ragazza, la poesia, la solitudine, la metafora del viaggio, il bagaglio perso che simboleggia ciò che siamo stati, i nostri ricordi, ma già considera la vita “lercia”, “lurida”, e può esserlo davvero, a tutte le età, in tutte le condizioni, perché la sofferenza non ci lascia mai. C’è comunque resistenza al dolore, non abbandono, tentativo di rinnovarsi: “l’estate seguente mi ricreo/in un getto d’acque calde.”

Quando si è molto giovani – e diciotto anni oggigiorno sono pochi – si tende a non rinunciare a niente di ciò che abbiamo scritto. Non è nemmeno ostentazione o vanità, piuttosto l’entusiasmo di condividere tutte le emozioni, e la paura di lasciare fuori qualcosa. Abbiamo perciò, qui, una ricerca stilistica ancora immatura, e con ampio margine di miglioramento. Si sperimentano varie strade senza tralasciare nulla, dal recupero di stilemi ottocenteschi a un tentativo di ermetismo blando – senza, almeno in apparenza, dilavare, distinguere, scegliere, ripulire. È una indagine che non ha ancora trovato la sua via, fra assonanze sibilanti - “La compagnia interessante /di sassi pesanti./L’allegria passante per i pressanti suoni.” – e cacofoniche – “Sarà uno scatto fermo, preso alla sprovvista/d’una svista mista tra i ripensamenti/di incombenti scelte incerte e delusioni.”

Lo studio metrico c’è, fino a trovare anche un certo ritmo gradevole che, però, non è mantenuto fino in fondo. L’autore pare sviarsi, cambiare stile ad ogni strofa, non raggiungere l’intensità voluta e persino incappare in qualche licenza di troppo. Come spesso accade, le immagini più belle sono quelle senza pretese, quasi sfuggite all’autore distratto, come “il faro sulla collina stanca.

Concludiamo proponendo una delle poesie più piacevoli:

Io e te

Siamo solo io e te.

Tutto il resto è fermo

e silenzioso.

Solo quella lacrima si muove

sul tuo volto rosato

e tutto il mondo diventa

salato e arido.

Questi sassolini bianchi

ricoperti di cenere,

vengono spolverati da

questo tuo sorriso.

Ti abbraccio forte e il tuo sguardo

mi penetra il cuore,

il tuo sguardo amaro,

ma pur sempre amichevole.

I tuoi occhi blu

brillano nel tramonto

di questa faccia seria e serena,

e mentre sei assorta in qualche pensiero,

nel vuoto dell’infinito,

il cielo si dipinge di grigio.

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Otello Chelli, "Gente della Venezia"

8 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #luoghi da conoscere

Otello Chelli, "Gente della Venezia"

Gente della Venezia

Otello Chelli

Finegil Editoriale spa 2014

Divisione Il Tirreno

Gruppo Editoriale l’Espresso

Narra la leggenda che Otello Chelli, classe 1933, abbia imparato a leggere sedendo accanto alle locandine dei giornali. Autodidatta genuino, scrive in una lingua dove ogni parola è letteraria ed intrisa di pathos, ma gli sfuggono errori e refusi che il Tirreno - da cui si può scaricare l’ebook “Gente della Venezia” - non ha provveduto a correggere proprio perché la materia di questo cantore della labronicità più intensa deve rimanere quella che è, grezza e lucente come un diamante appena estratto, aulica e popolare insieme.

Anarchico e libertario, comunista in senso quasi evangelico, Otello Chelli ha alle spalle una lunga produzione di opere sia in prosa che in poesia. Il suo romanzo “La stirpe dei Morgiano”, ormai introvabile, passa di mano solo fra gli amatori. Quello che ci lascia oggi, all’età di ottantuno anni, è un vero e proprio testamento. Prima di congedarsi vuol testimoniare un mondo che vive e palpita solo nei cuori degli ultimi superstiti. Con la generosità e lo spirito solidale, a momenti francescano, che lo anima, Chelli fa in modo che il suo lascito sia fruibile da tutti e scaricabile gratuitamente dal quotidiano della sua città.

Già, la città, quella stessa Livorno cantata da Caproni, patria di Mascagni, Fattori, Modigliani. Ma non tutta, solo un quartiere, piccolo per la verità, che si dilata e giganteggia, erge invisibili mura di fossati, di ponti, di barriere che lo separano dal resto del centro toscano: la Venezia.

Il quartiere si chiama così perché ricorda la città lagunare, fra ponti e canali, scalandroni e navicelli; è architettonicamente molto bello, ha conosciuto il suo massimo splendore nel settecento, Luchino Visconti vi ha girato “Le notti bianche”. Per Chelli costituisce un macrocosmo, un intero universo, il teatro all’aperto dei suoi sogni di bambino, il luogo dell’anima dove tutto è possibile.

Il testo è totalmente autobiografico ma di quell’autobiografismo capace di scardinare i propri limiti e ridisegnare un mondo, un territorio e un tempo, popolati da una folla di uomini e donne che sembrano usciti da un atto di Cavalleria Rusticana o da un quadro di Eugenio Cecconi, anche se i fatti narrati sono posteriori e coprono l’arco che va dagli anni trenta al dopoguerra. Gente che fu, gente del popolo, svelta di mano e di coltello, pronta a lavare un’onta col sangue e a rubare per sfamare i figli, ma capace anche di dividere tutto con gli amici. Gente di cuore che sa aiutare e compatire nel senso letterale del termine.

Il testo – non lo chiamiamo romanzo perché è piuttosto una sere di quadri, di “spezzoni”, come li definisce l’autore – rievoca figure storiche, con tanto di nome, cognome e soprannome. Si parte da Artemisia, madre del protagonista.

Artemisia aveva chiamato i figli per dare loro il solito cantuccio di pane con qualcosa dentro per insaporirlo. Lei e Pepe Nero avrebbero cenato nella fiaschetteria di Edipo con una fogliata di acciughe sotto il pesto e un litro di vino rosso.”

È un’Annina meno fine e meno caproniana, sanguigna, scarmigliata, dalla risata squillante, pronta a battersi come una tigre in favore degli otto figli ma anche dei figli delle vicine; capace addirittura di incontrare il duce in persona per difendere il marito dagli squadristi. Ma, soprattutto, generosa:

Mamma poteva contare abbondantemente sui soldi guadagnati con i miei traffici, la fame ci era sconosciuta, ma nel mio nascondiglio, ne avevo uno anche nel labirinto della Fortezza Nuova, più ne mettevo, più il mucchio scemava. Era più forte di lei. Non poteva dare da mangiare ai propri figli mentre intorno altri bambini e ragazzi stavano a guardare con gli occhioni spalancati e una luce mista di desiderio, brama e supplica. Così divideva pranzo e cena con tutte le famiglie abitanti nel nostro pezzo di colonia e anche oltre, per me era padrona di farlo, mai avrei potuto richiamarla alla moderazione nella spesa quotidiana, perché condividevo pienamente quella solidarietà, del resto generalizzata, forse il dato più bello da registrare in quei lontani giorni di tragedia.”

Dopo Artemisia, ecco la Ciucia, cui è dedicato anche il libro della pronipote Tiziana Savi,La Ciucia per tutti, Bruna per noi”, sempre con la partecipazione di Chelli. La Ciucia era un carattere borderline, una donna buona e compassionevole, che ogni giorno chiedeva – anzi, diciamo pure pretendeva – l’elemosina per consegnarla ai soldati e a coloro che soffrivano. Sparì senza che se ne sapesse più niente.

Fra i personaggi riportati in vita da Chelli, spicca la giovanissima e bellissima Doretta, innamorata di un amore infantile ma carnale, morta sotto i bombardamenti.

Ho vissuto una lunga, tumultuosa esistenza eppure, mentre mi avvio verso l’ultima tappa di questo mio viaggio sulla terra, la presenza dello spirito inquieto di Doretta è sempre più costante e qualche volta m’illudo che ella stia aspettando il momento in cui il mio corpo cederà alla morte, per allungare la sua mano, tirarmi su e correre insieme a me per le strade strette, battute dal libeccio, con i fossi pieni di navicelli e di vita, in una Venezia immortale che non sarà mai travolta dalla guerra che il 28 maggio 1943 distrusse le sue mura, ridusse alla rovina le sue case cancellando una splendida fiaba e disperse la sua gente in una diaspora senza ritorno”.

E poi Otello Bacci, il musicista assurto agli onori della rivista con Dapporto e Totò; e Silvano Ceccherini, ex capo di una banda di ladri, ex detenuto e poi scrittore; e l’amico fraterno Sansone, compagno di tante avventure pericolose e illegali, rinnegate da Chelli in favore dell’impegno politico. Come Doretta, anche Sansone è morto e mai dimenticato.

Mi inginocchiai sulla terra sotto la quale era stato sepolto e immersi un dito nella superficie marrone, fresca d’umidità, piena dell’odore buono dei campi e pensai ala sua anima: sapevo come in quel momento Sansone fosse finalmente libero.

A far da sfondo tridimensionale ai personaggi sono i luoghi ma, specialmente, i momenti storici. In particolare tre: il fascismo, i tragici bombardamenti che rasero al suolo Livorno durante il secondo conflitto, e l’occupazione americana che trasformò Livorno in una novella Babilonia di traffici illeciti, malavita, borsa nera, “segnorine” e soldati di colore, con la pineta di Tombolo convertita in terra di nessuno, in covo di banditi e prostitute.

Al di là della ricostruzione storica vivissima e partecipata, ciò che anima il racconto è la nostalgia straziante di un mondo sparito, fatto, sì, di stenti, privazioni e atti illeciti, ma anche di uguaglianza, amicizia, solidarietà, in pieno spirito labronico. Quel periodo, quello spazio, quel quartiere, incarnavano gli ideali che l’autore ha perseguito per tutta la vita. Otello Chelli è, infatti, un comunista della prima ora, di quelli che intendono l’impegno politico come lotta, ma anche amore, dedizione, onestà e purezza. Ideali destinati ad infrangersi e a rimanere sempre irraggiungibili. Ideali che, al sapore acre della sconfitta, mescolano quello del rimpianto per la giovinezza che non c’è più, per la vita che sta per concludersi. Così, quest’uomo che ha superato gli ottanta anni, quest’uomo che, dice, non ha mai avuto paura di morire, quest’uomo duro ma col ciglio bagnato del poeta, si congeda da noi tramite la riaffermazione lucida e disperata di ciò in cui ha sempre creduto.

Voltai le spalle al tumulo e mi avviai verso la città laddove avrei affrontato altri settanta anni di vita tumultuosa, inquieta, mai facile, ma ricca di impegno e sacrifici, di dolore e felicità, di ideali poi infranti dagli uomini, in me, però, rimasti vivi come allora e sempre.”

E ora, anche se nel testo esaminato non è compresa, ci piace accostare - timidamente e con pudore - una poesia di Chelli che commemora la figura di Artemisia ad una caproniana in memoria di Anna Picchi. Lo facciamo così, senza nessuna pretesa, solo col piacere di evocare sentimenti simili.

IL CARRO DI VETRO

Giorgio Caproni

Il sole della mattina,

in me, che acuta spina.

Al carro tutto di vetro

perché anch’io andavo dietro?

Portavano via Annina

(nel sole) quella mattina.

Erano quattro i cavalli

(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo

di notte era morta, e d’inverno.

Fuori c’era il temporale.

Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina

allora, anche quella mattina,

perché si mise a suonare

la sveglia militare?

Era la prima mattina

del suo non potersi destare.

IN MORTE DI MAMMA ARTEMISIA

Otello Chelli

Corsi, con il cuore che martellava dentro,

nella notte interrotta

e nei silenti, deserti corridoi dell’ospedale,

la speranza lentamente svaniva nell’affanno

di una certezza che mi strozzava in gola

l’urlo del distacco imminente da te viva.

- “Muore colei che mi stringeva al petto

con amore,

quietava i sonni miei,

e mi donava il sangue dal suo seno.” -

La porta aperta sul volto tuo disteso,

gli occhi velati, la fronte senza rughe,

una carezza e il tenue calore rimasto sulla pelle,

come il tenero petto di un passerotto implume,

mi resero il bambino disperato

che piangeva svegliandosi nel buio.

Ora non c’eri più con il tuo sguardo,

a placare le molte mie inquietudini

e gli affanni della ricerca antica

che mai mi ha dato requie.

La morte si era presa il tuo respiro,

senza l’ultimo abbraccio dei tuoi figli

ed io gemevo piano, con il viso

posato sul tuo capo reclinato.

L’alba mi vide accanto al freddo marmo,

chinato sul tuo corpo a ricordare

i momenti più belli della vita

e i giorni sfortunati.

Poi vennero i fratelli e le sorelle,

i mille pianti, i fiori

e il noce lucidato della bara,

il lento camminare sull’Aurelia,

con gli amici in attesa avanti casa

e i mattoni a serrare il nostro cuore

nella gelida morsa del dolore.

Ora, trascorso il tempo, sono sceso quaggiù,

nell’oscuro snodarsi delle tombe,

davanti al tuo ritratto.

Brillano fiochi lumi e il tuo sorriso,

tra il biancheggiar dei fiori,

è una povera immagine

della squillante risata di mia madre,

quando, giovane, bella e forte,

un bimbo rincorreva lungo il viale

accanto alla Crocetta di Saglietto.

Eppure, Mamma, il tuo ricordo,

nonostante lo scorrere di giorni mai tranquilli,

è presente, ben vivo e mi accompagna

in questa vita vissuta intensamente.

Il tuo corpo è tornato nella terra

che si frantuma attorno e che rinasce

dalle ceneri sparse

di un fuoco che ha vissuto sessant’anni.

Tu rivivi con me, con i miei giorni,

soffri e gioisci nei miei sentimenti,

ti rifletti negli occhi dei miei figli,

scorri con me le pagine diverse

degli anni che trascorrono, cadendo,

uno sull’altro, come foglie d’autunno.

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Le favole cubane di Josè Martì

7 Maggio 2014 , Scritto da driana PediciniA Con tag #recensioni, #adriana pedicini, #gordiano lupi, #fantasy, #saggi

Josè Martì

Fiabe cubane

Ediz. Il Foglio

Narrativa cubana

Traduzione a cura di Gordiano Lupi.

 

“Sono tutte fiabe popolari che a Cuba vengono lette ai bambini. Non esiste persona che non conosca queste storie, raccolte da Herminio Almendros (1898-1974), un editore-scrittore-pedagogo ispano-cubano, noto per aver pubblicato Habia una vez (C’era una volta), il più noto libro di fiabe cubano. Almendros fondò l’Editorial Juvenil, prestigioso antecedente della Editorial Gente Nueva”.G.L.

Le origini della favola si perdono in un lontanissimo passato. Essa trae ragion di essere in quella cultura popolare e politicamente subalterna che nel rapporto conflittuale con i potenti esprime in modo semplice ed immediato le ingiustizie che quotidianamente deve subire.

Tra gli espedienti più comuni utilizzati dai compositori di favole vi è il ricorso a protagonisti tratti dal mondo animale, il che permette di osservare in un modo immediato comportamenti trasferibili al mondo umano. La chiarezza ed immediatezza del linguaggio fiabesco permette di recepire immediatamente la morale di ogni favola, sviluppando un dibattito sui temi evidenziati e su particolari vizi e difetti dell'animo umano sempre in dissidio tra bene e male, tra onestà e disonestà, tra arroganza ed umiltà ecc.

La favola, in quanto racconto fittizio che raffigura la verità in modo metaforico, coinvolge l'attenzione dei bambini e dei ragazzi su molti aspetti della vita, su lati del comportamento umano che, oltre che essere guidati da superiori ideali e valori etici, hanno bisogno di essere chiariti ed interpretati anche da schegge di buon senso, di terrena saggezza, di piccoli ammonimenti che, proprio perché più leggeri, più facilmente si insinuano nell'animo e spingono alla riflessione. E’ solo partendo dall’ osservazione dei comportamenti dei personaggi favolistici e dalla riflessione sui propri che fin dall’età infantile è possibile stimolare l’affettività, il rispetto, l’accettazione dell’altro da sé.

I temi della favola sono diversi e variegati: fatti della vita degli dei o di esseri superiori, degli animali, degli uomini colti nella loro quotidianità; i protagonisti sono spesso animali dotati di intelligenza e di parola umane, ma non mancano anche soggetti della natura inanimata.

Accanto agli animali è presente in questo mondo favolistico una umanità miserevole, colta nei suoi aspetti più dimessi, nella dura realtà del lavoro quotidiano: contadini, pescatori, pastori, rassegnati di fronte alle asperità del vivere, incapaci di trovare scampo ai soprusi della ingiustizia sociale. Ad essi dunque dà voce la favola, che dissimula nella sua contenuta polemica e nel travestimento metaforico dei suoi personaggi "la protesta degli umili" e la disincantata rassegnazione delle classi subalterne.

 

La gallina d’oro

Il mondo si divide in due parti: i lavoratori onesti e gli approfittatori. La vita però non è destinata a diventare un peso per alcuni e un trastullo per altri. Sicché prima o poi chi non si adopera per lavorare non avrà la giusta ricompensa.

 

La piccola rana verde e l’oca.

La favola riprende un motivo caro a Esopo ed è rivolto a tutti coloro che sono agitati da ambizioni sfrenate causate dall’invidia. La natura ha segnato per ciascuno dei limiti e andare oltre porta alla rovina.

 

La margherita bianca

Narra della gioia di vivere, del tripudio all’arrivo della primavera in tutto il suo splendore e della felicità dei bambini all’unisono con la bellezza di fiori e di piccoli animali.

 

La cucarachita Martina.

L’incontentabilità porta fuori strada. La sorte che sembrava la migliore si rivelerà essere la peggiore, per la disobbedienza del topolino alle esortazioni di Martina.

 

Come accadde che il topolino Péres resuscitò.

Talvolta i miracoli accadono davvero, ma non bisogna aspettarseli dall’alto. Bisogna imparare la legge della condivisione sia nel dolore che nella gioia. Tutti i personaggi animati e inanimati hanno condiviso con un segno concreto il dolore di Martina, e, trovata la soluzione, tutti sono stati ampiamente ripagati dalla gioia dell’avvenuta guarigione, gioia che non è stata divisa, bensì moltiplicata e concessa a ognuno, come ricompensa della partecipazione fattiva all’evento.

 

Riccioli d’oro e i tre orsi.

Insegna che la gioia si trova nelle piccole cose

 

Pulcino Pino

Stare in guardia dagli astuti. Non sempre le compagnie sono buone e i consigli disinteressati

 

La gallina Rabona.

Chi non si accontenta del suo perde anche quello che ha. Mai agire in modo disonesto per appropriarsi di quello che non è nostro. Chi la fa l’aspetti!

 

Il gallo al matrimonio.

La cortesia va sempre coltivata, anche quando ci sembra fuori luogo. Non possiamo noi essere giudici degli altri. Pertanto bisogna essere disponibili alla solidarietà

 

Mezzopulcino.

L’egoismo non porta bene. Aiutare gli altri diventa un’occasione per migliorarsi. Rimanere sordi alle richieste di aiuto non consente di averne quando se ne ha bisogno e spesso con l’egoismo siamo proprio noi a metterci in situazioni incredibili e assurde.

 

Non mancano nella prima sezione della raccolta Filastrocche che ammaliano con la rima baciata e con immagini delicate dai protagonisti topici delle fiabe con protagonisti umani (il cavaliere, la gitana) o con animali come in Cucù e nel piccolo raffinato componimento cantilenante La lumaca

Più complessa la struttura e più ricco lo stile nelle Fiabe per Ragazzi.

In “Una monella di nome Nenè” il leitmotiv dell’amore paterno e filiale s’intrecciano con la descrizione della bellezza, del metafisico, della speranza in una vita migliore, e per colorare la tristezza di sottofondo causata da una grave assenza il narratore ricorre all’utilizzo di descrizioni intimistiche delicate, di metafore cariche di significato, di analogie di profondo sentimentalismo.

E poi c’è la vita, quella da scoprire attraverso l’esperienza. E l’esperienza ha i suoi tempi, le sue tappe. La protagonista, come ogni giovane e fertile mente, è assalita dall’ansia di scoprire subito tutto quello che c’è nel libro proibito, un gran librone carico di anni e pesante di vita vissuta che il papà le impedisce di leggere. Lo afferra una notte di nascosto e vi trova la vita nei suoi aspetti fulgidi e strani, proprio come il gigante monocolo dipinto nel libro, fin troppo vicino al ciclope di omerica memoria. Diversi uomini, di varie razze, tentano di risalire faticosamente la lunga barba dell’omone. Fin troppo chiara la durezza della vita per tutti, a qualunque razza si appartenga! Infine l’imponderabile, l’inaspettato, l’uomo nero ignudo, che rappresenta il superamento del limite, l’ubbidienza tradita e forse l’incognita che ci attende quando si devia dalla retta via, una sorta di peccato originale che già inficiò l’umanità di Adamo.

Travolta dal fascino dei colori con cui sono raffigurati nelle pagine seguenti numerosi animali, la protagonista si lascia andare al trafugamento dei fogli e, quasi estraniata, non si accorge del monito del papà sopraggiunto all’improvviso che l’osserva con sguardo accigliato.

La conclusione infine restituisce una bambina provata dal rimorso.

Bebè e il signor Don Pomposo” dichiara che la genuinità di sentimenti positivi appartiene all’infanzia. In un mondo in cui ad alcuni per sorte tocca una vita grama, al contrario di altri più fortunati che ottengono facilmente tutto, spesso gli adulti sono inadeguati a stabilire l’equilibrio e in una falsa torre di bontà dispensano doni a chi non ne avrebbe bisogno, trascurando di guardare oltre. Allora ci pensano i piccoli che in una sorta di slancio naturale mettono in pratica azioni di generosità a favore dei più deboli, soprattutto se bambini come loro.

Anche nella fiaba poetica “Le scarpette rosa”, ricca di descrizioni paesaggistiche e di dettagli personali, sorprende che l’iniziativa dell’atto generoso sia intrapresa da una bambina che rinuncia volentieri alle sue scarpine rosa, a cui tanto la sua mamma teneva, perché un'amichetta molto povera possa indossarle per giocare. Torna a casa a capo chino la bimba, timorosa per le conseguenze della disobbedienza, per giusta causa diremmo! Infatti non solo non verrà sgridata, ma addirittura la mamma l’esorta a far dono alla bimba povera di tante altre cose ancora.

Un quadro vero e proprio, una filigrana preziosa, un lavoro di cesello e ricamo è la fiaba “La bambola nera”. Minuscole pennellate di colore, lampi di luce che danno il senso pieno della descrizione attenta e meticolosa. Tutto è bello, raffinato, curato, le cose come i sentimenti, ma la crepa buia c’è perfino in questo mondo dorato. È ancora una volta la sensibilità della protagonista, una bimba di 8 anni, che in tanta festa per il suo compleanno, non riesce a godere pienamente della gioia dell’evento e dei regali ricevuti. Solo a sera, nel suo letto, ritrova la felicità abbracciando la bambola nera, il suo gioco preferito, da tutti trascurato perché considerato brutto e malconcio. Ancora una volta vien fuori l’amore per gli emarginati, così spontaneo in chi non è stato ancora “diseducato” dalle convenzioni sociali.

Il gambero incantato”. Molto frequente è il tema della incontentabilità umana, e molto fortunato nella tradizione favolistica. Attraverso una serie di episodi narrati con garbo e con dovizia di particolari, l’Autore sottolinea come il parossistico desiderio di possesso, di ricchezza e infine di mutare la propria condizione, alla fine porti alla rovina. Il non rispettare la misura è un grave danno. Ma la favola contiene anche un altro messaggio: il non darla vinta agli sregolati, fronteggiare la loro insaziabilità a qualunque costo, pena la rovina personale. Proprio come ci suggerisce il finale.

Un monito valido da sempre soprattutto nell’educazione dei figli. E’ facile constatare come i giovani di oggi abbiano desiderio, anche in fatto di morale, di punti di riferimento sicuri che con sofferenza talvolta cercano in comportamenti poco coerenti del tessuto familiare e sociale; e che spesso il loro recalcitrare di fronte a consigli e ammonimenti severi è solo un modo per mettere alla prova non tanto se stessi, quanto gli adulti (genitori ed educatori). Un obiettivo, questo, che pare felicemente raggiunto nelle fiabe dell’Autore cubano.

C’è da chiedersi perché le fiabe incontrino in genere tanto favore e perché questo genere letterario sia pratico laddove si cerchi il profumo della libertà.

Sicuramente la narrativa, specie quella di veloce sforzo creativo, di più immediato impatto, come il racconto o la favola, è stato sempre il genere trainante, prodromico alle forme più ampie come il romanzo. Inoltre quando le convenzioni sociali, le limitate libertà impediscono l’autentica estrinsecazione del pensiero, questo si fa scudo della metafora con cui critica la realtà e gli aspetti aberranti di essa, nascondendosi in un generale moralismo che non sempre coglie le peculiarità di una situazione, di un paese, di un popolo. Oppure si corre il rischio che il senso inebriante delle conquiste poco mature “accentui il divario tra l'ideale dei padri e la meschinità del presente, la religiosità e il misticismo un tempo tabù, la solitudine senza prospettive”.

Allora interviene la satira, o con atteggiamento molto più dolce e bonario, ancora una volta la favola.

E sicuramente un ruolo importante nel loro contesto hanno rivestito anche le fiabe di Josè Martì.

Un’ultima nota per evidenziare gli ottimi disegni di Roberta Guardascione e la traduzione straordinariamente ricca di pathos di Gordiano Lupi.

 

Adriana Pedicini

 

Josè Martì (1853 – 1895), considerato l’eroe dell’indipendenza

cubana, morì combattendo contro i colonizzatori

spagnoli. Fu poeta di radice whitmaniana, anticipatore

della poetica modernista (di lui si ricordano

soprattutto i Versos Sencillos del 1891, dai quali venne

estrapolato il testo canzone Guantanamera). Non fu

solo poeta, ma anche narratore per l’infanzia (fondò la

celebre rivista La Edad de Oro), saggista, uomo politico

e romanziere. Tutta l’educazione della gioventù cubana

passa attraverso l’insegnamento capillare della

sua opera. Nené traviesa è una fiaba pubblicata per la

prima volta sulla rivista La Edad de Oro.

Le favole cubane di Josè Martì
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Gordiano Lupi, "Calcio e acciaio"

3 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #gordiano lupi, #recensioni, #luoghi da conoscere

Gordiano Lupi, "Calcio e acciaio"

Calcio e acciaio

Gordiano Lupi

Acar edizioni, 2014

pp 193

12,50

Il problema con la vita è che, anche quando non cambia mai, cambia continuamente.”

Un romanzo dove accade ben poco, Calcio e acciaio di Gordiano Lupi, incentrato su un proustiano ricordare, una madeleine che rimanda a piene mani al precedente libro dell’autore, il bellissimo Alla ricerca della Piombino perduta. Anche qui la nostalgia è la cifra principale, permea di sé tutte le pagine in modo straziante.

Giovanni è tornato a Piombino per ammalarsi di ricordi. Quando la realtà non è come la vogliamo si finisce per rifugiarsi nel passato.” (pag 77)

L’autore dissemina se stesso, spalmandosi sui vari personaggi, Giovanni in primis, ma anche Marco, Gino, Paolo, Paola, i quali hanno tutti il vizio di ricordare, di non adattarsi alla realtà quotidiana ma cercare qualcos’altro, qualcosa che doveva essere e non è stato, qualcosa che non potrà essere mai più.

Giovanni si scopre a pensare che forse non gli manca tanto il Cinema Sempione, quanto il sapore di giorni che non possono tornare, quando tutto era ancora incertezza e scoperta del futuro, quando le immagini sul grande schermo erano i suoi sogni occhi aperti. Proprio così, come un gelato assaporato ancora oggi che non conserva il gusto del passato, pure se lo compri nella stessa gelateria della tua infanzia. Sa di cose che non possono tornare. Sa di rimpianto.” (pag 94)

Tutti i personaggi hanno gusti, manie, interessi riconducibili all’autore, dal calcio, al cinema, alle letture, a Cuba, e in loro è fortissimo lo scarto fra ideale e reale, la freccia puntata verso l’alto – dove il reale è sempre e comunque perdente - che è la caratteristica più tipica del Romanticismo. È gente, questa, che “il filo dell’orizzonte se lo porta negli occhi”, perché ciò che possiede non gli basta mai, non si accontenta del presente ma languisce nel rimpianto, in un bisogno sempre inappagato, sempre spostato in avanti o indietro.

Giovanni, il protagonista, è un ex calciatore di fama nazionale che ora, a cinquant’anni, allena la squadra del Piombino, città dove è nato e cresciuto e dove sono conservati tutti i suoi ricordi. Giovanni è un uomo aspro perché fragile, un uomo che conosce la solitudine terribile di chi si sente solo in mezzo agli altri, solo mentre mangia una pizza con gli amici, solo mentre fa sesso con una compagna della quale non è innamorato. Forse, paradossalmente, è meno solo quando passeggia senza nessuno sulle scogliere da cui si vede l’isola d’Elba, mentre osserva i gabbiani in volo, ascolta il loro strido intriso di salmastro, tocca le foglie carnose del fico degli Ottentotti pensando a una squadra da allenare per un campionato di basso livello. Ci sono i ricordi a tenergli compagnia, i volti e le voci del passato, ma la nostalgia è dolceamara, insopportabile. Ricorda il tempo che fu, i sogni perduti, gli amori e, soprattutto, la giovinezza che non tornerà mai. Di questo è acutamente e dolorosamente consapevole: le occasioni sono sfumate, i treni sono passati e i giorni da vivere non sono più così tanti.

Mi trovo spesso a pensare che siamo i protagonisti di una storia che sta finendo, confinati in un angolo d’ombra, viviamo del nostro passato, piangiamo sulla nostra vita.” (pag 108)

Soprattutto, ciò che è stato non sarà più e il dolore, misto a una solitudine lancinante, è insostenibile.

Da bambino Giovanni viveva in una casa che era al di sotto delle possibilità della famiglia, una casa dove lui non aveva nemmeno una camera sua, ma che era intessuta di voci, di sapori e ricordi. Là, a pochi passi, abitava il nonno, responsabile del mondo fantastico di Giovanni/Gordiano, della sua capacità affabulatoria, della cattiva abitudine di sognare; là suo padre cenava con le spalle al mostro dell’acciaieria, fumoso, grigio, maleodorante, pronto a insanguinare il cielo con un falso e ferroso tramonto. L’orizzonte del cortile era limitato ma conosciuto e amato. Era il suo orizzonte.

Al limitare dell’orizzonte l’industria, la colata continua, l’altoforno che bruciava i residui ferrosi e regalava un tramonto innaturale che colorava il cielo di rosso ad ogni ora del giorno.” (pag 56)

Ora Giovanni sta nella villa di Salivoli, quella dei sogni di ragazzo, ma tutto ha perso sapore, le giornate trascorse senza l’impegno del calcio sono vuote, aride, deprimenti. Il tempo dà valore alle cose, alle memorie, anche a quello che bello non era; tutto ciò che è stato, solo perché non c’è più, anche gli affanni, anche il degrado, anche la provincia sonnolenta e immota, anche la noia, diventano desiderabili, diventano la madeleine inzuppata nel tè in grado di sprigionare un’esplosione di reminiscenze.

Ci sono momenti in cui i sogni del passato si scontrano con la realtà per poi tornare nuovamente sogni nella prospettiva del ricordo, come a pagina 55, dove lo schema è SOGNO>REALTA’>SOGNO.

La maestra spiegava le guerre puniche , mentre fuori si cominciava a intuire la primavera tra il salmastro delle tamerici e i primi fiori delle agavi spinose. Giovanni lasciava correre la fantasia. La storia con tutte quelle date e battaglie da imparare a memoria non gli interessava proprio. Era un po’ come la matematica, in fondo. Se ne poteva fare a meno. Fantasticare no, invece. seguire i sogni che volavano dietro i raggi di sole, immaginare il volo di un gabbiano nei colori dell’arcobaleno, veder partire navi pirata dalle scogliere a picco sul mare. Quelle erano le cose davvero importanti. La maestra spiegava e lui vestiva i panni di un soldato romano, gladio in pugno, a combattere in un’immensa pianura africana. Era il centurione Giovanni e partecipava alla distruzione di Cartagine. Agli ordini di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano. Fuori dalla scuola come sempre incontrava la realtà. C’era soltanto il nonno ad attenderlo. Nessun generale cartaginese. Nessun console romano. Niente di niente. Soltanto il nonno.”

Il sogno non ha età, non ci molla mai, non ci lascia in pace. Non è vero che invecchiando si smette di desiderare, di ambire, di fantasticare. È questo a fregarci, a far sì che Giovanni, impotente a resuscitare il passato, malinconico, infelice, veda se stesso nella giovane promessa marocchina Tarik, identificandosi nelle sue speranze ma anche nella sua nostalgia verso il proprio paese abbandonato.

Giovanni non ha dimenticato. Lo sa che non deve rinunciare ai sogni, in ogni momento della vita ce ne sono, pure quando tutto sembra finito.” (pag 63)

La fantasia di Giovanni/Gordiano è accesa, inarrestabile, nutrita da racconti e letture eterogenee, che spaziano da Carolina Invernizio alle fiabe dei fratelli Grimm, dai fumetti a De Amicis. Calcio e acciaio è bagnato dagli spruzzi delle onde, percorso dalle grida degli uccelli marini, intriso di salsedine e rimpianto, procede avanti e indietro fra passato e presente, passa dalla terza alla prima persona facendoci piombare dentro i personaggi per poi riuscirne, come un cormorano che si tuffa in mare e dopo riemerge. Le ripetizioni seguono il fluire di una narrazione che avanza spossata, estenuata, eppur scorrevole. I termini sono quotidiani, semplici, riacquistano la valenza primigenia che dovrebbero avere, spogliandosi dell’abuso e dell’iperbole, come fossero anche loro tornati indietro nel tempo, a quando i campi di calcio erano sterrati, al cinema si mangiavano seme e noccioline invece di pop corn, e lo sballo consisteva nel masticare lo stesso chewing gum dall’alba al tramonto.

Troppi sogni seppelliti tra le buche del cortile. Troppe cose impossibili da dimenticare.” (pag 579)

Sì, non si può dimenticare Piombino, non si può dimenticare il passato. E allora, alla fine, c’è la quadratura del cerchio, o, meglio, la sua chiusura, il loop, l’uroboro. Piombino non si dimentica e diventa “il punto di arrivo e non la fine del sogno”. Si torna indietro, si riscoprono le radici, si riannoda il filo della memoria valorizzando l’essenziale, smitizzandolo e riappropriandosene nel quotidiano, guardandoci intorno e recuperando quello che c’è di buono, ritrovando il futuro. Finché c’è vita, finché si respira, si va avanti.

Non potrei dimenticare il profumo di questa terra che conserva tutti i miei ricordi. La scogliera nei giorni d’estate, la maglietta sudata dopo una partita di calcio su un campetto improvvisato, la merenda pane burro e marmellata davanti a un fumetto, la canna di bambù divelta per strada in via Amendola dove adesso costruiscono case, il palazzo della sirena e le leggende inventate dal nonno, la spiaggia del Canaletto con il fossato a cielo aperto, maleodorante e romantico sogno del passato. No, non potrei dimenticare Piombino.” (pag 160)

Gordiano Lupi, "Calcio e acciaio"
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Maria Vittoria Masserotti, "Cose"

22 Aprile 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #maria vittoria masserotti

Maria Vittoria Masserotti, "Cose"

Cose

Maria Vittoria Masserotti

ilmiolibro.it, 2014

pp 140

12,50

Ho letto tutti e tre i libri di Maria Vittoria Masserotti e questo è, indubbiamente, quello più suo, nel senso che qui c’è tutta la sua vita, frammentata e rifratta in diciassette racconti. Gli spunti - le “Cose” disegnate sulla copertina - sono diversi: un faro, un figlio mulatto che odia il padre, un rapporto omosessuale, un cappello, uno scialle, una nota, ma, alla fine, il nucleo più vero della raccolta sono quei racconti dove una donna dai nomi diversi, ma che è sempre la stessa, coltiva il suo vizio di amare troppo.

Le donne della Masserotti amano troppo un uomo assente, sfuggente, capace di regalare loro, però, quel pizzico d’infinito che rimpiangeranno per sempre, senza poterlo mai dimenticare, senza potersi mai far bastare altro, perché qualunque cosa sarebbe un ripiego.

Sentiva il tocco lieve che percorreva la sua schiena lentamente, mentre aveva la sensazione che le loro due anime si stessero toccando. Un attimo perfetto, un pizzico d’infinito. No, non era più libera e forse non lo sarebbe mai più stata del tutto.” (pag 122)

Insieme all’Amore – inteso come ossessione romantica, tensione verso l’assoluto, fusione di carni e di anime – arriva inesorabilmente anche il Dolore, rappresentato dalla Scimmia appollaiata sulla spalla. Il dolore è fatto di mancanza, di nostalgia straziante, di vuoto incolmabile, ma pure di sensi di colpa per come ci si è lasciate trattare, per lo svilimento, per le umiliazioni subite, per le inutili attese davanti a un telefono che non suona, per la consapevolezza di non essere abbastanza attraenti per lui.

C’è la vita dell’autrice, dicevamo, in troppi di questi racconti, la sua grande capacità di amare, il suo vissuto, le sue esperienze, i luoghi conosciuti. Come in “Racconti per una canzone”, anche qui colpisce l’ambientazione sempre diversa di ogni bozzetto, che spazia dagli Stati Uniti alla provincia italiana più remota, dagli uffici ai ristoranti, dai caffè alle stazioni, descritti senza retorica ma con la mano ferma di chi parla di ciò che conosce bene.

C’è una novella, tuttavia, diversa da tutte le altre: “La gamba”, che racconta un episodio della vita di Sarah Bernhardt. Ecco, se l’autrice riuscirà a liberarsi della zavorra dell’autobiografismo, spogliandosi non tanto di se stessa quanto del suo groppo di dolore, scacciando la Scimmia dalla spalla, facendo della scrittura un uso esplorativo e non solo consolatorio, allora, con lo stile scorrevole e la padronanza di linguaggio che la caratterizzano, sarà in grado di perlustrare felicemente nuove strade, fra le quali quella della rievocazione storica appare davvero molto promettente.

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Francesco Grasso, "Come un brivido nel mare"

20 Aprile 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Francesco Grasso, "Come un brivido nel mare"

Come un brivido nel mare

Francesco Grasso

Nemo editrice, 2013

pp 201

17,90

“Il faro di Sebastopoli rifulge lontano, a nord. La costa è rocciosa, disseminata di piccoli scogli a fior d’acqua che ricordano candele mozze. Su alcuni di questi scorgo minuscole fiammelle: lanterne di pescatori in cerca di granchi, indovino. Il cielo è sereno. Una falce di luna brilla ad ovest. Onde bambine si frangono piano contro lo scafo. C’è odore di gabbiani e di salsedine.” (pag 25)

Nonostante qualche piccolo refuso, probabilmente sfuggito all’editor, la scrittura di “Come un brivido nel mare”, vincitore del premio Nemo 2012, è molto buona e suggerisce un talento assodato. Dispiace che sia al servizio di un contenuto dove molte delle premesse vengono disattese.

La storia parte da uno spunto inesplorato e stimolante, il catastrofico maremoto di Messina del dicembre 1908, ma s’intriga in sviluppi fantastici e spionistici, senza riuscire ad aver ragione della troppa carne messa a fuoco.

Come un brivido nel mare” è un romanzo storico, perché mescola accadimenti e personaggi autentici ad altri di pura fantasia. Appartengono alla realtà il cataclisma avvenuto a Messina, il personaggio della regina Elena – colei che, nella finzione, legge il manoscritto del protagonista morente – l’incidente occorsole, l’arcivescovo Arrigo Letterio, le navi straniere in rada nei giorni del terremoto. La trama, però, si snoda immediatamente in fanta-storia, e questo non sarebbe di per sé un difetto, sennonché l’elemento sovrannaturale e fantastico qui mal si sposa con le vicende reali.

In breve, la regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III, mentre presta aiuto compassionevole ai feriti del terremoto di Messina, raccoglie le ultime confidenze di un giovane soldato russo di bellissimo aspetto, Alec Vassilievic, detto Krasivin, cioè avvenente – dove bello sta a indicare anche buono ed ingenuo - il quale le consegna un taccuino in cui ha scritto il resoconto degli ultimi tempi prima del cataclisma. Egli si rivolge in forma epistolare allo scomparso fratello Piotr. Di tale fratello non si saprà più nulla e questa è una cosa che un romanziere non dovrebbe mai fare, cioè aprire una strada nell’intreccio senza poi percorrerla, lasciandola finire in un vicolo cieco.

La narrazione si divide in due parti, la prima è ambientata a bordo del Makarov e ricorda molto da lontano certe atmosfere di Conrad o di Melville, con protagonisti maschili alle prese con la vita di mare, il cameratismo e il bullismo. La seconda ha tutt’altro registro, si sposta a Messina, dove la realtà locale è osservata attraverso la visione distorta di un marinaio russo, fino all’epilogo che mescola il catastrofico col paranormale.

Il plot unisce gli elementi più svariati, cercando di amalgamarli fra loro, dal terremoto di Messina all’evento di Tunguska - ovvero la caduta di un meteorite in Siberia nello stesso anno – alle vicende storiche dell’arcivescovo Arrigo Letterio, alla presenza di due navi, una russa e una britannica, al largo della città proprio nei giorni del maremoto, alla visita della regina Elena, al culto mariano tipico della cultura messinese, alla malavita locale. Ma a far da filo conduttore c’è una fastidiosa ed ingombrante presenza femminile, quella di Perla, una spia russa che ha le fattezze e le movenze di un’eroina da videogiochi. Onnipresente, si porta appresso una complicata avventura di spionaggio internazionale, nella quale confluiscono laboratori russi di studio sul paranormale e veggenti lebbrose capaci di scatenare primigenie forze telluriche e scardinare millenari equilibri anche etici. Ella ha, inoltre, l’insopportabile vizio di raccontare continuamente al povero Alec, nonché al lettore, miti greci che poco hanno a che vedere con la storia, se non in qualche sotterraneo collegamento dovuto alla passione dell’autore per gli stessi, così come per le tradizioni russe.

Il dubbio che la materia sia ingarbugliata, deve essere venuto anche a Grasso, che lo ha manifestato nelle riflessioni metanarrative della regina Elena: “la guerra di spie evocata da Brasivin”, ella ci dice nella postilla n° 1, “mi ha lasciato assai scettica.” E “ancora meno mi convince il coacervo di antiche, stravaganti superstizioni, miti greci raffazzonati e perverse congetture religiose che Brasivin pretende, per meglio dire teme, aver causato il terremoto.”

La Vergine della Lettera, attorno alla quale ruota tutta la storia, somiglia più alla mater Matuta dei romani che alla madre di Gesù Cristo. Nel suo culto si riscontrano correnti pagane sotterranee, sopravvissute ai secoli. Questo aspetto è intrigante e avrebbe meritato maggior sviluppo, a scapito delle avventure che si svolgono a bordo del Makarov.

“Io credo, Piotr, che qui in Sicilia il clero stia combattendo da secoli per affermare l’ortodossia delle Scritture sul “senso magico” con cui il popolo vive il rapporto quotidiano col trascendente. In questo senso il mito della Protettrice, che le gerarchie ecclesiali non sono mai riuscite ad assorbire del tutto nel Credo ufficiale, rappresenta una minaccia.” (pag 137)

La seconda parte, quella siciliana, è forse la migliore, poiché si capisce che Grasso, messinese, ama e conosce ciò che descrive: la vita rude dei pescatori, il sudore della fronte, lo spirito di squadra, gli uomini e le donne del popolo in lotta con una natura matrigna.

E lì, mentre cantiamo e sudiamo e bestemmiamo insieme spruzzandoci l’un l’altro d’acqua salata, con le braccia che bruciano e la schiena che scricchiola e il legno del remo che graffia la pelle, mi colpisce all’improvviso una sensazione potente e magnifica. Una comunanza di sforzi e d’intenti, una solidarietà tra uguali, un’amicizia e un senso di appartenenza che in vita mia ho provato solo nei giorni migliori sul Makarov, tra i pochi compagni di cui veramente ero giunto a fidarmi. Riconosco nell’emozione, o almeno credo, ciò che Pasha chiamava “il vero Cameratismo”. Sentirsi non più un singolo ma parte integrante di un Equipaggio, un rito collettivo che va molto oltre indossare una stessa divisa o rispettare uno stupido regolamento.” (pag 131)

Se c’è una morale nella storia, è che “la tragedia è un faro che porta alla luce il meglio e il peggio che si nascondono dentro ogni uomo”, il cuore di tenebra di ognuno di noi, potremmo dire. Così, Serioga, l’antagonista malvagio (e brutto) di Alec, alla fine trova una sua qualche redenzione, mentre i popolani amici si trasformano in avidi sciacalli. Ma c’è anche un altro filone, che fa onore a Grasso, quello dove egli, per bocca del suo protagonista, rinnega “l’arbitrio di chi comanda”, il fatalismo di chi si piega ai soprusi dei prepotenti e alla mentalità mafiosa per la quale è da considerarsi “protezione” il ricatto dei criminali.

In conclusione, possiamo dire che una scrittura tesa come quella di Grasso, una forma così poetica, potrebbe esprimere un contenuto strutturato in modo più consapevole, magari patendo qualche rinuncia, in modo da non creare una mescolanza di generi dissonante anziché sincretica.

Insomma, non solo nello stile, ma anche nell’intreccio, vale la regola che è sempre meglio togliere qualcosa, piuttosto che aggiungere.

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