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maria vittoria masserotti

Giorgio Olmoti, "On the Road again"

1 Gennaio 2015 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Giorgio Olmoti, "On the Road again"

On the road again

Giorgio Olmoti

Roundmidnight edizioni

Un linguaggio sconclusionato che contiene diversi semi di riflessione, belle fotografie di un passato vicino e lontano. Ci siamo chiesti più volte quanto abbia importanza il modo di comunicare nello scrivere un libro, il linguaggio. Ci vengono in mente molti scritti di Saramago che ignorano la punteggiatura e costringono ad essere completamente attenti per riuscire a capire quello che vuol dire. Forse la punteggiatura non è tutto, forse il linguaggio non è tutto, forse è solo una questione di pigrizia. E ci chiediamo: ma il lettore, questo sconosciuto, che affonda nelle parole scritte dall’Autore, ha qualche diritto? Certo, quello di chiudere il libro e rimetterlo nella libreria, però immaginiamo che un Autore voglia essere letto, allora il linguaggio ha un qualche significato.

Saramago voleva essere letto? Certamente sì e provocava. Quindi accettiamo la provocazione di Giorgio Olmoti e continuiamo la lettura, tornando in dietro diverse volte per vedere se abbiamo capito. I racconti si snodano nel senso letterale “on the road”, s’intrecciano con le belle fotografie che citavamo, ma l’ironia la fa da padrona sempre. Ironia sulla società, sui giovani, gli anziani ed anche su chi scrive. Ci piace l’ironia, la sua lama tagliente e affilata come un bisturi, ci procura spaccati della realtà storica che altrimenti rimarrebbero nascosti e in questo Olmoti è bravo.

Un’ironia feroce e dissacrante ma poi scopri che nelle sue pieghe si nascondono bave di poesia, come una lumaca che lascia la sua scia, perché chi è attento la segua.

Ci ritroviamo perciò anche noi on the road again, senza soldi con la macchina che si guasta o su un’aia di uno sperduto casolare immersi nella merda di vacca, siamo nel castagneto del dentista Artos, dentista sui generis. Ci guardiamo intorno in una cucina piena di mobili, “un Vittoriale pop”, o ci sediamo al bar “dopo una giornata caricata a sale e sparata nella schiena”. Con l’immancabile 127 verde, o con una bici sgangherata, mentre “i soldi erano una cosa che più che altro intuivamo”, ci catapultiamo alla ricerca di pioppini per sfamare la tribù. Giriamo per le corsie del supermercato con la vita nello zaino, “in culo al gelo che fuori se la tira da boss del quartiere”, rubando microstorie dalle facce e dai carrelli della spesa, oppure scriviamo una lettera aperta al signor Timberland. Ci infiliamo sotto un architrave per il terremoto, oppure leggiamo bigliettini con scritto “Gesù sta arrivando”. Ci introduciamo in un ospedale, insomma siamo dentro una variegata umanità vista sempre dallo stesso occhio attento.

In definitiva il libro ci piace, nonostante le difficoltà e la costante rilettura all’indietro che ci dà quest’andatura forse un po’ marziana, come i personaggi che sembrano appartenere ad un altro pianeta e invece sono assolutamente nostrali.

Del resto sono il più grande narratore di insuccesso che la storia delle storie ricordi e quindi il cerchio si chiude”, l’Autore fa dire a un personaggio, e qui non siamo d’accordo.

Maria Vittoria Masserotti

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Simone Cutri, "E nessuno viene a prendermi"

13 Agosto 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Simone Cutri, "E nessuno viene a prendermi"

E nessuno viene a prendermi

Simone Cutri

MUSICAOS ED SMARTLIT 05

Una prima lettura superficiale potrebbe portare il lettore ad inorridire di fronte a quest’abisso infinito nel quale si rotola un uomo, il protagonista, che scende e sale nella violenza delle emozioni umane, quelle “buone” e quelle “cattive”.

Poi nasce il bisogno di capire.

Quanti volti può avere la disperazione? Come è possibile vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto? E, ancora, che cosa vuol dire nichilista?

Domande su domande che incalzano e si avvitano l’una sull’altra.

Il vero protagonista, però, è il Nulla. Sì, con la enne maiuscola.

Io non sono ateo perché chi è ateo è ateo del Dio cristiano: si immagina che a non esistere sia quel Dio buono con la lunga barba bianca; ha l’idea di un’assenza, in fondo ha paura, nasconde una remota speranza. Io non sono ateo: io ho la certezza del Nulla.

Il Nulla che è peggio della morte, perché è la totale assenza di possibilità. Il protagonista non ha nessuna possibilità di uscire vivo da questo Nulla, che viene spalmato nelle strade di una Torino, bella ed altera, spettatrice inconsapevole di una vita che si sfalda in mille scaglie che rimangono incollate ai suoi angoli, a quella topografia da accampamento militare.

E resto qui, con i miei demoni, e non viene nessuno qui a prendermi.”

Con un linguaggio colto, perfino delicato, ottocentesco, solo con qualche tagliente parola forte, quasi a farlo risaltare ancora di più, l’Autore conduce per mano il suo personaggio e, con lui, il lettore fino all’epilogo scontato ma devastante.

E finalmente oggi smetterò di dipendere dal Tempo, tornerò nel Nulla, dormirò per Sempre.”

La cultura può essere un’ancora di salvataggio, oppure, a volte, un moltiplicatore dei dubbi, così come delle certezza, per quanto effimere possano rivelarsi.

Uno sguardo su un abisso che a molti è ignoto e per questo rispettiamo questa fotografia di un mondo sconosciuto, che, però, ci turba e ci porta a chiederci: perché non è successo a me?

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Rudolf Blaumanis, "Sogno"

20 Luglio 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Rudolf Blaumanis, "Sogno"

SOGNO

Rudolfs Blaumanis

Damocle Edizioni

Un libro piccolissimo, come formato e come numero di pagine, con uno stile editoriale veramente curato, delicato come il racconto “Sogno” che contiene.

Rudolf Karl Leonid Blaumanis (1863-1908) è stato uno scrittore lettone ma anche un giornalista e drammaturgo. È considerato come uno dei più grandi scrittori della storia lettone e soprattutto un maestro di realismo. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue e la sua più famosa è il racconto “La morte all’ombra del gioco”. In Italia è stato pubblicato anche da Sellerio, La zattera di ghiaccio.

La quasi totale mancanza di traduzioni delle opere lettoni lascia il lettore italiano orbo di una conoscenza che arricchisce la letteratura a tutto campo, dunque l’iniziativa della casa editrice Damocle, che ha creato una collana “Piccola Biblioteca Lettone”, fa pensare ad un vuoto che viene colmato. La traduzione del racconto, poi, ci restituisce in italiano un linguaggio armonioso e semplice.

In un ambiente tipicamente rurale si perpetra la stessa “tragedia”, uguale in tutto il mondo, la tragedia dell’amore tradito, disilluso, calpestato. La ricchezza che compra la bellezza, ma in tutte le poche pagine si sentono profumi, il tiglio insistente, l’erba bagnata dall’umido della notte e un tenace odore di lillà. Delicatamente affondiamo, quasi inconsapevolmente, nella serenità della notte, nei profumi diffusi e nell’inevitabilità della fine di un sogno. Quello che colpisce è la levità con cui l’Autore maneggia una situazione, di per sé drammatica, e la stempera nel silenzio della campagna, illuminata dalla luce della luna che sfuma anche i sentimenti più forti, come se l’impronta del realismo diventasse una sorta di filtro delle emozioni che solo si intuiscono violente.

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Alberto Calligaris, "Ogni cosa che tocco è un'astronave"

4 Luglio 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Alberto Calligaris, "Ogni cosa che tocco è un'astronave"

Ogni cosa che tocco è un’astronave

Alberto Calligaris

Non è possibile definire il genere di questo romanzo, sembrerebbe un thriller ma è molto di più. È un libro “forte”, tagliente e feroce. È, però, infarcito di cultura, non quella dozzinale che vendono al supermercato, cultura raffinata. Piccole spigolature dello scibile che le sai solo se hai cercato e cercato.

Sara, la protagonista, lavora in una libreria mentre fa finta di fare la studentessa, ed è da questa libreria che nasce tutto. “Dovevo smettere con questo bisogno continuo di stordire la realtà come se la vita fosse succo d’arancia a cui devi aggiungere sempre vodka per riuscire a berlo”.

Nasce un’avventura a tinte forti e suspense a fiumi.

Sara è una donna che ha una particolare visione maschile dell’uomo. “La seduzione è questa cosa orrenda che fanno gli uomini per cui riescono a convincerti che non ti faranno mai male. Poi scopri che godono solo sventrandoti e anche tu cominci a godere per il fatto di essere sventrata ogni volta, e questo è l’amore.

Scrivere al femminile per un maschio non è facile, come d’altra parte il contrario. Esistono emozioni che nascono dentro la pelle e, se non è di donna, è difficile che si riconoscano gli umori che secerne un corpo femminile, si possano descrivere, ma l’Autore rende la protagonista credibile, reale.

C’è un “gusto” per la violenza, nell’attardarsi nei particolari, che ha come contraltare una visone profonda dei sentimenti ed, insieme, un realismo pregnante nel descrivere la realtà vista dall’occhio attento della protagonista. “Quello che sto cercando di dire è che il gioco della letteratura funziona solo da digiuni, solo quando hai fame. Solo allora lo spirito si modifica, solo allora il cuore cambia il battito, la carne impara dal sangue, il sangue dall’aria nei polmoni.”

La mancanza di punteggiatura, in una larga parte del libro, tiene viva l’attenzione, dà un incredibile ritmo che, all’inizio, si fa fatica a prendere ma, una volta raggiunto, non ti accorgi neanche che la virgola è praticamente scomparsa, quasi sostituita dal punto. Frasi mozze che tagliano, che stridono come lametta sul vetro.

La dicotomia tra la profondità di alcune frasi, che si infilano come frecce nel lettore, e la violenza descritta con così cruda minuziosità, fanno nascere un enigma: quale sia la personalità dell’Autore. Enigma che per essere sciolto dovrà aspettare il suo prossimo libro, forse…

Maria Vittoria Masserotti

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Gianluca Conte, "Cani acerbi"

30 Maggio 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Gianluca Conte, "Cani acerbi"

Cani Acerbi

Gianluca Conte

Musicaos edizioni

La prima cosa che colpisce è il linguaggio crudo, sincopato. Un insieme di lingua italiana con sbavature in dialetto che a volte stupisce per la prematura scomparsa del congiuntivo. Il ritmo, però, segue una cadenza armonica e, alla fine, si riesce a leggere con una certa fluidità. La prolificazione di parolacce, il linguaggio crudo appunto, serve a sottolineare situazioni paradossali, almeno apparentemente, perché sappiamo che nella nostra terra sono usuali.

Poi, girando le pagine, ci possiamo rendere conto che, sotto un’apparente patina di semplicità, c’è una certa ricchezza di temi. Temi attuali, che sono insiti nella società in cui siamo immersi, come l’ambiente, la prostituzione o la corruzione politica. Temi che scottano e che forse non sono mai abbastanza trattati.

Il Salento fa da sfondo, quello che chiamiamo il tacco d’Italia, è il teatro di vicende che mettono in luce commistioni e collusioni. Una terra dove è tutto semplicemente normale, anche violare la legge, glissare sulle regole della convivenza civile. Il “tutto”, quello che l’autore racconta, è rigorosamente inventato, ovvio, come dichiara la prima pagina del libro.

I personaggi principali sono due amici, uno giornalista di provincia e l’altro agricoltore “per caso”, ma non troppo perché si evince nato con la vanga in mano. Due persone animate dalla curiosità, anche se poi non affondano mai abbastanza nel loro mondo, conservando quasi sempre un atteggiamento un po’ goliardico.

Al contorno, le anime di questa terra sperduta tra le compagne del Salento, dipinte con alcune pennellate sicure, escono e s’impongono alla nostra attenzione, sempre che si riesca a non scivolare oltre o, meglio, che si riesca ad entrare dentro il racconto, che a tratti è così sincopato da costringerci a cercare il collegamento tra un’azione e l’altra.

Una lettura nel complesso interessante per la prospettiva dalla quale ci obbliga a guardare una realtà così lontana da noi cittadini, un mondo che ancora conserva alcune caratteristiche dell’Italia del dopoguerra.

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Maria Vittoria Masserotti, "Cose"

22 Aprile 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #maria vittoria masserotti

Maria Vittoria Masserotti, "Cose"

Cose

Maria Vittoria Masserotti

ilmiolibro.it, 2014

pp 140

12,50

Ho letto tutti e tre i libri di Maria Vittoria Masserotti e questo è, indubbiamente, quello più suo, nel senso che qui c’è tutta la sua vita, frammentata e rifratta in diciassette racconti. Gli spunti - le “Cose” disegnate sulla copertina - sono diversi: un faro, un figlio mulatto che odia il padre, un rapporto omosessuale, un cappello, uno scialle, una nota, ma, alla fine, il nucleo più vero della raccolta sono quei racconti dove una donna dai nomi diversi, ma che è sempre la stessa, coltiva il suo vizio di amare troppo.

Le donne della Masserotti amano troppo un uomo assente, sfuggente, capace di regalare loro, però, quel pizzico d’infinito che rimpiangeranno per sempre, senza poterlo mai dimenticare, senza potersi mai far bastare altro, perché qualunque cosa sarebbe un ripiego.

Sentiva il tocco lieve che percorreva la sua schiena lentamente, mentre aveva la sensazione che le loro due anime si stessero toccando. Un attimo perfetto, un pizzico d’infinito. No, non era più libera e forse non lo sarebbe mai più stata del tutto.” (pag 122)

Insieme all’Amore – inteso come ossessione romantica, tensione verso l’assoluto, fusione di carni e di anime – arriva inesorabilmente anche il Dolore, rappresentato dalla Scimmia appollaiata sulla spalla. Il dolore è fatto di mancanza, di nostalgia straziante, di vuoto incolmabile, ma pure di sensi di colpa per come ci si è lasciate trattare, per lo svilimento, per le umiliazioni subite, per le inutili attese davanti a un telefono che non suona, per la consapevolezza di non essere abbastanza attraenti per lui.

C’è la vita dell’autrice, dicevamo, in troppi di questi racconti, la sua grande capacità di amare, il suo vissuto, le sue esperienze, i luoghi conosciuti. Come in “Racconti per una canzone”, anche qui colpisce l’ambientazione sempre diversa di ogni bozzetto, che spazia dagli Stati Uniti alla provincia italiana più remota, dagli uffici ai ristoranti, dai caffè alle stazioni, descritti senza retorica ma con la mano ferma di chi parla di ciò che conosce bene.

C’è una novella, tuttavia, diversa da tutte le altre: “La gamba”, che racconta un episodio della vita di Sarah Bernhardt. Ecco, se l’autrice riuscirà a liberarsi della zavorra dell’autobiografismo, spogliandosi non tanto di se stessa quanto del suo groppo di dolore, scacciando la Scimmia dalla spalla, facendo della scrittura un uso esplorativo e non solo consolatorio, allora, con lo stile scorrevole e la padronanza di linguaggio che la caratterizzano, sarà in grado di perlustrare felicemente nuove strade, fra le quali quella della rievocazione storica appare davvero molto promettente.

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Maria Vittoria Masserotti

5 Agosto 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto, #maria vittoria masserotti

“L’imbuto” di Maria Vittoria Masserotti è un racconto sorprendente, tutto incentrato su di un’unica metafora: l’imbuto.

Dapprima simbolo di una vita che appare agli sgoccioli, senza slanci né passioni, logoro strumento di un lavoro che non offre più nessun piacere, stretto da mani annoiate, privo di splendore come il matrimonio fallito del protagonista, esso viene poi, all’improvviso, ribaltato in un sol colpo, diventa l’opposto, concede inattese visioni di uscita dal tunnel.

Claudio è un “vinto”, un triste fantoccio ricoperto da una patina di rassegnazione, piccolo uomo che vive la routine del lavoro e della solitudine subita, con le spalle curve, soffocando e celando rimpianti, quasi vergognandosi di possedere ancora mille emozioni.

La sua è la generazione delle speranze deluse, delle rivoluzioni solo sognate, degli ideali di rinascita e mutamento. Ma il mondo in cui vive non è, appunto, quello sognato, le nuove generazioni di studenti sono diverse, lontane da come le ricordava, e lui si sente vecchio, con addosso l’odore “stantio e umido” della pensione, come se fosse “di fronte ad un imbuto dalla parte del cono”.

Ma l’uomo-ombra, lo sconfitto, l’uomo senza futuro né prospettive, riserverà una sorpresa: un riscatto dal fallimento, una rivalsa verso le apparenze e la inconsapevole dissimulazione: colpo di scena condotto con abilità narrativa. Ed ecco il finale, dove il grigiore si svela solo apparente, quasi maschera, o inganno perpetrato ai danni propri e altrui.

Molto bella la prima parte, che racconta di lezioni svogliate, di pensieri inconfessabili, di ricordi di un tempo - prima che, ancora una volta, l’imbuto si capovolga e le prospettive mutino – durante il quale lui era “dall’altra parte”, quella della classe.

“Così come l’idea che i professori vivessero solo in quella classe, in quell’ora, tutto il resto aveva solo contorni sfumati.”

È una racconto piacevole, che avvince, con improvvise interruzioni e inserimenti di stralci di pensieri, frammenti di visioni interiori che si confondono e si accavallano alle immagini percepite, il tutto realizzato con maestria e scritto con stile preciso, svelto, mai noioso.

Patrizia Poli e Ida Verrei

L’Imbuto

Claudio alza gli occhi al cielo per un attimo, dimenticandosi dell’imbuto.

I suoi alunni sono tutti chini nel tentativo di riprodurlo, sanno che hanno un’ora di tempo poi lui lo girerà, così dovranno copiarlo di nuovo per un’ora.

Un’ora non passa mai, a volte. Anche se a volte corre come un treno, dipende appunto dalla prospettiva dell’osservatore, come per l’imbuto.

Per lui un’ora trascorsa nel Liceo Artistico di Lucca è un tempo infinito, non prova più nessun piacere nell’insegnare e si sente maledettamente in colpa per questo. Quand’era agli inizi, pieno di furore docente, si sentiva quasi un dio di fronte a quella platea di discenti, secondo lui, pieni di desiderio di imparare. La realtà gli aveva mostrato un altro mondo giovanile, dove c’era una profonda coscienza dei propri diritti e nessuna dei propri doveri, come se tutto fosse dovuto e non il risultato di un impegno, di una volontà di percorrere il sentiero della conoscenza.

Anche di questo si fa una colpa, lui e la sua generazione di rivoluzionari che volevano cambiare il mondo. Il mondo è cambiato ma non è sicuro che il risultato gli piaccia.

Si alza dalla cattedra e va a girare l’imbuto, è passata un’ora.

Ora in primo piano c’è la parte più stretta, una speranza di uscita dal tunnel, al di là dello stretto cilindro si intravede l’apertura di un cono, un senso meraviglioso d’ampiezza.

Si risiede e guarda il cielo.

Un suono violento gli deflagra nella testa: la campanella.

Se i ragazzi sapessero che lui desidera quel suono quanto loro! Se non di più.

Questo desiderio gli è rimasto impresso da quando lui era un alunno. Così come l’idea che i professori vivessero solo in quella classe, in quell’ora, tutto il resto aveva solo contorni sfumati. Non avevano una casa, una famiglia, né emozioni se non quelle di interrogare, dare voti e, a volte, spiegare.

Lui invece ora sa. Sa di avere una casa, una famiglia e milioni di emozioni e di alcune si vergogna profondamente.

I ragazzi sciamano festosamente e lui raccoglie l’imbuto, protagonista di centinaia di lezioni, per conservarlo in sala professori, nel suo cassetto, suo ormai da più di trent’anni.

Perfino l’imbuto mostra segni di logoramento! Il metallo nella giuntura ha qualche accenno di ruggine e quello splendore, quella lucentezza, che ha fatto ammattire tanti studenti nel tentativo di riprodurlo con il chiaroscuro, non è più così brillante, come la sua vita. In fondo gli oggetti che ci appartengono finiscono per somigliarci, come si dice dei cani, che prendono le sembianze del padrone, o viceversa.

Ci vorrà presto un imbuto nuovo.

Ci vorrà una vita nuova.

Sospira.

Arrivato in sala professori, apprezza come sempre il silenzio dopo il ronzio di cinque ore di lezione.

Il martedì è il giorno peggiore. Cinque ore di lezione e tre classi di volti annoiati, di creste tinte di viola o di verde, di pantaloni al limite del sedere, di ombelichi in bella mostra, di orecchini e “piercing” sparsi per ogni dove. Ci sono volte che tutto questo lo fa sentire vecchio.

Oggi è proprio di umore tetro.

Chiude il cassetto e saluta i colleghi, vede sui loro volti perplessità, perfino noia, non sono meglio di lui. Ben magra consolazione.

Forse se loro fossero diversi lo sarebbero anche gli alunni?

Esce, salutato dai bidelli e sono ormai le due.

Ha fame ma nessuno con cui mangiare.

Si incammina per via Finlungo, deciso a prendersi un pezzo di pizza e di mangiarselo sulle mura.

È la fine di febbraio, è vero, ma c’è un solicchio invitante e, soprattutto, non ha nessuna voglia di tornare a casa.

La casa è vuota. Milena l’ha lasciato, anche se, a dire il vero, è lui l’artefice di quella rottura, improvvisa quanto prevedibile.

L’aria frizzante e cristallina è un dono per Lucca, spesso soggetta a brume acquose che ti entrano nelle ossa e nell’anima, in quelle ossa che lanciano segnali che sembrano il ticchettio dell’orologio e tengono conto del tempo che passa. I sessanta si avvicinano, sente odore di pensione e non è un odore pulito, sa un po’ di stantio, di quel particolare umido che si sente solo al cimitero.

Presa la pizza, si siede su una panchina dei bastioni. Da lì si scorgono i tetti rossi, i campanili.

C’è pace. È strano, ma qui, pur essendo in città, si sente libero come quando va in campagna, lontano dal brulichio degli studenti, dalla prosopopea dei colleghi, dalle mura di qualsivoglia edificio che lo fanno sentire come se fosse di fronte ad un imbuto dalla parte del cono, con la prospettiva di un lungo cilindro buio del quale non vede la fine.

Mangia lentamente, anche se la pizza si sta freddando, beve la birra dalla lattina e comincia a sentirsi meglio. Riesce a fare un lungo respiro a pieni polmoni, non si è reso conto di aver fatto tutto il giorno piccoli respiri, rasentando l’apnea.

Tornerà a casa, alla fine, deve valutare gli elaborati dei suoi studenti della terza B, che domani si aspettano i risultati. Con passo lento va a recuperare la macchina, parcheggiata come sempre fuori le mura. Si rende conto che gli fa piacere tornare a casa, il pasto all’aria aperta l’ha rinfrancato. Sa di amare la sua casa, è riuscito a farla a sua immagine e somiglianza, anche se lui, romano, non ha ancora, dopo tutti questi anni, accettato di essere cittadino di una città così chiusa come Lucca.

Sotto casa c’è sempre il problema del parcheggio, ma oggi ha fortuna e trova un posto proprio davanti al portone. Mentre cerca le chiavi di casa vede Luigi, fermo di spalle davanti al suo portone che si guarda nervosamente in giro.

- Ah, Claudio… Ti stavo cercando! Ma che fine hai fatto? Non hai lezione fino alle tredici e trenta? Sono le quattro!

Quando Luigi è agitato parla a raffica, sbocconcellando le parole e infilando nel discorso punti interrogativi ed esclamativi in quantità industriali. Claudio fa fatica a capire ed una volta messi a posto i punti, si sente irritato dal modo di fare dell’amico, sente un che di inquisitorio.

- Ho mangiato fuori, perché? - Si mette sulla difensiva, come sempre, quando per qualche motivo si sente preso in castagna e diventa duro e pungente.

Luigi fa un gesto, come per asciugarsi un ipotetico sudore.

- Come perché? Oggi è martedì, te lo sei dimenticato? Non so che cosa tu abbia in questi ultimi tempi, se fossi ancora giovane ti direi che ti sei innamorato!

- Perché, che succede il martedì?

- Non “il” martedì, ma “questo” martedì!!

Nella testa di Claudio si accende una lucina, troppo sfocata perché lui possa riconoscerla.

- E va bene, mi sono dimenticato! – dice, mentre un’inspiegabile rabbia lo travolge – Che mi vuoi picchiare?

Luigi a quel punto avrebbe veramente voglia di picchiarlo. Inghiotte e respira.

- Alle cinque abbiamo appuntamento con Consoli e sai che lui è sempre puntuale!

- Giusto, Consoli!

Claudio si rende conto che ha rimosso totalmente la faccenda e questo, direbbe Freud, è un fatto significativo. L’inconscio rimuove quello che ci disturba, una rimozione grave e gravida di significato, soprattutto se Consoli è l’avvocato di sua moglie e l’argomento è la loro separazione!

- Dai Luigi, andiamo su un attimo, faccio presto!

A questo punto Claudio si rende conto di avere, non sa come, ancora in mano l’imbuto.

“Oh mamma mia” pensa “non posso credere che ho girato tutto questo tempo con l’imbuto in mano! Ho mangiato, sono andato in macchina con l’imbuto! Ma perché non l’ho posato nel mio cassetto in sala professori?”

Gli viene il sospetto che il suo umore, l’imbuto, la pizza sulle mura non siano altro che una forma di difesa da quello che doveva accadere nel pomeriggio.

Un po’ stralunato sale le scale ed apre la porta, facendo strada a Luigi. La sala in cui entrano, un soggiorno con angolo cottura, è un caos pieno abbozzi di quadri su cavalletti, tavolozze imbrattate di colori, tubetti di colore ad olio aperti e ormai rinsecchiti, pennelli appiccicosi e barattoli aperti pieni di trementina. Qua e là spuntano cartoni vuoti di pizza, contenitori vuoti di alluminio e fogli di carta stagnola che riflettono tutto quel colore. L’odore stagnante è fortissimo.

Luigi si guarda intorno desolato ma ha la delicatezza di tacere.

Claudio, per niente turbato dallo stato in cui versa il suo appartamento, va in camera da letto, si toglie il cappotto ed il maglione, prende a caso una cravatta, la infila e tira fuori dall’armadio una giacca che non vede la lavanderia da tempo.

- Sono pronto! – dice. Riafferra il cappotto, cerca le chiavi e spinge Luigi, sempre basito davanti a quel caos, fuori dalla porta.

- Claudio, potresti almeno aprire le finestre, ogni tanto! - Non ce l’ha fatta a tacere fino in fondo il suo amico Luigi, avvocato, doppio petto fumo di Londra, camicia azzurra e cravatta bordeaux.

Arrivano allo studio di Consoli puntuali come una cambiale, diceva suo padre, le cinque e zero minuti. Milena è seduta davanti alla scrivania di Consoli, dove ci sono altre due sedie per lui e Luigi. Dopo i saluti di rito, cominciano le danze. Milena ha gli occhi bassi, è imbarazzata e triste. Porta un cappotto viola che non le dona, ha il viso senza trucco, sembra che non presti nessuna attenzione a se stessa ma neanche al mondo che la circonda. Claudio si rende conto di guardarla come un personaggio di un serial televisivo, il volto è familiare ma non si ricorda la trama, non sa quale sia la parte che sta interpretando. La loro vita insieme era cominciata con i fuochi d’artificio dell’avventura, della scoperta di quel mondo sconosciuto che è l’amore ed era affogata in un lago di silenzio.

Lui odia le questioni burocratiche, di questo ormai si tratta, si guarda intorno annoiato in quello studio mastodontico, forse per rappresentare il peso della legge, una sorta di “dura lex sed lex”, oppure per impressionare il cliente. Non sente quello che si dicono gli avvocati, è come se avesse le orecchie ovattate, come se si trovasse sotto una campana di vetro.

Lui e Milena tacciono, evitando di guardarsi. Gli ritorna in mente la pazienza, l’amore di lei che si era sgretolato a poco a poco per colpa sua, della sua incapacità di dipingere, di creare quel quadro perfetto che è da sempre nella sua testa ma che non è mai stato nelle sue mani. Ne aveva dipinti decine, rincorrendolo senza riuscire mai ad afferrarlo, senza cogliere quella luce, quella vibrazione di vita che sentiva in ogni sua cellula.

Si scuote, gli mettono delle carte davanti. E lui firma, firma, firma…

E’ finita, almeno in attesa del secondo round.

Per fortuna per strada il freddo è uno schiaffo violento, deve essere tragico separarsi d’estate. Luigi gli propone di andare a cena da lui per non lasciarlo solo proprio quella sera.

- Tranqui, come dicono i miei alunni, sono sempre solo e questa sera non è diversa dalle altre.

Rimonta in macchina, infila la chiave nel cruscotto e fissa il lampione lì davanti per un lungo infinito attimo. Sa di aver mentito all’amico, sa di non essere nulla di quello che sembra, sa che neanche lui sapeva di essere quello che è.

Non è solo, non più.

E mentre accende il motore pensa al suo amore che tra poco vedrà, bello, biondo e giovane.

Maria Vittoria Masserotti

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Cecilia Samartin, "Tutto l'amore di nonna Lola", recensione di Maria Vittoria Masserotti

18 Luglio 2013 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Cecilia Samartin, "Tutto l'amore di nonna Lola", recensione di Maria Vittoria Masserotti

Cecilia Samartin

Tutto l'amore di nonna Lola

Edizioni Anordest - pag. 480 - Euro 14,90

Severamente vietato alle persone a dieta, “Tutto l’amore di nonna Lola” di Cecilia Samartin, Edizioni Anordest, è un romanzo denso di profumi caraibici che stuzzicano l’appetito. Dalle pagine si espandono fragranze forti di spezie, condite da buoni sentimenti con un pizzico di visioni oltre la realtà.

La storia di un bambino, Sebastian, malato di cuore, che non può correre, pena lo scoppio del suo piccolo muscolo cardiaco, è il motivo che permea tutta la narrazione. I personaggi si muovono dentro questa realtà fatta di attenzioni e di riguardi nei suoi confronti, così potenti che finiscono per soffocarlo.

Il “piccolo mondo”, descritto con molta attenzione e con dovizia di particolari, ci sembra reale al punto che riusciamo a vedere la cucina di nonna Lola e scorgiamo i suoi movimenti e quelli del nipote mentre, intenti, si producono nella preparazione di piatti che appartengono alla tradizione dei Caribi.

Ma Sebastian vuole correre, è più forte di lui, il suo desiderio di rincorrere la palla è un po’ il desiderio delle persone gravemente malate di vivere nella semplicità delle cose di tutti i giorni, di fare quello che, per una persona sana, è normale.

La lettura, leggera nello suo scorrere lieve, ci spinge a riflettere su quanto siamo fortunati ad essere quello che siamo, sani o malati che sia. I profumi del cibo cotto da nonna Lola la fanno da padroni, tanto che il romanzo ha come appendice alcune gustose ricette.

Sullo sfondo, quasi sfumata, ma vera e reale, la cultura di un mondo diverso, pieno di alchimie e di magie, che sempre affascina il pragmatismo statunitense. Il mondo invisibile diviene anch’esso protagonista, ruota intorno a Sebastian che ha il pregio di aver “ballato con la morte”.

Alcune pennellate di autentico buonismo non riescono a distoglierci dal seguire la vicenda fino al suo epilogo, lasciandoci dentro la sensazione di avere visto con occhi diversi la realtà di tutti i giorni.

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Maria Vittoria Masserotti, "Racconti per una "canzone""

1 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #maria vittoria masserotti

Maria Vittoria Masserotti, "Racconti per una "canzone""

Racconti per una “canzone”

Maria Vittoria Masserotti

Edizioni Progetto Cultura

pp 168

12,00

Esistevano un tempo le novelle pubblicate sulle riviste più conosciute, le firmavano anche scrittori di un certo spessore, come Scerbanenco. I racconti di Maria Vittoria Masserotti fanno venire in mente quelle storie. Novelle che si leggono una alla volta per il benedetto, sacrosanto, puro e semplice desiderio di leggere, per la ormai introvabile e superata gioia della scoperta d’una atmosfera e d’una trama.

Se un buon racconto ruota attorno ad un’idea originale, a una situazione particolare e si muove da un punto a A fino a un punto B, attraverso una evoluzione dinamica, le storie della Masserotti assolvono tutti questi compiti. Ognuna ha una trama da raccontare, ognuna ha un personaggio da inquadrare e un’ambientazione particolare.

Ci colpisce la geografia delle vicende che attraversa tutta l’Italia, dal Lazio alla Toscana, dalle città ai paesi, dalla terraferma alle isole. I protagonisti e le protagoniste sono tutti, salvo poche eccezioni, persone mature, spesso alle prese col tempo ritrovato e dilatato della pensione. Ognuno fronteggia un problema diverso, dall’incontro devastante con la malattia, all’amore rivisitato in tutte le sue sfaccettature, inteso come nuovo contatto, ma anche come rapporto logorato dal tempo e dalla clandestinità, o dolce complicità coniugale. I personaggi sono variegati: la ragazza sola e obesa, l’uomo con troppe storie sentimentali parallele, l’amante stanca del suo ruolo secondario, la donna che ha subito l’asportazione totale dell’apparato riproduttivo.

Ci sembra di cogliere, comunque, in ogni racconto – e specialmente nel nostro preferito “Novembre” – una prepotente speranza, la sensazione che mai niente finisce davvero, che, dietro l’angolo, c’è sempre una sorpresa, una nuova possibilità, che la vecchiaia non è decrepitudine ma, semmai, saggezza e libertà dagli impegni, tempo recuperato per sé, in una solitudine riconquistata, oppure in una condivisione scelta e non subita. L’amore e il sesso, in questa visione, hanno ancora tanto spazio e sono vissuti come rigoglio dei sensi e calore di sentimento. La solitudine, la sconfitta, l’apatia e la noia: “La vita a vent’anni gli era sembrata colma di promesse. Ora è solo una routine senza spunti, senza obiettivi. Sospira e apre il frigo.” (pag 29) in realtà non esistono, sono solo una nostra forma mentale.

C’è sempre, al contrario, la possibilità di un colpo di reni: “La mano destra di Giulia si protende ad accarezzare la tomba di suo padre, lì in alto, sfiora la piccola balaustra di marmo senza arrivare alla foto, punta i piedi per arrivarci e sente che il suo corpo si solleva. È in piedi.” (pag 143) È il rinnovo, la resurrezione che diventa soprattutto presa di coscienza di ciò che già si ha, consapevolezza e rivalutazione del passato in vista del futuro.

Quello è sempre stato un momento magico, carico di attesa, quando ancora il profilo del tempo deve essere disegnato, dove tutto è ancora e sempre possibile.” (pag 82)

In quest’ottica tutto riacquista valore, persino la compagnia di un cane non è più simbolo di mancanza e isolamento bensì del contrario, di completezza ed affetto. Il vuoto diventa all’improvviso pieno.

Una cosa è certa – visto che lei è nata – la vita in qualche modo ha vinto. Si alza per andare a chiamare Marilena, oggi ha bisogno di rivedere il suo cane.” (pag 27)

I racconti portano il nome dei mesi dell’anno e anche questa circolarità fa sì che ci sia un implicito senso di rinascita, di “vita nova”. Il tempo, d’altronde, è ciò di cui l’autrice si è occupata professionalmente, avendo fatto ricerca informatica per il CNR sul ragionamento spazio–temporale.

Il pregio maggiore, il maggiore sforzo di questa raccolta, a nostro avviso, è la mancanza di autobiografismo, così rara da trovare. Quante volte sentiamo uno scrittore dire: “Ho esordito con un romanzo che parla della mia vita”, e, di fronte ad affermazioni come queste, siamo sempre prevenuti. Qui, invece, ogni storia si differenzia dall’altra per intreccio, sviluppo e ambientazione: c’è l’uomo conteso fra troppe donne, c’è l’erede ucciso dai parenti avidi, c’è la giornalista coinvolta in una storia di mafia e servizi deviati, c’è persino Josè Saramago.

Ovviamente, la Masserotti, come qualunque altro scrittore, mette sempre un poco di sé in ogni personaggio: che sia un marito preoccupato per la salute mentale della moglie o un agente del Mossad, quella sarà comunque la visione dell’autrice, quelli saranno “il suo” marito e “il suo” agente. E, mescolate agli accadimenti e alle scene, ci sono, com’è naturale, le cose che l’autrice ama e conosce, le sue letture - da Saramago a Tolkien - i suoi luoghi preferiti, salsi e marini, la sua musica.

Il titolo e le strofe poste all’inizio di ogni racconto, infatti, sono tratti da “Canzone dei dodici mesi” di Guccini, e quest’accostamento, ancora una volta, richiama il bisogno di vivere il fluire del tempo senza negare le proprie basi ma, anzi, recuperandole. Nella prefazione, Lamberto Picconi afferma che: “In un contesto storico come quello degli anni 70, in cui molti volevano fare tabula rasa del passato e ricominciare da zero, il cantante modenese si pose in direzione decisamente contraria, volgendo lo sguardo, non senza nostalgia, verso le proprie radici.” (pag 6)

È questo, in fondo, lo scopo della scrittura, renderci più chiari a noi stessi e, nello stesso tempo, liberarci, scandagliare e illuminare le nostre motivazioni inconsce, farci scoprire l’alterità, il nuovo e il possibile, oltre il recupero di ciò che siamo stati.

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Rosa Santoro, "Io, però"

15 Maggio 2013 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni, #erotismo

Rosa Santoro, "Io, però"

"Io, però"

Rosa Santoro

Arduino Sacco editore

pp120

L’erotismo coniugato al femminile è un tema affascinate ma difficile. Difficile per il retaggio che da secoli pesa sulla sfera sessuale della donna, per il perbenismo e anche il maschilismo che l’ha tenuto sommerso.

Anche se recentemente la letteratura si è popolata di storie erotiche narrate da voce di donna, siamo ancora ben lontani da una potente seduzione che coinvolga il lettore, incapace di abbandonare le pagine del libro, come era successo con “Il delta di Venere” di Anaïs Nin.

Partendo dal presupposto che ogni persona ha un suo concetto di erotismo, non è facile catturare l’attenzione del lettore oltre la prima curiosità, per farlo è necessario che la narrazione si dipani, scorra tra le dita come sabbia fine.

Io, però…” è un tentativo coraggioso in questo senso, dare una visione originale di un mondo che appartiene alla sfera intima di ognuno.

Margherita, la protagonista, va a Roma alla ricerca del successo nel mondo dello spettacolo. Sale e scende da quei treni che la portano via e la riportano a casa, ma gli incontri che fa non l’avvicinano neanche a quel mondo, resta invece coinvolta con una serie di uomini ambigui e violenti. La sua ricerca del piacere, che pervade tutta la narrazione, resta la vera protagonista del romanzo, fino all’estrema conclusione, la morte.

Non sappiamo se questa morte, nelle intenzioni della scrittrice, sia alla fine un giudizio morale, certamente balza agli occhi come il “peccato” conduca inevitabilmente al termine dell’esistenza di Margherita.

Il lettore, però, deve a volte tornare indietro per capire chi fa cosa, la sintassi è spesso decisamente ingarbugliata. Non basta descrivere qualcosa per renderla fruibile ad altri da noi, nemmeno il sesso. Si dice che il linguaggio sia una convenzione e, quindi, le regole che lo governano sono necessarie per la comunicazione tra chi scrive e chi legge.

L’Autrice vuole sicuramente comunicare, e con forza, ma si capisce tra le righe, mentre sarebbe stato necessario che la storia, triste ma reale, fosse definita con penna più precisa. L’argomento, scabroso fino ad essere brutale, domina troppo rispetto al vissuto del personaggio principale, avremmo voluto capire di più di Margherita, se solo si fosse espressa con parole più comprensibili.

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