Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

recensioni

Sybil G. Brinton, "Vecchi amici e nuovi amori"

30 Dicembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #saggi

Vecchi amici e nuovi amori

Sybil G. Brinton

Traduzione di Camilla Caporicci

Jo March, 2013

pp 341

14,00

Fin dal 2009 l’agenzia letteraria Jo March si occupa di “riportare alla luce narrativa lontana, nel tempo o nello spazio, a torto dimenticata o mai tradotta in lingua italiana”. La traduzione e la ristampa di “Vecchi amici e nuovi amori”, di Sybil G. Brinton, definito “l’antenato di tutti i sequel”, di tutti gli spin off e derivati austeniani, scritto cento anni dopo “Orgoglio e Pregiudizio” (1813) e tradotto in italiano cento anni dopo la sua pubblicazione (1913), soddisfa proprio questo criterio.

Duecento anni ci separano, dunque, dall’originale di Jane Austen e cento da questo seguito della Brinton, della quale poco si sa, se non che ebbe una vita breve e non godé mai di buona salute. L’autrice fu un’appassionata janeite, con quanto di positivo e di negativo il termine implica. Il janeitismo si sviluppò dopo il 1870, con la pubblicazione di “A Memoir of Jane Austen” di J.E. Austen - Leigh. Addirittura Rudyard Kypling scrisse un racconto, intitolato "The Janeites", su un gruppo di soldati della prima Guerra mondiale appassionati dei romanzi della Austen

Ai sei romanzi canonici si rifà questo sequel, e cioè “Orgoglio e pregiudizio”,Mansfield Park”, “L’Abbazia di Northanger”, “Ragione e sentimento”, “Persuasione”, “Emma”. La Brinton ne interseca i protagonisti, ritrovando, appunto, “vecchie conoscenze” e favorendo nuovi intrecci sentimentali, compensando i finali sempre un po’ troppo bruschi della “cara zia Jane”, basandosi su indicazioni date dalla stessa autrice riguardo possibili sviluppi, creando una specie di riassunto e di compendio di tutti e sei i romanzi. Seppur presenti, i caratteri principali restano sullo sfondo, in favore di figure minori, come Georgiana Darcy, Kitty Bennet, il colonnello Fitzwilliam e Mrs Crawford, di cui vengono narrate nuove avventure e nuovi amori.

In questo modesto tentativo di rappresentare il seguito delle avventure di alcuni dei personaggi di Jane Austen,” ci dice la Brinton nella prefazione, “ho fatto uso dei riferimenti fatti a essi dall’autrice stessa, registrati nel Ricordo di Mr. Austen- Leigh”

Il testo ha valore per ciò che rappresenta culturalmente, per il suo essere capostipite di tutta la fanfiction successiva, non tanto per il contenuto o lo stile. Di sicuro risponde a quel bisogno che s’impone, prepotente, alla fine di un libro amato, quando lo stringiamo al petto sentendoci orfani, chiedendoci cosa i protagonisti faranno ora che l’ultima pagina è stata letta e abbandonata.

Ma forse è perché gli attori principali non sono quelli che tanto ci hanno coinvolto – leggi Elisabeth e Darcy, ora trasformati, in soli due anni di vita coniugale, in signorotti di campagna privi di allure, compresi nel loro ruolo di genitori quanto Jo e il professor Baher in “Piccoli uomini”, ruolo da cui Elisabeth si distacca solo per addossarsi un’attività di match maker presa in prestito da Emma Woodhouse – se l’iniziativa riesce solo in una certa misura.

La storia di Georgiana, i suoi turbamenti, i suoi rossori, il suo agire da timida paraninfa fra il cugino Firzwilliam, suo ex promesso, e una Miss Crawford del tutto stravolta dall’originale austeniano, il suo amore per William Price bramato dall’amica Kitty, non ci prendono più di tanto, né ci entusiasma la tecnica che, nel tentativo di imitare quella “conversational” della Austen, non sfugge a qualche involontaria goffaggine e stempera il witticism in monotonia. Ricorda, semmai, il più piatto stile della quasi contemporanea – e rivale di Jane Austen – Maria Edgeworth. Manca l’ironia tagliente, manca lo studio di un’intera classe sociale e forse non è un caso se questo “Old friends and new Fancies” sembra essere rimasta l’unica prova della Brinton.

Anche i migliori fra i derivati”, ci conferma Giuseppe Ierolli nell’introduzione “rimangono lontanissimi da tutto ciò che ha reso Jane Austen uno degli autori più amati e studiati della letteratura mondiale. La perfezione dei suoi dialoghi, l’ironia e la parodia che pervadono i suoi scritti, talvolta celate in brevissimi incisi che spesso sfuggono al lettore distratto, la finezza di quello che lei stessa definì “il pezzettino d’avorio (largo due pollici) sul quale lavoro con un pennello talmente fine che produce un effetto minimo dopo tanta fatica”, la naturalezza con la quale ci accompagna nelle vicende dei suoi personaggi, la parsimonia con la quale li descrive, lasciando che i loro caratteri emergano molto più da ciò che dicono e fanno che da quello che ne dice il narratore, sono nel loro complesso, inimitabili, e solo qualche sprazzo emerge talvolta nelle opere che si ispirano a lei.”

"Old Friends and New Loves", by Sybil G. Brinton, called "the ancestor of all sequels", of all Austenian spin-offs and derivatives, was written a hundred years after "Pride and Prejudice" (1813).

Two hundred years separate us, therefore, from the original by Jane Austen and one hundred from this sequel by Brinton, of whom little is known, except that she had a short life and never enjoyed good health. The author was a passionate janeite, with what both positive and negative the term implies. Janitism developed after 1870, with the publication of "A Memoir of Jane Austen" by J.E. Austen - Leigh. Even Rudyard Kypling wrote a story, entitled "The Janeites", about a group of soldiers of the First World War passionate about the novels of the Austen

This sequel is based on the six canonical novels, namely "Pride and prejudice", "Mansfield Park", "Northanger Abbey", "Sense and Sensibility", "Persuasion", "Emma". Brinton intersects the protagonists, finding, in fact, "old acquaintances" and favouring new sentimental intertwining, compensating the always a little too abrupt ends of "dear Aunt Jane", basing herself on indications given by the author herself regarding possible developments, creating a sort of summary and compendium of all six novels. Although present, the main characters remain in the background, in favour of minor figures, such as Georgiana Darcy, Kitty Bennet, Colonel Fitzwilliam and Mrs Crawford, of whom new adventures and new loves are narrated.

 

"In this modest attempt to represent the sequel to the adventures of some of Jane Austen's characters," Brinton tells us in the preface, "I made use of the references made to them by the author herself, recorded in the Memory of Mr. Austen- Leigh ".

 

The text has value for what it represents culturally, for its being the progenitor of all the subsequent fanfiction, not so much for the content or the style. It certainly responds to that need that arises, overbearing, at the end of a beloved book, when we clasp it to the chest feeling orphaned, asking ourselves what the protagonists will do now that the last page has been read and abandoned.

But maybe it's because the main actors are not the ones that concerned us so much - read Elisabeth and Darcy, now transformed, in just two years of married life, into country lords without allure, absorbed by their role as parents as Jo and the Professor Baher in "Little Men", a role from which Elisabeth stands apart only to take on a match maker activity borrowed from Emma Woodhouse - if the initiative succeeds only to a certain extent.

The story of Georgiana, her disturbances, her blushes, her act as a timid paranymph between her ex-promised cousin Firzwilliam and a Miss Crawford completely distorted by the Austenian original, her love for William Price longed for by her friend Kitty, don't take us too much, nor do we get excited about the technique which, in an attempt to imitate the "conversational" one of Austen, does not escape some involuntary clumsiness and dilutes witticism in monotony. It remembera, if anything, the flatter style of almost contemporary - and rival of Jane Austen - Maria Edgeworth. The cutting irony is missing, the study of an entire social class is missing and perhaps it is no coincidence that this "Old friends and new Fancies" seems to have remained the only proof of Brinton.

 

"Even the best of derivatives", Giuseppe Ierolli confirms in the introduction of the Italian translation "remain far from everything that has made Jane Austen one of the most loved and studied authors of world literature. The perfection of her dialogues, the irony and parody that pervade her writings, sometimes concealed in very short parenthesis that often elude the distracted reader, the finesse of what she herself called "the little piece of ivory (two inches wide) on which I work with a brush so fine that it produces a minimal effect after so much effort ", the naturalness with which she accompanies us in the events of hers characters, the parsimony with which she describes them, letting their characters emerge much more from what they say and they do that from what the narrator says, they are overall, inimitable, and only a few flashes sometimes emerge in the works inspired by her. "

Mostra altro

Ida Verrei - recensione . "Il mio nome è Strange" di Alessandro Ceccoli

28 Dicembre 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #recensioni, #ida verrei

Ida Verrei - recensione . "Il mio nome è Strange" di Alessandro Ceccoli

Il mio nome è Strange

di Alessandro Ceccoli

Edit. Medea

PP.202

Euro: 16,00

Recensione

di Ida Verrei

“lo svolgere della vita dipende da dove ti poni, dall’altezza da cui guardi, è solo un gioco di distanze, e ogni passo fatto anticipa quello successivo” (pag.11)

E il cammino può essere a ritroso, verso il passato, oppure verso l’ignoto, ma è sempre una somma di viaggi che ognuno compie nel tempo e nello spazio, una ricerca che è soprattutto interiore, il bisogno di costruirsi un’identità che plachi l’urgenza di conoscere se stessi.

Il libro di Alessandro Ceccoli, è questo, ma non solo: in un intrecciarsi di generi, (dal noir d’azione, all’analisi socio-psicologica, dal romanzo d’avventura, alla speculazione filosofica e all’intimismo), percorre una serie di tematiche, tutte sviluppate con maestria, che si coordinano l’una all’altra e, pur nella costruzione narrativa complessa, spingono il lettore a procedere con gusto e curiosità nel dipanarsi di una storia che talvolta spiazza, altre commuove, altre ancora angoscia.

Follia, fuga, intrigo internazionale, amore e, soprattutto, la dolce morte, vista in una dimensione prettamente umana, estrapolata da questioni morali o religiose, sono gli argomenti del romanzo.

Ma chi è il protagonista della storia? Il folle fuggito dallo psichiatrico, nascosto tra i cunicoli del Cimitero delle Fontanelle a Napoli, che ruba un’identità e va incontro a un nuovo destino? O l’eroico medico che tenta di salvare gli hutu contro la ferocia dei tutzi in Ruanda? O ancora, il “bastardo che opera sulla linea di confine…che non si sottomette alla logica del governo degli uomini”? (pag.179)

È certamente un uomo solo, ma si è sempre soli quando si stravolgono le convenzioni: “ Siamo null’altro che quello che sogniamo…”

Nella finzione letteraria l’Io narrante, un uomo nel pieno della maturità, durante una sosta a Shanghai, mentre è lì “a giocare con la vita e a portare la morte”, sente il bisogno di raccontarsi, per “lasciare una traccia della sua incredibile avventura”. “Scrivo pensieri, poesie, parole, frasi senza senso, vomito congetture inondando pezzi di carta, espello tutto quello che il mio cervello non riesce più a trattenere; e non mi interessa sapere il perché, l’unica cosa che conta è liberarmene”. (pag.90)

Si sofferma su vicende del proprio passato, si rifugia nella memoria, con tono di volta in volta ironico, dolente, dissacrante. E’ un fuggitivo che ha attraversato la follia ed è poi entrato in un’altra pelle, per “un caso fortuito” ( il “caso” ritorna sempre nei romanzi di Alessandro Ceccoli); non narra il trauma del ricovero, si limita a descriverne gli effetti, ma esso aleggia in tutta la narrazione, come una ferita non sanata, mai rimossa.

Tutto ritorna. Tutto è conseguente…” e, dall’incursione nei ricordi, Strange, il singolare protagonista della storia, passa ad una sorta di diario, una cronaca di viaggio verso una missione oscura, dove si alternano momenti in cui la materia narrativa è ricondotta agli eventi, e momenti in cui l’emozione dei sentimenti trabocca. E qui ci si trova immersi in paesaggi fantastici, una Cina fiabesca, in atmosfere sospese tra sogno e realtà: il fiume Li Jangh, “ebbi l’impressione di avere di fronte le enormi dita di un gigante morente, protese in un ultimo sforzo ad afferrare il cielo…”(pag.41) O il tempio che emerge dalle acque: “Due massicce statue di Buddha, circondate da liane, minuscoli fiori rosso rubino e impercettibili trasparenti pesci vegliavano nei fondali. La loro presenza sembrava testimoniare che la vita non fa differenza di specie e il bisogno di Dio non ha confini…” (pag.76) Scenografie di forte impatto, non solo visivo.

Ma la narrazione ha un ulteriore livello, c’è il racconto in terza persona di eventi che si svolgono in modo parallelo. Eppure non c’è frattura, sembra ancora che sia Strange a raccontare, a presentarci quella che potremmo ritenere la co-protagonista, Maria, la giovane detective che lavora per il Vaticano, alla ricerca dei fondi neri dello Ior, di un colpevole per una morte sospetta e che tenta di sfuggire alle terribili rappresaglie della mafia cinese.

“I miei personaggi femminili hanno sempre scarso spessore” dice Alessandro Ceccoli. Non è così: Maria, “ribelle quanto bastava, rude nell’approccio e amante del lavoro solitario…una sensibilità insolita e un sesto senso che la portava a sbrogliare anche le situazioni più complesse…” (pag.30), è una figura forte, ben delineata, una donna determinata eppure estremamente femminile, nelle emozioni, negli abbandoni, e nell’illusione di un sogno d’amore Definita, forse, anche più dello stesso Strange, che appare una sorta di moderno Lord Jim, sempre avvolto da una zona d’ombra, un personaggio oscuro, mai totalmente conosciuto, che incuriosisce ma insieme intenerisce e commuove.

Fare una breve sintesi del romanzo non è facile, è un continuo susseguirsi di situazioni diverse, di mutamenti di scenari, di intrecci tra gli eventi. E’ un libro che tiene sino alla fine col fiato sospeso, che avvince e affascina. Anche i personaggi minori sono tratteggiati con cura: il commissario Marò, “ un budino…dolce ma terribilmente molle”; Monsignore Uboldi, con un linguaggio “ben lontano da quello del mondo ecclesiale”; Elias, l’amico fraterno, l’altro “bastado che forniva la logistica”; e infine Liù, l’alto dirigente della Cina Comunista, l’uomo che Strange avrebbe dovuto accompagnare verso la morte, colui che gli spiega il senso dell’ideogramma inciso sul dorso dei Buddha: “siate un onda anomala”, la sintesi del suo esistere..

Un bel libro, scritto con cura e strutturato bene, una storia insolita ma verosimile, con agganci all’attualità; amara, talvolta, perché amara è la vita.

E di tanta vita, di tanta storia, come spesso accade, infine, resta solo la solitudine: “Si fa di tutto per nascondersi alla morte, ma per vivere bisogna abbassare la testa e continuare a camminare…”(pag.81)

I.V.

Mostra altro

Emanuele Marcuccio. Il mio Punto di vista

6 Dicembre 2013 , Scritto da Lorenzo Campanella Con tag #lorenzo campanella, #recensioni

La Poetica ed il modo di raccontare le emozioni dell'autore Emanuele Marcuccio.

 

Prima di provare a commentare il testo Un infaticabile poeta palermitano d'oggi: Emanuele Marcuccio di Lorenzo Spurio, prima di iniziare a cercare di tratteggiare una figura letteraria, parlerò della biografia di questo autore.
Emanuele Marcuccio è nato a Palermo nel 1974. Nel 1994 ha ottenuto la Maturità Classica.
Dall'Agosto del 2000 inizia quel percorso poetico che lo porterà a pubblicare due libri.
Scrive poesie dal 1990. Nell’agosto del 2000 sono state pubblicate sue poesie, presso Editrice Nuovi Autori di Milano, nel volume antologico di poesie e brevi racconti Spiragli 47. Partecipa a concorsi letterari di poesia ottenendo buone attestazioni e la segnalazione delle sue opere in varie antologie.
Nel marzo 2009 esce la sua raccolta di poesie e opera prima Per una strada, SBC Edizioni, recensita da vari studiosi e critici tra cui Luciano Domenighini, Alessandro D’Angelo, Lorenzo Spurio, Nazario Pardini e Marzia Carocci.
Una sua poesia edita è stata pubblicata nell’agenda 2010. Le pagine del poeta. Mario Luzi, da Editrice Pagine di Roma.
Dal giugno 2010 è curatore editoriale, dedito alla scoperta di nuovi talenti poetici, tra giugno 2010 e novembre 2012 ha presentato quattro autori, riuscendo così a far pubblicare cinque libri di poesie e, dal 201,1 è consigliere onorario del sito “poesiaevita.com”, che promuove anche una sezione editoriale ospitante le collane di opere da lui curate.
Ha inoltre scritto vari aforismi, ottantotto dei quali sono stati raccolti nella silloge
Pensieri minimi e massime, Photocity Edizioni, edita nel giugno 2012. L’opera è stata recensita da Patrizia Poli, Marzia Carocci, Michele Nigro e Natalia Di Bartolo.
Ha curato prefazioni a sillogi poetiche e varie interviste ad autori esordienti ed emergenti su blog letterari. È collaboratore della rivista on-line di letteratura Euterpe. È stato ed è membro di giuria in concorsi letterari nazionali e internazionali, dal 2012 a oggi.
È presente su blog, siti e forum letterari, tra cui “Literary.it”, con una scheda bio-bibliografica nell’Atlante letterario italiano. È presente su L’evoluzione delle forme poetiche, Archivio storico e consuntivo critico (realizzato per le scuole) dell’ultimo ventennio poetico (1990-2012), Edizioni Kairòs, 2013.
Finalista nel 2013, con dieci aforismi, alla settima edizione del Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero”, ha ideato e sta curando la sua prima antologia poetica, Dipthycha, che lo vede presente con ventuno titoli, accompagnato in dittico di uguale tema, da altre poesie di autori vari.
Di prossima pubblicazione un ampio saggio monografico sulla sua produzione, curato da Lorenzo Spurio.
Dal 1990 sta scrivendo un dramma in versi liberi, ambientato al tempo della colonizzazione dell’Islanda, di argomento storico-fantastico.
Ha in programma la pubblicazione di una seconda silloge di poesie dal titolo Anima di poesia.

Uno degli elementi presenti nella Poesia di Marcuccio è la Declamazione. Ad esempio nel componimento poetico "A Leonardo Sciascia" è possibile individuare un tipo di Declamazione ricollegata ai colori ed agli odori della terra Siciliana, in relazione a Sciascia.

Nella poesia "Palermo" è presente il medesimo stile Declamatorio, assorbito da una trama di colori di Sicilia, e della città. In questo scritto è anche presente un chiaro rimando alla realtà delle organizzazioni criminali.

Senza fare un enorme giro di parole, che sprecherebbe del tempo prezioso, l’Opera di Marcuccio è riassumibile in queste considerazioni personali.

1- Essendo Giacomo Leopardi uno dei suoi autori preferiti, lo stile poetico ha un tono alto che trova un sentimento nell’epoca e nel contesto in cui vive.

2- Dalla prima considerazione, deriva necessariamente la seconda. Si può rintracciare nell’Opera dell’autore un qualcosa di Pirandelliano, che non si esprime propriamente nei contenuti, ma nell’atto di scrivere. A sostegno di quanto detto c’è una sua risposta durante un’intervista: “[…] In ogni mia poesia si può rintracciare un preciso riferimento autobiografico, anche minimo, anche nella più insospettabile, la scrittura in fondo è trasfigurazione di quel caos del proprio vissuto.”

3- Continuo a fare riferimento all’intervista di Lorenzo Spurio ad Emanuele Marcuccio, poiché penso che il dialogo sia qualcosa di più aggiornato, o comunque rappresenta, il più delle volte, un elemento di chiarimento. L’essenza dell’ispirazione dell’autore si ritrova nella poesia “Per una strada”. Bene. Fin qui nulla di strano. La stranezza, che poi tanto strano non è, visti i tempi, è scrivere su uno scontrino “spiegazzato” un qualcosa che forse è un po’ banale, ma che rappresenta comunque uno stadio di riflessione di una persona.

4- Una poesia dovrebbe essere Umana. Siamo Esseri Umani o no? Mi spiego meglio. Non penso e non credo che Marcuccio pubblichi per avere premi. Non pubblica per questo.
Chi scrive (se scrive Bene) è Essere Umano nell’espressione dei significati, delle parole. E le parole sono pietre.

5- Ciò che deve arrivare al lettore in maniera diretta sono gli Aforismi n° 25, 53, 59. In quanto autore, poeta, blogger e fondatore di Progetti Aperti, penso che quanto scritto in questi 3 aforismi, può, nel messaggio essenziale, riassumere la “condizione di Poeta”.
Si dovrebbe parlare di poeta quando non ci sono condizionamenti interpersonali che derivano da interessi di Sistema.
Quando Marcuccio dice: “Il poeta è ribelle come il fuoco, niente è più ribelle del fuoco […]” cerca, a parer mio, di esplicitare quella forza che rende viva la Persona-Poeta, la persona che diventa poesia, produce mondi, da relazioni speciali a significato e significante, edificando l’animo. Essere ribelli non è situazione, ma condizione.

6- Secondo me qualsiasi curriculum letterario non contiene opere centrali. Assegnare centralità a certi elementi significherebbe svalutare gli altri. Dante non ha scritto solo la “Comedìa”, Giovanni Boccaccio è autore non solo del “Decamerone”, Schopenhauer è conosciuto per aver scritto “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione”, ma non è stata la sua unica opera. Ogni elemento deve essere rispettato e non messo al di sopra o al di sotto di altri. Non deve esistere classificazione tra opere. Se si fa questo, si opera un giudizio arbitrario, in base a quale Autorità?

 

Da ciò deriva quanto dice Sandra Carresi nella recensione a Pensieri Minimi e Massime e far valere queste parole, in modo generale, comprendendo dunque un senso complessivo: “E’ di grande conforto conoscere l’esistenza di personaggi facenti parte del genere umano, chiamati – poeti – ancora capaci di possedere quella scintilla creativa che fa emozionare noi stessi e la Vita.”

Mostra altro

recensione Planando nell'aria di V. Principe by Adriana Pedicini

5 Dicembre 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

recensione Planando nell'aria di V. Principe by Adriana Pedicini

Il titolo – Planando nell’aria - della raccolta di poesie di Vittoria Principe potrebbe essere la chiave di lettura della personalità che è sottesa ai versi e che viene fuori a sprazzi, a momenti non univoci nella fase descrittiva, ma pur legati da un doppio filo che da una parte conduce al bisogno insopprimibile di libertà (questa è la mia storia, simile a quella di un uccello), dall’altro alla necessità di essere, cercare e mostrare amore, come novella eroina sofoclea (eppure sento di essere fatta per amare). Vale a dire che Vittoria rappresenta un universo (femminile) oscillante perennemente tra il desiderio di affermarsi per quello che sente di essere, e i vincoli, ora gioiosi ora dolenti (i momenti felici che si trasformano in dolori …), che la legano alle persone care e alla vita quotidiana.

Una ghirlanda di libertà

È da sempre che cerco la mia libertà.

Perduta in cieli infiniti,

in abissi spaventosi,

in deserti illimitati.

Nell’universo senza fine,vago,

alla ricerca della mia libertà.

La colgo nella luna, in una stella, nel sole.

Ma guardando un prato,

la colgo in un fiore.

La stringo, la bacio, la guardo….dov’eri?

Angosciata e felice la pongo nel mio cuore.

Ora è al sicuro in me.

Mi volto; guardo il mondo,

incatenato, sofferente, schiavo.

Io sono libera,

le mie catene sono sciolte,

per sempre…

è una ghirlanda di fiori

il mio unico vincolo.

Dio l’ha posta al mio collo,

come un giogo soave e lieve.

Di qui i dissidi, di qui le fughe in avanti (un sogno sospeso nell’aria, una disperata fuga) e i ritorni (tornerai a brillare…l’anima mia allora ti parlerà), di qui pianti e scoppi di gioia (come una tempesta...quest’ira furibonda… Ma d’improvviso un raggio di sole...placa il tutto in un silenzio di pace).

Talora prende il sopravvento la nostalgia, che è sempre desiderio di qualcosa, già compiuta, anche se il solo ricordo fa male (Tutto è stato avvolto in un velo di ricordi...aver vissuto momenti terribili)) o agognata, contro cui si profilano i fantasmi del dubbio, dell’incertezza, della paura (Ho paura. Diroccata in lontananza c’è la sede dei fantasmi..) e ancora della vacuità e dell’inutilità (Ecco ti assale il nulla).

Sicché l’oasi tanto desiderata talora sembra scomparire risucchiata dal vuoto, dalla sterilità dei sentimenti intorno a lei o semplicemente dal nonsense della vita. Ma la ricerca di serenità permane immutabile (troverò mai la mia oasi di pace?)

Diventa allora spasmodica anche la ricerca del divino, che pure rimane la suprema àncora, ma con mille domande, anzi con la suprema domanda vibrante come un urlo disperato: Dio, dove sei?

La ricerca della felicità infine è quasi un’ossessione (anima mia…urla con dolore la tua voglia di felicità), che la porta però a scandagliare, ad esaminare, a leggere la realtà che la circonda, per concludere che la felicità ha un unico ritrovo, un’unica sede: il proprio cuore (Il mio cuore resterà sempre al sicuro in me)(Un giorno…mi sono accorta che essa è dentro di noi).

E dal cuore sente tracimare l’affetto per i figli in particolare. Due realtà che danno senso alla sua vita, l’uno perché ha realizzato il sogno quasi adolescenziale della maternità (il mio bambino sarà un mondo incantato), l’altro perché costituisce un’applicazione costante del suo saper e voler essere mamma.

Alla fine sul senso di solitudine (quell’angosciosa presenza del niente) di cui sono testimonianza alcune liriche prevale il giudizio sentenzioso (Se questa è la vita viviamola pure), non senza l’amabile speranza (c’è un fiore appena sbocciato), non senza la curiosità (fruga nella vita, come in un sacco colmo), non senza la fratellanza (se tutti siamo insieme…viviamo), non senza in ultimo l’appello all’amore da donare e da ricevere (se un giorno interrogassi il mio cuore…non tormentarlo. Amalo...)(se un giorno mi verrai a cercare…entrerai nel mio cuore e vi troverai scritto un solo nome AMORE).

Per concludere aggiungerei che la silloge è di piacevole lettura, sobria e scorrevole, senza tranelli o incertezze interpretative, e ancora una volta la limpidezza dichiara la volontà tetragona di un donna che pur sentendo la sofferenza dell’esistenza, ama la sfida, il volo, per poi abbandonarsi dolcemente, planando nell’aria, all’unica vera forza, l’Amore.

Adriana Pedicini

Mostra altro

Adriana Pedicini, "Sazia di Luce"

22 Novembre 2013 , Scritto da Ida Verrei e Patrizia Poli Con tag #poesia, #recensioni, #poli patrizia, #ida verrei, #adriana pedicini, #Laboratorio di Narrativa, #gordiano lupi

Adriana Pedicini, "Sazia di Luce"

Sazia di Luce

Adriana Pedicini

Edizioni Il Foglio

pp 79

10,00

“Ogni volta non so se io viva o se sia un’altra che ricorda il passato

Adriana Pedicini è una poetessa di talento che ha portato avanti per molti anni la sua attività di docente di lettere classiche, e ora, dopo il pensionamento, nella piena maturità, presenta in pubblico la sua attività di scrittrice e il suo amore per la poesia.

Il libro, edito da Il Foglio, elegante, arricchito dai disegni di Anna Perrone, è una silloge di cinquantasette liriche che, come chiarisce la stessa autrice, si muovono circolarmente tra quei due poli antitetici che corrispondono al dolore che annienta e alla rinascita nella Fede.

Una raccolta di liriche che ripercorre sentieri dolorosi, esperienze che tracciano solchi profondi e si fanno poesia: versi che trovano, nell’espressività delle immagini e nella suggestione evocativa, la forza per ricreare atmosfere e stati d’animo.

Sazia di Luce, recita il titolo, e la sovrabbondanza di luce nasce dall’anima della poetessa, …e mi adagerò petalo impalpabile/ all’ombra del cipresso ad attendere/dietro la falcata nuvola nera/ l’indice di luce ad indicarmi la via…”, pur nella disperazione, nell’angoscia del rapido fluire delle cose, nello sconforto della malattia come metafora di uno stato di disfacimento dell’intera vita: “… Oggi è la storia/ cruenta di sempre”

In tutta la raccolta ricorre il registro elegiaco del ricordo, ma anche del senso amaro e duro della realtà, del mondo penoso dell’infermità fisica: … Ancora per poco vive/ libera la mia ansia e/ su muro bianco/di sole settembrino/si stempera/mentre sulle orme della sera/già plana l’angoscia. È lo sguardo attonito di fronte al mistero della morte, è il timore dell’inconoscibile, è il rimpianto per i chiarori di albe profumate di tiglio, per il profumo di mosto/e aria ebbra di vino. E allora nascono le interrogazioni, le domande perenni che dilaniano l’animo: che sarà di questo brandello di vita? Ricucirò i lembi di vecchia placenta?

Ma a questa dimensione crepuscolare si oppone la volontà di vivere e di agire, l’amore per la vita espresso nella quotidianità, negli affetti, nelle piccole e grandi cose di tutti i giorni.

“Il faut tenter de vivre”, recita Paul Valery, e Adriana, anche attraverso la fede, ritrova il senso della rinascita; la sofferenza si muta in luce che “sazia”, una gemma di vita e di speranza… profumo del Natale.

E allora, dopo la rivelazione del senso amaro della realtà, del mondo angoscioso della malattia, i versi rivisitano un mondo rassicurante, ritrovano la magia dei sentimenti, dei valori più autentici, la natura, le stagioni, la luce e i paesaggi, i suoni, gli odori, i colori: “Pigolio/il bisbiglio d’amore/ dei miei piccoli/ mi ha resa rondine/ che torna al suo nido/ con rinnovata scorta/ d’amore

… È tempo di cantare/ più dolci melodie

Il mutamento del paesaggio e delle atmosfere trova uno spiraglio di evasione e di sogno, pause contemplative, luoghi evocati e rivissuti attraverso l’emozione, ma anche con l’esercizio delicato dei sensi: “… a sera nel tremolio/ delle membra sotto turchina luce./ Ascolto solo/ la mia piccola città/ che pettegola, mormora…” È una provincia quasi appartata, ancora silenziosa, dove ha ancora un senso scorgere negli occhi un timido sorriso, legata alla dimensione della levità, come conquista di una serenità recuperata: è “Vita”.

La silloge si chiude con la domanda estrema/ che fu anche la prima./ Chi siamo? Adriana Pedicini trova la sua risposta nella Poesia e nella Fede. La vita non offre mai niente senza controparte, ma talvolta restituisce ciò che toglie.

Adriana Pedicini è imbevuta di studi classici. Lo stile di questa silloge lo dimostra, al punto da farne la sua peculiarità. I suoi sono versi dal sapore antico, con parole scelte e desuete. Ma non è il classicismo la sua vena migliore. Queste poesie sono state scritte in un momento difficilissimo della sua vita, ed ella, in lotta quotidiana con la malattia che devasta e toglie, le ha usate come sfogo ad un dolore che inchioda, come argine alla paura che mozza il respiro e “tinge di nero la prossima alba”. E i momenti più alti, più sublimi, non sono quelli in cui dà ordine al sentimento costringendolo nella forma classica, bensì quelli dove lo stile composto, trattenuto, lascia trapelare squarci di verità nuda, di parole scabre, quasi caproniane.

“Vita

Non conosco

la folla dei mercati

dei bar e delle piazze

delle strade lunghe

che nascono in periferia

silenziose e si svegliano

alle porte dei cantieri.

Non so

le brevi strade

colorate al mattino

di voci giovanili,

bisbiglianti amore

nei tardi crepuscoli,

silenti di parole

a sera nel tremolio

delle membra sotto turchina luce.

Ascolto solo

la mia piccola città

che pettegola, mormora,

trepida, soffre,

amo la vita della mia città antica

dove ha ancora un senso

scorgere negli occhi un timido sorriso.

Miracolo vivente

Mi hai appellata così,

vedendo la mia testa rasa,

sì, miracolo è vedermi

“senza” e non “con”,

vedere,

mentre a pezzi cade il corpo,

un’anima bambina

slanciarsi come sempre

ad afferrare lo spicchio di sole

che sbianca la parete

spalancare avidi gli occhi

sull’alba che fuga

i fantasmi della notte.

Il cuore piange e ride, giammai tedioso,

riposa sulla coltre grigia

della insensata calma.

Ogni giorno un guadagno,

ogni giorno un sassolino

bianco di luce segna i passi

dell’amore da fare insieme

finché…

finché l’ultima ora

scioglierà la promessa

di pur breve cammino.

Allora sarò ovunque

Ma sempre a voi vicina

Piccolo lume di fiamma viva a scaldarvi il cuore.

Qui non c’è artificio, non c’è manierismo, c’è solo un grumo di dolore che esplode, che dilania, un lago fondo di paura, il terrore della nera signora in agguato, pronta a strapparci ai figli, al sole, all’amore del compagno di una vita - uomo taciturno, forse austero, che ora frana nel dolore di lei. La malattia assale, la cura è ancor peggiore del male, si teme che non ci sia più tempo per gli affetti, e il panico tracima: “sarò cuore di cerbiatta spaurito, allo strepito dei rami di mirto”, diventando anche rabbia. “Non vorrei che la mano del destino/assetata arpia/mi trascinasse via/mentre spuma di rabbia/m’illividisce il volto. L’autrice si abbarbica all’amore dei figli che mai vorrebbe lasciare: “Saranno miei rami le braccia dei figli”, si ribella a un destino che nessuno di noi accetta.

Il rifugio nella fede è, sì, consolazione ma raramente abbandono, la ferita è troppo aspra, la lacerazione troppo insopportabile. Qualunque cosa è meglio che morire, qualunque cosa è vita, anche i ricordi della guerra, di un tempo amaro in cui, almeno, si aveva la possibilità di lottare e la speranza di sopravvivere.

Ma le radici sono forti, lo spirito è come roccia tenace che sa sempre risorgere, aggrapparsi, se non proprio alla speranza, almeno agli sprazzi di vita, alla natura, al profumo del Natale, (sia pur in “uggioso avvento”), della primavera, della natura. Così si ritagliano “lampi di serene giornate” mentre la fiducia rinasce, così si ha anche un pensiero cristiano per i poveri, gli abbandonati, i derelitti.

L’autrice si mostra in tutta la sua fragilità, con i suoi timidi rossori, il suo cuore di cerbiatta spaurita di fronte al fucile puntato, i suoi pudori che nascondono passioni sotterranee. L’impatto emotivo è immediato - nonostante il filtro della tecnica - dirompente, commovente. Le poesie migliori sono quelle dove non si cercano belle immagini ma ci si mette a nudo, crocifissi dal dolore, e le parola vita, vivente, sono ripetute ad esorcizzare il buio, a gridare il proprio incrollabile desiderio di rimanere ancora su questa terra.

Ida Verrei e Patrizia Poli

Mostra altro

I libri del Pisa Book Festival Tra Cuba e l’horror passando per l’Ucraina

21 Novembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

I libri del Pisa Book Festival  Tra Cuba e l’horror passando per l’Ucraina

Finisce il Pisa Book Festival e me ne torno a casa con una valigia piena di libri, senza contare le vendite soddisfacenti e il piccolo successo della mia casa editrice (Il Foglio letterario - www.ilfoglioletterario.it). Le fiere sono l’occasione per rivedere vecchi amici, scrittori con i quali abbiamo iniziato un percorso, per poi magari lasciarsi, editori che condividono progetti simili ma persino diametralmente opposti. Roberto Massari è uno di questi, da sempre si occupa di Cuba, il suo ultimo prodotto è Gino Doné - L’italiano del Granma (euro 10 - pag. 160), scritto da Katia Sassoni, un testo importante, dedicato al solo italiano che ha partecipato alla Rivoluzione Cubana, un evento imprescindibile della storia del Ventesimo Secolo, comunque la si voglia giudicare. Gino Doné è una scoperta di Gianfranco Ginestri - detto Gin - un giornalista appassionato di cose cubane con il quale non sempre mi sono trovato in sintonia, ma non in questo caso, visto che ha compiuto un’opera più che meritoria. A proposito di Cuba, Greco&Greco, pubblica nella bella collana diretta da Domenico Vecchioni una poco convincente biografia di Fidel Castro, intitolata L’abbraccio letale (euro 14 - pag. 330). Il libro piacerà a un pubblico di estrema destra, a coloro che fanno confluire nel personaggio Castro tutto il male possibile, perché Carlos Carralero - esule cubano con il dente comprensibilmente avvelenato - dipinge il caudillo centramericano come una sorta di Pol Pot. Le esagerazioni non portano vantaggi alla causa condivisibile della democratizzazione cubana, oltre al fatto che la traduzione di Maria Francesca Monti è così incerta da rendere il libro poco leggibile. Massimiliano Di Pasquale, invece, è uno studioso appassionato di paesi dell’Est Europa che pubblica Ucraina - Terra di confine (euro 15 - pag. 250) con Il Sirente Edizioni. Interessante, ma solo per specialisti e per chi già conosce bene la materia. Patricia Mazy, una belga - elbana con ambizioni editoriali, scrive una bella favola con protagonista un cane: Mirabelle, cane marinaio (Lantana, euro 13,50 - pag. 130), che appassionerà gli amanti del nostro amico più fidato. Termino con una mia vecchia passione: l’horror. Stefano Fantelli, un giovane scrittore che può vantare diverse pubblicazioni - e in questo caso anche una prefazione scritta da Danilo Arona -, pubblica Strane ferite (Cut-up, euro 15 - pag. 200) e scrive la sceneggiatura di una serie a fumetti molto splatter (anzi, cannibale!) intitolata The Cannibal family (Euro 3 il numero zero, edito dalla teramana Inkiostro). Mi dicono che Fantelli è tra gli autori anche della rediviva rivista Splatter, ideata molti anni fa da Paolo Di Orazio, in uscita antologica per Rizzoli -Lizard, ma anche in tutte le fumetterie con episodi inediti. Solo per appassionati di cose estreme, non per stomaci delicati e per palati sopraffini, Fantelli scrive horror duro, non letteratura da fiction televisiva, e non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, anche se ormai lo sappiamo che vendere romanzi horror agli italiani è come fare il piazzista di gelati al polo.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

I libri del Pisa Book Festival  Tra Cuba e l’horror passando per l’Ucraina
I libri del Pisa Book Festival  Tra Cuba e l’horror passando per l’Ucraina
I libri del Pisa Book Festival  Tra Cuba e l’horror passando per l’Ucraina
Mostra altro

Barolong Seboni Nell'aria inquieta del Kalahari

14 Novembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #poesia, #recensioni

Barolong Seboni Nell'aria inquieta del Kalahari

In the disquiet air of the Kalahari

Traduzione di Marisa Cecchetti

Si legge poca poesia nel nostro paese, purtroppo, anche se la lirica resta la prima forma letteraria conosciuta, insieme al teatro. Ma interessa ancora la letteratura in un panorama editoriale guidato dal profitto e gestito da manager? La domanda è retorica. Per fortuna che ci sono i piccoli editori e i traduttori intelligenti, tra i quali - immodestamente - mi ci metto pure io, visto che Il Foglio Letterario (grazie a Malini) traduce Polanski, ma anche (grazie a me) i cubani Viera, Navarrete, Padilla e Piñera, oltre a pubblicare italiani di valore (Garofalo e Polito su tutti). LietoColle compie un'opera meritoria, grazie all'attenta traduzione di Marisa Cecchetti che rende in un italiano raffinato e lirico alcune poesie scritte a Edimburgo, nel 1993, da Barolong Seboni (Botswana, 1957). Poesie scritte fuori dall'Africa, ma che parlano dei problemi e dei panorami della sua terra, profumano di nostalgia e di sconfinate praterie del Kalahari, pur scritte nel rigido clima scozzese. "La poesia di Seboni - come scrive la traduttrice in una dotta prefazione - passa attraverso il recupero della memoria dei padri, del loro orgoglio nazionale, è un processo di riscoperta delle radici che diventa riscoperta e costruzione di sé, con un ritorno nel grembo materno della sua tradizione, in un'esigenza di dignitoso riscatto della propria cultura dopo il tentativo dei bianchi di cancellare tale passato". Un popolo senza passato è un popolo perso, afferma Seboni. Come dargli torto? Ognuno di noi è alla ricerca del suo passato, delle sue radici, ma nel caso di Seboni sono radici antirazziste, ricordano la lotta contro un colonizzatore bianco per il riscatto d'una terra libera. Il mio amore per Cuba fa sì che riesca ad apprezzare meglio di altri questa straordinaria opera poetica, perché sono molte le suggestioni che sento vicine. Alberi possenti come il baobab - nel Caribe si chiama ceiba ma è la stessa cosa - dove si seppelliscono i propri cari, simbolo di energia, di longevità e di forza.

La leggenda cubana della ceiba che protegge perché contiene le anime dei genitori, della possente sequoia immortale che non va abbattuta ha radici africane. La jacaranda è un altro fiore che unisce Africa e Cuba, commistione razziale e paesaggi sconfinati tra terra e mare sono il ricordo che torna prepotente alla memoria. La poesia di Seboni ricorda liriche di Piñera e racconti di Cabrera Infante quando cita il fiore dal rosso colore, l'erba ingiallita, il vento capriccioso, i cespugli dannati e gli ossuti rovi. Le donne della Namibia sembrano contadine cubane di razza nera sedute all'ombra della loro bancarella, un vestito che è fluire di luce splendente, mentre cuciono pezze multicolori sulle bambole che vendono. E che dire delle stagioni? Come posso non amare una lirica che recita: "Non ci sono stagioni/ in Africa, dicono/ solo calde estati che fumano/ di nubi tonanti gonfie/ di pioggia del tipo convenzionale/ e notti invernali che fischiano/ sulle sabbie gialle del Kgalagadi". Questa è Cuba, signori, non soltanto l'Africa, è anche la terra dei miei amati poeti che un tiranno fuori dalla storia mi impedisce di rivedere. Ecco perché non posso scrivere una recensione su questo piccolo gioiello di libro, ma solo testimoniare tutto il mio amore per liriche intense che raccontano un luogo dell'anima che non è patrimonio esclusivo del poeta. Due parole sulla traduttrice, Marisa Cecchetti, che ha scoperto un talento lirico ignoto al pubblico italiano. Pisana di San Giuliano Terme, lucchese di adozione, di cui abbiamo letto con piacere un intenso romanzo di formazione come La bici al cancello (Baroni, 2007). Vi lascio con due liriche particolarmente suggestive di Seboni. Leggere la sua opera fa bene al cuore.

Sanguedisole

Nelle sere

le donne di Soweto

con occhi arrossati

piangono

perché attraverso

il velo di fumo

densodipus

il loro sole

sanguina.

Coltello notturno

Al colpo

di un coltello

la notte si immerge

improvvisa sul tenero

fianco di Soweto.

La mattina grida

come sirene

insanguinate di rugiada.

E il giorno

si sparge vuoto

spalancandosi

in una sorpresa mortale

come una gola

fessa.

Mostra altro

Omaggio a Giorgio Caproni

10 Novembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #saggi, #poesia, #personaggi da conoscere

Omaggio a Giorgio Caproni

Tra Livorno e Genova, il poeta delle due città

Omaggio a Giorgio Caproni

a cura di Patrizia Garofalo e Cinzia Demi

Edizioni Il Foglio, 2013

pp. 110

Ci sono saggi letterari che illuminano, arricchiscono, fanno dire: “Ecco, questo è proprio ciò che pensavo e sentivo”. Ce ne sono altri che grondano accademia, ad esempio quelli letti nei giorni dell’università, quando dovevi perdere un’ora, non per studiare il poeta o il romanziere in questione, ma solo per capire cosa intendesse il critico con la sua nebulosa accozzaglia di parole. Si finiva per telefonarci l’un l’altro fra studenti, chiedendo: “Ma tu cosa hai recepito?” Si cercava di ricostruire il filo del discorso, di “tradurre” il testo in un italiano comprensibile, mettendo faticosamente in relazione soggetto e predicato. Spesso, alla fine, una volta parafrasato e volgarizzato, il saggio era riassumibile in tre o quattro concetti cardine. Provavamo, allora, il bisogno di allontanarci da un mondo fatto solo di gente che si parlava addosso, e immergerci nella vita reale, nelle cose concrete.

Questa premessa per segnalarvi una raccolta di saggi su Giorgio Caproni - poeta più che mai alla ricerca del contatto totale fra parola e cosa – che contiene testi sia dell’uno e che dell’altro stampo. Per fortuna sono prevalenti di gran lunga quelli del primo tipo.

“Tra Livorno e Genova, il poeta delle due città”, a cura di Patrizia Garofalo e Cinzia Demi, è un omaggio a Giorgio Caproni, che si sviluppa in dodici saggi, alcuni frutto di due convegni organizzati da una delle curatrici, a Palermo e a Bologna, altri opera di studiosi e cultori e persino dello stesso figlio di Caproni. Molti emozionano, uno in particolare annoia perché scritto in un linguaggio intellettualmente auto compiaciuto.

La raccolta si apre con un’intervista che il figlio di Caproni, Attilio Mauro, ha rilasciato a Matteo Bianchi. Caproni figlio sostiene che scrivere versi è una pratica difficilissima, non è sufficiente mettere parole in colonna per essere poeti, non si deve rispecchiare un’epoca specifica, bensì avere intuizioni che scavalcano il tempo e restano valide a distanza di secoli. Il poeta raggiunge la maturità artistica attorno ai quaranta anni, dopo di che la creatività scema e si ripercorrono i propri passi con meri esercizi di stile.

Il secondo saggio, di Angelo Andreotti, si occupa della raccolta “Res amissa”, uscita postuma nel 1991 a cura del filosofo Giorgio Agamben. La res amissa è la cosa che si può perdere, la cosa che c’era ma di cui si è smarrito anche il ricordo, la cosa nascosta così bene da essere scomparsa e che permane solo come assenza, come nostalgia di un Dono ormai inconoscibile: forse la Grazia, forse la Vita, forse la Poesia stessa, in ogni caso il Bene.

“Gli ultimi versi della sua produzione poetica, e in particolare quelli di Res amissa, risultano franti, in parte anche sincopati, interrotti da trattini e parentesi, separati da spazi bianchi e puntini (di “canto spezzato parla Agamben”); e con questa disarmonia – con questo respiro affannato, ansioso – sembra voler negare al lettore la piacevolezza della lettura, o per lo meno imporgli un ritmo rigido, per nulla naturale”. (Angelo Andreotti)

Il terzo saggio, ancora a firma Matteo Bianchi, è indicativo di una tendenza che, ultimamente, si sta diffondendo nella critica, quella, cioè, di essere multimediale, di mescolare “alto e basso”. (La recente candidatura di Vecchioni al Nobel per la letteratura ne è un esempio.) In questo saggio, Bianchi accosta il testo di “Canzone”, di Lucio Dalla e Samuele Bersani, con la poesia di Caproni “Preghiera”. E, nonostante la disparità di valore, come dimenticare che la poesia è nata proprio con accompagnamento di musica? Come dimenticare il video nel quale Caproni stesso confessa di essersi avvicinato alla poesia da paroliere dei propri componimenti musicali?

Bianchi rimarca il rifiuto del classicismo in Caproni, il suo aggancio con la tradizione popolare di Genova e di Livorno, la facilità e, insieme, la sapienza estrema della rima, l’eco nei suoi versi di Cavalcanti e dei primitivi.

Il quarto saggio, di Fabio Canessa, si sofferma sui temi del congedo e del viaggio, cari al poeta livornese: il congedo è da una vita cara, amata e superiore alla poesia, una vita che nessuna parola riesce a rendere.

“Io son giunto alla disperazione calma,

senza sgomenti.”

“Nella musicalità affabulatoria orchestrata dagli enjambement, nel lessico discorsivo del tono colloquiale c’è tutta la “calma disperazione” dell’accettazione della vita e della morte.”

Anche il viaggio si fonde con il suo contrario, con “la negazione della partenza e il corto circuito fra passato, presente e futuro sfiora il nonsense.”

Nel quinto pezzo, Maurizio Caruso parla degli elementi che hanno ispirato il quadro di Caproni riprodotto sulla copertina.

Nel sesto, Cinzia Demi si occupa della raccolta “Il seme del piangere” (1959) e, in particolare, degli splendidi Versi livornesi. Se Genova è la città della maturità, dell’essere a pieno se stesso, Livorno è il luogo dell’anima, dell’infanzia, del re-incontro con la madre giovane. Il dolore è modulato con disincanto come in “Ad portam inferi” che qui riproponiamo per la sua semplice bellezza.

Chi avrebbe mai pensato, allora,

di doverla incontrare

un'alba (così sola

e debole, e senza

l'appoggio di una parola)

seduta in quella stazione,

la mano sul tavolino

freddo, ad aspettare

l'ultima coincidenza

per l'ultima stazione?

Posato il fagottino

in terra, con una cocca

del fazzoletto (di nebbia

e di vapori è piena

la sala, e vi si sfanno

i treni che vengono e vanno

senza fermarsi) asciuga

di soppiatto - in fretta

come fa la servetta

scacciata, che del servizio

nuovo ignora il padrone

e il vizio - la sola

lacrima che le sgorga

calda, e le brucia la gola.

Davanti al cappuccino

che si raffredda, Annina

di nuovo senza anello, pensa

di scrivere al suo bambino

almeno una cartolina:

"Caro, son qui: ti scrivo

per dirti ..." Ma invano tenta

di ricordare: non sa

nemmeno lei, non rammenta

se è morto o se ancora è vivo,

e si confonde (la testa

le gira vuota) e intanto,

mentre le cresce il pianto

in petto, cerca

confusa nella borsetta

la matita, scordata

(s'accorge con una stretta

al cuore) con le chiavi di casa.

Vorrebbe anche al suo marito

scrivere due righe, in fretta.

Dirgli, come faceva

quando in giorni più netti

andava a Colle Salvetti,

"Attilio caro, ho lasciato

il caffè sul gas e il burro

nella credenza: compra

solo un pò di spaghetti,

e vedi di non lavorare

troppo (non ti stancare

come al solito) e fuma

un poco meno, senza,

ti prego, approfittare

ancora della mia partenza,

chiudendo il contatore,

se esci, anche per poche ore."

Ma poi s'accorge che al dito

non ha più anello, e il cervello

di nuovo le si confonde

smarrito; e mentre

cerca invano di bere

freddo ormai il cappuccino

(la mano le trema: non riesce,

con tanta gente che esce

ed entra, ad alzare il bicchiere)

ritorna col suo pensiero

(guardando il cameriere

che intanto sparecchia, serio,

lasciando sul tavolino

il resto) al suo bambino.

Almeno le venisse in mente

che quel bambino è sparito!

E' cresciuto, ha tradito,

fugge ora rincorso

pel mondo dall'errore

e dal peccato, e morso

dal cane del suo rimorso

inutile, solo

è rimasto a nutrire,

smilzo come un usignolo,

la sua magra famiglia

(il maschio, Rina, la figlia)

con colpe da non finire.

Ma lei, anche se le si strappa

il cuore, come può ricordare,

con tutti quei cacciatori

intorno, tutta quella grappa,

i cani che a muso chino

fiutano il suo fagottino

misero, e poi da un angolo

scodinzolano e la stanno a guardare

con occhi che subito piangono?

Nemmeno sa distinguere bene,

ormai tra marito e figliolo.

Vorrebbe piangere, cerca

sul marmo il tovagliolo

già tolto, e in terra

(vagamente la guerra

le torna in mente, e fischiare

a lungo nell'alba sente

un treno militare)

guarda fra tanto fumo

e tante bucce d'arancio

(fra tanto odore di rancio

e di pioggia) il solo

ed unico tesoro

che ha potuto salvare

e che (lei non può capire)

fra i piedi di tanta gente

i cani stanno a annusare.

"Signore cosa devo fare,"

quasi vorrebbe urlare,

come il giorno che il letto

pieno di lei, stretto

sentì il cuore svanire

in un così lungo morire.

Guarda l'orologio: è fermo.

Vorrebbe domandare

al capotreno. Vorrebbe

sapere se deve aspettare

ancora molto. Ma come,

come può, lei, sentire,

mentre le resta in gola

(c'è un fumo) la parola,

ch'è proprio negli occhi dei cani

la nebbia del suo domani?

La Demi avvicina Caproni a Saba, anch’egli controcorrente per lo stile umile.

Annina è un archetipo femminile, una cavalcantiana e stilnovistica figura guida, che accompagna l’anima del poeta ormai vecchio attraverso una Livorno popolare, gioiosa, mattutina e non ancora bombardata. La madre diventa fidanzata del figlio ma non in un rapporto incestuoso, bensì atemporale, che ricongiunge e fonde le anime; così come la poesia “A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre”, contenuta in “Il muro della terra” (del 75), crea un legame astorico fra padre e figlio, dove il padre diventa figlio di suo figlio (quasi un’eco, ancora una volta, del paradiso dantesco e della Vergine Maria) e viene trasportato in quel futuro che non gli apparterrà.

Portami con te lontano

...lontano...

nel tuo futuro.

Diventa mio padre, portami

per la mano

dov'è diretto sicuro

il tuo passo d'Irlanda

l'arpa del tuo profilo

biondo, alto

già più di me che inclino

già verso l'erba.

Serba

di me questo ricordo vano

che scrivo mentre la mano

mi trema.

Rema

con me negli occhi allargo

del tuo futuro, mentre odo

(non odio) abbrunato il sordo

battito del tamburo

che rulla - come il mio cuore: in nome

di nulla - la Dedizione.

Il settimo saggio, scritto da Flora di Legami, è il più ostico, indigesto e compiaciuto. Si occupa delle raccolte “Il Franco Cacciatore “ (1982)“ e Il conte di Kevenhüller” (1986), già di per sé difficili per il linguaggio franto e l’ardua ricerca stilistica.

“Il franco cacciatore” è ispirato a un’opera di Weber, su libretto di Kind, ma s’inserisce in una tradizione che, come dice la di Legami, “da Dante a Boccaccio, da Petrarca a Poliziano, da Marino a Bruno, giunge alla modernità con Valery e Melville”. Le metafore venatorie e mitologiche e il motivo del viaggio sono la traccia per una discesa all’interno del sé alla ricerca di valori universali. “Bellezza e orrore, attesa e vuoto, vitalità e morte, parola e silenzio, sono i nuclei di un racconto, disposto sul metro della mitica caccia.” (Flora di Legami)

La caccia è nei confronti di Dio, la morte del cacciatore è il sacrificio della parola al silenzio. I continui punti di sospensione, le parentesi, le frasi spezzate indicano un’ indagine che si avvita su se stessa aspirando a un’inattingibile essenzialità.

“Atteone è segno del lavorio ininterrotto per dire l’indicibile.” “Per via di continui slittamenti inversioni e giochi di antifrasi, il poeta compone inediti arabeschi di sovversione logica, con cui rendere gli scarti disarmonici dell’esistere e del pensiero.”

“Il conte di Kevenhüller” (1986) è una sorta di “operetta morale” basata sulla caccia a una feroce Bestia che altri non è che la parola stessa.

“Se la parola è l’involucro in cui prendono forma e consistenza angosce, tremori, interrogazioni e dubbi di una ricerca esistenziale, nessuna meraviglia che proprio questa divenga la preda mitica del poeta cacciatore.”

Alla fine si ha un’infinita e ossimorica coincidenza di opposti, una myse en abyme fra vita e morte, cacciatore e preda.

L’ottavo saggio, di Rosa Elisa Giangoia, si riferisce al poemetto “Ballo a Fontanigorda” (1938), evidenziando il legame di Caproni con la val Trebbia, i suoi boschi, i suoi villaggi e la statale 45. Qui Caproni fu maestro elementare e partigiano. Qui la sua poesia, basata più “sul togliere parole che sull’aggiungerne”, arriva al definitivo superamento della concezione romantica e decadente di paesaggio come specchio dello stato d’animo e ritratto di luogo ameno e pittoresco. Il paesaggio non comunica emozioni, è uno spazio rarefatto, semplificato, è un luogo da cui tutti se ne vanno, lasciandoci soli con il bosco e il fiume, mentre, man mano, le certezze svaniscono e le risposte ridiventano domande.

Il nono saggio, di Gianfranco Lauretano, parte dalla raccolta “Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee” (1965) per mostrarci come dal ‘65 al ‘90 Caproni non abbia fatto che congedarsi da tutto, dalla vita, dalla famiglia, dagli amici, da quello che chiamava mézigue, cioè “me stesso”. Già da cinquantenne inizia a salutare, mentre la sua poesia sempre più si rastrema, mentre la storia lo delude, mentre il concetto di Dio, per lui ateo, diventa sempre più sfuggente e, insieme, paradossalmente desiderabile.

Il decimo saggio, del linguista Fabio Marri, ci mostra nei particolari come lavora il poeta Caproni, come la sua lingua facile, quasi elementare - se sottoposta ad analisi tecnica - sveli tutta la sua sapienza e l’artificio.

Il linguaggio è semplice ma composto anche di termini rari e aulici, di aggettivi inusuali, il senso letterale delle parole è trasformato e arricchito dalla loro forma fonica, dall’armonia all’interno della frase, dalla posizione nel discorso poetico, dalla disposizione sintattica. Il verso è agile, si allunga nell’enjambement, si dispiega in rime baciate, prima chiare, poi, con l’acuirsi del tormento interiore e della ricerca, sempre più scure. La rima serve ad accostare fra loro parole che possono fondersi o cozzare, come in Cavalcanti, Carducci, Pascoli, prima, e Ungaretti, Montale, Saba, Luzi, poi. Le parentesi, invece di isolare, evidenziano concetti fondamentali, epifanici, le frasi diventano esclamative e interrogative, a sottolineare riflessioni dolorose.

Tutto questo, a detta di Caproni stesso, senza formalismi forzati, senza ritorni anacronistici ad avanguardie superate, senza anticonformismo obbligato, ma anche senza nessuna musicalità consolatoria.

L’undicesimo saggio, di Paolo Ruffilli, mette in collegamento la poesia di Caproni con l’opera lirica settecentesca e con la cultura illuminista.

Infine l’ultimo, di Massimo Scrignoli, evidenzia l’immagine ricorrente in Caproni della “stella nera”, luce spenta ma pur sempre luce, collegata al ricordo della perduta sorella minore, Marcella.

Mostra altro

Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone

5 Novembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone

Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone

Roberto Mosi

Edizioni Il Foglio

Nel percorrere la vita della protagonista del libro di Roberto Mosi, la sorella di Napoleone Elisa Baciocchi, la curiosità è immediatamente deviata sulla biografia dell'autore. Apprendiamo che Roberto Mosi è anche autore di sillogi di poesia e, tra i titoli pubblicati, due si pongono immediatamente in rilievo: "Luoghi del mi-to" e "Nonluoghi". L'impressione di lettura delle prime pagine trova dunque un primo riscontro. Siamo in presenza di un tracciato, forse l'ultimo (sebbene in prosa), di una trilogia dedicata allo spazio fisico (o non fisico - comunque non soltanto mentale). E in effetti la dedica posta in esergo al testo è, appunto, rivolta alla città di Piombino, senza dissimulare l'atto di amore al luogo (ai luoghi) che pervade l'opera: "A Piombino […] / un paesaggio di grande poesia". Si potrebbe, quindi, cominciare la lettura del libro con l'aspettativa di un visita-tore che sta per essere condotto alla scoperta di luoghi noti attraverso un per-corso del tutto inedito, in presenza di una sorta di genius loci (la Baciocchi) che nello spazio curvato dal tempo protegge la storia di quei luoghi e allo stesso tempo ci invita e ci conduce a sposare la legge della relatività per unirsi al suo cammino.

Siamo dunque nel presente della narrazione, percorriamo il passato remoto della storia e ci proiettiamo nel futuro di viaggio personale.

Da dove partiamo? Evidentemente da Lucca, prima assegnazione ai coniugi Ba-ciocchi (Elisa e Felice) da parte di Napoleone (Principato di Lucca e Piombino). Il viaggio prosegue poi per le altre città toccate dalla reggenza dei coniugi (Livorno, Pisa, San Miniato Massa Carrara).

Su questi luoghi Elisa Baciocchi condusse una tangibile azione riformatrice e creativa, attraverso una guida matura e responsabile, sufficientemente autono-ma seppure sempre nel segno del potere del fratello minore Napoleone.

Curiosa e intraprendente figura quella di Elisa, di cui Mosi traccia un profilo pie-no e significativo, grazie ad un profondo lavoro di studio della storia e delle te-stimonianze attorno alla donna e al periodo che portò in Italia profondi cambia-menti nella politica e nella cultura.

Se Laetitia Romolino, matriarca della famiglia di Napoleone, soleva dire che non giocava a fare la principessa, notiamo come Elisa Baciocchi - per contrasto - sia stata l'incarnazione ideale della figura di principessa, al tempo stesso assoluta e illuminata, che determina con decisione e mano ferma l'andamento politico ed economico del governo che sempre ha condotto in prima persona, pure aiutata da un consorte intelligente e a lei dedito.

Fiera, di una fierezza condita di buon senso e gusto, così Roberto Mosi ritrae la Baciocchi. Una donna tenace che vive e interpreta un tempo dalle grandi con-traddizioni e anche dai grandi spunti innovativi. Nobile per destino familiare e non per nascita, Elisa Baciocchi è un personaggio simbolo dell'epoca, della bor-ghesia che pretende uno spazio decisivo nella nuova, mobile società dell'Italia napoleonica.

La ex borghese Elisa Bonaparte Baciocchi, divenuta Sua Altezza, si veste della magnificenza di una corte costruita secondo la misura di quella parigina delle Tuileries, rivissuta però con un approccio che distanzia Elisa dagli intrighi di pa-lazzo e le permette di mantenere rapporti autonomi con il clero e gli altri poteri, garantendo a se stessa un potere assoluto, ma mediato da entusiasmo e intelligenza.

Ritratta la protagonista, proseguiamone il viaggio. Sarà bene rilevare una prima peculiarità di questo saggio/guida: in grassetto sono evidenziate alcune paro-le/stringhe chiave che vanno a costituire una sorta di fil rouge prettamente sto-rico-geografico, ponendo in rilievo i passaggi o i luoghi di maggior importanza. Una sorta di sottotesto (o sovratesto) che consente una meta-lettura come a di-segnare una mappatura, per l'appunto.

Per ogni tappa un inquadramento storico (che spazia dagli avvenimenti relativi alla città "visitata" alla cronaca del passaggio di Elisa) e, spesso, culturale e di costume (dei costumi).

A tale proposito, soffermandosi anche sulle innovazioni apportate da Napoleone in ogni campo della vivibilità urbana, lo sguardo di Mosi si concentra su gustosi dettagli (i menu settimanali che erano soliti consumare i fratelli Napoleone ed Elisa o ancora la tecnica di conservazione delle derrate in uso all'epoca) per poi abbracciare, per un capitolo intero, la vita culturale a Parigi e nei domini italiani durante il governo di Bonaparte. Complice la passione della Baciocchi per la bellezza e l'arte, è gioco facile per Mosi immergerci nella magnificente sensibilità di Elisa che, apprendiamo, fu risoluta nel condurre a fasto qualsiasi luogo il suo piede toccasse (esemplare l'episodio del Palazzo dei Cybo Malaspina, a Massa, che la Baciocchi non esitò a trasformare in residenza d'arte a pena di rimozione di incarichi, minacce e sgombero di uffici, pur di recuperarne ed esaltarne la vocazione principesca).

La nostra guida (Mosi o Baciocchi?) indugia poi sulla toponomastica e addirittu-ra suggerisce al lettore la strada migliore per raggiungere la meta. La finzione è funzione di salto temporale sul posto e così nel momento in cui ci imbarchiamo (oggi, ieri?) dall'Isola d'Elba per raggiungere Livorno ci imbattiamo nell'Imperatore Napoleone che il 26 febbraio 1815 fece lo stesso tragitto, vide gli stessi luoghi e ci appare nell'uniforme verde di allora (descritta con dovizia di particolari) scortandoci (dal passato, oggi?) verso la costa per poi lasciarci e proseguire alla volta di Parigi. La scoperta di luoghi, personaggi, storie rimane sospesa al saluto di Elisa che, nel 1814, costretta dagli eventi lascia la terra di Toscana. Ma il libro di Mosi è ovviamente libro da leggere e rileggere ancora come saggio storico e come guida al territorio. Si parla di personaggi noti, di itinerari inconsueti, di artisti, palazzi e feste, solitudini, arrivi e partenze.

Può infine parlarsi di luoghi "altri"? Se con ciò si intendono le cc. dd. eterotopie (categoria di luoghi teorizzata da Michel Foucault; per "eterotopia" si indica quel luogo in cui i normali rapporti con lo spazio sono sovvertiti, ad es. il cimitero o il manicomio) la risposta non può che essere negativa. I luoghi in cui siamo stati guidati da Mosi (e da Elisa) non sono luoghi altri né altri luoghi (la città di Lucca era e rimane tale e così le altre). Eppure non sono più gli stessi luoghi del tempo precedente la lettura, dal momento che li abbiamo attraversati nella storia e li attraverseremo con la nostra esperienza alla luce del loro passato e di chi, quel passato, ha reso luminescente sino ad oggi. Forse potremmo definirli "luoghi altrimenti" e tentare un parallelo con la fotografia, in cui la stessa scena vista dai nostri occhi e inquadrata dall'obiettivo del fotografo (con tutta l'esperienza e la distorsione dello sguardo di chi scatta) si presenterà la stessa eppure diversa. È dunque con un richiamo alla "differenza" che, nel chiudere questo percorso nel percorso, si invita a considerare il libro di Mosi come un prezioso e stimolante taccuino di viaggio che ci conduce ad un "differente" movimento nello spazio tempo.

Da segnalare, per concludere, due utili appendici : una cronologia dei principali episodi delle vite di Elisa e Napoleone e una bibliografia commentata.

Mostra altro

Ida Verrei - Recensione

23 Ottobre 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

 

“Peccaminosa

Di Sandro Capodiferro

Edizioni Libreria Croce

p.p.194

 

 

Recensione di

 Ida Verrei

 

…Sono entrata nelle cellule di uomo per vedere come sarebbe andata a finire e lui mi ha riprodotto all’infinito…(pag.10)

…Sono quel peso instabile e controverso, sono lo specchio del gioco perverso, sono la neve che le anime solca, ho solo un nome io, sono la colpa. (pag.194)

E la colpa, il vizio,  è il motivo dominante di questa silloge, una colpa letta secondo una prospettiva psicologica, il peccato come riflesso di esistenze strane e remote, quasi sospese in una sorta di sogno o incubo.

Sette donne, sette vite poste a contraltare l’una dell’altra, eppure lontane nel tempo e nello spazio, dall’inizio dell‘800 al secolo attuale, dall’Impero Ottomano, al Cile, passando per Europa e Stati Uniti; sette universi, sette percorsi di peccato e redenzione, destini che si intrecciano legati dalla sottile simbologia di una spilla che intride con delicatezza il tessuto dell’intera narrazione e veicola una carica emotiva che esplode in tutta la sua forza.

Peccaminosa di S.Capodiferro è un libro che racconta storie, ma che  soprattutto analizza viaggi interiori, scava nell’animo delle diverse figure femminili, ognuna delle quali incarna un vizio, un peccato, una delle sette P incise sulla fronte di Dante, in un purgatorio fatto di espiazione, riflessione e pentimento.

Abiti del male, li aveva definiti Aristotele; spiriti e pensieri malvagi, li considerava il primo Cristianesimo, causa e origine di tutte le azioni peccaminose. Non è così  per l’Autore: ogni peccato, ogni vizio capitale, è espressione della condizione femminile in epoche diverse; affreschi sociali, percorsi, episodi che riflettono mondi ed età lontani, ma con valori universali riconosciuti, appunto, nel momento del riscatto.

Sette i peccati e sette le storie.

Fatma (1809), l’accidiosa: “Qualsiasi cosa accada non voltarti indietro figlia mia. Non farlo mai…”(pag.11) E lei ubbidisce, si lascia trascinare dagli eventi, prigioniera dell’harem e della sua stessa inerzia; rinuncia alla bellezza, alla gioia, all’amore. Una non-vita, sino a condannarsi, infine, ad un triste destino di solitudine e romitaggio: “Passerò i miei giorni nell’attesa che qualcosa accada, spaventata dal solo pensiero che quel qualcosa possa trovarmi tragicamente viva…”(pag.33)

Emily (1854), superba e altera, che scopre nel riconoscimento dell’altro e del diverso la propria fragilità negata e ritrova un’autentica umanità;

E ancora: Ivette (1879) che  finisce col comprendere che “l’invidia è l’anestetico dei deboli. Disciolto in rabbia si inetta dritto al cuore dei propri limiti per non continuare a sentirne il dolore”(pag,86)

E poi Mirosalva (1919), la cui ingordigia diviene parossismo anoressico, che la travolge in un “balletto della morte”, nel tentativo di fuggire a se stessa: “Ho cercato di riempire negli anni il vuoto incolmabile nel quale ho sempre navigato…” (pag. 115) ;

E Allison (1947), trascinata allo sbaraglio e alla distruzione dall’ira.

 Conchita (1980), l’insolita suora  messicana, posseduta dalla brama di possedere, in “ un delirio di riservatezza e di avarizia nel quale nascondeva tutta se stessa, come a proteggersi dal mondo che la voleva sopraffare.” (pag.166)

E infine, Carmela (2007), la lussuriosa, forse la più forte delle figure femminili, quella che incarna il più oscuro dei peccati, ma anche il più seducente; il vizio che avvolge e sconvolge poiché cela abissi, voragini di dolore e solitudine. “Cercare di riempire quei vuoti con i sospiri avidi di tutti gli uomini che mi hanno avuta, è stato come ogni volta scavare ancor di più il fossato tra ciò che non ho mai avuto e ciò che avrei desiderato avere”. (pag. 191)

Storie di donne, abbiamo detto, ma i veri protagonisti sono: amore, distacco, speranza, delusione, rinascita. È  la suggestione delle emozioni e dei sentimenti che risolve la disperazione, la rovina, in una voglia  di riscatto catartico.  Il peccato, umanissimo, è descritto con una sorta di levità, quasi con reticenza. Peccati da compatire, da comprendere, poiché sempre viene riconosciuto il diritto di risalire, di risollevarsi dopo la caduta. Il gioiello che viaggia nel tempo e nello spazio è il simbolo di questo diritto.

Ancora una prova di abilità narrativa da parte di Sandro Capodiferro, un’ulteriore verifica della sua profonda conoscenza dell’universo femminile; un libro singolare che, sino dall’incipit, suscita turbamenti, ma sollecita anche alla riflessione, all’analisi e all’autoanalisi.

 

I.V.

 

 

 

 

Ida Verrei -  Recensione
Mostra altro