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Maria Angela Eugenia Storti, "Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione"

27 Aprile 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #recensioni, #saggi, #tito cauchi

 

 

 

 

Maria Angela Eugenia Storti

 Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione

Guido Miano Editore, Milano 2023

 

Maria Angela Eugenia Storti, laureata in germanistica, è nata a Palermo, dove vive e ha insegnato. Opera in attività teatrali a fini didattici; ha pubblicato sillogi poetiche e saggi; alcuni fra questi ultimi sono raccolti nel volume Itinerari di letteratura del Novecento (Guido Miano Editore, Milano 2023), che chiama scrigno dei suoi sogni più intimi”, è dedicato ai suoi affetti più cari. Il sottotitolo completo specifica trattarsi di “Memorie artistiche a confronto” dei seguenti autori: Mann, Kafka, Woolf, Eliot, Beckett, Wedekind, Pirandello, Montale. Nella sua nota chiarisce che riguarda autori di cultura anglosassone e tedesca con agganci ad alcuni scrittori italiani di “espressione” europea; non di “comparazioni” si tratta, bensì di “collegamenti”. Spiega altresì che gli artisti, in un certo senso, esprimono le diverse anime della società in cui vivono; tuttavia, esemplificando, osserva che coloro che se ne discostano vengono etichettati, per esempio: di annichilimento (come Kafka), o di rivoluzione (come Brecht, qui non esaminato) o di oscillazione tra realtà borghese e mondo artistico (come Mann).

Quanto alla struttura del volume ci chiarisce la prefazione di Lea Di Salvo, la quale ne indica tre sezioni; e cioè: il Romanzo, attraverso le opere di T. Mann, F. Kafka, V. Woolf e T. S. Eliot; il Teatro, in cui si veicola la comunicazione in ambito di modernismo di portata europea, attraverso F. Wedekind, S. Beckett e L. Pirandello che qui trova collocazione con la sua sicilianità. Infine la terza sezione riguarda la Poesia comprendente insieme E. Montale e T. S. Eliot, i quali prendono le distanze dalle assolutezze, considerano la aleatorietà degli eventi. Insomma il volume mira allo svecchiamento delle letterature ampliandone i singoli confini in cui si inseriscono “squarci di memorie italiane, nel periodo tra le due guerre mondiali (…) preferibilmente attraverso l’impersonalità (…) che spesso dà origine ad una frammentarietà linguistica, al nonsense (…) e infine al silenzio”. Il sottoscritto potrebbe fermarsi qui, tuttavia prosegue sulle orme del volume, omettendo citazioni e riferimenti, per snellire l’esposizione, sia pure zoppicando.

 

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IL ROMANZO

 

Paul Thomas Mann (Lubecca, 1875 - Zurigo, 1955). Quanto al Romanzo, Maria Angela Eugenia Storti inizia con lo scrittore tedesco, esaminando, in particolare, l’opera Doctor Faustus (1947), nell’ottica del “lamento” e della “celebrazione”. Il tema del patto con il diavolo è abbastanza noto nei racconti popolari tedeschi e non solo; ma non ha niente a che vedere con il più vecchio “Faust” goethiano (del 1808). Mann trova occasione per denunciare la “decadenza e la fine della civiltà borghese”, con riferimento agli eventi bellici conclusi con la disfatta della Germania.

Tento una approssimativa sintesi. Nel suo romanzo abbiamo andamenti narrativi e saggistici senza distinzione, aggrovigliati in un sapiente gioco di contrasti. Mann prende a pretesto “un compendio romanzato di storia della musica” e un testo di filosofia, argomentando sul linguaggio nei vari ambiti comunicativi, in particolare del suono e della vista, per concludere che è necessario ricercare nuovi modi di espressione.

Il romanzo si svolge in un virtuosismo lessicale di piani a incastro in cui tutti i personaggi sono caratterizzati in modo ben distinguibile, in tutto e per tutto (timbro di voce, aspetto fisico, ecc.). Si fa uso di parodia e di formule tradizionali per farne caricature. I due protagonisti principali sono amici, Adrian e Serenus, agiscono in uno scambio continuo di ruoli, ma assumono un “significato simbolico”: Adrian rispecchia “la figura del musicista tedesco (…) vittima di cerebralismi diabolici”, vuole raggiungere la fama; Serenus è un umanista che contrappone il valore della parola ed è la voce narrante. Tuttavia essi sono le due anime dell’autore, Thomas Mann, che ora estraniandosi osserva la società; ora interprete, ne subisce le contraddizioni (questo è quello che mi pare di capire) nell’eterno confronto tra bene e male, tra Dio e Satana. Metaforicamente Mann si riferisce non (solo) all’uomo, bensì al popolo tedesco. Egli è ora l’uno, ora l’altro dei personaggi, volendo fare percepire la disfatta della Germania “in cui i colpevoli non sono da ricercare solo tra i gerarchi nazisti (…). non si può dire io non sapevo, non è permesso, e solo un occhio ci si può coprire, uno solo”.

 

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Franz Kafka (Praga, 1883 – Kierling, 1924) è il risultato di una rosa di culture molto diverse tra loro: quella slava (di Praga), quella tedesca (avendo studiato in Germania), quella ebraica (essendo figlio di un israelita), nonché di cultura francese per via delle sue letture. Aveva una formazione ampia con l’inclinazione alla metafisica, alla ironia e all’assurdo, perciò infittisce di oggetti e di personaggi impregnandoli di simbolismo e curandone molto i particolari con forte realismo. Il tutto gli conferisce un’immaginazione demoniaca e assurda.

Insoddisfatto delle sue opere, pubblicò solo il racconto La metamorfosi nel 1916 (traslato in versione cinematografica), con chiara allusione all’isolamento dell’uomo, alla sua alienazione. Gli altri tre romanzi, oltre un Diario, vengono pubblicati postumi. Il Castello, nel 1926, è l’ultimo dei suoi romanzi, rimasto incompiuto; il castello è il luogo della burocrazia dove è difficile entrare e sbrigare delle pratiche gravando alquanto sulla frustrazione degli abitanti; il protagonista, vittima di questo senso di frustrazione, si chiama K. (proprio così), un agrimensore, e la narrazione è affidata all’altra figura di nome Olga. Il processo viene pubblicato nel 1925, è sullo stesso tenore del precedente, perché il protagonista, che si chiama Joseph K., è uno “scrupoloso impiegato”, che viene arrestato improvvisamente senza spiegazione alcuna, condotto in una cava e giustiziato.

Kafka si allontanava dalla letteratura contemporanea giudicata decadente, “ha descritto incubi e pensieri, scaturiti dalla realtà del quotidiano. In tutti gli scritti kafkiani le storie narrate sembrano appartenere al mondo spettrale delle visioni” (La lettera k campeggia nei suoi personaggi).

 

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Virginia Woolf (Londra, 1882 - Rodmell, 1941). Negli anni Venti le venne chiesto di redigere una relazione avente per oggetto “la donna e il romanzo”, per alcune conferenze da dedicarsi a studentesse dei college inglesi. La scrittrice si allontanò dagli stereotipi attesi, che volevano la donna relegata agli standard domestici; tuttavia la sua ricerca sprona le donne a uscire dal proprio guscio e a rivendicare la propria autonomia culturale e uscire dalla anonimità. Mirava ad una narrazione verticale e non orizzontale, cioè a rappresentare la realtà, specialmente delle donne, “in profondità, piuttosto che in estensione”. Perciò la sua scrittura recupera i “processi mentali dei suoi protagonisti”.

Molte delle sue idee troviamo nel suo saggio Una stanza tutta per sé, con chiara allusione alla autonomia auspicata delle donne. Concepisce la vita nella sua molteplicità di forme e fa uso di simbolismo e di motivi conduttori come tecnica narrativa; concepisce l’arte in chiave di comunicazione. Fra le altre opere ricordiamo Mrs Dalloway. Invita la donna alla riflessione, all’autocoscienza, a superare la loro anonimità, trasformare la loro solitudine nel diritto di riservarsi un momento di scrittura e creativo più in generale. Invita la società a considerare sotto nuova luce stranezze eventuali delle donne, di non rinchiuderle nei manicomi e di non ignorare la loro genialità.

Virginia infatti aveva tendenze suicide e ha lottato per essere riconosciuta nella sua identità. Esortò le donne, sì a scrivere, ma senza dimenticare che “la mente degli artisti è androgina”. Infine, Storti, così conclude: “Lo ‘sbriciolamento’ dell’Io, il suo conseguente ‘flusso di coscienza’, ‘apre le stanze e le finestre’ a nuovi itinerari e costituisce il contrappunto drammatico della trasformazione dell’esperienza creativa femminile”.

 

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Thomas Stearns Eliot (Saint Louis, 1888 - Londra, 1965). La letteratura inglese del Novecento fu attraversata da fermenti innovativi ove si inserisce Eliot che si era trasferito in Inghilterra; saggista, critico e poeta, uno fra i più grandi del Novecento. Nuovi movimenti scuotevano gli scrittori europei. Si abbandonava il verso classico a favore del verso libero; ci si staccava dal dolce canto per diventare scopritori dell’animo umano. Lo scrittore americano scrive in modo fluido senza curarsi dei nessi di collegamento, suscitando così degli scossoni interpretativi; e favorendo molte possibilità di collegamenti ipertestuali.

Fra le sue opere ricordiamo la sua prima poesia importante che si intitola Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (del 1911), Poems (1920), “dove gioca sull’opposizione tra passato e presente, tra schemi tragici e farseschi”. Nasce una nuova poesia, che lascia l’Io lirico per farsi Epico e lascia le forme statiche per fare spazio alle necessità della storia. Eliot è aperto a nuove visioni, a una nuova “fioritura delle messi”, ai simbolisti francesi, ai mistici medievali. Si incrociano le varie arti, miti e leggende come nel poemetto Il Re Pescatore (del 1922), un essere tra il divino e un redivivo Tiresia, veggente del mito classico, giustificandone l’esistenza sotto una prospettiva allegorica. Tuttavia il suo capolavoro è La terra desolata (1921) che si ispira al mito medievale del Sacro Graal legato ai temi della decadenza e alla ricerca della resurrezione. Egli si colloca tra l’antico e il moderno.

 

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IL TEATRO

 

Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936). M. A. E. Storti apre l’argomento del palcoscenico con uno scrittore fra i più celebri italiani di levatura internazionale. Era un intellettuale, aveva studiato anche in Germania e ha avuto confronti con altri intellettuali del tempo. Cresciuto fra i templi greci della sua città, si è nutrito del mito classico in veste della sicilianità dei suoi tempi, nel fondo teneva uno strato di romanticismo e di filosofia. È riuscito a innovare il teatro e ha “sprovincializzato il teatro siciliano”. Sostenitore di un’arte rivelatrice dei caratteri reali delle persone.

Nelle sue opere abbiamo l’umorismo, cui dedica l’opera omonima L’umorismo (del 1908); abbiamo la comicità, le situazioni assurde, la metafora della maschera dietro cui viviamo, il sentimento del contrario. I suoi drammi evolvono a sorpresa. Sul piano contenutistico, sotto sotto, presenta intenti sociali e denunce (Morire e vivere insieme; mi sovviene Il fu Mattia Pascal).

I suoi personaggi sono tutti caratterizzati psicologicamente, presentano sdoppiamento dentro la vasta gamma dei sentimenti, del pianto, del riso, dell’inganno, del cinismo. È riuscito a fondere forma e contenuto. Infine la Storti conclude così: “Il linguaggio, unica modalità vitale, tradisce se stesso attraverso il dialogo-monologo dei personaggi che, a causa di una mancata comunicazione, testimoniano la disperazione dell’uomo moderno, la cui solitudine tra le cose trova come unico conforto la parola”. (p.54). Credo si riveli in tal modo nell’Agrigentino il “sentimento del contrario”.

 

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Frank Wedekind (Hannover, 1864 - Monaco di Baviera, 1918), la sua arte viene collocata nell’ambito espressionista. Autore di drammi, fra gli altri, di Lo spirito della terra e di Il vaso di Pandora; in quest’ultima opera, sotto i riflettori, è una donna di nome Lulu, “presentata come l’incarnazione del fascino impossibile da addomesticare per l’ipocrita uomo donatore.” È la donna che incarna l’ambiguità, in ogni senso. Le due opere inizialmente pubblicate insieme furono censurate e in seguito pubblicate autonomamente.

Il nome di Pandora fa esplicito riferimento al mito classico, cioè del sacco che contiene imprigionate tutte le furie per volontà di Zeus. Difatti etimologicamente significa “colei che tutto dona”. Lulu è tutto, nel bene e nel male (è un ninnolo, è Eva, è senza pudore, ha una bellezza angelica e al contrario ha una bellezza demoniaca), gli aggettivi non sono sufficienti a descriverla. Lulu si sente legata soltanto a suo padre, ormai nel regno dei morti.

Nella morale contemporanea di tutti, Lulu (prostituta) non poteva godere del consenso nella società; perciò, per redimersi al giudizio del mondo, l’autore la fa morire per mano di un criminale. Lulu è un “nome balbettato tra l’infantile e l’erotico” che fa tenerezza. La sua ambiguità la porta ad amare un’altra donna, anch’essa segnata da esperienze erotiche. “Sia la Lulu (da tutti donata), che infine la Geschwitz (colei che tutto dona), costituenti due parti indispensabili alla completa costruzione di Pandora, pagano il loro riscatto attraverso una lunga e faticosa catarsi”.

 

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Samuel Barclay Beckett (Dublino, 1906 - Parigi, 1989), drammaturgo, scrittore, poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese. Al contrario di molti autori la sua drammaturgia è ridotta all’osso, si appoggia su eventi minuti insignificanti, quasi senza nessi logici, un paradosso. Il suo viene definito “Teatro dell’assurdo”. Eppure traccia profili umani dei personaggi; specie nelle sue opere teatrali più famose Aspettando Godot (1952) e Finale di partita (1957), egli mette in luce la “crisi di identità tra elegia e parodia giullaresca”.

Sottolinea l’incomunicabilità umana, attraverso un linguaggio comune, quasi dimesso, di tutti i giorni della chiacchiera quotidiana. I suoi personaggi sono fortemente caratterizzati fisicamente e simbolicamente (per esempio con menomazioni fisiche).

 

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LA POESIA

 

Ed eccoci alla terza sezione di Itinerari di letteratura del Novecento, di Maria Angela Eugenia Storti. Come si può notare tutti gli autori presi in esame vissero e operarono soprattutto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Dunque nell’ambito della poesia diventa argomento il rapporto tra l’Io (obsoleto) e il Noi (che avanza), il tema dell’esistenza, l’uso del simbolismo, quindi il “correlativo oggettivo”. E cioè giungere al lettore usando forma e contenuto che facciano presa su meccanismi psico sociologici. Ebbene la realtà del mondo senza false illusioni, sono i motivi che accomunano Montale ed Eliot.

Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981), uno fra i più grandi poeti italiani mette in atto la sua poetica attraverso la sua prima raccolta, Ossi di seppia (1925); dove “ossi” sta per precarietà della vita, da cui deriva “il male di vivere”, l’angoscia di vivere. E anche Thomas Stearns Eliot, di cui si è scritto più sopra, a proposito, in particolare, de Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (1911), esprime il senso della solitudine nella sua prima poesia, in cui Prufrock è (pressappoco) l’uomo che non sa amare e si chiude in sé stesso, ma deve prendere coscienza.

Entrambi scelsero una lingua di uso ordinario (di uno di Noi), uno stile asciutto, ridotto all’essenziale; nondimeno “Di difficile comprensione appare l’opera di Montale per molti, e per altri Eliot fu considerato un poeta elitario, la cui gelida intelligenza gli impediva di condividere le comuni emozioni umane.”

 

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Maria Angela Eugenia Storti si congeda definendo gli scrittori, coinvolgenti, “apostoli dell’immaginazione”, donatori ai lettori di “pezzi di vita” (mie virgolette). Penso che recensire un volume come Itinerari di letteratura del Novecento, che comprenda una raccolta di saggi, diventi un’impresa ardua. Tratta di otto autori fra i massimi del panorama letterario, di cui sei sono Premi Nobel: Mann, Eliot, Beckett, Wedekind, Pirandello, Montale (Kafka e Woolf, probabilmente non fecero in tempo). Recensire diventa un impegno non indifferente, una scommessa; argomenti così specifici, anche a procedere a passo d’uomo, come si suol dire, rischiano di fare prendere cantonate.

In chiusura desidero compiacermi della presenza di due poeti italiani, uno del Nord, l’altro del Sud, che rappresentano due realtà diverse, sia pure in tempi differenti. Questi Itinerari meritano certamente molto di più; tuttavia penso che anche una interpretazione zoppa possa tornare utile, quanto meno stimolante e illuminante per imprese analoghe. La lettura è interessante e coinvolgente, perché se ne vorrebbe sapere sempre di più, anche perché i temi trattati sono attuali.

 

Tito Cauchi

 

 

 

Maria Angela Eugenia Storti, Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione, pref. di Lea Di Salvo, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 82, isbn 978-88-31497-99-2, mianoposta@gmail.com.

 

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Gabriella Frenna, "Regina Nefertiti"

2 Aprile 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #tito cauchi, #recensioni, #poesia, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

 

Gabriella Frenna

 

REGINA NEFERTITI

Mosaici di Michele Frenna

 

Sono certo che ai lettori di varie testate culturali e di arte, non passi inosservato il nome di Gabriella Frenna, sia perché è scrittrice e poetessa (o poeta, come si vuole che si dica), sia perché il suo nome è lodevolmente legato a quello del padre, maestro mosaicista Michele Frenna che cito per la reputazione guadagnatasi (Agrigento 10 luglio 1928, Palermo 5 ottobre 2012). Stavolta la Nostra si ispira alle composizioni mosaicali richiamanti l’antico Egitto e precisamente la Regina Nefertiti, dalla quale l’opera poetica, che trattiamo, prende titolo e immagine di copertina.

Marco Zelioli, prefatore di Regina Nefertiti, fa un breve cenno anagrafico di Gabriella Frenna (messinese di nascita ma palermitana di elezione) e riferisce che i mosaici sono realizzati con minuti tasselli di vetro policromo che, per la perfezione compositiva, sembrano creare opere pittoriche e, soprattutto, sottolinea che ella “trae ispirazione” dal padre. Quanto alla forma afferma: “Colpisce subito il lettore come le poesie di Regina Nefertiti alternino con leggerezza i riferimenti al passato remoto (l’antica “mirifica” civiltà egizia), a quello prossimo (il padre che “incanta” le figlie col racconto delle meraviglie di quella civiltà”); mi sembra un modo alquanto succoso ed esaustivo.

Il critico inoltre, riferisce che Angela Ambrosini, a sua volta, afferma che la forma dialogica dei versi rende attrattiva la lettura e la descrizione delle opere musive, e le narrazioni storiche e leggendarie sono coinvolgenti. E con Enzo Concardi, conclude dicendo che la raccolta costituisce “un itinerario, oltre che letterario ed artistico, anche spirituale, culturale, storico, entrando in un’avventura non scevra da dimensioni oniriche (…), cioè con lo sguardo sempre meravigliato” dell’Autrice; meglio non poteva dirsi.

La raccolta comprende circa sessanta componimenti che confermano quanto sopraesposto in merito ai contenuti e alla scelta del prosimetro (ovvero di prosa e versi insieme). Come è detto in premessa Gabriella Frenna svolge un excursus storico e insieme leggendario sull’Egitto, al tempo dei faraoni, lo fa con leggerezza espositiva pregevole che merita essere ripercorsa. Descrive la posizione geografica dell’Egitto attraversato dal sacro fiume Nilo dall’altopiano del Sahara fino al Mediterraneo, fiume che ha fatto la grandezza dell’Impero Egizio già tremila anni avanti Cristo, grazie alle piene ricorrenti che fornivano acqua alle popolazioni e alle coltivazioni. Questo raccontava Michele Frenna affascinando e facendo fantasticare le giovani figlie.

Il greco Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.), primo storico, descriveva già le sfingi che sembrano ancora oggi delle sentinelle regali; sono monumenti di grandi proporzioni con testa umana e corpo di leone. Nella cultura ellenica le sfingi venivano interrogate, per ricevere un responso; esse davano risposte enigmatiche che originavano drammi e tragedie come quella riguardante Edipo in terra tebana in Grecia (fra i massimi tragediografi si veda Sofocle, sempre nell’età classica).

Questa Regina Nefertiti offre a Gabriella Frenna una sorta di percorrenza memoriale al seguito del genitore per momenti vissuti e per luoghi visitati e fantasticati, come nel museo del Louvre e la piramide di vetro a Parigi. È la stessa Autrice che ammette: “Mi piace retrocedere/ in storia millenaria/ per carpire la vita/ del popolo egiziano.” (p.26), e scoprire il mistero affascinante, provare la grande ammirazione che suscitano le famose piramidi e le strutture architettoniche che ancora oggi stupiscono. Riconoscere il valore del Nilo, alle cui rive numerose colonne formavano una “foresta di pietra”; alle sue piene si legava l’anno suddiviso in tre stagioni. Veniva stimolata a scoprire l’aura misteriosa e sacrale, la simbologia arcana, la scrittura enigmatica di un’antica civiltà.

 

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Finalmente eccoci (al XIV sec. a.C.) alla “storia di Nefertiti/ regina e sposa amata/ dal faraone Akhenaton” (p.56), che ruota intorno al sole divinizzato con il nome di Aton; difatti il marito Amenofi IV ha assunto il nome di Akhenaton, volendo rivelare la natura divina del sovrano, essere figlio del dio Sole Aton e sole lui stesso. Il Faraone spostò la capitale dalla città di Tebe, nel nord dell’Egitto, fondandone una nuova sulla riva orientale del Nilo, denominandola Akhetaton, ossia “orizzonte di Aton”, l’attuale Amarna. Fu un faraone illuminato che favorì le arti; nella sua concezione “Il dio Aton creatore/ era padre e madre” (p.59), perciò pose la sua sposa al suo stesso rango. La regale coppia viene raffigurata e replicata per secoli, insieme alle “amate figlie” (p.64). Mi sorge spontaneo l’accostamento delle “amate figlie” della regale coppia, con le “amate figlie” Frenna (Rosanna e Gabriella), cosa che esalta ancora di più la sublimazione dell’amore filiale.

Gabriella Frenna ricorda che il padre narrava di antiche dinastie dei regnanti dell’Alto e Basso Egitto; usava vetrini di colore bruno per gli uomini e giallo per le donne, inoltre le proporzioni delle figure corrispondevano al loro “prestigio sociale”. Nella leggenda o nella tradizione antica, Nefertiti, ad opera degli dei Thot e Shou, incarna la dea che dona l’amore; perciò, tornando al maestro, Michele Frenna, egli diceva alle sue “amate figlie” riferendosi alla Regina: “La bella è arrivata” anche nel suo bel mosaico.

Questa raccolta monotematica costituisce una poesia poematica, una sorta di storia dell’Arte che diletta il lettore con le puntualizzazioni dell’Autrice su alcuni particolari da lei illuminati: così il sole Aton, rappresentato da un disco i cui raggi sono tante mani per simboleggiare ricchezza (a piene mani, appunto); le piramidi che sono orientate con gli astri, col sorgere e col tramontare del sole, grandi per significare il prestigio e la potenza dell’Egitto, nonché il vertice che si innalza al cielo; e così via. “Diodoro Siculo narrò/ che i blocchi di pietra/ dalla terra d’Arabia/ furono trasportati/ nel deserto egiziano” (p.40). (Diodoro nativo di Egira, nel I sec. a.C., in provincia dell’odierna Enna).

A costo di ripetermi (come in altre occasioni) sono convinto che le rievocazioni dell’amato padre producono piacevolezza e donano conforto, così finiscono per generare nella Nostra un desiderio di cui non vuole staccarsi, perciò si spiegano le ridondanze. Nondimeno la sua esposizione sa di freschezza che riesce a intrattenerci e a trasmettere tanta tenerezza che giova rinnovare. Mi piacere chiudere la Regina Nefertiti con questo pensiero di Gabriella Frenna: “Rimembro tue parole/ nello svelare pensieri, / aspetti e sensazioni, / (…) / nella tua arguta voce, / nel rievocare emozioni, / (…) / trasmessi con acume/ da tua mente estrosa.” (p.76). Spero di non essere stato agiografico; ho voluto sostare su un viaggio della memoria che esprime il valore degli affetti.

Tito Cauchi

 

 

 

Gabriella Frenna, Regina Nefertiti, Mosaici di Michele Frenna, Pref. Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-18-9, mianoposta@gmail.com.

 

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