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Gordiano Lupi, "Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino"

25 Ottobre 2024 , Scritto da Redazione Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

 

 

Gordiano Lupi

Calcio e acciaio- Dimenticare Piombino

Il Foglio Letterario

 

“Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino” nel decennale della sua prima edizione con Acar Edizioni, viene rieditato e riportato in libreria dal Foglio Letterario Edizioni

 

Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino racconta con amore e nostalgia una storia ambientata in un suggestivo spaccato maremmano.

Ultimo libro di una lunga serie dell'autore e traduttore piombinese Gordiano Lupi, Calcio e acciaio, dimenticare Piombino é stato uno dei libri finalisti al Premio Strega 2014 e il vincitore del Premio Bovio a Trani e il Premio Città di Massa.

 Il calcio e l’acciaio fanno da cornice a questo libro che grazie ai suoi protagonisti parla di amore - per una donna, per la propria città Piombino e un amore mancato -, di ricordi del passato, di vita vissuta. Attraverso Giovanni, il calciatore che, dopo il successo, torna alle sue radici, nel paese dove ha trascorso l’infanzia e Tarik il marocchino arrivato in Italia per cercare fortuna e grazie alle sue abilità calcistiche ha il suo riscatto di vita, percorriamo questo viaggio tra presente e ricordi passati.

 

“Aldo Agroppi era amico di sua madre, viveva in via Pisa, un quartiere di famiglie operaie, case bombardate durante la Seconda Guerra Mondiale, tragiche ferite di dolore, macerie ancora da assorbire. Giovanni ricorda una foto di Agroppi che indossa la maglia della Nazionale, autografata con un pennarello nero. Era stato proprio Agroppi in persona a dargliela, all’angolo tra corso Italia e via Gaeta, in un giorno di primavera di tanti anni fa, dove la madre del calciatore gestiva una trattoria, un posto d’altri tempi, dove si mangiava con poca spesa. Giovanni era un bambino innamorato dei campioni, giocava su un campo di calcio delimitato dalla sua fantasia, imitava le serpentine di rombo di tuono Gigi Riva, i virtuosismi di Sandro Mazzola, le bordate di Roberto Boninsegna, le finte dell’abatino Gianni Rivera e la vita da mediano di Aldo Agroppi, cominciata a Piombino e conclusa a Torino”.

 

La scrittura di Lupi ci rende partecipi delle vicissitudini del protagonista, dei suoi ricordi e dell’ineluttabilità della sua vita. Tutto calato in un ambiente che accoglie e ben si presta a momenti di raccoglimento a favore di recenti ricordi, vecchi e nuovi amori e incontri. Piombino è a tutti gli effetti co protagonista.

 

Il libro è acquistabile su prenotazione in libreria e online su tutti gli store digitali.

 

IBS: https://www.ibs.it/calcio-acciaio-dimenticare-piombino-libro-gordiano-lupi/e/9791256860272?srsltid=AfmBOootCDUyp8u7pPypjF0JZP5iYiiLSPD-Z55tgy0OX_LVvx0Qm8ly

EBOOK AMAZON: https://www.amazon.it/Calcio-acciaio-dimenticare-Gordiano-Lupi-ebook/dp/B00O2AA8V0

 

 

Note biografiche:

 

Gordiano Lupi (Piombino, 1960) collabora con PoesiaFuturo EuropaInkrociLa Folla del XXI SecoloQui NewsValdicornia, La Rivista degli Italiani in Francia e altre riviste. Dirige Il Foglio Letterario Edizioni. Traduce gli scrittori cubani Alejandro TorreguitartRuiz, Felix Luis Viera, Zoé Valdés, HebertoPadilla e Guillermo Cabrera Infante. Tra i molti lavori editi, ricordiamo: Nero Tropicale, Cuba Magica, Un’isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana, Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura, Almeno il pane Fidel, MiCuba, Fellini - A cinema greatmaster, Fame - Una terribile eredità, Storia del cinema horror italiano in cinque volumi, Soprassediamo! - Franco & Ciccio Story. Ha tradotto La ninfa incostante di Guillermo Cabrera Infante (Sur, 2012). I suoi romanzi più importanti: Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino– Storia di Marco e di un gabbiano e Sogni e altiforni - Piombino Trani senza ritorno (presentati al Premio Strega 2014, 2016, 2019). Libri recenti, giugno 2022 e giugno 2023, con il fotografo Riccardo Marchionni: Amarcord Piombino - vol. 1 - I ragazzi di via Gaetae Mi rammento Piombino – Tanta bellezza non la catturerai (Amarcord Piombino vol.2). Nel 2024 ha pubblicato Il fantasma di Alessandro Appiani e La grande bellezza - Raccontare Piombino per immagini (con il fotografo Francesco Viegi). Per la poesia ha pubblicato La città del ferro (2023). Lavori recenti a tema cinematografico: Gloria Guida, il sogno biondo di una generazione, Tutto Avati – Il cinema di Pupi Avati, Il cinema rovente di Umberto Lenzi e Il cinema dei fratelli Vanzina. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/).

Pagine web: www.gordianolupi.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

 

I Ricordi del nonno

(da Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, 2014 – presentato al Premio Strega)

 

2.

 

Giovanni si dirige verso lo Stadio Magona, percorre a passi lenti viale Regina Margherita, e pensa a suo padre, operaio delle Acciaierie, morto quando lui giocava le ultime stagioni nella squadra della sua città. Si chiamava Antonio, era un uomo abituato al caldo soffocante dell’altoforno, un lavoro fatto di gesti ripetuti alla catena di montaggio. Una giornata di fatica per un salario appena sufficiente a pagare l’affitto di un appartamento popolare in un condominio annerito dai fumi della ferriera e a imbandire una mensa che poteva permettersi carne solo nei giorni di festa. Alimentava una macchina infernale che divorava carbone per restituire fumo e prodotto grezzo composto di acciaio. Antonio aveva le mani callose indurite dal lavoro e pensava alla terra lontana, agli olivi abbandonati, alla madre che lo attendeva sulla porta di casa di un paese alle pendici di un monte. Rammentava la sua festa preferita mentre lavorava in ferriera, una festa che anche Giovanni aveva amato da bambino, quella sagra delle ciliegie nei giorni di maggio, quando il colore rosso invadeva il borgo e apriva le porte ad antichi sapori. Giovanni ricorda quando le sue agili gambe di bambino correvano insieme ai ragazzi per rubare ciliegie a grappoli, sporcandosi la bocca e il viso, attaccando i piccoli frutti alle orecchie come fossero campanelle. Antonio coltivava i campi insieme al padre, che un tempo aveva fatto la spola a piedi per tutta la vallata, da Sinalunga a Montalcino, passando per Pienza e San Quirico, con un ciuco carico di legna per il camino di casa, una casa sempre viva, con lui e il fratello che giocavano a nascondersi irritando la madre, mentre la nonna sgranava il rosario seduta sulla sedia a dondolo in canna di bambù. Antonio aveva estirpato le sue radici montanare per avventurarsi lungo strade polverose fatte di fatica e privazioni. La giovinezza e le sue gambe che correvano leste per le strade del mondo lo avevano spinto ad abbandonare il borgo per un lavoro lontano che appagasse il desiderio d’una vita tranquilla.

Il nonno aveva avuto una vita avventurosa. Terracina e il golfo di Gaeta erano le fotografie del passato, i pini marittimi sul lungomare di Formia custodivano i ricordi dei primi baci d’amore. Giovanni ripensa spesso ai racconti del nonno, ascoltati da fanciullo prima di andare a dormire e custoditi dai ricordi paterni. Un grande amore lasciato sul lungomare e via verso il futuro. Un sogno chiamato America non poteva attendere, era il miraggio del povero emigrante in cerca d’una vita migliore.

Francesco, perché devi lasciarmi? Non possiamo costruirlo insieme questo futuro?”, aveva detto Caterina al suo uomo in fuga, ormai deciso a salpare sul battello che lo avrebbe portato lontano.

Francesco aveva scosso la testa e intonato una canzone provando a chiedere perdono a quel cuore in pena.

Il nonno aveva avuto molte donne, ma Caterina affiorava spesso dai ricordi del passato: aveva le spalle minute, il portamento fiero e una vita perduta giovane. Silvia era il sogno dal sapore acre della terra d’Aspromonte, una voglia di vivere che proveniva da antenati abituati a scavalcare montagne per condurre animali al pascolo, al riparo dai venti. Le altre non le rammentava, non ne parlava mai, erano misteriosi sentimenti nascosti dalle ombre della sera, raffiche di tramontana che nascondevano barlumi di memoria.

Il nonno di Giovanni era stato in America a cercare fortuna, come i disperati che in quei giorni approdavano lungo le coste siciliane, a Lampedusa, ricacciati in mare, deportati in lager recintati da filo spinato, cacciati via come figli di nessuno. La sua nave aveva alzato l’ancora e acceso i motori, con lui passeggero di terza classe compagno di topi e valigie ammucchiate in una stiva polverosa. Francesco partiva insieme a tanta povera gente, con la testa zeppa di impossibili sogni a stelle e strisce. L’Atlantico diventava una fuga dagli amori e dal lavoro come cameriere nel ristorante sul porto. L’America aveva aperto le braccia al nonno, gli aveva insegnato la sua lingua, un nuovo modo di esprimersi fatto di gesti e di larghi sorrisi. Il sudore della fronte e il lavoro non erano diversi dalla sua terra, ma questo non lo spaventava. Francesco aveva lavorato in una filanda, mentre le prime auto percorrevano le strade di New York, aveva rubato amore nei postriboli notturni e mangiato nei retrobottega di ristoranti dove lavava piatti per arrotondare un magro stipendio. Incontrava italiani emigranti, proprio come lui, seduti ai tavoli dei bar, parlavano d’una terra lontana, di speranze mai abbandonate. Proprio come gli emigranti di oggi che affrontano viaggi da disperati, pensa Giovanni. Uno di loro ha cominciato da pochi mesi ad allenarsi con il Piombino, viene dal Marocco, è un ottimo attaccante, rapido e guizzante, un vero incubo per le difese avversarie. Giovanni crede in quel ragazzo, punta su di lui per la prossima partita di campionato, quando la sua squadra dovrà affrontare il derby del canale contro l’Isola d’Elba. Tarik è il nome del giovane marocchino in cui Giovanni si rivede, rivede le sue serpentine verso la porta avversaria, rivede la stessa voglia di sfondare nel mondo del calcio.

Se riuscissi a far carriera nel calcio potrei comprare una casa per la mia famiglia, in Marocco”, mormora.

Giovanni sorride.

Non correre troppo. Pensa alla partita di domenica, intanto”.

Emigranti. Pure noi siamo stati un popolo di emigranti. Sembra che nessuno se ne ricordi. Il nonno di Giovanni aveva disegnato santini e angeli per biglietti di auguri, volti di donne lontane per cartoline d’amore, cavalli dalle briglie sciolte che prendevano il volo verso patrie dimenticate. Non aveva mai smesso di coltivare un’abitudine appresa in terre lontane, scriveva lunghe frasi in inglese che abbandonava sulle panchine, sgrammaticate, zeppe di errori, ma era la lingua del popolo, imparata per sopravvivere. Povera gente andata al di là del mare, a bordo di inaffondabili Titanic, per fare fortuna, anche se spesso la fortuna restava un fiore non colto. Francesco diceva sempre di averla trovata quella fortuna, il viaggio aveva dato un senso alla sua vita, aveva conosciuto mondi nuovi ed era riuscito a superare difficoltà insormontabili. A quel tempo eravamo gli italiani mafiosi, mangiaspaghetti, banditi e traditori, brutti, sporchi e cattivi, come in un vecchio film di Ettore Scola. Il nonno aveva attraversato strade polverose, conosciuto paesi dei quali non ricordava i nomi, amato donne dai sorrisi misteriosi, nascosto malinconie quando si sentiva disprezzato e rifiutato. Non era americano, tanto bastava…

Tarik fugge dal Marocco, dalla miseria e dalla disperazione. A Piombino fa il manovale in una ditta edile, mentre per una piccola squadra di calcio è lo straniero che segna gol a raffica e risolve problemi d’attacco. Giovanni crede in lui. Ha modificato l’assetto tattico in funzione delle sue rapide serpentine che aggirano le difese avversarie. Vede nella sua espressione assente, che spesso si fa cupa e ombrosa, la nostalgia dei suoi avi emigrati in paesi lontani sperando di tornare. Francesco era rientrato in Italia per combattere, assaporando il gusto acre della polvere da sparo, in trincea, per poi finire in un campo di concentramento austriaco e scappare da un condotto di scarico. Anni di sofferenza, di fame, di paura nascosta agli occhi degli altri, lettere alla madre lontana, rifugiata in una collina a cogliere ciliegie nel mese di giugno, covare speranze, cuocere castagne d’inverno in padelle forate e spremere olive per fare l’olio più buono del mondo. Giovanni ricorda il profumo del succo d’oliva e il suo sapore sul pane, quando era bambino. Sapori e profumi che non ritornano, come soldati uccisi in battaglia da colpi di fucile. Francesco era lontano e la madre attendeva con il cuore in pena nella piazza del piccolo paese. Le raffiche della mitraglia, i cannoni, la guerra fatta di piccoli passi, di buche da scavare, i nascondigli, la neve, la melma, le scarpe sfondate, la fame dei giorni passati a pensare ai giorni futuri, i tramonti dietro le sbarre, i campi di lavoro, infine la fuga, i monti percorsi correndo e sperando di poter ancora parlare italiano.

Giovanni ha sentito raccontare così tante volte l’abbraccio tra il nonno e la madre che gli sembra d’averlo vissuto. La guerra era finita e ai morti si aggiungevano nuovi nomi su lapidi di marmo. Antonio era nato da un uomo che aveva percorso il mondo con un fardello di speranze e le valigie di cartone legate con lo spago. Non poteva spaventarlo il lavoro in altoforno, anche se il mostro minaccioso sembrava osservarlo scuotendo la testa di fumo. Antonio era figlio d’un uomo che aveva sognato l’America per tutta la vita, ma che dopo tante avventure aveva accettato la provincia italiana come approdo. Il gigantesco altoforno aveva segnato il destino di un’intera famiglia, anche Giovanni aveva sempre portato con sé l’odore dello spolverino misto a sentori di salmastro che si sente entrando in città, un profumo di ricordi che diventava nostalgia dopo tanta lontananza. Francesco aveva un figlio da crescere, lo osservava ogni giorno tra le braccia della madre nella povera casa di via Gaeta, vicino all’altoforno, così diversa dalla casa di montagna dei suoi avi, resa scura dai fumi dell’acciaieria, un mostro che rappresentava il pane, unico motivo per andare avanti. Il sorriso della moglie riassumeva tutti i sorrisi delle donne che avevano attraversato la sua esistenza. Il figlio avrebbe fatto la sua stessa vita, scandita dalla sirena della fabbrica, come un grido di dolore nella sera, come un richiamo per un popolo di operai che si tramanda un mestiere di generazione in generazione. L’altoforno come un altare pagano dove sacrificare l’esistenza e sognare un futuro migliore.

Giovanni ce l’ha fatta a non finire in fabbrica, grazie al calcio, ma soprattutto a suo padre. La vita di Antonio era stata di sudore e lavoro dentro il mostro d’acciaio, quell’uomo così silenzioso e scontroso una volta aveva pronunciato una frase che al figlio piaceva ricordare: “Il giorno più bello della mia vita è stato quando mi hai chiamato babbo per la prima volta”, disse. “Anche quando ti ho visto debuttare a San Siro è stato bello. Ma quella è un’altra cosa”, aggiunse con un sorriso.

I cancelli dello Stadio Magona sono spalancati, enormi fauci aperte a divorare la sera, colorati di verde, corrosi dalla ruggine e screpolati dal salmastro. Mattoncini rossi uno sopra l’altro, marmo bianco poroso, colonnine di tufo, finestroni enormi alle biglietterie. Giovanni varca i cancelli come quando giocava al centro dell’attacco o da battitore libero, la borsa sportiva come un calciatore, i ricordi che si rincorrono nel pomeriggio mentre il pensiero corre verso la prossima partita. Soffia un vento di scirocco che scompiglia capelli e pensieri.

 

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Incipit e immagini: "Galeotto fu l'inferno"

24 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

 

Immagine generata con Microsoft Designer AI

 

"Prima della nostra rottura, tanti anni fa, mi confidava i suoi progetti. E lo chiamavo ancora padre. Ora lo chiamo il mio Creatore e non so più cosa pensi. Mi sorge persino il dubbio che abbia smarrito il senno come tutti vecchi e le cose gli stiano sfuggendo di mano."

 

Da "Galeotto fu l'inferno" di Patrizia Poli

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Vincenzo Meo, "Oggetti Preziosi"

23 Ottobre 2024 , Scritto da Raffaele Piazza Con tag #raffaele piazza, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Vincenzo Meo

 Oggetti Preziosi

 Guido Miano Editore, Milano 2024

 

La raccolta di poesie Oggetti Preziosi (Guido Miano Editore, Milano 2024) di Vincenzo Meo presenta due prefazioni: una di Michele Miano e l’altra di Romeo Iurescia, ntrambe centrate e ricche di acribia, e anche una nota critica di Vincenzo Bendinelli.

La silloge è scandita nelle seguenti sezioni: “Cielo grigio e squarci azzurri”, “Una luce diversa”, “Anonima”.

Significativa la poesia eponima che non a caso è la prima del testo e che in modo incontrovertibile ha un carattere programmatico; “Da ragazzo/ mi avventuravo lungo il fiume/ cercando oggetti preziosi/ fossili, radici, pietre rare/ e tutto ciò che vi fosse/ di insolito e sconosciuto./ poi ad un tratto/ abbandonai quel mondo/ di palpabili oggetti,/ per cercare dentro di me/ oggetti più preziosi”.

Nella suddetta composizione si assiste ad uno spostamento dell’attenzione da parte dell’io-poetante dal mondo delle cose esterne e tangibili all’interiorità del poeta stesso, sfere che hanno in comune la possibilità di contenere cose preziose per la vita e del resto fossili radici e pietre rare divengono correlativi oggettivi per una ricerca simbolica del senso della vita stessa di cose fisiche che sopravviveranno al poeta e a tutti pur essendo inanimate.

Poi per un secondo livello il poeta per un forte impegno etico si ripiega su se stesso per trovare nella sua psiche cose preziose e da questo scavo nasce, scaturisce la poesia stessa che è l’unica cosa che può salvare.

Una forte e insolita chiarezza caratterizza i componimenti di Meo che sembrano sottesi ad una scaltrita e intelligente coscienza letteraria.

La luce e le tinte numinose presumibilmente del cielo sembrano essere dette controcampo quasi come antidoto al male e alla violenza del mondo che turba Meo che però è perfettamente convinto che la vera felicità è nel bene e che una persona possa essere nel carattere fortissima e anche buona in una stabile gioia e che la poesia stessa può nell’attimo fermare il tempo in una forma d’infinito diversa da quella leopardiana se c’è un’uscita trascendente e ogni fenomeno è morale.

Quanto suddetto è colto anche da Michele Miano nella sua prefazione e accade così che il pessimismo di fondo diventi ottimismo. Scrive infatti Miano che Vincenzo affronta la scrittura letteraria come affronta la vita di ogni giorno con forza, dignità e fiducia e con quello sguardo pulito e profondo dell’artista che non teme di scontrarsi con lo squallore della violenza della degradazione dei valori etici di una società ormai alla deriva.

Non è solo la poesia che salva, perché intimamente connessa alla poesia stessa il poeta per la sua redenzione crede in Dio e fa bene a gettare su di Lui ogni sua ansia e ogni suo dolore e nella poesia Grazie Signore scrive: “ Grazie Signore!/ per averci dato le stelle che ci fanno un po’ di compagnia/ in questo mondo così triste e solo“.

Intrigante un componimento della prima sezione che contiene il concetto della poesia nella poesia intitolato Un poeta; “Un uomo/ un operaio/ un medico/ un professore/ uno scienziato il capo di una nazione/ un poeta/ qualcosa di più/ qualcosa di diverso".

Una vena e un’ispirazione poetica originali in questi componimenti connotati da chiarezza e da eleganza e la loro semplicità sottende la complessità di in pensiero intelligente e profondo che produce un interessante esercizio di conoscenza.

Raffaele Piazza

 

Vincenzo Meo, Oggetti Preziosi, prefazioni di Michele Miano e Romeo Iurescia, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 128, isbn 979-12-81351-35-6, mianoposta@gmail.com.

 

 

                   

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Incipit e immagini: Post Partum

22 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

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"Nomen omen, eh, mamma? Ma tu non sei Pietro, il pescatore, su quella pietra non hai edificato proprio un bel nulla, sei un grumo di acido e di livore!"

 

Da "Post Partum" di Federica Cabras e Patrizia Poli

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Incipit e immagini: "La pietra in tasca"

21 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

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Se mi fossi voltata non le avrei viste, per questo continuavo a salire controvento, ostinata, con gli stivali che schizzavano terra, che affondavano e si bagnavano di torba umida. Potevo così immaginarne i passi, i corpi che fendevano l'aria, che occupavano uno spazio adesso vuoto, che non sarebbero mai cresciuti. Maria ed Elisabeth: le mie sorelle morte.

 

Da "La pietra in tasca" di Patrizia Poli

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Incipit e immagini: "Axis mundi"

20 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

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L'ombra si mosse lungo la tenda divisoria e la parte inferiore del mostro cadde a terra. La testa mastodontica irta di punte ansimòl. Nella camera c'era rumore di ferraglia mescolato al vento di gennaio che mugghiava dalla finestra.

 

Da "Axis Mundi" di Patrizia Poli

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Incipit e immagini: "Una casa di vento"

19 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

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Sale la scala a piedi, senza accendere la luce. Gli par di sentire Michela: "Hai tanto insisitito per l'ascensore e ora non lo prendi?". Gira la chiave ed entra, lo accoglie la vampa dei termosifoni, s'infila in camera di suo figlio, subito sulla destra, con la porta spalancata.

 

Da "Una casa di vento" di Patrizia Poli

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Incipit e immagini: L'ultima luna

18 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

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Vivere sull'orlo del Masai Mara, nei primi anni Ottanta, comportava una certa quantità di problemi, vista la presenza di leoni, serpenti, scorpioni, ragni giganteschi.Tali ostacoli non spaventavano Jeff Connelly, che di proposito aveva scelto quella vitae in cuor suo non l'avrebbe cambiata con nessun'altra.

 

Da "L'ultima luna" di Patrizia Poli

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Incipit e immagini: "L'isola delle lepri"

17 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

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Nel 1242 le orde di Batu, nipote di Gengis Khan, dopo aver saccheggiato i territori della Russia, dell'Ucraina e della Polonia, dilagano in Ungheria. Sono cinquecentomila, a cavallo e feroci. 

 

DA "L'isola delle lepri" di Patrizia Poli

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Incipit e immagini: "Signora dei filtri"

16 Ottobre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #immagini AI

 

 

 

Un tempo facevo dei segni sulla corteccia degli alberi. Ho smesso quando ancora le mie gambe non erano storte, i seni non somigliavano a due frutti vizzi e i capelli non avevano il colore della sabbia. Adesso conosco tutte le voci del mare.

 

Da "Signora dei fitri" di Patrizia Poli

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