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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)
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C'era una volta la Romagna: il capofamiglia

21 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

 

Le famiglie erano numerose, spesso nella medesima casa i bambini vivevano con tanti zii, tanti fratelli e nella famiglia patriarcale il nonno era l'unico, indiscusso, capofamiglia, l'unica vera autorità riconosciuta da tutti. Comandava sui figli, sui nipoti, sui lavori da compiere, decideva quali le bestie da vendere, e quali le spese da fare al mercato. Nella piazza del paese, dove si svolgeva ogni settimana il mercato agricolo, il nonno andava a trattare l’acquisto e la vendita del raccolto o degli animali, erano contrattazioni estenuanti che potevano durare per ore, poi, improvvisamente, il tutto si concludeva con una stretta di mano, una pacca sulle spalle e l’accordo tra galantuomini era fatto.

Aggrappata alla giacca di mio nonno assistevo alle trattative e ricordo che quando lo sentivo parlare della vendita di un capo di bestiame mi chiedevo quale mucca sarebbero venuti a caricare per portarla al macello. Io davo un nome a tutte Bianchina, Milva, Bionda, Negra, Gina, Pina, Gioconda e le riconoscevo una per una, quando poi si trattava di un vitellino allora piangevo. Il nonno aveva un portafoglio grande fatto come un organetto e quando lo apriva pensavo a quale musica abbinarci a seconda del tempo che lo teneva aperto o lo richiudeva o lo riapriva, mentre parlava coi commercianti, trattando sul prezzo. Il nonno era tirchio, “tirava” anche sul costo di una dozzina di uova e ci ha insegnato l'amore per la terra, il valore dei soldi, dei sacrifici, della fatica e del sudore della fronte.

Dopo ogni mietitura, ordinava a noi bambini di andare a “spigolare”. Si trattava di percorrere i campi dove il grano era stato mietuto in cerca di spighe cadute dai covoni e rimaste a terra. Nulla doveva andare perduto. Noi ubbidienti facevamo a gara a chi arrivava prima correndo ognuno col suo secchio, incuranti delle ferite che ci procuravano le stoppie acuminate nelle gambe nude. Raccoglievamo grano da portare a casa che sarebbe servito per i polli e, pulendo una manciata di chicchi, li masticavamo tenendoli in bocca. La crusca formava una specie di colla dolciastra tanto da farla sembrare una gomma americana. Era la nostra gomma americana certamente più salutare e ricca di vitamine e, quando eravamo stanchi di masticare, la ingoiavamo contenti.

Negli anni il nonno si era fatto scarno, era rimpicciolito, non era più l'uomo imponente che ci prendeva a “scappellate” quando eravamo troppo monelli, stava quasi tutto il giorno tra i pagliai dietro casa, seduto con lo sguardo fisso. Si sentiva stanco e si vergognava di non essere più utile per lavorare la terra, si rifugiava nella stalla e quando non andava su e giù fra le bestie, con un forcale sulle spalle, se ne stava su una sedia spagliata, ai piedi di una posta vuota tra nidiate di pulcini pigolanti. Cominciò a declinare piano piano. Mi sembra ancora di vederlo, col suo vincastro, ormai utile solo ad allontanare le mosche, mentre le vacche ruminavano quiete. Il sigaro toscano sempre a lato della bocca, avvolto da una nube azzurrina di fumo, il pastrano addosso e il cappello a larghe falde calato in testa. Baffi rossi come i capelli, la sua ombra si allungava, tremolante in mezzo alla stalla. Il suo ricordo è forte e presente come l’ultima volta quando ci siamo salutati tanti anni fa e lui è andato ad amministrare una tenuta in Paradiso.

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L'edicola del tempo

20 Febbraio 2017 , Scritto da Diego Popoli Con tag #diego popoli, #racconto

 

 

 

Aprile 1978. Un sole gentile riscalda il porfido del grande viale pedonale che, insieme a mia madre, mi accompagna a casa. Sulle spalle il peso della cartella e di una pesante giornata di scuola conclusa con il compito in classe a sorpresa di geografia. Per tirare su il morale ci vorrebbe una bella bustina di trasferelli. Cosa sono i trasferelli? Sarebbe meglio dire cosa erano. Si trattava di un cartoncino ruvido sul quale era disegnato uno sfondo, uno scenario per intenderci. Fantascientifico, storico, western ecc... Insieme ti venivano date delle veline con dei personaggi, tu non dovevi fare altro che ricalcarle vigorosamente con una matita e poi… Strap! E magicamente il tuo astronauta, il tuo robot, il tuo centurione, rimanevano lì, fissati per sempre su quei venti centimetri quadrati di fantasia. I miei preferiti erano quelli con i dinosauri. Giorgio, il signore dell’edicola, me ne teneva sempre da parte una confezione, perché sapeva che alla fine, in un modo o nell’altro, l’avrei avuta vinta. Come quel giorno. Al solito, pochi soldi nella borsetta, ma tanta voglia di farmi contento. I trasferelli certo, ma anche la scusa per aprire una parentesi nelle fatiche scolastiche ed entrare in un mondo magico, prima di mettersi di nuovo alle prese con i compiti di matematica. L’edicola, un niente di spazio, tra il panettiere e la farmacia, uno sgabuzzino delle meraviglie, dove stretto stretto tra le riviste di motori e i quotidiani sportivi, tra l’ultima avventura di gatto Silvestro e lo sguardo diabolico di Diabolik, sognavo il mio futuro. Fino quando il Signor Giorgio, una montagna di carne senza fine, con due baffoni che facevano provincia, da altezze siderali faceva piovere la sua manona con una bustina color avana e una scritta blu, che ora non ricordo.

Aprile 2015. Attraverso il parcheggio con sulle spalle ancora il peso e la tensione di una dura giornata lavorativa. Un bambino con in mano un tablet credo, o un’altra diavoleria tecnologica a me sconosciuta, si lamenta per entrare. Non si parla di trasferelli certo, ma i capricci in fondo sono gli stessi. Certe cose cambiano è vero, altre fortunatamente no. Anche oggi l’edicola è il mio luogo di decompressione, un rifugio da stress e tensioni, il mio personalissimo paese dei balocchi, nel quale entrare e, per un quarto d’ora, lasciare fuori il resto del mondo con i suoi casini, i suoi problemi. Dentro mi aspetta William, il proprietario, che per modestia non lo dice, ma credo di recente abbia vinto il premio per la faccia più simpatica d’Europa. Davanti alla porta a vetri prendo un bel sospiro, chiudo gli occhi, entro e… Nel saloon il fumo naviga a mezz’aria, insieme alla puzza di whisky e tabacco. Musica sgangherata da un pianoforte sgangherato, mentre entreneuse della prima ora intrattengono pistoleri dell’ultima ora. E mentre cerco di capire cosa diavolo… Sento scricchiolare il parquet alle mie spalle, sotto il peso di passi di cuoio adornati da speroni. Poi…click. Anni di serate passate sul divano con mio padre e i magnifici sette rendono quel suono inconfondibile e agghiacciante: quello è il rumore del cane di una colt sei colpi a canna lunga. Istintivamente mi giro e me lo trovo di fronte. Da sotto il cappello, mi scruta incuriosito, quasi divertito, prima di puntarmi la canna dritto al cuore. Sorride beffardo, si sfila il mezzo sigaro dalla bocca e: ‹‹Adios amigo››.

Din, din, din, il campanello del forno suona, il dolce è pronto. Una spolverata di zucchero a velo e via, in tavola. La nonna esagera, me ne taglia un super fettone che levati. Che profumo, ma lo sento solo io? E magicamente ritorna quell’età magica nella quale bastava uno spicchio di torta paradiso per ritrovarsi in paradiso. E mentre i denti affondano nella pasta dolce leggermente aromatizzata all’anice…

Din, din, din il cicalino della nave ci avverte che ormai siamo arrivati. L’inglese seduto accanto a noi sul ponte, in una tenuta colonial-improponibile, si alza e punta il dito dritto davanti a sé. Ormai si vede, terra! Per un istante uno spruzzo prepotente mi copre la visuale. Ma quando la schiuma si deposita di nuovo tra le onde, la vedo: quella spiaggia la riconoscerei fra mille. Creta, il mio luogo dell’anima, il posto più bello del mondo dove sdraiarmi al sole con la Barbara, Arianna, Teseo e il Minotauro. E mentre già sogno giorni di dolce riposo e serate al ritmo del Sirtaki…

Din, din, din. La suoneria dello smartphone mi sorprende in macchina, alle prese con gli ultimi rigurgiti del traffico della sera. Meglio rispondere: ‹‹Sei in ritardo. Sei passato in edicola vero?›› Potrei resistere a un interrogatorio dell’ispettore Derrick come a uno dei più moderni CSI, ma non credo di avere chance con la Barbara. Meglio confessare subito il proprio reato: ‹‹Dai muoviti che ti aspetto!›› Mi sfilo l’auricolare e lo appoggio di fianco a me, sopra al DVD appena comprato, quello del western preferito di mio padre, in versione restaurata e integrale, super mega regalo di compleanno. Fra l’altro era in offerta, non mi è costato nemmeno tanto, giusto un pugno di dollari. Più sotto un mensile di cucina con la ricetta di quella torta che mia mamma cercava da una vita e che non ero riuscito a trovare nemmeno su internet. E insieme, la mia rivista preferita di viaggi con uno speciale interamente dedicato alla Grecia, la mia amata Grecia, scusa perfetta per passare una serata con Lei, a programmare insieme le prossime vacanze.

Torno a casa un po’ in ritardo è vero, ma pieno di sorprese per le persone che mi vogliono bene e soprattutto senza tutta quella tensione con cui ero uscito dal lavoro. Con in tasca un briciolo di serenità e che ci crediate o no… una bustina di trasferelli.

 

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Stefano Giannotti, "Alla ricerca dell'isola perduta"

19 Febbraio 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

Stefano Giannotti

Alla ricerca dell’isola perduta

Altromondo Editore – Pag. 140 – Euro 13

Distribuzione Cinquantuno.it

 

 

Alla ricerca dell’isola perduta è un libro che profuma di altri libri, di mare, di salmastro, di ricordi e di tempo perduto. Non l’ha scritto un autore famoso. Non l’ha pubblicato un grande editore. Non c’è dietro alcun fastidioso battage pubblicitario. Resta un grande libro, perché quando il lettore trova se stesso nelle parole di uno scrittore, significa che l’autore ha colto nel segno. Stefano Giannotti scava nelle ferite della vita, ci mette il suo sangue nell’inchiostro virtuale delle parole digitate al computer, cita e dialoga con i suoi scrittori preferiti, saccheggia a piene mani Izzo, Voltaire, Proust, Kundera, Pavese, Borges, Melville, Dostoevskij, Joyce, Woolf, Whitman, Stevenson, Salgari, fonde e confonde il pensiero dei grandi con il suo credo filosofico. Non solo, ammicca al postmoderno, ché accanto a questi nomi imponenti - che l’autore ha letto e metabolizzato a dovere - cita le avventure di Devil, supereroe cieco molto amato da noi ragazzini degli anni Settanta, nato dalla fervida fantasia di Stan Lee e Gene Colan.

Alla ricerca dell’isola perduta non è un romanzo per chi desidera trame avvincenti e finali a sorpresa, ma è un libro per chi ama i viaggi interiori, il flusso dei pensieri, la scoperta di se stesso attraverso la lettura. Perché un libro è utile se un lettore ci trova anche una sola frase da sottolineare, poche righe cercate per pagine e pagine che alla fine incontra e con entusiasmo decide di evidenziare. La storia comincia con Andrea Neri che si reca a Cracovia per realizzare un sogno della sua vita di quasi sessantenne che ha perduto per strada quasi tutti gli entusiasmi adolescenziali. Vorrebbe vedere La dama con l’Ermellino, ma appena arrivato in aeroporto viene aggredito e rapinato; il malvivente fugge a bordo della sua auto e muore carbonizzato in un incidente stradale. Per tutti Andrea Neri è defunto. L’uomo sta al gioco, come il protagonista de Il fu Mattia Pascal, per vivere una nuova esistenza, emozionandosi per nuove scelte e sensazioni ignote. Andrea comincia la nuova vita da Marsiglia, dove rivede il mare, lui che proviene dal mare sa che le persone che hanno il mare dentro si riconoscono tra loro, trovano nel mare tutti i loro ricordi. Andrea incontra il capitano Achab che lo conduce alla scoperta dell’isola perduta, lo invita a compiere un viaggio surreale e metafisico, una vera e propria immersione nel tempo perduto, alla scoperta di se stesso e dei suoi ricordi.

Alla ricerca dell’isola perduta è un romanzo che si abbevera di altri romanzi, profondamente colto, proustiano, surreale, filosofico, un vero e proprio percorso di formazione e di scoperta all’interno della natura umana. E proprio come da ragazzino mi venne voglia di leggere l’Ulisse di Joyce dalle pagine di un romanzo di Moravia, qui ti fai prendere dalla sconvolgente sensazione di rileggerti tutta la Recherche, di cercare l’opera omnia di Borges, di affrontare finalmente l’ardua impresa di leggere Moby Dick in versione completa… Non solo, ti cattura l’idea di rivedere Casablanca, Colazione da Tiffany, Qualcuno volò sul nido del cuculo, per non parlare della musica, dai Beatles a Peter Gabriel (Biko), passando per tutto il rock americano degli anni Settanta - Ottanta. Non è impresa da poco, né merito da trascurare in questi tempi che stiamo vivendo, così bisognosi di complessità, ché la superficialità ci viene elargita a piene mani sotto forma di libri inutili, programmi televisivi e pellicole cinematografiche che mettono in scena il niente. Concludo con la mia frase sottolineata, anche se ne ho evidenziate molte, ma ne devo scegliere soltanto una per motivi di spazio: “Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora, di un’estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una gemma”. Leggete questo libro, ché ne vale la pena. Non la sera prima di addormentarvi, ma con la mente fresca, con lo spirito del viaggiatore che cerca emozioni nuove, anche se nuove non sono ma si nascondono nei luoghi più reconditi della nostra anima. Giannotti è bravissimo a farle venire fuori…

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signoradeifiltri.blog ha compiuto quattro anni

18 Febbraio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda, #blog collettivo, #redazione

 

 

Uso questo spazio moda che, incredibilmente, è uno dei più condivisi, per parlare un po’ di noi, del blog. A Novembre signoradeifiltri.blog ha compiuto quattro anni. Mi sembra di averlo aperto ieri, invitando alcuni amici a partecipare. Quattro anni sono volati mentre la redazione mutava. A volte, lo confesso, mi sono trovata da sola a scrivere, altre volte eravamo così tanti che non riuscivo a star dietro alla scaletta.

Attualmente mi ritrovo con tredici redattori e trenta amici esterni che hanno collaborato in questi anni e che a volte ancora ci inviano pezzi. Qualcuno è andato per la sua strada, due colleghi preziosi non ci sono più ma brillano nei nostri cuori. Trentottomila visitatori unici, sessantamila visualizzazioni di pagina. Per qualcuno saranno numeri irrisori ma per noi sono tutto, ne basterebbe anche uno solo e già ci farebbe contenti. E poi condivisioni su Facebook, Twitter, Pinterest e Linkedin.

Si può fare di più e meglio ma va già bene così. Siamo un blog collettivo, a più voci, dove ogni redattore scrive quello che vuole sull'argomento che preferisce, senza obblighi né tempi da rispettare; può inserire di tutto, dalle foto, ai video, alle riflessioni personali, al diario, alle poesie, ai racconti, ai resoconti di viaggio, alle recensioni di libri e film. Preferiamo tener fuori la politica per ovvi motivi. Una via di mezzo fra una rivista, un sito di critica letteraria e un blog personale. È una collaborazione volontaria e non retribuita. Unici requisiti sono la serietà e il saper scrivere in italiano corretto.

Siamo una specie di rivista dagli argomenti più svariati, persino le ricette di cucina. Prova ne sia che le rubriche più seguite sono state negli anni quelle sui piccoli paesi dell’Italia, la storia dalla fondazione di Roma al Medioevo, le ricette di cucina e questi miei ingenui post sulla moda. Certo i libri restano sempre al centro della nostra attenzione ma in modo originale. Non ci interessa essere sul pezzo dell'ultimissimo titolo uscito ma parliamo di qualsiasi cosa, anche di un vecchio best seller o di un classico. Non badiamo a chi stampa il libro, non abbiamo preconcetti o pregiudizi editoriali. Per noi vale il testo, quindi recensiamo di tutto, anche gli Eap, anche gli autopubblicati e persino i manoscritti inediti. In questo siamo molto controcorrente e un punto di riferimento per tutti i piccoli e sconosciuti che non hanno mai voce. Diciamo sempre la verità (che poi è soggettiva) a tutti, pubblicando anche recensioni negative.

Ecco, di libri già parlavo l’11 aprile del 1970, senza sapere che il mio futuro secondo marito quel giorno stava compiendo diciannove anni. “Ho molti giocattoli”, scrivevo, “fra questi non ce n’è uno che mi piaccia di più (ah… bei tempi quando anche i bambini usavano lo scomparso congiuntivo); gioco un po’ con tutti ma poi mi viene a noia e li metto da parte. L’unica cosa, ma non è un giocattolo, è il libro, quello lo leggo e lo rileggo mille volte. Libri ne ho molti, fiabe e racconti vari e mi piacciono bene illustrati. Per questo quando mi devono fare un regalo invece dei giocattoli preferisco dei libri.”

E ora veniamo a noi. Le giornate si allungano, la luce s’intensifica, il freddo si addolcisce. L’armadio è pieno di abiti con ancora il cartellino attaccato, ché qui, fra influenza e acciacchi vari, non è che si esca poi tanto. Vediamo, dunque, cosa ho comprato di nuovo in questi ultimi scampoli di saldi. Quattro oggetti che possono comporre un’unica azzeccata mise.

 

I jeans strappati ed elasticizzati… non ditemi che sono troppo vecchia per portarli ché tanto non vi do retta.

 

La t shirt grigia a maniche lunghe.

 

Il cardigan/ poncho

 

La collana di pietre colorate.

 

Un modo di vestire molto easy, comodo, in anticipo sulla primavera. Baci a tutte e tutti!

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Anthropoid

17 Febbraio 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #cinema

 

 

Anthropoid

Un film di Sean Ellis. Con Jamie Dornan, Cillian Murphy, Harry Lloyd, Toby Jones, Charlotte Lebon. Storico. Gran Bretagna, Francia, Repubblica ceca 2016.

Official Trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=blAKCJcXC5c

 

 

Mi metto a cercare su Netflix. Cerco un bel film. Sfogliando mi fermo su Anthropoid. La locandina è intrigante. Non ci penso, lascio che sia l’istinto ad agire per me e clicco su play.

Già dai primi secondi capisco che è un film di spessore. Già da quei primi secondi dei titoli di testa a metà tra un documentario e un film mi arriva una botta in gola. Una di quelle che ti costringe a deglutire. E poi arrivano le prime inquadrature. Colore freddo, camera mossa ma non fastidiosa; un senso d’angoscia mi pervade e devo per forza continuare.

È così che è iniziata la visione di questo film che racconta un episodio drammatico e crudele (come tutti gli episodi) della Seconda guerra mondiale. Due paracadutisti cecoslovacchi esiliati arrivano su suolo ceco occupato dai Nazisti con un ordine ben preciso: assassinare il numero tre del Reich, il temuto Reinhard Heydrich. I due si muovono in una Praga magnificamente ricostruita, strisciano in un sottosuolo di spie e collaborazionisti; c’è anche tempo per un paio di storie d’amore. Ma non è il solito film. Quel senso d’angoscia che mi ha pervaso sin dall’inizio rimane. Perché questo film non racconta di atti eroici né di patriottismo, non racconta di ideali o di libertà, non racconta niente di tutto ciò che i film di guerra a cui siamo abituati hanno raccontato finora. Questo film ti disorienta. In questo film non si capisce chi è il bene e chi il male. Sì, lo so, sarebbe ovvio individuare il male nei nazisti, e in effetti è così. Ma questo è un film che non ti risparmia dai tremori e dalle crisi di chi è costretto a puntare la pistola su di un uomo per poi sparare, non ti risparmia dai sensi di colpa di chi sa di fare la cosa giusta (perché è Londra che lo comanda, perché Heydrich è un dannato macellaio, perché gli alleati sono quelli buoni che ti vogliono liberare), eppure i sensi di colpa ci sono, perché sai che uccidendo Heydrich metterai la tua firma sull’eccidio di altre decine, centinaia e addirittura migliaia di persone. I sensi colpa vengono ai protagonisti perché sanno che quell’azione di guerriglia che Londra ha comandato sarà un atto di autolesionismo spinto agli estremi. Ma quei sensi di colpa non vengono solo a loro, il film è fatto così bene che vengono anche a te che te ne stai sul divano in un paese in pace, in un paese libero, in un paese civile.

E così, mentre la prima parte del film più lenta e d’angosciosa attesa (ma anche di sottile speranza) lascia il posto alla seconda in cui la violenza si sprigiona come da una bolla di rabbia, idiozia e odio, mentre i mitra iniziano a gracchiare, e le pistole, e le bombe, mentre succede tutto questo, tu inizi a sentirti in trappola come i protagonisti di questa storia. Senti su di te tutto il peso delle pasticche di cianuro spaccate tra i denti come mentine e delle ultime pallottole lasciate per se stessi perché non c’è vita dopo la cattura. Senti su di te una successione di decisioni stupide, ottuse e mascherate da ideale con cui tutta quella gente si è auto-assassinata, in cui ha ceduto a quella spirale della morte che si chiama guerra. Con tutto quel macigno addosso che ti soffoca e ti disgusta, ecco che di colpo riconsideri tutti i tuoi valori. Riconsideri tutto ciò che ti hanno insegnato. L’eroismo, il sacrificio, l’ideale. E ti accorgi che non sono altro che idee non tue che qualcun altro ti ha ficcato nel cervello fin da bambino. E allora capisci perché tutto questo è accaduto, era accaduto prima e accade tuttora. Capisci che accade perché la gente dimentica se stessa per abbracciare ideali che non sono suoi, e così poi va a finire che la gente si odia, che la gente si vede diversa e la diversità fa paura.

Il film si chiude con una sequenza di inquadrature magistrali. Sono la concretizzazione della metafora raccontata fin dall’inizio. Si chiude con un colpo nel petto che ti lascia turbato e con la testa intasata da mille pensieri, tanto che devi per forza metterti alla tastiera e scrivere questa cosa qui.

Ottima sceneggiatura. Ottima regia. Attori più che convincenti; veri. Ottima fotografia.

Anthropoid era il nome in codice dell’operazione per assassinare Reinhard Heydrich. Non penso che potessero farci un film migliore.

 

 

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Giacinto Reale, "Avanguardia di morte..."

16 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #recensioni, #giacinto reale, #racconto, #storia

 

 

AVANGUARDIA DI MORTE...”

Racconti Brigatisti

Giacinto Reale

Ediz. La Testa di Ferro

 

Ho terminato in questi giorni la piacevole lettura del secondo libro di Giacinto Reale. Autentico appassionato di storia del Fascismo, lo scorso anno aveva dato alle stampe “Se non ci conoscete...” Racconti squadristi ambientati all'inizio dell'epoca fascista. Con questa seconda opera ha completato il ciclo storico del periodo: dalle origini, all'epilogo con i personaggi della Repubblica Sociale Italiana. La peculiarità che colpisce, sia nel primo che nel secondo libro, è che gli episodi sono pensati e costruiti attorno ad accadimenti reali, portando a conoscenza di chi legge, con estrema semplicità, e quasi da farlo sembrare casuale, avvenimenti importanti e fondamentali della storia dell'epoca.

Protagonisti di questa seconda serie di racconti sono cinque personaggi che si muovono e agiscono in cinque città diverse e che, seppur scaturiti dalla fantasia dell'autore, alternano le loro vicende, come dicevo si muovono in un contesto storico autentico, assistono a fatti accaduti in quei giorni, in quelle strade, si affiancano a personaggi di rilevante importanza storica, protagonisti delle vicende della RSI. Ad alcuni di loro l'autore ha voluto dare un vissuto da squadristi della prima ora, questo per sottolineare la continuità delle aspirazioni, dei sentimenti e degli ideali che, se sembravano sopiti durante gli anni del consenso, uscirono di nuovo allo scoperto come un nervo dolente, muovendo, in quei tragici giorni, giovani e meno giovani. Così conosciamo per primo Mario, “vecchio” squadrista della Randaccio, che, dopo aver combattuto ed esser stato ferito sul fronte greco-albanese, viene colto in quel nefasto 8 settembre a fare il libraio nella sua Milano e sente imperioso il desiderio di tornare a combattere e di rendersi utile alla Patria.

Giacinto Reale fin dalle prime righe sa unire nel dipanarsi della trama spunti personali che rendono i personaggi umani e vicini al comune sentire. Il cane, la moglie, un figlio, la mamma, il fidanzato, ognuno dei cinque protagonisti porta con sé sentimenti che li accomunano e ci accomunano, rendendoci partecipi della loro vita, delle loro scelte e tragicamente della loro morte. Ognuno dei cinque personaggi entrerà a far parte di un particolare reparto dell'esercito Repubblicano, così Mario diventa ardito della “Muti” di Franco Colombo, Luisa, che è il mio personaggio preferito, si trasforma da timida studentessa in coraggiosa Ausiliaria del SAF del Generale Piera Gatteschi Fondelli. Franco, romano, impiegato a Cinecittà, torna ad essere squadrista come altri due “vecchi” della vigilia, Gino Bardi e Guglielmo Pollastrini, nella guardia armata del PFR. Attraverso il personaggio di Federico ha voluto farci approfondire la conoscenza con la RSS “Mario Carità” e ha saputo restituire un volto quasi umano a un reparto dipinto troppo spesso come gratuitamente violento, nell'estorcere confessioni con le torture e mai citato per le importanti, pericolose e coraggiose operazioni di infiltrazione nelle bande partigiane. Infine ultimo personaggio è Giulio della GNR che, pur essendo genovese, non esprime troppa simpatia per la Decima del Principe Borghese, del quale apprezza invece il valido collaboratore Umberto Bardelli, definendolo “carismatico”. Un altro imperdonabile difetto è, sempre a mio avviso, la sua malcelata antipatia per l'alleato tedesco. Due peculiarità che lo rendono ai miei occhi meno simpatico degli altri protagonisti, ma che esprimono sicuramente il sentire di molti interpreti della storia di quei giorni.

Un bel libro pieno di citazioni storiche dei 600 giorni della RSI , di discorsi pronunciati alla popolazione in momenti cruciali e che i personaggi ascoltano insieme al popolo, nelle piazze, nelle strade. In tal modo non restano frutto di fantasia, non si muovono solo tra le pagine, ma escono, ci vengono incontro pieni di vita e, consapevolmente, vanno verso la morte rendendo omaggio a tutti gli Italiani che volontariamente e in anonimato scelsero di difendere la loro terra.

Detto così sembrerebbe facile, ma questo certosino lavoro è stato possibile solo grazie alla profonda conoscenza dell'autore di una materia articolata e difficile, poco conosciuta e poco studiata, grazie alla sensibilità e all'attenzione con cui sa scegliere ambienti, parole e descrizioni. Non resta che attendere il prossimo libro per vedere dove ci condurrà e sperare che sia il più presto possibile.

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Scarabocchio, depressione, la macchia e testimone

15 Febbraio 2017 , Scritto da Fabio Strinati Con tag #fabio strinati, #poesia

 

 

 

SCARABOCCHIO

 

Rinchiuso tra le pareti in una stanza chiusa e piena

di polvere di acari pusillanimi,

a sorbettare i versi e le rime...

scombussolato nella mia lingua romanza che si fracassa

di vocali urlanti e limacciose per un delirio di parti e controparti,

a cinguettare la seta delle tele negli angoli rimasti...

adirato da impulsi e nutrimenti che mi arrovellano la mente

più di un passo storpio di un foglio sulla rima.

 

 

 

DEPRESSIONE

 

La salute mia è un ramo dalbero appeso al vento di dicembre

tra rimpianti che la vita ormai andata

brulicano e mantengono,

strane sensazioni a volte, piluccano il tuo essere vinto

e sconfitto, come un uomo poco attratto dalla libertà

che si accendono e si spengono

oltre un confine immaginario animato

dai ricordi fievoli di uninfanzia in agrodolce,

come lultima parola che senza fiato

si scarica di rabbia per ferire la tua morte prematura.

 

 

 

LA MACCHIA

 

Come si dissolvono le nostre polveri nellincertezza

della vita, o della morte che penetra che arriva

e alimenta altra morte, che impregna

la nostra vita che finalmente, al tocco della falce si svela.

Il tempo è in movimento e lontano;

e la solitudine serpeggia senza catene di ferro

durante i nostri momenti vuoti,

e quando un podombra arriva a noi come

una macchia di petrolio su questa lavagna di vita,

il nostro vivere diventa fievole,

la nostra anima sbiadita.

 

 

 

TESTIMONE

 

È nella fessura che porgo locchio mio,

la mia perla di lingua tuttintorno affonda,

sibili e cicalini,

nel suo rattoppo dorigine,

docchiatine vispe nella vispezza

che tanto arretra

e davanti punta indietreggia,

si stagna il gesto, come sangue rappreso

la sua macchiolina annichilita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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C'era una volta la Romagna

14 Febbraio 2017 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

 

 

"Se ignori quello che è successo prima che tu nascessi, sarai sempre un bambino".

(Cicerone)

 

Spesso mi rendo conto che per molte persone non esiste comunità aldilà delle comunità virtuali e, se questo è vero, niente ha più senso. Stiamo perdendo di vista il contatto diretto, la comunicazione, per dare spazio all'irrealtà del non tempo, del non luogo. Io credo fermamente che occorra far parte di una comunità reale, e provare a partecipare alla sua formazione, al suo sviluppo per non cadere nel tranello che ci rende schiavi di questo sistema globalizzato e globalista. L'isolamento della rete è il trionfo del sistema, è la fine della civiltà del nostro popolo, dobbiamo recuperare valori umani a partire dalla nostra identità territoriale. Chi passa la vita in solitaria alienazione, davanti al PC e alla tv, viene descritto dai vicini come una brava persona, uno tranquillo, anche quando si scopre che in un giorno di lucida follia ha ucciso moglie e figli, mentre il “viveur” che ospita rumorose feste con amici e rincasa ogni notte con una donna diversa facendo rumore per le scale del condominio, per il pensare comune rasenta il crimine.

So di aver avuto la possibilità di vivere durante il passaggio tra due epoche e non è cosa da poco. Da piccola ho conosciuto “la civiltà contadina”, fondata sulla legge della natura, semplici regole poggiate sul principio “raccoglie chi semina”, poi sono cresciuta assorbita dall'epoca attuale “nasci, consuma, muori”, basata sulla tecnologia, col suo enorme potenziale al servizio del progresso e dello sviluppo socio-economico.

Due importanti “civiltà” nel cammino dell'uomo, ma anche enormemente distanti fra loro e il passaggio è stato troppo veloce, il passo troppo lungo, il distacco troppo repentino per conservare quello che di buono c'era da salvare e valutare bene il nuovo prima di tuffarsi a capofitto in una sconvolgente variazione di stile di vita.

Mi ritengo dunque fortunata, dicevo, per aver potuto conoscere entrambe le realtà, aver avuto modo così di confrontarle e di riflettere, ripercorrendo un viaggio in un mondo che mi ha sfiorato, ma di cui ho il ricordo vivo e, se a volte non personale, tramandato nei racconti dei miei genitori.

Quando i contadini erano tanti e gli operai pochi, quando si mangiava la carne solo la domenica, quando un ragazzo arrossiva dicendo ti amo, quando un viaggio in città era un'avventura emozionante da raccontare agli amici e quando la povertà era spesso sinonimo di onestà.”

Le contadine di trent'anni allora stremate dai parti e dalla fatica, bruciate dal sole, sembravano averne cinquanta, mentre oggi le cinquantenni, spesso restaurate dalla chirurgia estetica, ne dimostrano trenta. I bambini hanno l'Hi-pad al posto del pallottoliere, i viaggi su traballanti carrozze con sedili di legno hanno lasciato posto a voli transcontinentali e, quando muore il nonno, i soldi non si cercano più sotto il materasso, ma si va a vedere se aveva investito in Borsa. Le verdure non si raccolgono nell'orto ma si compra il minestrone liofilizzato e le vitamine della frutta e del sole si assumono con gli integratori.

Passi da gigante sono stati fatti nel campo della medicina e della scienza, non si muore più per un'appendicite, ma si può morire di inquinamento, perchè la logica del profitto e del capitalismo stanno portando alla distruzione della terra. Quando è morto Steve Jobs, l'ideatore dell'I PHONE, la notizia ha tenuto banco per settimane nel mondo mediatico e televisivo, celebrando una sorta di santificazione planetaria, mentre abbiamo ignorato che lo stesso giorno moriva l'illustre sconosciuto Wilson Greatbatch, inventore del pacemaker, un giocattolo che ha salvato e salverà milioni di vite umane.

Non tutto è sbagliato nel nuovo, ma non tutto andava cancellato del vecchio.

La fine della civiltà contadina è purtroppo sempre più accompagnata anche da un'autentica mutazione del paesaggio e della sua realtà antropica. La campagna viene spogliata della propria vegetazione, i campi di pannelli solari prendono il posto dei vasti frutteti, le case contadine isolate, oramai ridotte a ruderi e scheletri, sono solo il vago ricordo delle aie brulicanti di vita e lasciano spazio ad agglomerati di villette unifamiliari dove ognuno recinta il suo orticello e litiga col vicino per un metro di terra, mentre distese di campi incolti e abbandonati si perdono malinconicamente all'orizzonte.

I paesi dopo un lento e inarrestabile declino demografico sono ora invasi da una immigrazione massiccia e confusa che sta trasformando questi centri abitati in una babele di lingue, costumi, culture diverse, storie di persone che arrivano attratte come falene dal luccichio di un mondo che manda segnali sempre più vuoti e falsi. Gente che non si ambienterà mai, ma che piano piano stravolge le nostre usanze.

L'antico mondo contadino fatto di povertà ma anche di condivisione ha perso la sua anima, è in atto uno sconvolgimento che sta mettendo in discussione le nostre stesse radici.

Vorrei lanciare un messaggio come si faceva una volta affidando una bottiglia al mare e spero non si perderà nel vuoto dell'etere ma che viaggi spiegando le ali al vento degli ideali e della speranza, per salvaguardare la memoria storica delle nostre strade, delle nostre campagne e l'anima di gente umile ma orgogliosa: non arrendiamoci. Cerchiamo di difendere i nostri valori, le nostre tradizioni tentando di ricostruire l'antico orgoglio comunitario che ci vedeva padroni del nostro territorio.

È a questo scopo, forse inutile, sicuramente velleitario, che dedicherò qualche pubblicazione inaugurando una rubrica dal titolo C'ERA UNA VOLTA LA ROMAGNA, in cui racconterò, di volta in volta, usanze e vecchie tradizioni della terra dove vivo, sperando di tramandare ai più giovani che leggeranno un po' della nostra storia di popolo orgoglioso e matto. Ricordi indelebili delle lunghe estati trascorse dai nonni.

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Dentro la mia anima, io, attese

13 Febbraio 2017 , Scritto da Fabio Strinati Con tag #fabio strinati, #poesia

 

 

DENTRO LA MIA ANIMA

 

Dentro il mio io interiore, a volte triste e in solitudine...

ho lanima che cerca il romanzo della vita

per non morire giovane su questa terra affaticata,

...solcare il mare

lasciandosi alle spalle un lacrimoso tramonto,

che sappia rinverdire lanima mia di gioia e di speranza!

I miei occhi osservano la primavera: stagione che penetra

con eleganza, come ogni mattina

quando penso alla preziosità della vita...

la più bella scoperta,

lavventura in un lungomare di conquista!

 

 

IO

 

Credo che la vita sia il mio principale aguzzino,

e quando ci sono quelle giornate umide

e le mosche bidonate nella lordura del momento,

mi ritiro nel mio bureau di taccuini,

guardo il cielo e mi rivedo spiaccicato

su quelle lente nuvole stracolme dacqua,

in quei giorni stringati di dicembre

e i cortili imbiancati come lenzuoli davi e di morte!

 

 

 

ATTESE

 

Inseguire con gli occhi una linea esile e sottile,

come una traiettoria in metamorfosi,

che piano spira nel suo lasso di polvere e di sepolcri.

Gettare unocchiatina oltre quel sipario rinserrato,

oltre un avvenire errante e impantanato

nel suo dovere ma nel dubbio

che una lancetta dorologio

sia bloccata nel suo dilemma muscoloso,

nel frattempo, emergono speranze e gravose attese.

vagante che ha vagato stanca per i campi spenti.

 

 

 

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Vox clamantis in deserto

12 Febbraio 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #racconto

 

 

 

Era uno dei tanti esaltati di cui pullulava in quei tempi la Galilea.

Il popolo allora era talmente provato dall'occupazione romana che idolatrava chiunque gli promettesse che, in una maniera o nell'altra, lo avrebbe reso libero.

Io, come spesso mi capita, in quei giorni vagavo senza meta per le lande desertiche. Qualcuno doveva averlo avvertito della mia presenza in quelle zone.

Mi raggiunse dopo quaranta giorni di estenuante tragitto, fuggendo gli scorpioni, catturando locuste per cibarsene. Mi arrivò davanti emaciato, ricoperto di piaghe e di croste, gli occhi infossati nelle orbite, la tunica che era ridotta a un cascame di stracci.

Lo accolsi con fastidio. Mi rivolsi a lui senza alcuna premura. Ma appena abbassai lo sguardo sul suo volto anonimo percepii, non senza un certo stupore, che, per un puro gioco del destino, proprio lui, tra i tanti, sarebbe stato quello che le moltitudini avrebbero osannato. Il suo nome sarebbe stato tradotto e adorato in tutte le lingue del mondo. Proprio costui sarebbe stato riconosciuto come il messia tanto atteso.

Lui intanto continuava a fissarmi con aria supplichevole.

Quella sua aria dimessa nascondeva megalomanie insospettabili.

Pretendeva di sapere a tutti i costi quello di cui mai alcun uomo dovrebbe venire a conoscenza: il proprio futuro. Glielo rivelai senza farmi troppo pregare.

Estrassi dalla sacca qualche grano di segale cornuta che mi porto sempre dietro. Lo raffinai tra due spuntoni di roccia, usando una pietra come pestello. Gli diedi da bere quella polvere mischiandola a un infuso a base di vino. Lui trangugiò la bevanda con ansia, la speranza che ogni sua curiosità venisse accontentata gli brillava nel fondo dei grandi occhi sgranati.

Quasi all'istante le gambe gli si fecero molli. Lasciai che si accovacciasse sopra una stuoia stesa là vicino, un attimo prima che le visioni iniziassero.

La rivelazione lo investì improvvisamente, cogliendolo impreparato. Le visioni lo assalirono come il ribollio di uno scirocco impetuoso che spazzi e scombussoli tutto d'un colpo una tranquilla vallata.

Vide fratelli che avrebbero scannato fratelli, guidati da una cieca fede in lui. Assistette alle guerre che per millenni avrebbero fatto per causa sua. Guardò gli eserciti che si sarebbero affrontati petto a petto, mentre da ognuno dei due schieramenti si innalzavano grida entusiaste che lo nominavano, da entrambe le parti, perché intercedesse in loro favore. Vide intere popolazioni schiacciate di fronte al rifiuto di venerare il suo nome. Passò davanti al suo sguardo stupefatto l'oceano di sangue che sarebbe scorso in sacrificio per lui, bagnando la terra a ondate incessanti. Sentì le urla strazianti, frutto delle torture e dei supplizi inflitti a chi non lo riconoscesse come l'unico dio delle genti.

Si riebbe da quell'incubo veritiero scrollandoselo di dosso con un tremore inconsulto che interessò tutto il suo gracile corpo. Dopo di che più non resse e si afflosciò su se stesso, guardandomi da sotto a sopra con un'espressione spiritata. La bocca digrignata dallo sconcerto.

Mi domandò se tutto quello che aveva veduto sarebbe almeno servito a riscattare le sorti degli uomini. Gli risposi che no, che tutto quanto avrebbe continuato a procedere esattamente come prima che lui nascesse. Furti, stupri, matricidi, violenze: nulla di tutto questo sarebbe sparito dalla storia umana. Anzi, la rinnovata fiducia che il suo nome avrebbe saputo infondere nei loro animi non avrebbe fatto altro che legittimare gli antichi istinti, ora condotti in virtù di una causa superiore.

Mi chiese come potesse evitare tutte quelle morti innocenti.

Abbandonando immediatamente la scena pubblica senza ripensamenti, gli spiegai senza enfasi.

Mi guardò per qualche tempo con sguardo incerto. Provò a ribattere qualcosa, ma le parole non sembravano riuscire a staccarglisi dal cuore per emergere sino alla bocca.

Quando sentì le forze tornare ad assisterlo si rimise in piedi. Con gesti stentati indicò la mia borraccia. Gliela porsi. Bevve l'acqua a brevi sorsi, come per prepararsi al lungo viaggio di ritorno che lo attendeva. Poi si voltò e, un passo davanti all'altro, sparì all'orizzonte, senza mai voltarsi, neppure per un fugace saluto di commiato.

Ho poi saputo che all'eventualità da me prospettatagli aveva invece preferito la futura gloria degli altari.

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