Divine
DIVINE
di Flavia Piccinni
Quattro puntate di Passioni
a cura di Cettina Flaccavento
Radio 3 dedica quattro puntate di Passioni
ad altrettante grandi donne
in onda sabato 11 e domenica 12 giugno alle 14.00
in onda sabato 18 e domenica 19 giugno alle 14.00
Quattro donne protagoniste di altrettante monografie. Quattro donne che hanno vissuto da protagoniste la loro epoca, e che sono state in parte dimenticate. Quattro donne che Radio3 Rai ricorda con la scrittrice Flavia Piccinni in altrettante puntate del programma Passioni.
Qual è la risposta? Sono queste le parole di Gertrude Stein, sul letto di morte, alla compagna di una vita Alice Toklas che si limitò ad abbracciarla, lasciando che il suo respiro si facesse più lento, e che poco prima di sparire domandasse, ancora, a sintesi perfetta di una vita: Allora, qual è la domanda?
Qual è la risposta? Si chiede adesso, a distanza esatta di 70 anni da quel giorno d’estate, la scrittrice Flavia Piccinni. E lo fa ripercorrendo la vita e le opere, ma anche ricostruendo le ambizioni e le aspirazioni di quattro grandi donne del Novecento che, in modo diverso ma con uguale intensità, hanno lasciato andare un filo nel tempo: la loro personalissima, unica, irripetibile risposta all’arte e all’amore. Forse, anche alla vita.
Protagoniste di Divine – Donne del Novecento sono quattro donne che con personalità, coraggio e determinazione hanno cambiato il loro destino, lasciando una traccia nelle rispettive epoche. C’è Fausta Cialente e la sua scrittura che si avvita a Paesi levantini e restituisce romanzi e racconti che negli anni sono stati completamente dimenticati. Ma anche Lina Merlin che fece della sua fede politica e del suo rigore una traccia per migliaia di donne. E poi Luisa Spagnoli che fondò dal niente in una Perugia di neve e di guerra un impero di cioccolatini e si dedicò alla moda seguendo l’istinto. E, appunto, Gertrude Stein, scrittrice dalla mirabolante e sterminata opera, dal successo tardivo e dall’incredibile capacità di tradurre in parole l’arte, costruendo immagini intraducibili e allestendo intorno alla sua persona nella Parigi del dopoguerra un cenacolo di pittori, scultori e poeti che non ebbe uguali nella mitica casa studio di rue de Fleurus 27.
Attraverso testimonianze inedite, materiale d’archivio, interviste a studiosi e intellettuali, Flavia Piccinni guida l’ascoltatore nella vita e nelle storie di queste donne incredibili. Il risultato sono quattro puntate monografiche che accompagnano il lettore nel cuore del Novecento e nella sua spietata logica, che porta alla dimenticanza. Perché, come era solita ripetere proprio Gertrude Stein: “Dove, suo malgrado, muore una rosa, l’anno dopo ne nasce una nuova”. Sta a noi però difendere la memoria dei boccioli passati, e futuri.
in onda sabato 11 giugno alle 14.00
Luisa Spagnoli
Una nota casa di moda porta il suo nome, eppure Luisa Spagnoli dal cuore dell’Umbria, a Perugia, costruì la sua vita non fra le stoffe, ma fra i dolciumi, creando il celebre Bacio Perugina (che nacque per recuperare materiale di scarto, e che Luisa Spagnoli voleva chiamare “cazzotto”) o la caramella Rossana. Una donna in un mondo di uomini che seppe anticipare il futuro, ma soprattutto dominare la vita con straordinaria creatività e inventiva.
in onda domenica 12 giugno alle 14.00
Fausta Cialente
Grandissima scrittrice, e grandissima “escapista”. Una maga, al pari di Houdini, che sa prodigiosamente sottrarsi al tempo e ai suoi obblighi. Vincitrice del Premio Strega nel 1976 con Le quattro ragazze di Wieselberger, e autrice di romanzi dal cuore levantino come Pamela o la bella estate (1962), Un inverno freddissimo (1966), Il vento sulla sabbia (1972), Fausta Cialente resta un talento dimenticato – forse per segreto desiderio della stessa autrice – della narrativa contemporanea, una “straniera dappertutto”.
in onda sabato 18 giugno alle 14.00
Lina Merlin
Ci sono donne, e battaglie, che vengono capite con gli anni. Questo forse è il caso di Lina Merlin, e della legge che porta il suo nome e che cambiò un’epoca. È bastato “in Italia un colpo di piccone alle case chiuse per far crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli: la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la loro più sicura garanzia”. Così scriveva Indro Montanelli in Addio Wanda, il libro pubblicato in opposizione alla legge Merlin. E partendo da queste parole inizia il viaggio nella storia, e nel cuore, di una donna coraggiosa, instancabile, libera e testarda.
in onda domenica 19 giugno alle 14.00
Gertrude Stein
“Noi abbiamo internamente sempre la stessa età”. È solo uno dei celebri aforismi di Gertrude Stein, che costellò la sua vita di incontri e d’arte. Partendo dallo studio di rue de Fleurus 27, ma ancor prima dalla vita americana, e da quello che Gertrude Stein era prima dell’arrivo a Parigi e dell’incontro con pittori come Picasso e Matisse, a metà fra il racconto e il viaggio in un museo interiore, Flavia Piccinni racconta la più incredibile scrittrice americana del Novecento.
Oggi in cucina
I garganelli sono un tipo di squisita pasta all'uovo, specialità della Romagna, se ne contendono i natali varie località, ma direi che la più accreditata è Imola. Nacquero come alternativa ai cappelletti e, inizialmente usati come ripiego, nel corso dei secoli hanno guadagnato uno dei posti d'onore sulle tavole romagnole, soprattutto nei giorni di festa.
Si narra che i garganelli siano comparsi per la prima volta a Imola sulla tavola di un alto prelato la notte di capodanno del 1725. Leggenda vuole che a casa del cardinale Cornelio Bentivoglio d'Aragona, legato pontificio della Romagna, la cuoca, durante i preparativi dei cappelletti, fosse rimasta a corto di ripieno; senza lasciarsi prendere dal panico, arrotolò i quadretti di pasta già pronti in un bastoncino. Passò poi i quadretti di sfoglia, avvolti uno ad uno diagonalmente, sui denti del pettine del telaio usato per filare la canapa, e nacquero dei piccoli maccheroni rigati.
Il termine garganelli con cui sono sono oggi conosciuti deriverebbe dal latino, a indicare la trachea per la loro forma a cannula e, a conferma di ciò, anche in dialetto romagnolo “garganel” sta proprio a significare la trachea del pollo composta da anelli cartilaginei che ricordano la rigatura di questi maccheroni.
Vi è un’altra versione simile alla prima secondo la quale però l’invenzione dei garganelli risalirebbe ad un paio di secoli prima quando, ad avere l'intuizione, sembra fosse stata la cuoca di Caterina Sforza, moglie di Girolamo Riario, signore di Imola e Forlì tra il 1473 al 1488. Restata senza il ripieno dei cappelletti, perché mangiato dal gatto.
O, forse, si sono volute per forza trovare nobili origini a un piatto divenuto nei secoli una prelibatezza, e magari nato semplicemente dalla fantasia di una “sdora” romagnola che non poteva permettersi di comprare il ripieno. Infatti, inizialmente erano cucinati rigorosamente in brodo di cappone o manzo e in sostituzione dei cappelletti, mentre oggi, invece, vengono consumati prevalentemente in asciutto con svariate ricette, al ragù di carne, oppure conditi con piselli e prosciutto, o ai funghi.
Per chiudere, dunque, ecco una delle ricette più tradizionali: garganelli salsiccia e funghi.
Ingredienti: Per la pasta: 4 uova; 400 gr. di farina. Per il condimento: un bicchiere di vino; 200 gr. di salsiccia fresca; 350 gr. di funghi; 200 grammi di scalogno pulito; sale e pepe q.b.
Preparazione: preparare l’impasto con la farina e le uova, lavorare a lungo e lasciar riposare per un’ora. Stendere la pasta col mattarello sino ad ottenere uno spessore sottile; tagliare dei quadretti di 3 cm di lato. Appoggiare il lato diagonale su un bastoncino e arrotolare, spingendo sull’apposito pettine affinché l’impasto si saldi e rimanga ”rigato”.
Fare rosolare lo scalogno in olio di oliva, nel frattempo sbriciolare la salsiccia e aggiungerla lasciando insaporire bene, bagnare con vino bianco e lasciar evaporare, salare, pepare, infine aggiungere i funghi accuratamente asciugati e terminare la cottura. Cuocere i garganelli in acqua abbondante e salata, scolarli ancora al dente e passarli in padella alzando la fiamma per pochi minuti.
Scegliamo per accompagnare il piatto un buon sangiovese di Romagna giovane e profumato, oppure per chi ama il bianco, un buon vino fresco, con la giusta sapidità per sgrassare la bocca dal sapore della salsiccia, ma che non sia troppo alcolico per non rovinare il gusto, direi un bel pignoletto dei colli imolesi o un pagadebit di Romagna. E buon appetito alla faccia del gatto!
Visioni da Captaloona
Carissimi,
Visioni da Captaloona è diventato un programma radiofonico. Chi vorrà seguirci tutti i lunedì alle 12,30, dal 20 giugno 2016, oppure in podcast, in qualsiasi momento.
Proporremo raccomandazioni di lettura e parleremo di letteratura, il tutto condito con ascolti di opportune selezioni musicali.
Seguiteci su radiopalcoscenico, e visitate il blog: claudiofiorentini.blogspot.it
Tom Rob Smith, "Bambino 44"
Bambino 44 è il primo lavoro di Tom Rob Smith, un romanzo avvincente, durante la cui lettura ci si cala nell'atmosfera della Russia gelida e illiberale del 1953, in pieno totalitarismo staliniano. Un paese che doveva essere perfetto, un vero paradiso, ragion per cui nemmeno i serial killer erano riconosciuti tali poiché “in paradiso ci non ci sono crimini”. Questo il ritornello che si sentiva ripetere Leo Stepanovic Dimidov, eroe di guerra prima e ufficiale dell'MGB poi, che aveva servito la patria fedelmente e aveva sempre eseguito scrupolosamente gli ordini del Partito. Quando si trova a indagare sulla morte di un bambino, figlio dell'amico e compagno d'armi Fedor, morte dichiarata dai suoi superiori un tragico incidente, capisce che si tratta di una brutta storia, non si accontenta di falsi colpevoli e continuerà a fare ricerche sfidando gli ordini superiori e subendo le ritorsioni del sistema.
Divenuto egli stesso preda, si troverà a fuggire, a nascondersi per salvare la moglie bersaglio del partito in una lotta all'ultimo respiro contro tutti e contro il tempo. Un'incalzante serie di avvenimenti sveleranno un uomo apparentemente duro, che in realtà crede nell'amore, nell'amicizia, che non può più obbedire ciecamente ai dettami di partito quando si rende conto che si creano meccanismi sbagliati per costruire falsi colpevoli, reietti che resteranno tali anche quando viene scoperta la loro innocenza.
Così si metterà di traverso e, a causa della sua ribellione, verrà degradato, subendo esilio e umiliazioni. Perderà tutto, ma ritroverà la moglie, con la quale aveva in precedenza un rapporto difficile, che lo aiuterà a ricostruire i passi dell'assassino, mutilatore di bambini, riscoprendo se stesso e le falle di quell'apparato in cui aveva creduto.
Un buon romanzo, ben scritto e ricco di spunti storici, Bambino 44, si gusta pagina dopo pagina, si assapora la suspence di una vicenda appassionante, si scopre l'istantanea di una società misconosciuta, spesso esaltata come il paradiso della classe operaia, ma dove la realtà era ben diversa, a causa di un regime del terrore che creava vittime innocenti e negava le vittime vere, sostenendo che in una società perfetta tutti erano felici e la criminalità non poteva esistere.
Il romanzo è ispirato alla storia di Andrei Cikatilo, il mostro di Rostov, che aveva ucciso 53 persone e fece scalpore negli anni 80-90 poiché la polizia russa continuava a negarne l’esistenza e a lasciarselo sfuggire. Dal libro è stato tratto un film di genere thriller, per la regia di Daniel Espinosa, uscito nelle sale italiane nell'aprile 2015.
V.Tedeschi, "La mia napoletanità"
La mia napoletanità
V. Tedeschi
Loffredo Editore
Spesso si dice che la poesia disveli la storia di un’anima e che grazie alla poesia la vita appaia più affascinante o almeno più accettabile.
Poesia infatti è innanzitutto un modo di essere e di sentire, riscontrabile in persone che, dotate di enorme sensibilità e conoscendo i travagli dell’esistenza, vedono in essa ‘na manera pe’ tirà a campà.
Ecco l’incipit del corposo volume di poesie di Vincenzo Tedeschi, nato nell’entroterra sannita, già Medico Ginecologo e Professore di chirurgia ginecologica presso l’Università Federico II di Napoli. Quasi una dichiarazione di poetica quella che risulta nella poesia “Addédeca” con cui anche onora i suoi debiti di gratitudine verso chi lo ha spinto a scrivere.
Di poi l’Autore srotola il nastro dell’esistenza ricordando il momento della nascita, la gioia del nonno paterno nel contemplare lui, primo nipotino,
nu mpilo chiattulillo ma carillo/… ‘o primo nepuscello e mascullillo (‘O nomme mio),
e quindi i ricordi della famiglia in erba, del fratello e della sorella, della mamma di cui, con somma emozione, ricorda la malattia con un linguaggio ricco di immagini rese con termini dialettali scolpiti nel verso come incisioni in antico legno.
papa puveriello era abbeluto/…ieva appuranno/…..pure ‘nu zinno/ ch se puteva fà pe’ chella freva. (Mamma mia)
E ancora, del padre ricorda la stima da tutti riconosciuta di uomo onesto, di grande cultura e nobile impegno nelle istituzioni scolastiche, ma per un figlio il padre è solo padre, porto sicuro nelle difficoltà della vita, anche quando giunge l’età delle certezze.
Puteva abbonì ca me vedeva/ ‘nu poco ‘e cchiù apprenziunàto/ era ’isso ca me scanagliava/ e ‘o rummèdio subeto truvato. (Papà mio)
Si verifica dunque nelle poesie di Tedeschi la relazione tra arte e vita, tra individuo e storia famigliare, sociale, politica.
Evidente è il tono lirico in poesie che rivelano stati d’animo, rievocano il vissuto, ridestano personaggi della sua infanzia e della sua giovinezza: oltre i genitori, la sorella, il caro fratello Luigi morto prematuramente, la sua compagna di vita.
‘E vvoce d’’a casa, poesia il cui titolo evoca l’arte di Eduardo, esprime appunto la dolcezza del nido famigliare dove l’amore e la concordia mettono al riparo da qualunque timore, ma è anche un prezioso documento di vita che testimonia i disagi della guerra e le difficoltà del dopoguerra.
Venett’ ‘a guerra e ‘mpilo se mangiava…
Addò steva papà nun s’assapeva….
…‘a guerra s’atturnaie/ ma p’ ‘isso ‘o mmale nun fenette…
E infine la perdita delle persone care, momento di solitudine sia per chi resta, sia per chi sta morendo, nonché di incapacità di comunicare, impossibilità di scambiarsi i ruoli per amore.
Pe’ nuie addavero ‘nu trummiento/ quanno steva murenne mamma mia.
Notiamo in esse un linguaggio dialettale complesso che rimanda a tempi lontani (ben sono riportate le traduzioni dei termini più inusitati), metafore dense di allusioni psicologiche, sintagmi di amara nudità che disegnano l’arco della giovinezza, le prime pene, le difficoltà famigliari dalla dolcezza ritmata che ricordano G. Lorca (A mio padre) o immagini che dicono più delle parole l’intensità del sentimento. Non il languore romantico ma l’analisi sincera quasi impietosa degli affetti, nell’oscillare dei ricordi, dei contrasti, nella ricerca della verità nei rapporti affettivi. E poi l’abbandono sentimentale che è quasi estasi se la piccola “nepuscièlla” con le sue tenere carezze gli si stringe al collo, facendogli capire che questo è l’amore vero, puro, incontaminato.
è proprio chello ca se chiamma ammore. (A Carola)
Diverse altre poesie sono dedicate alla nipotina durante la crescita, con la tenerezza e l’entusiasmo di un nonno che dinanzi alla vita che germoglia, nonostante i lunghi anni di professione o forse grazie ad essi, non ha mai perso lo stupore proprio del miracolo. In queste poesie allora l’affetto e la gioia diventano emozioni che fanno vibrare i versi letteralmente, perché la narrazione poetica procede intensamente tra allitterazioni, anafore, rime alternate e altri procedimenti retorici.
nun ve pensate ca so’sciut’e mente (Pe’ Caroletta)
L’amore però è anche memoria-nostalgia di una dimensione di vita che si riconosce sull’orlo dell’estinzione, almeno come quotidianità, si traduce in costante ispirazione che sui binari della parola poetica emigra per scoprire il passato e dare un senso al presente.
Infatti, nei periodici ritorni al suo paese natìo, lasciando le nuvole asfissianti della città, recupera se non fisicamente almeno nel ricordo volti e personaggi che hanno costellato la sua esistenza: L’arciprete scienziato, Salvatore l’inventore, la figlia adottiva, ‘O pàrturo, Ciccillo, ma anche personaggi e situazioni caratterizzanti la metropoli partenopea come ‘A vammana d’’o quartiere, ‘O professore ‘è mannulino, Rafèle,’A malafemmena, le cui vite danno origine nei versi del Poeta a delle vere e proprie pitture impressionistiche. Difficile e lungo sarebbe riportare il lessico poetico che incide sulla pagina le sfumature del destino, della miseria, della pena di vivere, ma anche del coraggio e della forza d’animo.
Silenzio e solitudine come spazio semantico e spirituale in cui pervenire al coraggio della parola che scava e registra l’effimero che ci sovrasta, l’egoismo che ci inaridisce, la disonestà che ci rovina, e denunciarlo con virile tristezza. Tristezza che con costante fiducia s’innesta alla speranza.
..Che ghiè ‘a vita?....’a nasceta nisciuno ‘o po’ sapè…(‘A vita)
L’antidoto alla miseria consiste nell’onestà, virtù difficile da praticare
Si ‘a gente fosse aunesta, chesta vita sarrìa ‘nu Paraviso (‘A vita)
Si cagnarrà ‘a museca nn’’o saccio….ogni iuorno ‘nu penziero ‘o faccio che sul’a speranza ce rummane. (‘A vita)
Il volume, ricco di tante altre sfaccettature, va concludendosi con due poesie, tra le altre, che testimoniano la necessità atavica di tornare a “bagnarsi”, quasi fossero acqua lustrale, nelle atmosfere del paese natìo, in cui i ricordi affiorano, la bellezza viene scoperta più dignitosa, l’abbraccio dell’animo riconoscente stringe l’albero della famiglia che in quelle terre ha radicato, trasmettendo i valori fondamentali sui quali poggia un’esistenza ricca di impegno e di passione.
Paiese mio addò affunna ‘a ràdeca chella forte d’ ‘a fameglia mia... (‘O paiese mio)
Un volume dunque interessante per la vita che contiene osservata, narrata, approfondita, per la carrellata di personaggi, davvero tanti, che si caratterizzano per la loro tipicità, per gli affetti, i sentimenti d’amore e d’amicizia tratteggiati con tanta tenerezza; un volume interessante per la qualità del lessico partenopeo, per la cura della costruzione del verso, per la veste dignitosa di ogni strofa, infine per le numerosissime sorprese di una lingua che evoca la ricchezza e la stringatezza a un tempo delle lingue classiche, greco e latino. Proprio per tale ricchezza il volume meriterebbe una più approfondita esegesi linguistica.
Un esempio di latinismo stupendo: Me sunnai aiere albante iuorno (‘Ll’abballo). Un costrutto latino (ablativo assoluto) che sulla bocca dei paesani suonava forse grossolano, ma che il Prof. Tedeschi ha saputo innalzare a dignità letteraria.
Il ratto delle Sabine
Gli abitanti dei villaggi vicini a Roma invidiavano la sua buona posizione e avrebbero voluto essere i soli a commerciare con gli Etruschi. I romani, perciò, scendevano a far baruffa nelle pianure intorno al Palatino. Un po’ alla volta, Roma vinse tutti villaggi intorno, e pian piano questi entrarono a far parte del territorio romano. Il metodo di Roma è sempre stato quello di assoggettare assimilando, “integrando” si direbbe oggi.
Molto di ciò che i romani del tempo riuscirono a fare lo devono agli Etruschi, che potremmo definire dei misteriosi toscani di origine asiatica. Da loro appresero l’arte di costruire argini e fognature come la Cloaca massima, ponti di legno come il Sublicio; impararono poi a tingere le stoffe per le loro toghe, a costruire case e oggetti. Impararono, infine, anche a estrarre il sale dal mare e nacque così il porto di Ostia.
Costruire i ponti era un’arte magica conosciuta solo da pochi, che si chiamavano, appunto, pontefici; il loro capo era detto Pontefice massimo ed era anche il responsabile di tutti i sacerdoti che pregavano gli dei.
Gli abitanti di Roma si dividevano in patrizi e plebei. I patrizi discendevano dai primi abitanti che si erano accaparrati i bottini di guerra e perciò erano più ricchi. I plebei erano i discendenti degli abitanti dei villaggi conquistati. Scarseggiavano, però, le donne con cui procreare.
La leggenda narra di come Romolo, per procurare le donne ai suoi coloni, organizzasse pubblici giochi e invitasse i Sabini ad assistervi. I romani rapirono le donne sabine. Tarpea, figlia di un romano, aprì la porta all’invasore. I romani la schiacciarono sotto i loro scudi e dettero il suo nome alla rupe dalla quale venivano precipitati i condannati a morte.
Livio sostiene che non vi fu violenza sessuale. Al contrario, Romolo offrì alle fanciulle libera scelta e promise loro pieni diritti civili e di proprietà. Egli stesso trovò la moglie Ersilia tra queste fanciulle.
Per vendicare l’onta, Tito Tazio, re dei Sabini, dichiarò la guerra e marciò su Roma. Le donne sabine, però, s’interposero.
«Da una parte supplicavano i mariti (i Romani) e dall'altra i padri (i Sabini). Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri. [...] Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non sono di vostro gradimento, rivolgete contro di noi l'ira; noi siamo la causa della guerra, noi siamo responsabili delle ferite e dei morti sia dei mariti sia dei genitori. Meglio morire piuttosto che vivere senza uno di voi due, o vedove o orfane. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.)
Così Romolo persuase Tazio a fondere il regno sabino con quello romano.
Dopo un lungo regno, Romolo fu rapito in cielo e venerato come Quirino.
Pia Pera, "Al giardino non l'ho ancora detto"
Al giardino ancora non l'ho detto
Pia Pera
Ponte alle Grazie, 2016 “Quello che provo adesso è questo: nulla di esterno mi potrà aiutare. Se una guarigione arriverà, sarà da dentro me stessa. Dal mio riuscire o meno a riparare la radice. Sento che la mia è una malattia spirituale. Nasce da un errore. Ho perso i piedi quando ho imboccato la strada sbagliata.”
Storia di passi in un giardino e in un corpo. Fuori da entrambi, a tratti, dentro i percorsi di cambiamento e di crescita che certi momenti della vita pongono di fronte a chiunque si guardi con speranza e non con rassegnazione. In un diario intenso e coinvolgente, segnato dai colori della terra e dal profumo di un giardino variopinto e vitale, Pia Pera prende per mano il lettore e lo accompagna attraverso le trasformazioni del suo corpo toccato dalla malattia. Un libro intenso, per nulla toccato dall’autocommiserazione, ma ricco dell’energia saggia e lenta che chi conosce le piante e ne apprezza il ritmo naturale ed abbandonato può cogliere in pienezza. L’esperienza dell’autrice è quella di chi si trova a lottare con un avversario vincente in partenza, che nel suo caso ha il nome di una sigla terribile: la Sla, acronimo di Sclerosi laterale multipla. Un nemico che paralizza gradualmente dal basso, distrugge tutto quel trova, ma lascia intatta la lucidità mentale. Una lucidità che deve confrontarsi con la mancanza di cure.
“Se all’inizio mi prendevo cura del giardino, adesso debbo prendermi cura di me stessa. Il tempo prima impiegato potando, zappando, falciando, adesso mi viene rubato dalle cure. Quasi fossi diventata io il giardino”.
Ecco dunque che l’autrice ci accompagna con passo intenso e intelligente alla trasformazione dell’immagine di sé portata dal morbo che la affligge, riletta ed affiancata al suo tenere il ritmo delle stagioni, quasi che il giardino, custodendo la ciclicità della vita, rinnovi anche la sua. Un testo da gustare passo passo, adattissimo a chi unisce la passione per i meandri dell’animo umano all’amore per il giardinaggio, in una dimensione di equilibrio fra spiritualità e concretezza.
La vecchina dell'aceto
Ah, le mamme. Ad una festa di compleanno indosso uno degli abitini che vi ho mostrato in un precedente post, quello rosa quarzo. Ci abbino uno spolverino bordeaux e una collana sempre nei toni del rosa. Mi sento ben vestita.
E arriva lei, la mater matuta: "Sembri una vecchina."
Ogni volta che metto un abito da donna, con l'orlo al ginocchio come si deve, e non i soliti pantaloni, per lei sembro vecchia. Forse perché non mi vuole adulta e questo, ormai, l’ho capito da tempo.
Oddio, non è proprio che sembro una vecchia, lo sono. La menopausa mi ha regalato tutti i doni che poteva, senza risparmiarsi nulla. Come le fate attorno alla culla della futura Bella Addormentata, ma alla rovescia. Su un soggetto con il quale la Natura era già stata matrigna, ora sta infierendo pure l’Età.
E allora, per tirarsi su, bordata di nuovi acquisti. Due magliettine identiche tranne che per il colore, grigia l'una, corallo l'altra. Quando trovo qualcosa che piace a me e al mio portafoglio, ne approfitto. Altre due maglie, una beige, che viene sempre utile, e una a righe. Cosa c'è di più chic ed estivo delle righe marinare, specie se declinate in rosso? Attenzione, però, ad indossarle nella parte del corpo che si può allargare, perché l'effetto ottico dilata.
Per finire, una borsa da mare a fiori rosa. Impermeabile, allegra, peccato non possieda una cerniera ma non si può avere tutto.
LA POSTA di Federico De Roberto
I protagonisti della novella sono il tenente Malvini e il soldato siciliano Cirino Valastro; operano nella stessa unità e sono parte di un battaglione che si sta addestrando prima di entrare in linea e combattere.
Tra i due si crea un rapporto abbastanza forte, nonostante le differenze culturali; in molti reparti la vita in comune e la condivisione dei pericoli accorciava infatti le distanze gerarchiche.
Valastro non sa leggere e scrivere; si rivolge al tenente perché gli legga le lettere che arrivano da casa e poi gli chiederà anche di scrivere le risposte. All'ufficiale si apre un mondo molto vivace; nelle missive si parla di affari di famiglia, terre da coltivare, boschi, una mula da curare, frutti e cibi locali. La parte spassosa è quella in cui Malvini cerca di decifrare le tante espressioni in siciliano. D’altronde, come già notato nella novella La paura, De Roberto è sempre attento a evidenziare la specifica provenienza regionale degli uomini attraverso la parlata.
Il soldato diventa particolarmente caro al superiore dato che si fa apprezzare per impegno e disciplina. Gli altri lavorano con gli attrezzi leggeri, lui vuole quelli più pesanti che sa come maneggiare. L’abitudine alla fatica lo avvantaggia. È tra i migliori tiratori. Merita anche una ricompensa per una coraggiosa azione notturna. Il suo spirito è solo offuscato dalla nostalgia di casa. Malvini lo stima, anche se ciò che sente per lui non è un sentimento univoco; all’ammirazione per la costanza si affianca la consapevolezza dell’ingenuità e “della grande umiltà del poveretto”.
Ma perché Valastro è instancabile e supera i compagni per disciplina e sacrificio? “Ignorando la storia, i confini le ragioni della patria, si rassegnava più degli altri alla necessità che lo aveva divelto dall’isola remota”.
È analfabeta, ignorante e quindi prende la vita al fronte come un fatto di necessità. A ciò che è necessario non si fa resistenza, ma ci adegua con durezza, in attesa che le cose cambino.
Quando però le lettere iniziano a portare cattive notizie, Malvini teme di affliggerlo. Istintivamente non se la sente di dargli sofferenza; comincia allora a raccontargli bugie mentre gli legge le lettere. Le menzogne si accumulano. Che fare, d’altronde? Un grande attacco è prossimo ed è meglio che il ragazzo sia in forma e concentrato. Perciò nulla gli dice della morte della sua mula, di varie questioni spiacevoli, della perdita della speranza di sposare una giovane delle sue parti. Un soldato deve restare sereno nel momento in cui si sta preparando un assalto che potrebbe essere l’ultimo. Così il giovane, ignaro delle cose grandi, resta ignaro anche di quanto succede a casa sua.
Su Malvini e le sue bugie e omissioni sorgono inevitabilmente alcune domande. Ha agito così, come sembrerebbe all’inizio, solo per una sollecitudine affettuosa verso il ragazzo? Non aveva diritto Valastro di sapere ogni cosa, oppure bene ha fatto il superiore a esercitare una benevola censura? Il soldato che deve uscire dalla trincea e affrontare il nemico deve essere sereno, si spiega nel testo.
Ma poiché, nel caso del soldato siciliano, il massimo impegno al fronte coincide con la massima ignoranza e delle cose che riguardano la storia e la politica (non avendo potuto studiare) e di ciò che succede a casa sua, emerge un’altra considerazione. Il tenente, su un piano di minore o maggiore consapevolezza, forse fa parte anche lui, a livello basso, di un sistema più ampio di sorveglianza sullo spirito degli uomini che setaccia preventivamente ciò che si può conoscere, in vista del miglior rendimento al fronte: “Il soldato … doveva avere l’animo sgombro per affrontare serenamente la morte”.
Ubaldo De Robertis, "L'epigono di Magellano"
L’epigono di Magellano è un gran libro. Iniziamo dal linguaggio: pieno d’ironia, brillante, inaspettato e compresso, a tratti anche fiabesco. Lo stile di Ubaldo De Robertis convince subito e serve da esempio ai tanti scrittori che oggi cercano di farsi strada nell’affollato mondo della narrativa contemporanea, ma serve anche da elisir di piacere per i lettori che hanno dimenticato che oggi si può leggere qualcosa di diverso. L’autore è un poeta, e si vede nelle descrizioni, nei dialoghi, nelle situazioni che narra: “Lassù, oltre il crinale di ulivi, l’assalto di rovi e cespugli. Le ombre penetrano il bosco, divorano i colori; rimane l’odore del muschio asservito alle rocce, ai tronchi più vecchi e cadenti…”. Questa qualità è mantenuta in tutte le pagine e l’opera vanta un ritmo fortemente lirico e musicale. Anche nelle situazioni comiche, che non sono poche.
L’originalità, tratto principale di quest’opera, sta nel partire da una trama apparentemente insignificante, trasformando ogni minimo evento in una fonte di arricchimento sia lirico che di pensiero. La trama, comunque, a un certo punto esplode e si dipana come un filo di Arianna in un labirinto, guidando il lettore verso la soluzione della stessa, che ci mette in pace con quella parte di noi che borbotta, sbuffa, tentenna e brontola sempre. In pace, direi, temporanea, perché quella parte rimane pur sempre un nodo irrisolto di un uomo che si vuole irrisolto per essere in qualche modo felicemente in pace con se stesso. Quindi essere in pace non porta la pace, semmai soffoca il brontolio, che alla fine ci piace e ci permette di identificarci nel personaggio che ci fa da specchio.
La narrazione è in prima persona. Il protagonista, Mike, un ricercatore di fisica che si vuole scrittore, ha un gattone, Magellano, che osserva il mondo dai suoi vispi occhietti, diventando alter ego del protagonista, riuscendo là dove Mike fallisce, essendo migliore degli uomini in generale. Comparte il loro spazio vitale Camilla, la correttrice di bozze, che odia il gatto e che ha sempre una battuta acida pronta per partire come un fendente verso il suo datore di manoscritti nonché padron di casa. Le donne del romanzo, oltre Camilla, sono Margherita, amante dello scrittore, e Ottavia, donna di mezza età esperta di astrologia. Altro personaggio chiave è Marco, farmacista e amico per la pelle, ed è proprio con lui che si verificano le situazioni più esilaranti. La trama ha un punto di svolta quando muore Magellano, il gatto tricolore, grasso e saccente, e Mike, vedendosi costretto ad affrontare la vita da solo, rimette a posto i tasselli del suo rompicapo, grazie alla grandezza e alla saggezza delle sue amiche, donne, meravigliose donne che hanno una marcia in più, e che per dimostrarlo non hanno bisogno di superpoteri, ma di gesti minimi, di parole, di dignità.
Aleggia in tutto il libro Bulgakov, con il suo Il maestro e Margherita, che riesce a riportare il lettore verso veri riferimenti letterari, non certo sceneggiati di prima serata della TV. Troppi libri, infatti, oggi ricalcano ritmi e stilemi da sceneggiatura, come se la nostra letteratura, invece di essere guida, fosse trainata costantemente dalle tendenze della moda. L’autore dimostra che per fare un buon libro, oggi, non è necessario emulare linguaggi cinematografici, e grazie al suo stile e alla sua capacità descrittiva dell’animo umano, propone un romanzo di grandissimo pregio, partendo da spunti di vita quotidiana e restituendoli con cipiglio narrativo, preda di descrizioni poetiche, trasformandoli in grandi cose. Si sa, del resto, le grandi cose, quando le fai, non sai cosa sono, e cominciano piccole.
Claudio Fiorentini