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Giuseppe Bandi

5 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

Giuseppe Bandi

Giuseppe Bandi (1834-1894) è nato a Gavorrano. Il padre è un funzionario del governo granducale e il suo incarico porta la famiglia Bandi a stabilirsi in diverse città della toscana. Bandi diviene segretario della Giovane Italia e per questo motivo è arrestato nel 1857 e poi ancora l'anno successivo per aver favorito dei latitanti mazziniani.

Come tanti suoi coetanei romantici, alterna la poesia all'iniziativa politica. Partecipa alla seconda e poi alla terza guerra d'indipendenza, s'imbarca da Quarto con i mille e viene ferito a Calatafimi, esperienza che riporterà nelle pagine del suo libro più famoso: I mille, da Genova a Capua.

Dopo il 1870, unita ormai l'Italia, lascia l'esercito e si dedica al giornalismo, dirigendo la Gazzetta livornese, quotidiano conservatore. Nel 1877 fonda anche giornale della sera, Il Telegrafo, attuale Il Tirreno, monopolizzando l'informazione cittadina.

Scrive romanzi nel genere storico -guerrazziano che pubblica a puntate nelle appendici dei suoi e degli altri giornali.

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Pietro Mascagni

4 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica, #personaggi da conoscere

Pietro Mascagni

Pietro Mascagni (1863 - 1945) era nato in piazza delle Erbe, suo padre aveva un'avviata panetteria sotto casa ed era molto conosciuto a Livorno. Alto, dinoccolato, sempre rasato, con l'aria da ragazzo, gli occhi chiari, il ciuffo ribelle, Pietro aveva un'anima labronica spontanea, immediata, incapace di tacere e poco diplomatica. Oscillava fra l'entusiasmo e l'abbattimento, l'euforia e la malinconia. Per tutta la vita si mostrò esuberante, lottando per non far trapelare la tristezza, il malumore.

Suo padre non fu contento quando decise di dedicarsi completamente alla musica e s'iscrisse al conservatorio di Milano, dove divise una stanza con Giacomo Puccini, contribuendo a creare, forse, l'atmosfera goliardica e l'ambiente che furono d'ispirazione per la Boheme. In conservatorio si trovò male, seguiva i corsi con irregolarità, ebbe a ridire col direttore Ponchielli, alla fine se ne andò e cominciò a lavorare come direttore d'orchestra in giro per l'Italia finché non gli fu offerto un posto fisso a Cerignola.

Nel 1888 s'iscrisse a un concorso, indetto dalla casa editrice Sonzogno, per un'opera in un singolo atto. Chiese la collaborazione dell'amico Giovanni Targioni Tozzetti e di Guido Menasci, che riadattarono un dramma tratto dalla novella Cavalleria Rusticana di Verga. L'opera fu terminata il giorno della scadenza del concorso e vinse su 73 partecipanti. Fu un successo immenso, ripetuto in ogni teatro in cui fu presentata e mai più uguagliato da nessuna opera successiva, né Iris, né L'amico Fritz, né Le Maschere etc. Peccato che Verga accusò Mascagni di plagio, vinse la causa e ottenne un forte risarcimento.

Cavalleria Rusticana è la prima opera musicale verista a pieno titolo, della "Giovane scuola italiana" - come I Pagliacci di Leoncavallo e la Boheme pucciniana - laddove le altre opere mascagnane sono, prima, vagamente decadenti, secondo il gusto dell'epoca, poi, espressioniste, soggettive, tese a riprodurre la realtà con gli occhi dell'anima. La sua musica è definita esasperata perché ricca di acuti e di declamato.

Mascagni morì nella camera del suo albergo a Roma, nel 51, il suo corpo fu traslato al cimitero della Misericordia, dove si può ammirare il mausoleo.

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Amedeo Modigliani

3 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #pittura, #personaggi da conoscere

Amedeo Modigliani

Amedeo Modigliani (1884 - 1920) nasce a Livorno, da ebrei sefarditi. Suo padre è un cambiavalute impoverito, in famiglia ci sono casi di depressione, un fratello viene incarcerato. Minato dalla tbc fin da piccolo, è testardo, indipendente, bravissimo nel disegno, diventa allievo di Guglielmo Micheli e conosce Giovanni Fattori e Silvestro Lega.

La maggior parte della sua vita vede come teatro Parigi, crogiolo di cultura, sede di tutte le sperimentazioni e le avanguardie. Qui Amedeo incarna l'icona dell'artista maledetto, vivendo prima a Montmatre e poi a Montparnasse, venendo a contatto con Toulouse - Lautrec e Cézanne.

Contemporaneo dei cubisti senza esserlo, influenzato dal fauvismo espressionista, piuttosto che dall'impressionismo, dall'uso del colore puro in funzione anche emotiva oltre che costruttiva, dall'abolizione del chiaroscuro e della prospettiva, dai contorni netti, Modì frequenta Picasso e Utrillo, sviluppando uno stile suo, personale, che attinge a suggestioni arcaiche e africane.

Parte come scultore, creando maschere stilizzate, egiziane, primitive, ma la polvere aggrava i suoi polmoni già malati e deve orientarsi sulla pittura, sebbene scriva anche poesie. Il suo interesse si concentra sulla figura umana. Nel suo lavoro è veloce, riesce a terminare un ritratto in un paio di sedute e poi non lo ritocca più, ma essere dipinto da lui, dicono, è come "farsi spogliare l'anima". I suoi nudi sono considerati scandalosi, le sue mostre vengono chiuse, i suoi quadri più belli venduti per pochi spiccioli.

Torna a Livorno nell'estate del 1909, malaticcio e logorato, ma riparte subito per Parigi. I pochi soldi finiscono tutti in alcol e droghe, si lega sentimentalmente a diverse donne - Beatrice Hastings, scrittrice inglese, Lunia Czechowska - ha un figlio naturale che non riconosce poi, improvviso, scoppia l'amore con Jeanne Hebuterne, la passione folle di tutta la sua breve vita.

Jeanne è bella, ha occhi azzurri, lunghi capelli castani, un carattere docile. e dipinge con grande sensibilità. Le loro anime sono affini, il loro amore è di quelli che vanno oltre la morte, gli partorisce una figlia che si chiama Jeanne anche lei.

Modigliani muore di meningite tubercolare delirando fra le braccia della straziata Jeanne, incinta al nono mese. Gli fanno un gran funerale, che sfila per le vie di Parigi. Il carro è coperto di fiori, seguito da un lungo corteo di pittori, di scultori, di modelli, tutti gli artisti di Montmatre e Montparnasse riuniti. Le spoglie vengono sepolte al Pere Lachaise. Jeanne non regge alla separazione, non può vivere senza Amedeo, neanche per la figlia Jeanne o per il nascituro. Si getta dalla finestra e perisce con la creatura che ha in grembo. La famiglia non vuole altri scandali, la fa seppellire in un altro cimitero, lontana dal suo amato. Sarà solo nel trenta che verrà data l'autorizzazione a traslarla e inumarla vicina ad Amedeo.

La figlia Jeanne cresce a Firenze, in casa di una zia paterna, e, da adulta, scrive una importante biografia, Modigliani senza leggenda che, insieme al libro di Corrado Augias, Modigliani, l'ultimo romantico, è una delle principali fonti d'informazione sulla vita del pittore scomparso. Da segnalare anche il film Modigliani, i colori dell'anima, del 2004, di Mick Davis.

La figlia Jeanne muore cadendo dalle scale mentre si discute sull'autenticità o meno delle teste ritrovate nei fossi, sulla sua fine aleggia il sospetto dell'omicidio. L'altro figlio, quello non riconosciuto dal pittore, cresce in Francia e diventa sacerdote. Il resto della famiglia è sepolto a Livorno, nel nuovo cimitero ebraico dove, a ricordo di Modì, c'è solo una lapide.

Dopo la morte di Modigliani, le sue opere sono vendute per cifre astronomiche.

Amedeo Modigliani
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La casina delle rose

2 Dicembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La casina delle rose

Siamo giunti alla fine della serie “i mitici anni 60” presentata da Giovanni D'Ippolito che, con il suo ultimo racconto, vede i giovani liceali di paese approdare nelle grandi città per frequentare i corsi universitari. Sullo sfondo l’Italia del boom economico, le tradizioni vecchie di secoli erano state spazzate nel giro di pochi anni per far posto al progresso e a profondi cambiamenti socio-economici. I vini e i liquori diventavano emblema di una tradizione antica che identifica una terra con i propri prodotti, simboli di una civiltà contadina che andava scomparendo. Si passava dal tempo della società agricola, scandito dalle stagioni, ai ritmi frenetici della città e della vita in fabbrica, e al suono rassicurante delle campane della chiesa di paese si sostituiva la musica ad alto volume del juke-box gettonato in ogni bar.

LA CASINA DELLE ROSE

Fra il 1968 e il 1970, il Liceo Scientifico di Bojano aveva “licenziato” i primi corsi di studenti e, per la maggior parte, i ragazzi si erano iscritti all’Università un po’ per vocazione, un po’ per andar via di casa ed acquisire quella libertà da tanto tempo agognata. Le sedi più gettonate erano le più comode e più vicine, quindi ci eravamo distribuiti fra Napoli, Roma e Firenze. Naturalmente per le vacanze, sia estive che invernali, tornavamo a Bojano dalle nostre famiglie ed era proprio durante il periodo natalizio che tutta la città si trasformava in una bisca. Si giocava nelle case private, nei circoli, nei fondaci, nelle cantine, insomma in qualsiasi posto dove si potessero approntare quattro sedie e un tavolo su cui stendere le carte. I giochi più alla moda erano poker, stoppa, zecchinetta, chemin de fer. Tenuto conto della nostra condizione di studenti, durante quelle maratone di gioco, giravano parecchi soldi, ma appunto “giravano” nel senso che un giorno vincevi e quello dopo perdevi, così che alla fine il bilancio delle vincite e delle perdite spesso risultava in pareggio.

Dopo le feste, ovvero intorno all’8 o 10 di gennaio, ognuno rientrava nella propria sede di studio per riprendere le lezioni, ma venti e più giorni di gioco accanito lasciavano sempre degli strascichi, così spesso si decideva di continuare quell’attività anche all’università. Un anno in particolare ricordo che la “febbre “ del gioco era salita a tal punto che si raggiunse l’accordo che, appena ripartiti, ci saremmo rivisti a Roma, sede centrale rispetto alle altre due, dove si sarebbe svolta una tournée di poker non stop di 48 ore presso l’appartamento che alcune ragazze bojanesi avevano in fitto vicino a piazza Bologna. L’organizzazione era perfetta gli studenti che abitavano a Roma avrebbero ospitato coloro che venivano da fuori e, dato il numero dei partecipanti, furono allestiti ben quattro tavoli da gioco nella sala dell’appartamento delle ragazze.

Dopo la sistemazione di napoletani e fiorentini presso le nostre stanze, io ospitavo Flaviano, un carissimo amico col quale ci sentiamo ancora oggi molto legati, ci recammo tutti verso la “bisca” dove, come detto, cominciò un’attività che ci tenne impegnati e svegli per più di 48 ore. Intorno all’una di notte del terzo giorno cominciò la smobilitazione, il mio amico e io, salutati tutti, ci avviammo verso casa che distava poche centinaia di metri dal “covo”. Entrati, con la massima cautela per non svegliare la padrona, ci infilammo nella stanza e, distrutti, ci gettammo sui letti completamente vestiti. Dopo pochi minuti, un gemito strozzato mi scosse dal mio torpore. “Che c’è Flò? “ chiesi usando il nomignolo che gli riservo da sempre. “Gia’ ”, così mi chiama lui ancora oggi, “il dente, mi fa male forte il dente”.

Sempre fornito di medicinali, gli diedi subito due “nisidine”, ma purtroppo, passata una mezz'oretta, non solo non avevano sortito alcun effetto, al contrario il dolore era in aumento. Avevamo sentito dire che l’unica cosa che poteva dare qualche sollievo in questi casi era mettere dell’alcool sul dente, affinché fungesse da anestetico. Sapevo anche, però, che in casa non poteva esservene, poiché la padrona era astemia e io non avevo scorte personali. Pur di non dover uscire, provai a guardare addirittura nel mio armadio in cerca di un po’ di alcol denaturato che potesse servire allo scopo, ma niente. In bagno trovai solo del dopobarba Mennen che, secondo noi, non conteneva alcool a sufficienza.

Ci decidemmo così a uscire e accompagnai il mio amico a un chiosco bar che sapevo aperto tutta la notte e che si trovava vicino casa, proprio di fronte alla monumentale scalinata dell’ufficio postale di Piazza Bologna. “La casina delle rose” era una struttura costituita da tre blocchi di vetrate, uno centrale, adibito a bar , con il bancone proprio di fronte all’ingresso e a destra e a sinistra due ambienti che ospitavano tavolini e sedie.

Erano passate le due quando entrammo con i baveri dei cappotti alzati fin sopra le orecchie, le facce stravolte, la barba lunga di due giorni, le occhiaie e uno di noi con una smorfia (di dolore) dipinta sul viso. Il locale era deserto, il barista un po’ assonnato ci scrutò guardingo, sembravamo più due gangsters usciti da un film che due studenti.

“Una bottiglia di J&B “ chiese il mio amico e, quando il ragazzo fece il gesto di incartarla, allungò la mano, gli bloccò il braccio e a denti stretti disse e due bicchieri”. Ci sedemmo al primo tavolo a destra e cominciò l’operazione “dentista”. Flaviano buttò giù altre due “nisidine” e teneva sul dente dolorante un po’ di whisky, che per tutto il tempo formava una pallina sulla guancia, poi, invece di sputarlo, lo ingoiava e così, dopo poco tempo, vuoi che l’alcool avesse fatto effetto, vuoi che non sentisse più il dolore perché si era bevuto mezza bottiglia, trovò giovamento e il suo aspetto era nettamente migliorato, anzi, aveva la faccia stranamente raggiante, così anch’io cominciai a sentirmi più tranquillo e, per solidarietà, mi concessi qualche bicchierino.

Avevamo forse inconsapevolmente inventato un forte analgesico unendo quel farmaco all’whisky? Il sonno ci era passato e cominciammo a chiacchierare animatamente di sport, l’effetto combinato aveva avuto su Flò un risultato strepitoso e iniziammo a ridere e a fare commenti ironici nei confronti della “fauna” notturna che entrava e usciva dal bar. Il metronotte con la bicicletta che durante il suo giro si fermava a prendere un caffè bollente; le prostitute con vertiginose minigonne che, fra una prestazione e l’altra, cercavano di scaldarsi con un latte portoghese; Carabinieri e Poliziotti che provavano ad accorciare il loro servizio notturno fra una sosta e una sigaretta, il padrone di un cane, in ciabatte e con il cappotto sul pigiama, che spiegava di esser dovuto scendere di corsa perché l’animale aveva male agli intestini.

Il tempo passò veloce e, erano da poco suonate le cinque, quando improvvisamente il bar si animò. Il ragazzo faceva fatica a servire tanti avventori sbucati all’improvviso: “due cappuccini”, “due cornetti”, “un caffè”, “una brioche”. Tutto quel trambusto cominciò ad infastidirci così decidemmo di uscire e ci andammo a posizionare comodamente seduti di fronte, sulla scalinata dell’Ufficio Postale, per goderci ancora un po’ di tranquillità, ma fuori era ancora peggio: autobus che andavano e venivano, una piccola folla che si accalcava al capolinea, altre persone che attraversavano la piazza di corsa, dov’era finita la pace della notte? Io e il mio amico ci guardammo in faccia increduli e ci chiedemmo all’unisono: “Dove cazzo vanno tutti a quest’ora?”.

Naturalmente era gente che andava a lavorare, prendeva i mezzi per raggiungere fabbriche e botteghe, ma per noi, giovani perditempo con poca attitudine allo studio, era una cosa allora del tutto incomprensibile. Ci avviammo verso casa e, una volta finalmente a letto, dormii profondamente, al risveglio trovai sul tavolo la bottiglia di J&B che, alzandosi dal tavolino del bar, il mio amico si era infilato nella tasca del cappotto, dentro, le ultime due dita di whisky e, sotto, un biglietto “Finiscila alla mia salute. Vado a casa a Bojano a curare il dente. Ciao e grazie di tutto.”

Dopo qualche giorno, la bottiglia era vuota e la riposi insieme ad altre di grappa, di Stock 84, Vecchia Romagna, che conservavo vuote sull’armadio della mia camera in una sorta di strana collezione.

Questo episodio mi tornò in mente, qualche anno dopo, quando in un mercatino trovai una piccolissima spilla con attaccato una minuscola bottiglia verde in plastica con la scritta J&B. La comprai e finì attaccata alla mia feluca universitaria, color bluette, unitamente a tanti altri ninnoli, simbolo di qualche episodio o periodo della mia lunga vita di studente .

La casina delle rose
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LA PAURA DI GABRIEL CHEVALLIER (1895 – 1969)

1 Dicembre 2015 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia

LA PAURA DI GABRIEL CHEVALLIER (1895 – 1969)

Chevallier, soldato nella Grande Guerra, pubblica La paura nel 1930; il libro verrà ritirato dal commercio nove anni dopo per decisione comune dell’editore e dello scrittore, nel timore che un libro così crudo demoralizzasse i soldati nell’incipiente seconda guerra mondiale.

L'alter-ego dell'autore, Jean Dartemont, si muove nella Parigi dell’estate del 1914; siamo nelle ultime settimane di pace prima dell'esplodere del conflitto. Il giovane non ama il mondo militare e assiste con preoccupazione al montare del furore nazionalista che porta per esempio alcuni fanatici a malmenare un signore che in un caffè si rifiuta di cantare la Marsigliese. Si arruola comunque come volontario per partecipare all'avventura. Tutto il Paese, a digiuno di guerre vere da oltre quarant’anni, è animato da fervore patriottico. Il clima, come nelle altre capitali europee, è raggiante. Si pensa a una facile guerra di conquista.

Nel periodo di addestramento Jean si rende conto che l’esercito si regge sulle fragili gambe dell’improvvisazione e della supponenza. Ne farà le spese al fronte; infatti, ferito seriamente in un attacco cui ha preso parte brandendo bombe a mano che non sapeva usare, ha un lungo periodo di convalescenza. In ospedale, a contatto con le infermiere piene di convinto e ingenuo patriottismo, ha modo di delineare il suo manifesto antieroico, cozzando contro propaganda, retorica, eroismi più o meno strumentalizzati. Spiega che la patria di ogni uomo non si chiama Francia o Germania, ma è la Terra stessa. La paura è pienamente giustificata; il coraggio autentico nasce da essa. Inoltre aggiunge:

Il gesto dell'eroe è un parossismo di cui ignoriamo le cause. Al culmine della paura si vedono uomini diventare coraggiosi, di un coraggio terrificante perché disperato. Gli eroi puri sono rari quanto i geni. E se per avere un eroe bisogna massacrare diecimila uomini, preferisco fare a meno degli eroi”.

Come si fa, d’altronde, a dominare la paura prima di un attacco o sotto un bombardamento? Ci sono anche ufficiali tronfi e sadici che spaventano più del nemico. Le descrizioni della vita di trincea e dei patimenti sotto le granate dei tedeschi ci ricordano la scrittura di Carlo Salsa (il suo Trincee è già stato recensito su questo blog). Qualche esempio:

"Siamo prigionieri di un'Apocalisse. La terra è un edificio in fiamme con le porte murate. Stiamo per arrostire in questo incendio". Oppure: "Siamo dei vermi che si contorcono per sfuggire alla vanga".

La paura e le sue conseguenze dominano, tanto che cameratismo e amicizia brillano principalmente nel periodo della convalescenza in ospedale; poi al fronte si pensa a se stessi, si distoglie lo sguardo dal compagno morente, si invidia chi ha ricevuto un incarico che lo porta nelle retrovie, si giustifica implicitamente l'imboscato di turno perché si vorrebbe essere al suo posto. L'angoscia compromette anche la solidarietà, almeno in parte. Un altro danno della guerra è il prostrarsi della parte spirituale dell'uomo; un giovane colto come Jean è costretto a lavori duri, vivendo appiattito nella miseria della vita di trincea dove la sopravvivenza è l’unico scopo. Gli schiavi, osserva, non si ribellano perché i capi li spossano e tolgono loro anche la forza per immaginare una rivolta. L’autore è severo sia con i popoli sia con i loro dirigenti che hanno permesso il grande massacro, nascondendolo con palate di retorica. Gli uomini, ci dice lo scrittore con frasi decisamente attuali, sono pecoroni e credono a tutto ciò che si sentono raccontare: “Scelgono capi e padroni senza giudicarli, con una funesta inclinazione per la schiavitù".

Ma in ultima analisi, sono i capi ad avere le colpe più grandi. Avrebbero dovuto evitare la catastrofe che portò milioni di uomini ad abbandonare la vita civile per andare ad ammazzare. Forse non sapevano dove si stava andando, si potrebbe rispondere. La replica di Chevallier è dura:

“Se noi non sapevamo dove stavamo andando, almeno i capi avrebbero dovuto sapere dove stavano portando le loro nazioni. Un uomo ha il diritto di essere stupido per proprio conto, ma non per conto degli altri”.

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Bojano città dei motori, parte seconda

30 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Bojano città dei motori, parte seconda

Con questo spirito di gara continua, che aleggiava nell’aria del paese, due amici che non voglio nominare, si incontrarono nel piazzale della stazione mentre girovagavano senza meta con le auto, come sempre prese a prestito dai genitori. Le due macchine erano: 1) Fiat 850 Special color beige non ben definito, che di special aveva la scritta sul cofano posteriore, i cerchi che erano sempre in acciaio come nel modello base, ma, a decorazione, erano tutti bucherellati, il volante in finta radica con due razze di ferro brunito, bucate anche quelle come i cerchi, tanto è vero che spesso, durante la guida, vi ci si incastravano le dita. 2) Fiat 128 blu scuro, elegantissima, con volante, pomello del cambio e sedili in finta pelle grigio perla.

Partirono i primi sfottò: ”Dove vai girando con quella specie di macchina color cacchetta”, “Ma stai zitto con la tua puoi andare solo a un funerale” e così, come ci si aspettava, fu lanciata una sfida.

Il passeggero della 128 scese dall’auto su cui era ospitato e si improvvisò starter. Si mise con un fazzoletto bianco in mano a bordo strada, pronto a dare il via a quella che sarebbe diventata l’unica gara cittadina eseguita non a cronometro, come al solito, ma in diretta competizione fra due auto. Si era concordato di percorrere la via “di zorro” la strada che andava, cioè, dalla clinica Di Biase al mulino Bernardo, chiamata così perché il percorso disegnava una zeta.

I motori salirono di giri, lo starter diede il via e le macchine partirono sgommando. Le due auto erano pressoché appaiate e non vi fu nemmeno il tempo di ingranare la terza marcia, che già la prima curva era lì, davanti ai piloti. La gara si sarebbe decisa sul sangue freddo di chi avesse frenato più tardi e fu così che entrambi frenarono troppo tardi. La 850 all’interno della curva a sinistra toccò con la ruota posteriore il marciapiede e si sollevò fin quasi a ribaltarsi fermandosi a motore spento subito dopo la curva, la 128, invece, effettuata una brusca frenata all’ultimo istante, prese a scivolare a causa del brecciolino presente sull’asfalto e, ormai fuori controllo, con le ruote bloccate, si abbatté contro l’unico palo della luce presente su tutta la “via di zorro”. Nessuno si fece male ma si accese una interminabile discussione sulle colpe; uno diceva ”mi dovevi cedere strada” e l'altro di rimando “ma quando mai sei tu che dovevi fermarti prima”, insomma l’unico vero vincitore fu il carrozziere che, per rimettere a posto le auto, incassò un cospicuo gruzzolo dai genitori dei contendenti, che non seppero mai la verità sulla causa dei danni subiti dalle loro automobili.

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Luciano Funetta, "Dalle rovine"

29 Novembre 2015 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #recensioni, #erotismo

Luciano Funetta, "Dalle rovine"

Dalle rovine

Luciano Funetta

Tunué

Quando Rivera se ne andò, nessuno lo vide a parte noi. Lo guardammo mentre si allontanava e scompariva tra gli alberi, lo osservammo inoltrarsi nella prigione di rami, dentro la vegetazione dove ad aspettarlo erano in due, in tre o in venti, anche se in realtà lo aspettava una persona sola. Quando Rivera uscì dal suo nascondiglio, noi eravamo pietrificati dalla paura e dalla stanchezza. Rivera invece non tremava. Sapevamo che sarebbe entrato nella foresta che divorava la casa e che qualcuno lo stava aspettando nel buio. Nessuno sa cosa successe dopo a Rivera, tranne noi.

Esistono due modi per affrontare la solitudine. Il primo è combatterla, cercare relazioni, provare a soddisfare la fame di compagnia a costo di trovarsi in situazioni insipide. L'altro è abbracciarla, uscire dal grande mondo per rinchiudersi nel piccolo universo delle proprie passioni e ossessioni. E Rivera appartiene alla seconda categoria, un uomo i cui serpenti sono l'unica ragione di vita, tanto da sceglierli come compagni di vita.

Eppure, nonostante tutto, ogni volta che li guardava, si prendeva cura di loro, ne osservava comportamenti e abitudini, Rivera provava una sensazione di compiutezza, qualcosa di molto simile alla pace. Non li aveva mai temuti e questo, pensava, doveva averli disorientati, come se la sua tranquillità fosse in grado di annullare la loro reputazione e di renderli inoffensivi.

La sua ossessione lo porta a girare un filmato amatoriale di un amplesso e presentarlo al direttore di un cinema a luci rosse. È un filmato sconvolgente, il pubblico del piccolo cinema ne rimane affascinato e terrorizzato allo stesso tempo. Perché girare il filmato? Una decisione improvvisa forse, non vanità né desiderio di fama. Ma il video diventa l'inizio del viaggio di Rivera nel mondo della pornografia d'arte, un mondo dotato di una vitalità propria ma anche una sua solitudine capace di risuonare con Rivera. Come sottolinea uno dei personaggi, “l'erotismo è ciò che non conosciamo e che tentiamo di raggiungere con la fantasia, e a costo di una profonda tristezza. Sa, quello del sesso è un mondo fatto di tristezza, anche se ci teniamo a non darlo a vedere”. Il mondo di Rivera si trasforma, passando da solitudine personale a collettiva, condivisa con le persone che incontra durante il viaggio.

Sarà l'incontro con Alexandre Tapia a spingere la sua nuova vita verso l'abisso della violenza, a smontare gli equilibri appena creati. Tapia è una figura carismatica, misteriosa, un pozzo di segreti e oscurità che si abbatte sul gruppo appena formatosi e lo guiderà verso un sentiero nuovo, un sentiero fino a quel momento inimmaginabile. Non è un burattinaio, non muove i fili di una sceneggiatura già scritta, sembra invece spingere il corso del destino verso uno scopo con la volontà e la sua ossessione per Rivera.

Due domande risuonano all'interno del racconto. In ordine di apparizione, la prima è l'identità del narratore. Chi è il “noi” narrante, che tutto vede e tutto racconta? Chi sono queste figure, questi esseri che seguono, osservano, commentano la vita di Rivera, senza abbandonarlo mai, neanche quando decide di entrare nella foresta e di unirsi al buio? Non è mai rivelato, la loro natura è lasciata all'immaginazione del lettore, ma Rivera può vederli e questo porta a considerarli come personaggi interni al racconto, figure senza nome e volto, ombre che diventano guardoni e spiano il dramma dell'esistenza di un uomo. Sono parte della storia molto più di quanto non lo sia un semplice narratore ma non intervengono mai, sono figure invisibili sullo sfondo, eppure sempre presenti.

La seconda domanda è l'identità di Tapia. Un uomo, un vecchio, residente a Barcellona, una vita di violenze subite alle spalle e ossessionato da un copione per un film pornografico che non è mai stato prodotto. Un uomo solo, senza mai amici, pochissimi sanno della sua esistenza. Nessuno poteva mai recitare quel copione, estremo persino per la pornografia snuff alla quale si ispira, espressione di una vendetta contro la vita e le sue ingiustizie. Nessuno tranne Rivera, con la sua solitudine, la volontà di sperimentare e l'ossessione per i serpenti. Ma il ruolo di Alexandre Tapia in questa storia non sarà mai chiaro fino alla fine. La sua apparizione però accelera gli eventi, la bolla in cui i personaggi si sono ritirati esplode e il mondo intorno a loro inizia a sgretolarsi rapidamente. Chi è davvero Alexandre Tapia?

Dalle rovine è un incubo, un viaggio negli anfratti più profondi del desiderio e delle ossessioni umane, un percorso fatto a testa alta, guardando negli occhi i mostri, abbracciandoli e trasformandoli in una forma di umanità terribile. Ma sarebbe ingiusto nei confronti dell'autore ridurre il romanzo a una semplice esplorazione del lato oscuro dell'uomo, per quanto eseguito in modo magistrale. I suoi personaggi sono fragili, le loro disgrazie fanno provare tenerezza e affetto. Si abbandonano consapevolmente alla discesa nell'oscurità seguendo sentimenti umani, reali; la solitudine e la violenza che li circonda e li pervade è la nostra debolezza, ed è con questo spirito che il lettore affronta il racconto, assorbendo situazioni e sensazioni dolorose come pugni messi a segno da un pugile esperto, o forse da un aguzzino il cui scopo è esaltare l'esperienza del dolore, della perdita, della mancanza, mescolati a sogni, speranze ed episodi di tenerezza e affetto, perché senza questi ultimi non possono esistere i primi.

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Bojano città dei motori, parte prima

28 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Bojano città dei motori, parte prima

Negli anni sessanta l'economia italiana giungeva al suo massimo livello di espansione, dando luogo al fenomeno conosciuto come il "miracolo economico" e ad altri fenomeni che hanno mutato per sempre il costume dell'intera società, cambiamenti radicali scaturiti principalmente nelle scuole e nelle università. Così anche il più piccolo paese di provincia venne risvegliato dal torpore della sua tranquilla quotidianità dall'arrivo di molte auto sempre più potenti. Il racconto di Giovanni D'ippolito si divide in due parti, una prima generale e una seconda … più privata.

BOJANO CITTA' DEI MOTORI.

Alla fine degli anni ‘60, inizio ‘70, un cospicuo numero di giovani bojanesi viveva il boom della motorizzazione, tutti i ragazzi del paese, da poco patentati, si radunavano con le proprie auto in piazza intorno al bar Manna. Le macchine erano, naturalmente, tranne per qualche rara eccezione, di proprietà dei genitori che continuavano a spostarsi a piedi, mentre i giovani prendevano l’auto anche se la piazza distava da casa, a volte, solo qualche decina di metri. Così, parcheggiate sotto i platani, facevano bella mostra di sé: Fiat 600, 750, 850 e 128, ma anche qualche Mini o addirittura MiniCooper, Afa Romeo Giulietta,o Giulietta SPRINT.

La benzina costava all'incirca 140 lire al litro e con mille lire (500 normale e 500 di super) si riuscivano a fare parecchi chilometri. Una domenica mattina, nel bel mezzo delle discussioni che si creavano su quale fosse l’auto migliore e su chi il miglior pilota, uno dei giovani disse: “Adesso basta, scommetto 5000 lire che faccio Bojano-Spinete in sei minuti!”. Immediatamente alcuni presenti, improvvisandosi bookmakers, iniziarono a raccogliere le scommesse. La sfida fu accettata, invece, da colui che la riteneva un’impresa assolutamente impossibile.

La maggiore difficoltà da superare fu quella della verifica del tempo, poiché ciò comportava che una persona, al di sopra delle parti, munita di cronometr, fosse a bordo dell’auto concorrente. Individuato il temerario cronometrista… si parte!

Quel giorno la gara fu persa e la scommessa pagata da parte del pilota battuto. Però, da quella mattina uno strano meccanismo era scattato nelle menti dei giovani bojanesi sempre alla ricerca di nuove emozioni e questo raduno domenicale divenne un appuntamento fisso, dapprima mensile poi con cadenza sempre più ravvicinata, fino a diventare settimanale. E più persone fallivano il tentativo, più erano quelli che volevano cimentarsi.

A conti fatti si sarebbe dovuta tenere una media di velocità (per fare più o meno 6 km) che non era proibitiva, sulla carta, ma che nella realtà diventava impossibile, tenendo conto che si partiva dal centro di Bojano per arrivare al centro di Spinete, percorrendo un centro abitato prima, poi una strada provinciale che, dopo Monteverde, diventava sconnessa, con numerosi saliscendi, e piena di curve.

Questa storia andò avanti per mesi fino a quando si presentò “al nastro di partenza” una Giulietta sprint tirata a lucido e “truccata”, come si diceva allora riferendosi a un motore un po’ manipolato per renderlo più spinto. Un mormorio di ammirazione si levò dalla piccola folla che, come oramai d’abitudine, si era radunata per assistere alla partenza. Il cronometrista ufficiale si accomodò a bordo e fu lo stesso che successivamente raccontò tutto ciò che era accaduto.

“Fino a metà percorso“ disse, “eravamo quasi in media, solo che si procedeva a una velocità folle, tanto che a 1 km dall’arrivo, assalito da un po’ di paura, mentii dicendo: rallenta tanto mancano ancora due minuti, ma il conducente, per tutta risposta, accelerò ancora di più, imboccò la salita che conduceva alla piazza di Spinete a velocità elevata e, dopo una curva a destra, perse il controllo della vettura e piombò a tutta velocità sulla colonnina del distributore Agip distruggendola...”

La nuova e bellissima auto era molto danneggiata, ma l’unica preoccupazione del pilota, sceso a constatare i danni, fu quella di chiedere il tempo impiegato, la risposta? 6’ e 20’’!!!! Tutto inutile…

(Continua)

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Guglielmo Micheli: allievo di Fattori, maestro di Modì

27 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #pittura, #personaggi da conoscere

Guglielmo Micheli was born in Livorno on October 12, 1866, he will be remembered above all as a pupil of Fattori and teacher of Modigliani.

Son of a typographer, in 1888 he married the granddaughter of the sculptor Giovanni Paganucci but the marriage met the opposition of the young woman's family, given the still uncertain economic position of Micheli.

From 1894 to 1906 he always lived in Livorno, where he founded and directed a drawing school. His studio became a meeting and learning point for many painters of the post-Macchiaiol generation, including Amedeo Modigliani, Gino Romiti, Oscar Chiglia, Llewelyn Lloyd, Manlio Martinelli, Benvenuto Benvenuti, Renato Natali, Raffaello Gambogi.

It is thanks to Lloyd's memories that we know Micheli's teaching methods, which leaves students alone with the model in pose, recommending them to think about shapes and tones. On his return he makes his comments but never intervenes on the paintings.

During the summer it is easy to meet Giovanni Fattori in his studio. Fattori was his teacher, he prefers and favors him. Their correspondence between 1890 and 1908 shows the privileged relationship between the two. Fattori has great respect for the student: "I taught Memo to make horses," he says, "and he taught me to make marines."

Micheli's early studies depicting pairs of oxen, horses and landscapes are in factorian style, both as a trait and as a subject.

Then the student will find his specificity and expressive autonomy. In his maturity, in fact, Micheli dedicates himself to landscapes, in particular he portrays bright seas.

He also dedicates himself to the engraving and illustration of books for the Belforte publishing house in Livorno.

He also dies in Livorno in 1926

 

 

 

Guglielmo Micheli nasce a Livorno il 12 ottobre 1866, sarà ricordato soprattutto come allievo di Fattori e maestro di Modigliani.

Figlio di un tipografo, nel 1888 sposa la nipote dello scultore livornese Giovanni Paganucci ma il matrimonio incontra l’opposizione della famiglia della giovane, vista l’ancora incerta posizione economica di Micheli.

Dal 1894 al 1906 vive sempre a Livorno, dove fonda e dirige una scuola di disegno. Il suo studio diventa un punto d’incontro e di apprendimento per molti pittori della generazione postmacchiaiola, tra cui Amedeo Modigliani, Gino Romiti, Oscar Chiglia, Llewelyn Lloyd, Manlio Martinelli, Benvenuto Benvenuti, Renato Natali, Raffaello Gambogi.

È grazie ai ricordi di Lloyd che conosciamo i metodi d’insegnamento del Micheli, che lascia gli allievi soli con il modello in posa, raccomandando loro di pensare alle forme durante il disegno e ai toni nella pittura. Al ritorno fa i suoi commenti ma non interviene mai sui dipinti.

Durante l’estate è facile incontrare nel suo studio Giovanni Fattori. Il Fattori è stato suo maestro, lo predilige e lo favorisce. Dalla loro corrispondenza, intercorsa fra il 1890 e il 1908, si evince il rapporto privilegiato fra i due. Fattori ha grande stima dell’allievo: “Io ho insegnato a Memo a far cavalli”, dice, “e lui a me a far marine.”

Sono di stile fattoriano, sia come tratto sia come soggetto, i primi studi di Micheli, che ritraggono coppie di buoi, cavalli, paesaggi.

In seguito l’allievo troverà una sua specificità e autonomia espressiva. Nella maturità, infatti, Micheli si dedica ai paesaggi, in particolare ritrae marine luminose.

Si dedica anche all’incisione e all’illustrazione di libri per la casa editrice Belforte di Livorno.

Muore, sempre a Livorno, nel 1926

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La Bianchina

26 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La Bianchina

Ancora un racconto di Giovanni D'Ippolito e dei suoi “mitici anni 60”, liceali di un piccolo paese di provincia, le prime auto usate per raggiungere la scuola dai paesi vicini erano un vero lusso e motivo di interesse per i ragazzi sempre in cerca di novità che, in questo episodio, diventano il pubblico involontario di un mondo che non c'è più.

LA BIANCHINA

Era una splendida giornata di fine maggio, a Bojano c’era il sole e soffiava una bell’aria, una di quelle giornate che ti avvisano che l’estate è vicina e tutte le finestre delle aule, che ospitavano il Liceo Scientifico posto all’ultimo piano delle scuole di Corso Amatuzio, erano spalancate. Le lezioni non erano ancora iniziate e qualcuno prendeva il sole, qualcuno chiacchierava e altri, la maggioranza, erano intenti a copiare i compiti dai quaderni dei più bravi.

Daniel Procosky quella mattina arrivando a scuola, parcheggiò la sua 850 coupé nuova fiammante, proprio sotto le finestre e, in un attimo, tutti si erano affacciati ad ammirare quel gioiello, di uno stupendo color bianco latte luccicante che aveva ancora la targa di cartone. Improvvisamente all’altezza del “tabacchino” (Armando dammi 3 nazionali semplici e due super con filtro!…55 lire) apparve l nostro compagno di classe Peppe Carano alla guida della sua Bianchina color celeste pallido completamente scappottata e, vedendoci tutti affacciati, cominciò a salutare pensando di essere lui l’attrattiva del giorno. Noi ci rendemmo conto che si approssimava velocemente all’area parcheggio, e distratto com’era, avrebbe potuto causare un incidente, allora cercammo di avvertirlo in ogni modo urlando e sbracciandoci, ma lui, al contrario, continuava a guardare verso l’alto e lasciò addirittura il volante per rispondere a quella che pensava essere una vera e propria ovazione e, troppo tardi per prendere qualsiasi altro tipo di provvedimento, in un attimo……PATATANGHETE... tamponò violentemente l’auto nuova di Daniel Procosky.

Un silenzio irreale era improvvisamente sceso sulla scena, tutti eravamo restati senza parole, impietriti. Il muso della Bianchina era completamente accartocciato e interamente infilato nel motore di quella che fino a pochi attimi prima era una favolosa 850 coupé nuova di fabbrica. Peppe cercò di aprire la portiera, ma era incastrata e, per scendere, scavalcò goffamente lo sportello, ruzzolando quasi al suolo (non era mai stato un atleta).

Non si curò dei danni causati: era il suo giorno, aveva il suo pubblico, guardò ancora una volta verso le finestre erano tutti là, a bocca spalancata e aspettavano un suo gesto, allora unì le mani e alzando le braccia le agitò come fanno i campioni che salutano dopo una vittoria. A quel punto sì che si scatenò l’ovazione accompagnata da uno scrosciante applauso che echeggiò a lungo per le strade del paese.

Giovanni D'Ippolito

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