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Canta Napoli

1 Settembre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #personaggi da conoscere

Canta Napoli

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Gegé di Giacomo, (Napoli 1918- Napoli 2005) Aveva 87 anni quando se n'è andato, era l'aprile del 2005; Gegè era tornato a Napoli, dove era suo desiderio finire la sua vita.
Chissà se prima di morire abbia voluto dare una ripassata di spazzole sui magici piatti della sua magica batteria... e magari, perché no, ripetere al ritmo di esse, magari con il filo di voce che gli era rimasta, un sshhhh... canta napoli... come aveva fatto mille volte nel corso delle sue serate musicali, seduto al suo strumento che dominava come pochi al mondo. Se si esclude il grande Gene Krupa, che suonò con l'orchestra del mitico Benny Goodman, e, guarda caso, era un virtuoso proprio come lui; e come lui era uno dei pochissimi, anzi rarissimi, giocolieri della batteria.
Prima di Gene Krupa, narra la storia della musica, non esistevano o quasi gli "assolo" di batteria, o quanto meno erano rarissimi, anche perché lo strumento all'interno di una band o di una orchestra era considerato di secondaria importanza. Lui fu il primo ad esibirsi da solo facendo impazzire i suoi fans.
Noi ricordiamo Gegè come batterista del complesso di Renato Carosone, ma pochi sanno che,prima che col grande Renato, Gegè ha suonato per anni con altre orchestre dirette da illustri maestri, basti ricordare, tra gli altri, i maestri Gino Conte e Nello Segurini; erano gli anni della seconda guerra mondiale, e Gegè era un giovanotto pieno di idee e di belle speranze di circa 25 anni. Fu solo verso la fine del 1949 che Gegè incontra Renato Carosone; i due erano coetanei, Renato era un pianista di valore, con alle spalle già una quindicina di anni di esperienza di pianoforte, e aveva appena due anni di più; intendersi fu facile. Renato avrebbe valorizzato la sua grande personalità, e lo avrebbe condotto per mano alla fama, e come batterista e come cantante. Carosone, infatti, che cercava musicisti e strumentisti per mettere su un complesso musicale, conosce e ingaggia all'occasione un chitarrista di talento, olandese di nascita, il suo nome è Peter Van Wood.
Van Wood è un chitarrista giovanissimo, è un ragazzo dal sorriso accattivante che si presenta subito mettendo sul tavolo tutta la sua arte: fa sentire a Renato le sue variazioni e i suoi equilibrismi, trattando le corde del suo magico strumento, sa fare l'eco e il riverbero, e mostra il suo curriculum che non è niente male: ci sono in prima pagina i suoi concerti all'Olimpia di Parigi (1947) e alla Carnegie Hall di New York (1948). Resta con Carosone fino alla fine del '54 quando lo lascia per formare un quartetto di cui sarà direttore e primo attore. E si dedica quasi esclusivamente a suonare nei night club più importanti d'Europa.
Tanti i suoi successi, canzoni di cui scrisse musica e parole: Tre numeri al lotto, Mia cara Carolina, e poi quel motivetto che in brevissimo tempo vola sulle ali del successo; parliamo di Butta la chiave, dove il chitarrista-cantante, ormai italiano e napoletano d'adozione, presenta un dialogo tra il cantante (lui) e la sua chitarra (che con riverberi particolari sembra parlare e rispondere all'innamorato che canta).

Gelsomina... Apri il portone... va bene, butta la chiave allora...
Butta la chiave, butta la chiave,
cara piccina, lasciami entrare, butta la chiave del porton.
Mamma che freddo, freddo da cani,
fammi salire, non si può stare tutta la notte sul porton.
Se il tuo perdon questa sera avrò,
mai più, mai p
iù ritarderò.

Poi lascia definitivamente la musica per l'astrologia, di cui è uno studioso altrettanto appassionato, pur continuando a suonare per sé e per gli amici e ad incidere dischi, muore a Roma nel 2010, alla venerabile età di 83 anni, dopo aver sofferto a lungo per un brutto male..
Ma torniamo a Gegé: a Carosone serviva un terzo elemento, e lo trovò appunto in Gegè, e con questi due compagni di viaggio, Peter e Gegè, mette su il primo complesso della sua carriera, che chiama Trio Carosone, riesumando il nome che ha già utilizzato nei primi anni della sua avventura musicale. Il Trio Carosone infatti ha una storia antica, e non tutti la conoscono.
Il primo complesso era formato da tre persone, dallo stesso Renato, che aveva si è no sedici anni, e chiamò a collaborare con sé il fratello Ottavio e la sorella Olga.
Poi avvenne questo: Carosone, appena diciassettenne, dopo anni di studio al pianoforte, viene invitato a recarsi in Africa dal titolare di una compagnia di artisti di vario genere, che cercava un pianista, appunto, perché suonasse lo strumento e facesse anche da direttore della piccola orchestrina che la compagnia si portava appresso. E alla fine di quella imprevista (per il nostro artista) tournée, la compagnia rientra in Italia, ma Renato decide di restare laggiù perché nel frattempo ha ricevuto una richiesta di far parte di un complesso jazz ad Addis Abeba.
Accetta immediatamente, tutto è buono per accumulare esperienza (e un poco di denaro, che non fa mai male) e lui non si tira indietro; da questo momento le scritture si susseguono, il suo nome comincia a fare cartello e viene corteggiato e ricercato da vari impresari.
Torna a Napoli alla fine della guerra, siamo nel 1946, con esperienza da vendere e con tante idee nella testa, che bolle come le viscere del Vesuvio. Intanto si è sposato con Lita che gli darà un figlio, Pino. Il padre di Renato è un impresario che lavora per il Teatro Mercadante di Napoli, e lo vorrebbe là, nella sua città, magari proprio al Mercadante, ma Carosone non se la sente; parte per Roma, dove ottiene successi come solista col suo strumento fatato. Già affermato, torna a Napoli per la seconda volta, e stavolta la cosa è definitiva.
Qualcuno che lo ha sentito suonare e cantare, e lo conosce per la fama che comincia a circolare anche nella città del Vesuvio, un signore che ha intenzione di aprire un nuovo night club a Napoli, gli chiede di formare un complesso musicale. Siamo nell'anno 1949. Carosone ha 29 anni.
Renato, perché non metti su un complessino?
E Renato non se lo fa ripetere due volte. E comincia a pensarci su seriamente. Intanto già conosce Van Wood, che ha 22 anni. Gli viene in aiuto lo stesso signore che lo assume per questa nuova avventura, segnalandogli Gegè di Giacomo, un simpatico ragazzo che si presenta dietro dei grossi occhiali da vista che gli calano costantemente sul naso, e che lui si tira su con l'indice della mano. E senza batteria.
Immagino che in quell'incontro tra i due, presente l'amico Peter, si sia svolto un dialogo press'a poco così:

E tu chi si'?
J' songo Gegè.
Ebbe' che vuò?
Ma comme, j' sono 'a batteria.
E addo' sta 'o strumento?
' o str
umento? ... mmhhh...

Renato è perplesso e Gegè lo nota, non si scompone più di tanto; servendosi di una sedia, un cabaret che prende da sopra un tavolo, e due o tre bicchieri diversi tra di loro, di un fischietto tirato fuori dalla tasca alla maniera di un giocoliere, cerca e trova due pezzi di legno e improvvisa una batteria
Eccolo lo strumento, Rena', stamm' a senti'...
E comincia a fare il suo pezzo che lascia esterrefatti ed estasiati sia Renato Carosone che Peter Van Wood.
Il Trio Carosone è nato.
Renato e i suoi due amici raggiungono un successo enorme in brevissimo tempo, lui è già conosciuto come solista al pianoforte, ma adesso, con questo trio fantastico, viene richiesto da i night club di Napoli, di Roma, e di tutta Italia, e in breve comincia a girare il mondo.
La radio e i dischi contribuiscono al successo, presto viene la televisione, e il trio Carosone è richiestissimo; molte le apparizioni, poi sostituite dal quartetto e quindi dal quintetto e, infine, complesso definitivo, dal sestetto, che prenderà il nome di "Renato Carosone e il suo complesso".
La fama aumentava ad ogni performance e ad ogni apparizione sul mercato dei dischi; anche perché alle canzoni celebri napoletane, che riproponeva ed interpretava con arrangiamenti particolari da lui stesso studiati, cominciò ad aggiungere canzoni nuove, sempre in napoletano, ma con una verve e con un piglio tutto particolare, affidandone alcune alla voce sbarazzina di quel grande personaggio che sedeva alla batteria, sempre con quegli occhialoni calati sul naso, che si tirava su con l'indice della mano destra, Gegè Di Giacomo.
Renato componeva la musica delle canzoni, e le parole le scriveva quel grande paroliere napoletano che risponde al nome di Nisa, al secolo Nicola Salerno, che aveva nella testa e davanti agli occhi la voce e le movenze del batterista, il quale inventò l'idea fantastica di iniziarle con quel

sssshhhhhh... canta napoli, napoli...

Il successo strepitoso di quel ... canta napoli... nacque per caso.
Il complesso di Renato Carosone si esibiva al Caprice di Milano; era l'anno 1954; e la storia dice anche il giorno: la del 13 maggio; gli strumentisti stavano suonando l'introduzione alla canzone la pansé (Nisa-Carosone) quando Gegè se ne uscì con un inaspettato ... canta napoli... napoli in fiore... e poi attaccò al momento opportuno a cantare.
Da quel momento ad ogni canzone da lui eseguita, Gegè introduceva la sua esibizione con
.. ssssshhhhh... canta napoli...

canta napoli... napoli a sospiro... ('o suspiro)
canta napoli... napoli in fiore... (la pansè)
canta napoli... napoli in farmacia... (pigliate 'na pastiglia)
canta napoli... napoli matrimoniale... (t'è piaciuta)
canta napoli... napoli petroliera... (caravan
petrol)

a stigmatizzare la Napoli che scaturiva dai testi delle canzoni.

Quando Peter Van Wood lascia il complesso, Carosone ha necessità di rivedere le cose; il trio infatti non esiste più; ecco allora che mette su un quartetto, che poi si trasforma in quintetto, fino ad assestarsi definitivamente in sestetto: pianoforte, batteria, chitarra, sassofono, clarino, contrabbasso.
I successi si susseguono ai successi, da maruzzella (1955, Enzo Bonagura parole, e Carosone musica) a 'o sarracino (1958, testo Nisa), da torero (1958, Nisa) a tu vuo' fa' l'americano (1958, Nisa) ) a caravan petrol (1959, Nisa), per ricordarne solo alcuni, e applausi a scena aperta quando esegue per la prima volta Pianofortissimo, che Renato aveva composto per eseguire da solista.


Caravan petrol!... Caravan petrol!... Caravan...
M'aggio affittato nu camello,
m'aggio accattato nu turbante,
nu turbante â Rinascente,
cu 'o pennacchio russo e blu...
Cu 'o fiasco 'mmano e 'o tammurriello,
cerco 'o ppetrolio americano,
mentre abballano 'e
beduine
mentre cantano 'e ttribbù...

Comme si' bello
a cavallo a stu camello,
cu 'o binocolo a tracolla,
cu 'o turbante e 'o narghilè...
Gué, si' curiuso
mentre scave stu pertuso...
scordatello, nun è cosa:
Ccá, 'o ppetrolio, nun ce sta...
Alláh
! Alláh! Alláh!
Ma chi t''ha ffatto fá? ...

Renato Carosone decide di ritirarsi dalla scena, è il settembre del 1960, e lo fa in diretta Tv, ha appena quarant'anni. Posso dire, io c'ero, davanti al teleschermo, avevo finito il liceo e frequentavo i primi anni dell'Università a Roma, iscritto alla facoltà di giurisprudenza; e fui sorpreso non poco dell'annuncio:

"preferisco ritirarmi ora sulla cresta dell'onda, che dopo, assalito dal dubbio che la moda jè-jè e le nuove armate in blue jeans possano spezzare via tutto questo patrimonio accumulato in tanti anni di lavoro e di ansie".

Stavano uscendo i famosi urlatori (Tony Dallara e company) e avanzavano quattro giovani inglesi che avrebbero occupato la scena internazionale a lungo, The Beatles.
Fu così che Gegè rimase solo; in dubbio se continuare o lasciare anche lui.
Decide per la prima soluzione; e da solo partecipa al Festival della Canzone Napoletana l'anno appresso, interpretò due canzoni, ma senza successo. Cosa che si ripeté nel 1962.
Nonostante tutto, mise su un complesso, Mister CantaNapoli e il suo complesso; al Teatro Massimo di Milano Gegè dette uno spettacolo indimenticabile, suonò la batteria con le mani, i gomiti, le braccia, sedendocisi sopra, e poi - riprese le sue bacchette - prese a batterle su ogni cosa gli capitasse a tiro, muovendosi sul palcoscenico, le chitarre, il pavimento, sul contrabbasso facendo con questo ingombrante strumento un vero e proprio dialogo musicale. Tra le altre canzoni, quella sera, cantò O pellirossa, una canzone scritta per lui dall'amico Renato, quasi un omaggio al suo vecchio capitano, che faceva così

Tumba Catumba Tumba CatumbaUè! Uè!
So' Catumbo o pellirossa
'o cchiù bello d''a tribù.
io me faccio nu tatuaggio
col rossetto di mammà!
So Catumbo o pellirossa,
tengo a lancia e a pippa 'e gesso.
Cca nisciuno me fa fesso!
Songo 'o meglio d' 'a tribù!
Chi me chiamma: Freccia nera
Chi me chiamma: Penna gialla
Uh! Ma ll'anema d' 'a palla!
Nun
capisco niente cchiù!

Ma i bei giorni erano ormai andati. Chiuse così anche lui.
Renato riapparve quindici anni dopo, e vicino a lui anche Gegè, ma per un breve flash; riapparve vicino all'amico di sempre Renato, che voleva rientrare nel mondo dello spettacolo. Gegè viveva ormai stabilmente a Milano. Ritornò nella sua città, perché malato, negli anni novanta (era stato per una quarantina d'anni a Milano), e per l'occasione, Carosone, che lo sapeva gravemente malato, gli scrisse - dedicandogliela - una canzone: Addo sta Gegè. Che non fece in tempo ad incidere; Renato Carosone, infatti, per una strana sorte, morì quattro anni prima di Gegè, nel maggio del 2001.
I funerali, a causa delle sue gravi condizioni di salute, non videro presente Gegè; che due anni dopo fu costretto su una carrozzina; fino alla fine. La Regione Campania nel 2003 consegnò, al nipote del grande Salvatore di Giacomo, in una cerimonia svoltasi nella casa del cantante a Poggioreale, il premio Carosone.
Due anni dopo, nel 2005 Gegé ci lasciò per sempre insieme alle sue canzoni scenette.



marcello de santis

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L'Altro

30 Agosto 2015 , Scritto da Lorenzo Campanella Con tag #lorenzo campanella

L'Altro

Quante volte si dovrà accarezzare l’inopportuna sacralità di gesti accorti e poco noti. Dalle viuzze inorridite di paesi perplessi, radicati nell’altrui sventura. Focolai di persone, in processione verso il magma della vita, che potrebbe trovarsi in una stretta di mano, rapida e tagliente. Dal bosco i pensieri trovano conclusione in un’ampolla di sabbia. In fondo è questa l’Italia, quella in cui la corruzione invade anche le private case, si gioca con la vita e con la morte degli altri. L’altro è valenza se il percorso è completato, se la linea viene tracciata in tempo, se il tempo non diventa debito. E se il debito non diventa questione di vita. L’alterità spunta come un fungo se fruiamo del nostro Io, se accediamo ad una dimensione umana dell’esistere. Non basta capovolgere, bisogna rivolgere. Perlomeno volgere (lo sguardo, le attenzioni). Domani è l’altro e mai oggi. Domani il gesto, la nota musicale, la bicicletta dietro la vetrina. L’altro è anche invasione, inversione, complessità. Ma all’estremo della complessità c’è il mare limpido della semplicità. Gli estremi combaciano. L’altro è in noi. L’altro urla, ci urla, si può intravedere nei silenzi o in mezzo al caos delle metropoli. L’altro in noi è sentenza, è vincolo che garantisce libertà. Noi siamo diversi per ritornare uguali. Chissà se capiremo che la libertà non ha realtà se non quella soggettiva, personale. Nella realtà dell’altro si completa la nostra. Sei marinaio e corsaro. Sei giudice e imputato. L’altro non è immutabile, come noi. Ma nella tangenziale di percorsi affollati è improbabile trovare una serenità durevole.
L’indifferenza che ti uccide, quella che ti colpisce alle spalle, quel veleno quotidiano, quella che nega la libertà è quella che ti fa morire dentro. La morte interiore. Una rinascita viene rincorsa quando i totem del passato vengono abbattuti, quando il simbolo trova una sua consapevolezza. Accedere ad una dimensione umana dell’esistere significa non praticare indifferenza, carro d’esclusione, d’isolamento. Perché quando ti lasciano solo inizi a piangere. Perché chi ti lascia solo non ti vuole bene ed è uno dei messaggi più semplici da capire. Si possono spendere migliaia di parole, ma chi pratica esclusione non è una persona solidale. Una solidarietà umana si realizza nell’aiuto, non nel profitto. Ho commesso un sacco d’errori, ma le persone non devono essere lasciate sole. Una società che esclude, che emargina non è positiva. Il messaggio l’ho lanciato, vediamo chi comprende.

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Malafemmena

29 Agosto 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #cinema

Malafemmena

No signore! Non è come pensate voi. Io 'sta canzone qua non l'ho scritta per quella bellissima donna che era Silvana Pampanini.
Però ve l'ho fatto credere, ehhh? Per tutti questi anni i giornalisti non hanno fatto altro che divulgare questa notizia, e io zitto, a leggere, e mi dicevo: voglio proprio vedere come va a finire! ma, in fondo, a me stava pure bene.
La donna del mistero rimaneva veramente del m
istero.

Silvana, la grande Silvana, come era bella! e se ve lo dico io, che sono grande intenditore di donne e grandissimo fruitore specialmente di quelle belle, e perché no, anche bellissime, ci potete credere. Silvana Pampanini era 'nu babà, era - che vi devo dire - 'na serenata sciuè sciué, era 'na cosa grande, nel vero senso della parola. E poi che v'aggi' 'a di'? A me le donne mi piacciono! Le adoro, Tutte. Le racchie (be', insomma!), e le belle bellissime!
A me m'hanno rovinato le femm
ine…

"Totò era un vero signore, una persona di una gentilezza incredibile. E parlo non di Totò attore, no, quello lo sappiamo tutti quanto era bravo, era un grande della scena in quegli anni là, e col tempo è diventato un'icona vera e propria della storia del cinema italiano. No, parlo di lui come uomo, e come compagno di lavoro: davvero insuperabile per cortesia e garbo. Lo ricordo al mio fianco (meglio: io ero al suo fianco) nel film "47 morto che parla"; bene dentro quella pellicola c'era un po' di tutto, dalla comicità alla satira, ma c'era soprattutto un grandissimo Totò.

Credo di avere imparato molto, a girare quel film insieme a Totò; sono diventata grande tutto insieme, a stare vicino a lui; io che ero giovanissima, ho avuto i suoi incitamenti, i suoi insegnamenti; ma quello che più contava per me, tutta la sua stima. E la sua ammirazione. Era innamorato di me? Che vi debbo confessare? che sì? e che si è dichiarato? e che la cosa non è andata in porto? Immaginate pure quello che volete, io non ve lo dico di certo. Del resto la verità è molto vicina a quello che i giornali hanno raccontato. Mi voleva sposare? Forse sì, ma io ripeto, ero una ragazzina, e i miei genitori in ogni caso non mi avrebbero (hanno?) dato il consenso. Mi colmava di gentilezze, mi faceva recapitare in camerino mazzetti di fiori, oppure scatole di cioccolatini, ma con una discrezione che poi nel corso della mia lunga carriera non ho riscontrato in nessun altro uomo. Vi confesserò solo questo: lui, sì, mi voleva bene; e anch'io, gliene volevo; e un giorno gli lessi negli occhi il desiderio di me; glielo dissi: ti voglio bene, ma come si vuole bene a un padre.
Capì. Ma continuò a volermi bene in silenzio, a farmi regalini, a starmi vicino… Scrisse quella bella canzone. Era per me? Mist
ero!"

Femmena,
tu si 'a cchiù bella femmena,
te voglio bene e t'odio
nun te pozzo
scurdà...

La canzone è dell'anno 1951. Sia le parole che la musica sono di Totò, che, badate bene, non sapeva scrivere di musica e non la conosceva, non avendola mai studiata. La scrisse in un momento di sconforto (o di meditata allegria? non lo sapremo mai), nella sua lingua, il napoletano, lingua nella quale compose una infinità di poesie molte delle quali d'amore. In napoletano malafemmena sta indicare una donna di malaffare, e per usare il termine più volgare, anche una prostituta. Totò però lo usa in senso diverso, e le da un significato particolare, quello più morbido e più appropriato al suo caso di "donna che fa soffrire", una femmina che fa soffrire le pene d'amore a chi la ama.

Stavo a Formia, per girare un film… (era il mese di aprile del 1951, il film era: Totò terzo uomo, per la regia di Mario Mattoli; anche qui Totò aveva vicino una bomba sexy dell'epoca Franca Marzi la prima supermaggiorata del cinema italiano; e nel cast c'era il meglio della cinematografia di allora: Carlo Campanini, Aroldo Tieri, Mario Castellani che per anni fu la sua spalla nelle gag anche televisive, Alberto Sorrentino, l'eterno morto di fame, lugubre e dal viso affilato come un morto, e una Bice Valori alle prime armi)…e mi vennero spontanee queste prima parole, femmena, tu si' 'na malafemmena… erano belle, dense di significato,. mi piacquero e le scrissi sul retro di un pacchetto si sigarette (un pacchetto di Turmac), ma poi accartocciai l'involucro per gettarlo, e con esso gettai involontariamente anche quel mio principio di canzone. Ma i versi mi giravano sempre in testa; tanto che ci fischiettai sopra una musica, semplice, leggera, Ci stava proprio bene. Quando uscimmo dal set tornando all'albero le feci sentire al mio autista (il signor Salvatore Cafiero) che si schifò, mi disse che "… è 'na lagna, dotto'…".
E tu si' 'nu fesso, e nun capisce proprio niente!. Tie'…
Continuai a fischiettare e a comporre mentalmente.
Una volta tornato a casa a Roma, poi, mi accomodai al pianoforte con un dito solo, seguendo il fischio cercai le note relative, e piano piano nacque la musica. Alla quale aggiunsi le parole che già tenevo, poi le completai con altre, che vennero spontaneamente a galla dal fondo dell'anima mia. Posso dire che nacquero insieme, parole e musica, le une a complemento dell'altra; e viceversa.
Forse sono 'nu poco tristi, 'sti pparole, ma che cci vuo' fa'. io sono un attore comico, ma nella vita sono triste, sono un funerale
di I classe.

A lungo si è parlato di chi fosse il soggetto di questa canzone, si è indagato senza riuscire a scoprire chi fosse la donna che ha fatto penare il grande attore comico. E siccome era terminato il film 47 morto che parla, e in quella pellicola Totò aveva lavorato con una ragazza di una bellezza indescrivibile, si pensò che la malafemmena delle parole della canzone, fosse proprio lei, la Silvana Pampanini.
Si è scritto che Totò le avesse chiesto di sposarlo, ma che lei - ancora troppo giovane per il grande passo della sua vita - avesse - forse a malincuore - respinto la proposta.
Del resto Silvana allora aveva solo 25 anni e Totò - essendo nato alla fine del secolo, nel 1898 - ne aveva già 52, più del doppio quindi, e così anche se fosse vera la storia della sua dichiarata passione d'amore e della sua richiesta di matrimonio, va da sé che la domanda del comico aveva in sé già la risposta; non poteva essere che un "no".
Si vocifera anche che i genitori dell'attrice erano contrari a questa unione, pure se niente avevano contro quel gran signore che era un principe: Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, e come usava presentarsi più brevemente: principe Antonio De Curtis.
La canzone divenne anche un film, che Totò girò insieme a un altro grande del cinema di allora, quel Peppino De Filippo, uno dei fratelli della celebre famiglia di attori napoletani che nessuno potrà mai dimenticare: Peppino, appunto, Eduardo, e Titina. Il film era intitolato Toto, Peppino e la malafemmina, dove la donna cattiva era interpretata dall'attrice Dorian Gray, per la regia di un altro grande regista di quegli anni Camillo Mastrocinque.
Vale la pena di riportare brevemente la trama.
Due fratelli campagnoli, i fratelli Capone Antonio e Peppino, possidenti di terre nel napoletano: uno è donnaiolo e dalle mani bucate (e non poteva essere che Antonio/Totò) l'altro al contrario (Peppino) è avaro e sempliciotto (e per questo Antonio lo sottomette ai suoi voleri facendo valere ai suoi occhi la cultura che in effetti non ha). Hanno un nipote che studia per diventare medico, a Napoli, ma che, invaghitosi di una ballerina di avanspettacolo, la segue e a Milano. La giovane attrice (che poi è la malafemmena) circuisce il giovane studente e gli fa perdere la testa; e, una volta a Milano, informa sua madre, la signora Lucia, sorella dei due Capone, che il figlio è fuggito con lei a Milano.
I tre fratelli, temendo uno scandalo che possa rovinare la reputazione della famiglia e, soprattutto, che il ragazzo non seguiti più a studiare per colpa di quella malafemmena, decidono di andare nella capitale lombarda per cercare di convincere la ragazza a lasciare che il nipote torni alla sua vita; e lo stesso a ritornare a casa. E cercano di fare avere alla giovane soubrette anche dei soldi (di Peppino, chiaramente, che versa in cuore lacrime amare per quella somma che avrebbe dovuto abbandonarlo) perché lasci il nipote al suo destino.
Insomma, dopo molte vicissitudini, alla fine prevarrà l'amore tra i due innamorati; e anche i tre fratelli si convinceranno che sì, va bene così.
Vale la pena di riportare il testo della lettera che Antonio detta a Peppino, lettera da inviare alla "cattiva signorina" che sta facendo deviare dalla retta via il nipote Gianni.

«Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi una parola che scusate se sono poche ma sette cento mila lire; noi ci fanno specie che questanno c’è stato una grande morìa delle vacche come voi ben sapete: questa moneta servono con l'insalata a che voi vi consolate dai dispiacere che avreta perché dovete lasciare nostro nipote che gli zii che siamo noi medesimo di persona vi mandano questo [la scatola con i soldi] perché il giovanotto è studente che studia che si deve prendere una laura che deve tenere la testa al solito posto cioè sul collo; Salutandovi indistintamente i fratelli Caponi (che siamo noi i Fratelli Caponi)»


La gente venne a sapere chi si celava dietro il mistero della donna che fece perdere la testa al principe, solo molto dopo la sua morte, avvenuta a Roma nell'anno 1967. E fu proprio la figlia, Liliana De Curtis a svelare il mistero.

"E' risaputo che Totò era un grande conquistatore di cuori femminili, fu - come dicono a Napoli - 'nu grande sciupafemmene. Ma amò profondamente solo una donna, che poi divenne sua moglie, mia madre Diana (Dina Bandini Luchesini Rogliani), che gli dette una sola figlia, me appunto.
Era destino che mio padre si innamorasse solo di donne che avevano la metà della sua età, infatti quella bella ragazza che stava in collegio di suore a Firenze, aveva appena 15 anni, e lui più di trenta. Da lì scappò e raggiunse quello che sarebbe diventato suo marito - anche se per poco - a Roma, e con lui visse nonostante tutto un'esistenza felice, anche se a tratti burrascosa; perché Totò non aveva remore a mostrare di amare qualsiasi femmina capitasse dalle sue parti; decisero di sposarsi (Totò era impegnato nel frattempo con un'altra attrice, ma non glielo disse).
Mia nonna respinse la richiesta dell'attore di volere come sua sposa la figlia, un po' perché non voleva che avesse una vita girovaga appresso a un attore, e per di più comico, e poi perché era troppo piccola per quel passo; allora mio padre passò alle maniere forti: scrisse una lettera alla ragazza nella quale ribadiva il suo grande amore per lei e le diceva che l'aspettava a Roma. Mia madre Diana non si fece certo pregare, e senza dire niente a nessuno prese il primo treno e venne a Roma.
Nacqui io, Liliana, nel 1933, che i miei non erano ancora sposati; vivevano insieme, e solo due anni dopo, due anni che mamma e io passammo in alberghi, ora qua ora là, perché seguivamo Totò nei suoi continui spostamenti per lavoro, convolarono, come si dice a giuste nozze.
Papà era felicissimo; mia madre addirittura r
aggiante.
Iniziarono quasi subito a litigare, sempre per le scappatelle di Totò, ma più per la sua gelosia. Il matrimonio durò poco, appena cinque anni, perché nel 1940 decisero consensualmente di separarsi definitivamente. Pure se voleva un bene da morire a mia madre, ne era gelosissimo; pensate che fu a causa di questa sua gelosia, e per paura di essa, che volle divorziare dalla moglie, - si era nell'anno 1940 - e lo fece all'estero, in Bulgaria, (dove stava girando l'ennesimo film) con una clausola ben precisa, che anche lei accettò di buon grado: la convivenza doveva continuare, almeno altri dieci anni, cioè fino a che io non avessi raggiunto la maggiore età, per evitare che soffrissi troppo il loro distacco. Andarono avanti come meglio poterono ma mia madre soffriva troppo; e ci piangeva, a sentire le voci e a leggere ciò che i giornali riportavano intorno alle mille donne che Totò amava e cercava e circuiva.

Alla fine anche questa convivenza ebbe fine, io avevo ormai sette anni, e cominciavo a vedere e capire; e a soffrire insieme a mamma che non riusciva più a sopportare le scappatelle del marito mentre a lei quella sua sfrenata gelosia non permetteva nessuna avventura.
Fu così che mia madre ruppe quella promessa - fatta all'atto di firmare le carte del divorzio - divorzio che avvenne quando si seppe in giro che Totò, l'inguaribile sciupafemmene Totò - ancora oggi quando penso a questo sostantivo che lo qualifica come un grande amatore agli occhi del sesso, maschile e femminile che fosse, per noi significava una rottura di vita comune - aveva proposto a Silvana Pampanini di sposarlo; mamma ne venne a conoscenza; allora non ne poté più, lo lasciò definitivamente e si sposò con un avvocato; ma questa è un'altra storia.
Ciò nonostante, mia madre volle sempre bene a quel fedifrago di professione.
E anche T
otò a lei.

E' per lei, dunque, che scrisse questa stupenda canzone.

Si avisse fatto a n'ato
chello ch'e fatto a mme
st'ommo t'avesse acciso,
tu vuò sapé pecché?
Pecché 'ncopp'a sta terra
femmene comme a te
non ce h
anna sta pé n'ommo
onesto comme a me!...

Femmena
Tu si na malafemmena
Chist'uocchie 'e fatto chiagnere..
Lacreme e
'nfamità.

Femmena,
Si tu peggio 'e na vipera,
m'e 'ntussecata l'anema,
nun pozzo cch
iù campà.

Femmena
Si ddoce comme 'o zucchero
però sta faccia d'angelo
te serve pe 'ngannà...

Te voglio ancora bene
Ma tu nun saie pecchè
pecchè l'unico ammore
si stata tu pe me...

E tu pe nu capriccio
tutto 'e distrutto,ojnè,
Ma Dio nun
t'o perdone
chello ch'e fatto a mme!...

Le confessò quello che forse non ebbe mai il coraggio di dire a parole, che era la donna più bella del mondo, che l'amava perdutamente, ma che l'odiava per tutto quello che le aveva fatto (l'abbandono - va detto - gettò Totò in un estremo sconforto), e che adesso non poteva scordarla…

Femmena,
tu si 'a cchiù bella femmena,
te voglio bene e t'odio
nun
te pozzo scurdà...

marcello de santis

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Interstellar

28 Agosto 2015 , Scritto da Lorenzo Campanella Con tag #lorenzo campanella, #cinema, #fantascienza

Interstellar

Un astronauta (Cooper) diventato agricoltore, vive insieme ai suoi figli (Murph e Tom) e ad un altro prente in campagna. Tutta la trama si snoda in un tempo sempre più relativo. “Ho dei figli professore..” “Vai lassù e salvali.” Insieme al concetto di anomalie gravitazionali, il tempo è il conduttore della pellicola. “Quando diventi genitore sei il fantasma del futuro dei tuoi figli”, una frase di Cooper a Murph prima di partire in missione. Interstellar si candida a diventare il Titanic della fantascienza. In certi passaggi ricorda opere come Amabili Resti e Al di là dei sogni. Emozionante, al limite della catarsi, la scena nella quale Cooper, dopo aver attraversato Gargantua (il buco nero) si ritrova proiettato in una sorta di mondo di mezzo. A separarlo dalla terra sono i libri della figlia. Paragonare il film di Nolan a 2001 Odissea nello Spazio è una grossa esagerazione, perché Kubrick sa far riflettere sulla condizione umana, ma nel nuovo millennio le pellicole devono contenere caos narrativo. Da sottolineare che l’idea di tutto proviene dal fratello del regista, Jonathan. A me questo film ha fatto piangere e non mi resta che condividere il discorso di Cooper dentro il tesseratto dimensionale: “Loro non ci hanno portati qui. Siamo arrivati qui da soli. Mi sono portato io qui. Noi siamo qui per comunicare col mondo tridimensionale. Siamo il ponte! Pensavo avessero scelto me... Non hanno scelto me: hanno scelto lei! Per salvare il mondo! Tutto questo è una stanza di una bambina, ogni singolo momento. È infinitamente complesso. Loro hanno accesso a tempo e spazio infinito ma non sono legati a niente! Non possono trovare un posto specifico nel corso del tempo! Non possono comunicare, per questo sono qui io! Troverò un modo per dirlo a Murph così come ho trovato questo momento. È l’Amore! Il mio legame con Murph è quantificabile, è la chiave! Dobbiamo trovare come dirglielo.. L’orologio.. Ma certo! Codifichiamo i dati nel movimento della lancetta dei secondi. Ancora non ti è chiaro. Non sono esseri. Siamo noi, quello che io ho fatto per Murph, loro lo fanno per me! Per tutti noi. Un giorno, non io e te, altre persone, una civiltà che si è evoluta al di là delle quattro dimensioni che conosciamo.” Un buco nero diventerà la soluzione per l’umanità? L’Amore rimane una forza indistruttibile, che riesce ad attraversare (e farci, con lei, attraversare ed esplorare) l’Universo sconosciuto, portandoci da un battito d’ali di farfalla giù fino alle tenebre nell’iper-spazio. Ne abbiamo bisogno.

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Il trio Lescano

27 Agosto 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #personaggi da conoscere

Il trio Lescano

Tre sorelle ungheresi di nascita, ma vissute a lungo in Olanda, che rispondevano ai nomi di Alexandrina Eveline, Judik, Catharina Maje; il loro cognome era Leschan, che, una volta affacciatesi alla ribalta della musica leggera, quasi per caso del resto, venne cambiato in Lescano.
E anche i nomi furono italianizzati, si chiamarono da quel momento Alessandra Giuditta e Caterinetta. Era il 1936 quando si provarono a cantare in coro.
Si deve al maestro Carlo Prato, che era allora il direttore artistico della sede EIAR, Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche di Torino, la sola radio italiana dell'epoca fascista, nata nel dicembre del 1927, che ha lavorato in regime di monopolio fino l 1957, quando divenne RAI, Radiotelevisione Italiana. Carlo dunque prese le tre sorelle sotto la sua ala protettrice e le preparò, provando e riprovando per farne appunto un trio. Impostandone la voce, e lavorando su ognuna di esse, separatamente prima, e insieme poi.

Carlo Prato era di Susa, e, quando conobbe le sorelle Lescano, aveva appena 35 anni, ma aveva un fiuto impareggiabile per gli artisti in fieri; era un buon pianista, poi diplomatosi in composizione, e quindi anche in direzione d'orchestra, e per non farsi mancare niente si mise a cantare, per hobby più che altro, ma all'occasione non si tirava indietro e si esibiva.
Tra le altre cose, - a tempo perso diceva lui -, era anche un talent scout, uno scopritore di talenti; a lui deve la sua fama Ernesto Bonino; e più tardi il duo Fasano, due sorelle, Dina e Delfina, che furono per tanti anni nell'orchestra del maestro Cinico Angelini, insieme a Achille Togliani ,Carla Boni, Nilla Pizzi e Gino Latilla.
Nel 1936, le ragazze avevano: Alexandrina 26 anni, Giudik 23, e Catharin, la più piccola, appena 17 anni. Erano olandesi, essendo nate la prima a Gouda e le altre due a l'Aia. Pure essendo nate e vissute in Olanda (la madre era una cantante d'operetta, Eva de Leeuwe, olandese), le sorelle Lescano tennero la cittadinanza ungherese (quella del padre Alexander, che era di Budapest) fino a che non vennero naturalizzate italiane.
Il padre era un circense, e faceva il contorsionista; fino a che un bel giorno rimase invalido per essere incorso in un infortunio, e abbandonò la scena. Fu così che la signora de Leeuwe decise, per tirare avanti la famiglia, di creare un complesso famigliare di ballo acrobatico, al quale parteciparono solo le due sorelle più grandi; mentre Catherinetta fu lasciata in collegio ad Amsterdam. Il corpo di ballo a tre si chiamò The sunday Sisters e prese a esibirsi in Europa e in vari paesi del medio oriente.
La famiglia, dopo molto girare in Europa, giunse a Torino, come detto più sopra, furono viste dal maestro Carlo Prato, che decise di farne un gruppo musicale.
Il lavoro sulle ragazze non fu difficile, in quanto si rivelarono intonatissime e con delle voci che nel coro a tre s'integravano perfettamente; e non poteva essere altrimenti, dato che provenivano da una famiglia prettamente musicale; basti considerare che il nonno David, il padre della loro mamma, era un valente violinista, e altri tre zii erano virtuosi di pianoforte.
Nonno David era molto fiero delle sue nipotine, e visse ancora quattro anni (1854-1940), giusto il tempo di vederle al successo.
Fu fatto loro firmare un contratto con la Parlophon-Cetra, e nacque così il nome Trio Lescano (italiano, meglio Trio Vocale Sorelle Lescano, ma immediatamente abbreviato così come poi giunse al successo e alla fama). Incisero il loro primo disco coll'orchestra dell'EIAR diretta dal maestro Cinico Angelini; era il 22 febbraio 1936.
Spiccarono il volo, e cantarono con vari cantanti, Ernesto Bonino, Oscar Carboni, Silvana Fioresi e altri.
Le loro canzoni volarono dalla radio e si sparsero per tutta l'Italia; specialmente una sorpassò tutte le altre in notorietà, Tulipan, una canzone olandese, tradotta in italiano da Riccardo Morbelli, che ne curò anche l'arrangiamento.

Il successo delle sorelle Lescano fu dovuto al modo tutto particolare di interpretare le canzoni; quello swing che fino ad allora non si era registrato in nessuno dei cantanti sull'onda del successo. Un ritmo particolare che era un incrocio tra swing e jazz.
Il fascismo era alle porte, con tutta la sua parte deleteria; però va detto che, davanti al talento delle tre graziose cantanti, anche Mussolini ebbe ad applaudire.
Gli anni passavano veloci; la loro fama volava alto, grazie alle trasmissioni della radio.

Siamo nell'anno 1942. Fu proprio per l'intervento del capo del fascismo che ottennero la cittadinanza italiana; Mussolini intervenne presso il re Vittorio Emanuele, e la cosa fu fatta.
Venne la persecuzione degli ebrei, cui non si sottrassero neppure i fascisti di quell'Italia sciaguratamente alleatasi con la Germania e furono attivi come e quanto i tedeschi di Hitler; il Fuhrer aveva organizzato in larga scala la distruzione della razza ebraica e la ormai tristemente famosa "soluzione finale".
Venne a galla l'origine ebraica delle ragazze, si andò a spulciare tra le carte di famiglia e si scoprì che la madre Eva de Leeuwe era una ebrea olandese.
Ma la notizia non fu mai verificata, né è stato mai possibile dire se rispondeva alla realtà (non il fatto che fosse di razza ebraica, questo era vero) se si fecero ricerche in tal senso.
Sembra che di un loro arresto, avvenuto appunto nel 1942, ebbe a parlare in una intervista ai giornali, nel tardo 1985, una delle sorelle, precisamente Alessandra, arresto avvenuto proprio per motivi razziali. Ma la notizia - ripetiamo - non ebbe mai riscontri. Ad ogni modo sembra che una spiata effettivamente ci fu, ad opera delle sorelle Codevilla che costituivano un altro trio, il Trio Capinere, che non ebbe il successo delle Lescano; e che pare fossero invidiose di loro; era il 1942/1943.
L'accusa sarebbe stata di spionaggio, e, stando a quanto raccontato da Alexandra Leschan, le sorelle furono incarcerate a Genova. Attenzione, però, questa delazione non fu mai trovata nella storia; la si riporta per dovere di cronaca.
La storia del Trio Lescano andò avanti fino ai primi anni '50, quando, essendo il trio emigrato ormai da diversi anni in Sud America, si sciolsero definitivamente.
Successe questo: sei anni prima, nel 1946, dunque, la più piccola delle sorelle, Caterinetta, lasciò il gruppo vocale, sembra per sposarsi; e la ragazza venne sostituita con una giovanissima cantante italiana a nome Maria Bria, (nata nell'anno 1925, torinese, e ancora vivente).
Va detto che nessuno seppe della sostituzione di Caterinetta, Kitty, come la chiamavano confidenzialmente le sorelle. La voce del trio continuò così a volare per l'etere. La voce di Maria era una voce molto simile a quella della sorella uscita dal complesso vocale, ma il volto era e restò sconosciuto. Ripeto: per sei anni - dal '46 al, '52, nessuno seppe della sostituzione.
Sembrava essere ritornati ai primi tempi della radio, quell'EIAR che mandava in onda le voci ma nessuno conosceva i volti dei cantanti.
Torniamo alle origini del trio.
Prima di essere il Trio Lescano, le sorelle facevano le vocalist, cioè le coriste di contorno a cantanti già in auge nel panorama delle musica leggera italiana, prima fra tutte la cantante Maria Iottini, che cantava Maramao perché sei morto, celebre canzone del periodo fascista.
Quando passarono ad affrontare i microfoni come Trio, le loro canzoni raccolsero immediatamente un successo inatteso.
Abbiamo detto che furono messe sotto contratto dalla Parlophon Cetra; nel breve giro di sei anni dal '46 al '52, incisero la bellezza di più di trecento canzoni.
Le orchestrazioni del maestro Cinico Angelini della Rai di Torino, e poi anche di Pippo Barzizza e degli altri direttori d'orchestra che le diressero e arrangiarono le loro canzoni, erano basate su uno swing tutto personale; che i maestri presero dal jazz, per infonderlo nella musica che le sorelle pareva avessero nel sangue.
Abbiamo detto dei dischi incisi, trecentosessantacinque canzoni, tantissime, e molte di esse raggiunsero il successo. Pensate, della canzone Tulipan:... parlano d'amore i tuli tuli tuli pan...
vendette la bellezza di trecentocinquantamila copia, di quei primi dischi in vinile, sui quali la puntina di diamante seguiva i solchi che si restringevano man mano che la canzone andava avanti. E quando il disco si consumava a forza di essere sentito, frusciava ed acquistava un fascino particolare.
I successi furono molti, alcuni si ascoltano volentieri ancora oggi, Maramao perché sei morto, Ma le gambe, Pippo non lo sa, Tulipan, furono successi straordinari.
Sapete qual'era il compenso del trio? Mille lire al giorno, quelle mille lire che erano, e non per tutti, il salario di un lavoratore italiano, in un epoca in cui s'era affermata una canzone per la voce del cantante Gilberto Mazzi, che diceva così:

Se potessi avere
mille lire al mese,
senza esagerare,
sarei certo di trovare
tutta la felicità.

Un modesto impiego,
io non ho pretese,
voglio lavorare
per poter alfin trovare
tutta la tranquillità.

Una casettina
in periferia,
una m
ogliettina
giovane e carina,
tale e quale come te.

Se potessi avere
mille lire al mese,
farei tante spese,
comprerei fra tante cose
le più belle ch
e vuoi tu.

Alessandra raccontò - intervistata nel 1985, aveva ormai settantacinque anni, e da lì a due anni sarà l'ultima delle sorelle Lescano a lasciarci (morì infatti nel 1987) - che quei soldi servirono per acquistare un appartamento a Torino, una balilla fuoriserie e tanti vestiti e scarpe; cose che non si sarebbero mai sognate di avere, quando facevano la danza nel circo.
Ma intanto in quella intervista ribadì i fatti del '43, dell'arresto a Genova, del carcere durato un mese, della liberazione per intervento del principe Umberto, e della loro fuga in Val d'Aosta, a raggiungere la madre.

Racconta Maria Brio:

... le sorelle rimaste non volevano cambiare il nome, ché avevano ancora contratti da rispettare...
... io frequentavo un maestro di canto perché volevo intraprendere la carriera di cantante solista...
... ci conoscemmo, mi proposero di unirmi a loro...
... accettai
con entusiasmo...
... lavorai con loro, andai con loro nelle Americhe del Sud, e per sei anni fui la sorella invisibile...
... non presi una lira... ma mi piaceva troppo
cantare...

E' vero, furono scattate a volte delle fotografie, ma Maria si era talmente immedesimata nella terza sorella, Kitty, non diede modo di dubitare sulla sua identità (falsa).

... cantavamo in varie lingue, io ne conoscevo alcune, non il tedesco o l'inglese, ma imparai presto, e nessuno dubitò mai.
Continua Maria:

... non andavamo più a cantare alla radio, quella radio che aveva lanciato il gruppo vocale originario e lo aveva fatto conoscere su vasta scala, adesso, dice, non ne avevamo più bisogno,

Il nuovo Trio cantava nelle piazze, nei locali.
Il Gruppo si sciolse, come detto, nell'anno 1952. Maria si era stancata di lavorare gratuitamente, (non venni mai pagata, racconta) pur con tutta la passione per la musica leggera e l'affetto che la legava ormai alle sorelle rimaste, e poiché le due Lescano superstiti, Sandra e Giuditta, non potevano esibirsi in due, decisero di porre fine al loro sodalizio. Eppoi, Judik si fidanzò e anche lei ventilò a più riprese il desiderio di ritirarsi:; ciò che fece,

Io lasciai così, a malincuore; tornai in Italia, mentre loro restarono in Venezuela, a Caracas precisamente; Caterinetta le raggiunse più tardi e tornarono a stare unite senza però più cantare. Io mi impiegai presso il Comune di Torino, dove lavorai per più di vent'anni; mi sposai ebbi figli e diventai nonna felice; e adesso bisnonna.

Catharina Leschan, la più giovane, morì a causa di un tumore nel 1965, aveva appena compiuto 46 anni. Alexandra, la più grande, morì in Italia a Fidenza, come abbiamo detto poco sopra, nel 1987. Dell'altra sorella Judik si sono perdute le tracce, e non se ne sa ancora oggi, nulla.
Scomparsa.

marcello de santis

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Il ruolo della donna nell'Islam e la deriva del Califfato

26 Agosto 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #il mondo intorno a noi

Il ruolo della donna nell'Islam e la deriva del Califfato

L'Islam è una religione che regolamenta anche il diritto civile penale e la politica. Le donne, nel mondo islamico, sono considerate essere inferiori e tutto parte proprio dalla religione.

Ecco, per esempio cosa, si può leggere negli Hadith (sentenze) del profeta Maometto: Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri: Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". La donna è dunque un essere inferiore e, in caso di testimonianza, due donne valgono come un uomo, la donna ha ruolo esclusivo di riproduttrice, i figli appartengono comunque al padre e sono automaticamente musulmani, l'uomo, che può avere fino a quattro mogli, può ripudiarle, basta che lo ripeta per tre volte davanti a testimoni, mentre la moglie non può ripudiare l'unico marito che le è concesso, in famiglia la femmina non gode degli stessi diritti ereditari del maschio. Il Corano prevede che il marito può picchiare la moglie per educarla e metterla sulla retta via, lo farà però non in testa e senza lasciare segni sul corpo: “E riguardo a quelle donne di cui temete disonestà e cattiva condotta, ammonitele, rifiutate di condividere i loro letti, battetele....”

Questo in generale, un discorso a parte, poi, va fatto per la deriva dell' integralismo e la sua peggior espressione: Il Califfato dell'Isis.

Una ragazza yazida, di soli 12 anni, ha testimoniato al New York Times di aver subito violenze dagli uomini del Califfato. Il suo carceriere si avvicinava per violentarla, lei gli diceva: "Fermati, mi fai male", ma lui le sussurrava all'orecchio: "Secondo l'Islam è lecito stuprare un infedele. Stuprarti mi avvicina a Dio". Un'altra ragazza yazida di 15 anni ha raccontato, sempre al New York Times: "Il mio carceriere continuava a dirmi che lo stupro è “ibadah", un termine arabo per indicare il culto, la religione. Lo stupro dunque è preghiera per le frange estremiste.

Dal 2009 Boko Haram ha ucciso migliaia di nigeriani, non ha risparmiato certo le donne che, anzi, sono quelle che hanno avuto il trattamento peggiore. Picchiate, costrette a sposare i miliziani, violentate e ridotte in schiavitù. Lo raccontano alcune sopravvissute a mesi di prigionia e maltrattamenti portate in salvo dall'esercito nigeriano dopo le ultime offensive contro l'esercito di Boko Haram. Quando le prelevarono dalle loro prigioni erano magrissime, mangiavano solo una volta al giorno e venivano tenute legate. Sono innumerevoli i racconti degli orrori vissuti, il rapimento dalle loro case, le percosse, le violenze fisiche. Le ragazzine venivano unite in matrimonio ai terroristi. “Si sforzano di fecondare le donne”, dichiarò il governatore di Borno, regione della Nigeria, “alcuni pregano prima dell’accoppiamento, offrendo suppliche ad Allah per riuscire ad avere dei bambini che erediteranno la loro ideologia”.

Non è solo una parte della Nigeria a fare scempio delle donne e ad avere il problema dei crimini compiuti dai jihadisti. Nelle mani dei terroristi islamici ci sono cinquemila donne, come è stato raccontato anche all'ONU da Zainab Bangura, rappresentante per i crimini sessuali di guerra. “Dopo aver attaccato un villaggio, lo Stato islamico separa le donne dagli uomini, giustiziando questi ultimi e i bambini sopra i quattordici anni. Le donne sono denudate e dopo un test di verginità, sono classificate in base a bellezza e dimensioni del seno. Quelle considerate più belle vengono inviate a Raqqa con i prezzi più alti..Abbiamo sentito di una ragazza di vent’anni bruciata viva perché si è rifiutata di compiere un atto sessuale estremo”.

Anche l’Onu si è espresso alla fine, mentre le femministe occidentali che fanno? Si occupano di libertà già abbondantemente conquistate, incapaci di dire anche solo una sola parola sulle ragazzine nelle mani dell'ISIS, ma è assai più facile occuparsi di sessismo, quote rosa e gender, piuttosto che affrontare l'argomento delle donne schiave nel nome dell’islam.

Quando in Iran, all'avvento di Khomeyni, fu imposto lo chador alle donne, le nostre femministe agguerrite si schierarono dalla parte del religioso dittatore criticando le ragazze persiane che, invece di manifestare contro il carovita, rivendicavano il diritto di indossare la gonna, i jeans al posto del velo, senza considerare quanto venisse lesa la loro libertà. Per capire basta leggere il romanzo “Mille splendidi soli” dello scrittore di origine afghana Khaled Hosseini in cui racconta:

«Mariam non aveva mai indossato il burqa, Rashid dovette aiutarla... il pesante copricapo imbottito le stringeva la testa. Era strano vedere il mondo attraverso una grata. Si esercitò a camminare ma incespicava continuamente nell’orlo. La innervosiva non poter vedere di lato ed era sgradevole sentirsi soffocare dal tessuto che le copriva la bocca..

E' facilmente intuibile che il burqa toglie libertà nei movimenti, e non solo, il tessuto pesante rende difficile la respirazione, crea stati confusionali e disturbi all'udito, Insomma, lesioni fisiche e morali.

Pochi conoscono Ayaan Hirsi Ali, politica e scrittrice, nata a Mogadiscio e naturalizzata olandese, ha raccontato in un libro la sua storia: infibulata da bambina, fuggita a soli 22 anni da un matrimonio combinato in sole due ore dal padre, si è rifugiata in Olanda e si è impegnata in favore dei diritti delle donne nell'ambito della tradizione islamica. In "Infidel", la sua autobiografia descrive l'Islam come una "religione retrograda" ed incompatibile con i diritti umani, a proposito dell'infibulazione racconta: “L'escissione è per le donne crudele da diversi punti di vista. È fisicamente crudele e doloroso; inizia le ragazze ad una vita di sofferenze. E non è neppure efficace nel raggiungere l'obiettivo di rimuovere il loro desiderio.”(Ayaan Hirsi Ali- Infidel -(New York: Free Press, 2007), pagina 140).

Care femministe svegliatevi, abbiate coraggio di affrontare il mostro, perchè di questo si tratta...“ Se non ora quando “?

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Giovanni Papini

25 Agosto 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere

Giovanni Papini


Giovanni Papini (1881-1956), scrittore e uomo di lettere. Ateo. E non poteva essere altrimenti se consideriamo che suo padre era un fervente garibaldino, dice la storia, e mangiapreti per eccellenza, pur con una madre che lo fa battezzare all'insaputa del padre.
Amante delle lettere fin dalla tenera età, lo troviamo bambino solitario (la famiglia vive in estrema indigenza) a passare il suo tempo non in giochi con i compagni, ma a tavolino a leggere libri che il nonno paterno aveva accumulato in grande numero.

«Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza».
«Fin da ragazzo mi sono sentito tremendamente solo e diverso, né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli atri?
Non so…

Ma era talmente innamorato dei libri che, dopo il diploma di maestro, ottenuto nell'anno 1899, divenne bibliotecario; col tempo poi decise di dedicarsi tutto alle lettere, collaborando a diverse riviste della Firenze di quel primo novecento che dette voce a tutta una nuova linfa letteraria.
Leggeva molto, e molto Alessandro Manzoni, del quale I promessi sposi si avevano da lui giudizi taglienti.

«Codesto libro l’odiavo fin da quando, a scuola, mi era toccato, per un anno intero, far l’analisi logica e grammaticale delle mediocri disgrazie di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella.

Aveva vent'anni quando, più solitario del solito, cominciò a leggere di filosofia. E in essa concentrò tutta la sua voglia di sapere di conoscere, leggeva libri, e li comprava spendendo ogni soldo che la mamma gli dava, talvolta dei nascosto dal padre (erano molto poveri, e il denaro serviva in famiglia, eccome se serviva!) E a forza di leggere cominciò a scrivere; e a forza di scrivere venne a contatto con scrittori e poeti. Ebbe modo così di conoscere i letterati dell'epoca, da Prezzolini a Corradini, Amendola e Soffici. Dalle collaborazioni a scrivere saggi e racconti, il passo fu breve. E da lì alle sue nuove "novelle metafisiche" il salto fu brevissimo.
Quando fu alle porte la guerra, divenne ben presto un acceso interventista, come del resto lo erano tutti i futuristi, guidati da quel Filippo Tommaso Marinetti che, nel 1910, dopo aver pubblicato in Francia - l'anno prima, sul giornale Le Figaro - il manifesto del partito futurista, venne in Italia a fare proseliti. Non partì lui per il fronte, come molti suoi compagni, perché era fortemente miope, e fu riformato. Era proprio Marinetti a propugnare accanitamente l'intervento militare, perché così si sarebbe ripulito il mondo da tutte le sue sozzure.
Il manifesto inneggiava al coraggio, alla ribellione, sia nella vita di tutti i giorni che nella letteratura, alla lotta diretta, alla vittoria, agli aeroplani, all'audacia e alla guerra sola igiene del mondo.

Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.
Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali
della nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi ed il sonno.
Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo…
lo schiaffo ed il pugno… l
a bellezza della velocità

In letteratura affermava che

Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche,
le accademie d'ogni specie e combattere contro il moralismo,
il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria
Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo
può
essere un capolavoro.

Ecco i8l celebre il punto 9 di questo manifesto rivoluzionario

9. noi vogliamo glorificare la guerra sola igene del mondo,
il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore
… canteremo le locomotive…
il volo scivolante
degli areoplani.

Tanti furono gli artisti che aderirono e tanti furono i manifesti che seguirono quel primo del 1909.
Ecco una locandina che riporta alcuni dei nomi famosi che aderirono al movimento

E’ dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii”

Giovanni Papini, a un certo punto, finisce per allinearsi, dopo aver scritto insieme al pittore Ardengo Soffici, nella rivista La Voce che i due dirigevano in Firenze, parole di fuoco contro questi sedicenti "artisti rivoluzionari", che non avevano ancora messo piede in Toscana, ma se ne stavano bellamente a raccogliere consensi, lassù, al nord dell'Italia. Infatti, poi, nella nuova rivista letteraria dal titolo Lacerba, che fondò insieme all'amico, accolse a braccia aperte tutte le opinioni, le più diverse, le più contrastanti, affinché tutti potessero avere voce; e tra queste, anche quelle riformatrici dei futuristi.
Giovanni Papini era circondato da una miriade di letterati, che in quegli anni affollavano la capitale della letteratura nazionale, Firenze, e aveva grandissima stima di pochi scrittori e poeti; e tra questi c'era in primis il suo amico e collega a Lacerba Ardengo Soffici, che riteneva un pittore importante e uno scrittore di vaglia.
Sentiamo cosa scrive a proposito:

Prezzolini, Papini, Soffici... Non si potrebbe fare un discorso serio sulla letteratura del Novecento, e le sue suggestioni e i suoi rischi, senza appoggiarlo ai loro nomi, ai loro libri.
Avvicinarli, è un ristorarsi al contatto con uomini che hanno visto la poesia.
Scrittori moderni, modernissimi, l'ingegno generoso e il sentimento dell'umano valore delle lettere.
Abituati a temperature più fredde, i giovani oggi si danno l'aria di averli dimenticati, come superflui.
Sono torti che i giovani si fanno facilmente e
in loro perdita”

Nel 1913 uscì la sua opera più famosa, “Un uomo finito” (la sua autobiografia), dopo che un anno prima aveva dato alle stampe un'altra operetta dal titolo Le memorie dell'addio, nella quale si scatena tutta la sua protesta contro il cristianesimo e la religione:"Uomini: diventate atei tutti, fatevi atei subito!" Opera in cui auspica la fine della fede in Dio, e con essa la propria fine, tanto era amareggiato da quella sua vita.

Papini è disperato, ha appena compiuto 31 anni, ma sembra quasi essere arrivato al capolinea. Non è così, perché vivrà ancora a lungo, almeno un altro mezzo secolo, in cui vedrà in letteratura passare moltissimi movimenti, moltissimi - ismi, e intorno a sé tanti tanti artisti.

"Tutto è finito, tutto è perduto, tutto è chiuso. Non c'è più nulla da fare…
… io non son più nulla, non conto più...
… sono una cosa e non un uomo…
… sono freddo come una pietra, freddo co
me un sepol­cro.

La filosofia aveva fatto il suo corso nella sua anima e nella sua mente: quando sarà morto l'ultimo uomo che crederà, anche Dio non esisterà più. Amen.
Furono i resoconti della grande guerra, e dei morti che produsse in quantità industriale, che generarono la svolta nella fine del suo ateismo. Cominciò a riflettere, profondamente, sui mali del mondo; e sull'unico scopo che avrebbe portato alla salvezza dell'umanità. E avvenne la conversione al cristianesimo.
La moglie che, pazientemente, gli viveva accanto nella pietà della religione, le timide letture di Sant'Agostino e del Vangelo, e gli echi della grande guerra con le sue disgrazie e le sue stragi di vite umane, contribuirono a questa sua salvezza. L'uomo finito era rinato a nuova vita.

«Ero spinto misteriosamente a fare qualcosa per gli uomini…
… avevo distrutto: dovevo ricostruire.
… avevo odiato gli uomini, dovevo amarli, sacrificarmi per loro, renderli simili a Dei. Altrimenti a che pro essere venuto s
ulla Terra?

La conversione lo portò a scrivere quello che diventò un successo prima nazionale e poi internazionale: La storia di Cristo. Nella quale cerca una punizione alla malvagità con cui era vissuto fino ad allora, ma cerca soprattutto un modo per espiare le sue colpe.
Riportiamo una sua poesia.

Abbiamo bisogno di Te

Gesù, tutti hanno bisogno di Te
anche quelli che non lo sanno.
E quelli che non lo sanno
assai più di quelli che sanno.

L'affamato si immagina
di cercare il pane
e ha fame di Te.
L'assetato crede di volere l'acqua
e ha sete di Te.
Il malato s'illude di cercare la salute
e il suo male è l'assenza di Te.

Tu sai quanto sia grande
per me e per tutti noi
il bisogno del Tuo sguardo
e della Tua parola.

Tu che fosti tormentato
per amore nostro
ed ora ci tormenti con tutta la Potenza
del Tuo implacabile Amore.


marcello de santis

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Mirko Tondi, "Nelle case della gente"

24 Agosto 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Mirko Tondi, "Nelle case della gente"

Mirko Tondi

Nelle case della gente

Porto Seguro Editore – Pag. 150 - Euro 10

Mirko Tondi l’ho conosciuto da editore, nel senso che alcuni giorni fa mi ha proposto di pubblicare il suo nuovo romanzo. Molti editori che conosco non leggono neppure il testo che viene proposto, fanno contratti che prevedono un contributo e stop, altri rifiutano per principio, la narrativa non si vende, dicono. E allora andiamo avanti così, leggiamo Fabio Volo e Federico Moccia, tanto tanto Genovesi che avrebbe voglia di darsi al western ma non lo farà perché in Italia leggono solo le donne (parole sue) e quello del Bar Lume, che non mi ricordo neppure come si chiama, ma scrive gialli, ché in Italia tutti leggono gialli e allora scriviamoli. A me piace andare controtendenza.

Ho letto qualche pagina del testo proposto, lo stile mi piaceva, sono andato a scorrere la biografia, ho visto che Mirko è toscano come me - fiorentino del 1977 - ha vinto diversi concorsi (valgono quel che valgono, ma tutti finiamo per farli), ha pubblicato racconti su riviste e antologie (idem come sopra), collabora con blog letterari, radio web, segue laboratori di scrittura, materia che mi sta a cuore, come ben sanno i venticinque lettori di Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura. Perlustrando la bibliografia di Mirko Tondi scopro che ha appena pubblicato Nelle case della gente, un romanzo che contraddice tutte le regole della scrittura creativa, quelle che insegna il buon Giulio Mozzi, autore di alcuni tra i racconti più inutili della letteratura italiana contemporanea. Protagonista del romanzo di Tondi è un aspirante scrittore che per gran parte del libro racconta i fatti suoi, seguendo la lezione di Cechov: Io so scrivere solo sui ricordi. Un protagonista che ripercorre tutte le sue difficoltà con la vita, il complesso rapporto con il padre e con il mondo circostante, regalandoci perle di vera letteratura, sgorgata dalle ferite dell’esistenza:

Tutto questo leggere e vedere film e documentarsi e ascoltare musica e comprare oggetti è aria anche quello, oggi lo sa, perché oggi è un giorno cattivo”.

L’autore si descrive in maniera impietosa, ma è una descrizione universale di un se stesso visto come “una specie d’uomo che ha imparato a complicarsi l’esistenza trascinando un carico ingombrante di aspettative e ambizioni”.

Firenze onnipresente nella storia come sfondo cittadino ben riprodotto: Porta Romana, Piazzale Michelangelo, le vie strette del centro, l’Arno che scorre pensieroso, la squadra di calcio viola. Una colonna sonora malinconica si confonde alle parole rimarcando i ricordi, contaminando la musica di Led Zeppelin, Queen, Venditti, Pooh, Lucio Dalla.

Non manca la letteratura: Philip Roth, Paul Schrader (si dovrebbe scrivere su qualcosa che ci disturba), Proust, Joyce, il romanzo La strada con il bambino che stringe forte la mano del padre, Bolaño, Orwell, Bradbury, Thompson, De Lillo, Virginia Woolf… e tutti i libri disposti alla rinfusa nella biblioteca come nella confusa esistenza. Un libro sui libri, non solo un romanzo, un vero e proprio corso di scrittura corredato di preziose indicazioni di lettura. I libri visti come contenitori e produttori di ricordi, libri che segnano una vita, colpevoli di averla complicata, di aver accresciuto le velleità di chi sa di non aver ancora composto l’opera fondamentale, il libro sempre in procinto d’essere scritto. Eterne domande sul senso della vita, anche se forse ha ragione Vasco Rossi, ma questa frase è mia, mentre l’autore si chiede:

È davvero questo il senso della vita, mettere su famiglia, fare figli per passare il testimone della nostra esistenza a chi rimarrà dopo di noi?”.

Immanente al testo il sogno della scrittura, che pervade la vita di chi scrive bene ma non così bene e sogna il romanzo che di sicuro un giorno o l’altro troverà il modo di scrivere. Leggere Nelle case della gente è stato come ripercorrere parte della mia vita e dei miei pensieri. Giulio Mozzi permettendo, credo che sia proprio questa la funzione della letteratura. Molti potranno immedesimarsi nella storia narrata da Mirko Tondi e capire qualcosa di più sul senso della vita, anche se questa vita - purtroppo - un senso vero non ce l’ha…

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Matilde Serao: parte terza

23 Agosto 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #saggi, #personaggi da conoscere

Matilde Serao: parte terza

Ricordate la commedia di Eduardo De Filippo "Non ti pago", dove il grande Eduardo impersonava il ruolo di Ferdinando Quagliuolo, titolare di un Banco del Lotto avuto in eredità dal padre defunto, mentre il fratello Peppino ricopriva il ruolo del signor Mario Bartolini, il commesso anziano alle sue dipendenze? Il Bartolini gioca quattro assurdi numeri per una quaterna: 1.2.3.4, che però - e qui è il perno della commedia - escono sulla ruota di Napoli.
Ma i numeri che il signor Mario, suo commesso anziano del banco, ha giocato, guarda caso li ha avuti in sogno dal signor Saverio, nonno del titolare Ferdinando; il quale si arroga il diritto alla vincita che ha fatto diventare ricco il suo dipendente. Il fatto tragico è questo: anche don Ferdinando gioca, come Mario, ogni settimana; ma non vince mai. Non azzecca nemmeno un misero ambo, eppure, confessa spesso, gli basterebbe "un piccolo ambo, un terno"; ma niente da fare, nonostante lo consigli Aglietiello, il suo aiutante fatato, con il quale è solito esaminare i sogni che fa e che gli riferisce puntualmente; e ne attende impaziente l'interpretazione ai fini di ricavarne i numeri da giocare.
Ecco un'altra figura principe nelle speranze di chi si accinge a puntare al lotto. Vale la pena spendere due parole per questa importante figura. E' una persona carismatica per i giocatori, in genere povera gente; esso, dietro un piccolo compenso, spesso anche in natura, dà i numeri, ricavandoli talvolta dai sogni che la gente gli racconta, interpretandoli e assicurandone la veridicità. I più pensano che Aglietiello abbia un grande potere: il potere occulto di colloquiare anche con i morti per ricavarne sorte, fortuna. E ripongono in lui immensa fiducia; e' l'unico che potrà creare felicità.
Matilde Serao, andando controcorrente alla credenza popolare - si credeva l'assistito in contatto con i defunti, e con tutto il mondo dell'aldilà, che gli comunicano le verità occulte - descrive questo personaggio, che a Napoli è diventato "leggenda"

- un cancro che rode le famiglie borghesi, un convulsionario pallido che mangia molto, che finge di avere o ha delle allucinazioni, che non lavora, che parla per enigmi …
... l’assistito arriva nel popolo e vi estende la sua azione mistica, vi raccoglie dei guadagni piccoli, ma insperati, vi fa degli adepti e finisce per camminare nelle vie, circondato sempre da quattro o cinque persone, che lo corteggiano e studiano tutte le sue paro
le...

Al contrario dunque di don Ferdinando, Mario, zitto zitto, quacchio quacchio, come direbbe Totò, ogni tanto tira su un ambo, un terno, poca roba, è vero; ma don Ferdinando non può sopportare tanta fortuna nel suo dipendente (oltretutto innamorato di sua figlia Stella, contraccambiato dalla ragazza e appoggiato da Concetta, la madre: non te la darò mai mia figlia in sposa, non ci pensare nemmeno, 'e capito?)

Ferdinando: Lei con quel pezzente non si sposerà mai!
Concetta: E sì, adesso le troviamo un principe ereditario.
Ferdinando: Stella dovrà fare quello che dico io!
Concetta: Forse è un pessimo partito Mario Bertolini? E’ un giovane buono, sappiamo come la pensa, è cresciuto in casa nostra; assennato, risparmiatore, gran lavoratore. Che cosa vuoi di più?
Ferdinando: Nun o’ pozzo vedè! - esclama – E’ troppo fortunato … nun c’è sabato ca nu' pizzica ll’ambo.. ‘o terno ... E mo se sonna ‘a mamma, mo se sonna ‘o pate, ‘a sora, ‘o frato, ‘e nepute, ‘e cognate, ‘a nunnerella... Comme mette ‘a capa ncopp’ ‘o cuscino s’’e ssonna. Quanno s’addorme, accumencia ‘a Settimana Incom.

(E ora sogna la mamma, ora sogna il papà, la sorella, il fratello, i nipoti, i cognati, i cugini, la nonnina con il nonnino... li ha distrutti tutti quanti… è rimasto vivo solo lui. Appena mette la testa sul cuscino comincia a sognare… quando dorme in-comincia il telegiornale e la settimana Incom illustrata.)
Ferdinando: Con le vincite al mio banco lotto ha disimpegnato i pegni della Zia, poi si è comprato tanti bei vestiti, scarpe, biancheria…
Due anni fa io lascio la mia casa al primo piano, quella che si affacciava sul banco lotto. Io l’ho lasciata perché era morto mio padre e mi faceva impressione, quello vince un terno secco e si affitta la mia casa. Poi vince un altro terno, la compra e la rammode
rna.
....Mario Bertolini: Embè, c’aggia fa…’a fortuna m’assiste. Sarrà chell’anima santa d’a nunnarella mia, sarrà mammà e papà che ‘all’atu munno me vonno pruteggere
...
Concetta: E a te cosa interessa? Vuol dire che è fortunato. Sposando Stella ne guadagna anche lei, perché con le sue entrate possono fare i signori.
Ferdinando: Ma perché, deve vincere per forza? Come se fosse un impiego al Ministero delle Finanze... (durante questa scena Aglietiello si trova fra i due e a secondo dei casi darà ragione a l’uno e all’altro) e se dopo che sposa mia figlia non sognerà più nessuno, la mattina staranno digiuni?
Concetta: Tu stavi dicendo che quello vince sempre.
Ferdinando: (scattando) Centinaia di numeri io mi gioco ogni settimana! Butto carte da mille lire. Trascorro le nottate sopra il tetto per trovare 2 buoni numeri… niente…. ho pigliato il catarro e la raucedine. Niente! Non posso vincere nemmeno mezza lira.
Concetta: Questa è invidia! Perché Bertolini vinci e tu no.
Ferdinando: (cocciuto e dispettoso) Ma mia figlia non gliela do!
Concetta: E gliela do io, a mia figlia!
Ferdinando: Ed io vi uccido tutti e due.
Agliatello: E va bene. Adesso vi arrabbiate e litigate per una cosa da niente?
Margherita: (entra dalla comune) L’estrazione! (consegna a Ferdinando una striscetta di carta con i numeri del lotto). 1.2.3.4.24.
Ferdinando: Dammeli subito. (Margherita esegue ed esce per la comune.)
Ferdinando siede accanto al tavolo.
Aglietello siede anch’egli, e cominciano a consultare i biglietti giocati.
Ferdinando: Vediamo questi numeri. Guarda qua, guarda che numeri strani... 1,2,3,4 e 26. Ma che mi hai fatto fare? (rivolto ad Aglietiello). Mi hai detto che questi numeri erano sicuri.
Agliatiello: Don Ferdinando, questi numeri si devono giocare per tre settimane di seguito.
...

Mario Bertolini: (di dentro con voce rotta dalla commozione) E chi se lo aspettava… guardate, guardate… Io esco pazzo.
Margherita: (di dentro) Che piacere!
Mario Bertolini: (fuori seguito da Margherita) Donna Concetta, a momenti mi prende qualcosa.
Concetta: Cos’è stato?
Stella: (entrando) Che c’è?
Mario Bertolini: Donna Concetta, e che ho vinto 4 milioni (Ferdinando schizza veleno dagli occhi).
Stella: Quattro milioni?
Mario Bertolini: Oh Madonna mia! Oh Madonna mia bella. Io non ci posso pensare! Non c’è dubbio. Questa è la giocata e questi sono i numeri dell’estrazione (li mostra). Don Ferdinando, questa notte ho sognato vostro padre.
Ferdinando: Ora comincia con la mia famiglia.
Stella: Ha sognato il nonno!
Mario Bertolini: Quanto era bello. In maniche di camicia come quando si metteva a leggere il giornale fuori dal banco lotto, con quella camicia rosa.
Ve lo ricordate? E’ entrato nella mia camera da letto insieme a Don Ciccio il tabaccaio, quello che è morto 18 anni fa, e mi ha detto: “Piccirì, giocati, 1,2,3,4, quaterna secca nella ruota di Napoli e mettici sopra tutto quello che hai in tasca.
Ma come? Uno, due, tre e quattro?
Sì giocati quello che hai in tasca sulla quaterna secca.
E io me li sono giocati come ha detto la bu
on’anima.
Ferdinando: Mio padre chiamava me “Piccirì”.
Uno,due,tre e quattro? E tu li hai giocati.
Mario Bertolini: Certo! Vedete! (insegna la giocata a Ferdinando)
Adesso sono milionario. Don Ferdinando, adesso mi fate sposare Stella?
Ferdinando: Di questo ne parliamo dopo. La quaterna è mia, i numeri te li ha dati mio padre e i soldi spettano a me.
Mario Bertolini: Don Ferdinando che siete diventato pazzo?
Concetta: Che sei diventato scemo?
Ferdinando: (furente e deciso) Non ti pago! Non ti pago! "Non ti pago!"
"O bilietto è mio! Manco nu squadrone 'e cavalleria m'o leva dint' a sacca.
T''o viene a piglia' 'ncopp' 'o Tribuna
le".
(esce dalla sinistra lasciando tutti in asso che si guardano intorno come allucinati)
... io ti denunzio.... Io ti mando in galera!
...

Al gioco del Lotto giocano perfino i magistrati, spesso oberati di figli e debiti, e i piccoli commercianti che non sanno come far fronte alle cambiali di cui vivono giornalmente.

Matilde addita questo male come il male del secolo, un male che contagia anche le matrone dell'alta aristocrazia napoletana, che giocano più per passare il tempo che per necessità, giocano - abbiamo appena visto - anche quelli del banco lotto.
E il rito dell'estrazione aggiunge un qualcosa in più al futuro dramma di quella massa di gente che vive di speranza e delusioni continue. Vanno dunque il sabato alle quattro del pomeriggio laddove si estraggono i cinque numeri delle varie ruote, l'uocchie puntate e 'e rrecchie appizzate. L'Impresa (questo è il nome del luogo dove avviene l'estrazione, si trova in una stradina angusta nei pressi di Santa Chiara, in Via Pignatelli. Ma ci sono anche le persone che non possono accorrere, gli ammalati, per esempio, gli operai, le venditrici, e allora aspettano che torni correndo il guaglione inviato là a scrivere i numeri usciti sulla ruota di Napoli. Ed eccolo che torna e comincia a gridare e a ripetere, vicolo per vicolo:
Vintiquatto! Sissantanove! Quarantanoie! Otto! Sissantacinche!
E' adesso che cadono i sogni, che si rompono le illusioni, che si spezzano i pensieri. E già ci si prepara al prossimo sabato. Ma intanto, dice Matilde Serao, la vita di stenti e di amarezze continua oggi come ieri e domani come oggi, i più nel continuare a far niente nell'attesa. E ci si crogiola nella menzogna, nella povertà, nell'invidia per quello che ha azzeccato il misero ambo da pochi soldi.
La scrittrice affonda il dito nella piaga. Ma enumera anche quella falsa forma di letteratura che s'immerge nel lotto. Quella gente ignorante che non sa né leggere né scrivere, conosce a perfezione un solo libro - persone che non hanno avuto neppure il conforto della lettura di una favola da piccoli - il libro della Smorfia, una pubblicazione che gira per le vie e i vicoli della città, o è consultabile presso l'assistito, che spiega e spiega, o presso l'impresa. E' un libro illustrato con varie immagini ognuna delle quali corrisponde ad un numero del lotto, da 1 a 90.

Scrive la Serao:

"Tutti i napoletani che non sanno leggere conoscono La Smorfia a memoria e ne fanno l'applicazione a qualunque sogno o cosa della vita reale.
Ad esempio 'o guaglione - il ragazzo, corrispondeva al numero 15, 'o pazzo al numero 22, Nanninella era il 20; 'o cante
ro (l'orinale) era il 27, il 29 corrispondeva a 'o pate d''e Ccriature - il padre delle creature, il pene. E così via per ogni numero.
Sogni che muoiono il sabato sera, quando i numeri giocati non sono usciti; ma rinascono a nuova vita la domenica mattina, quando inizia la lunga settimana di attesa spasmodica della nuova estrazione del sabato successivo. E nell'attesa in casa si litiga, si gioisce, si spera cose che non si hanno, nascono progetti il martedì e il giovedì, e il venerdì, e muoiono speranze e progetti il sabato sera.
Vintiquatto! Sissantanove! Quarantanoie! Otto! Sissantacinche!
Silenzio universale: tutti impallidiscono.
Ma come tutti i sogni troppo pronunziati, il lotto conduce alla inazione ed all'ozio: come tutte le visioni, esso porta alla falsità e alla menzogna; come tutte le allucinazioni, esso conduce alla crudeltà e alla ferocia; come tutti i rimedi fittizi che nascono dalla miseria, esso produce miseria, degradazione, delitto. Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l'acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l'acquav
ite di Napoli.

IL PAESE DI CUCCAGNA

Da grande appassionata della vita minuta (prima a Roma e adesso a Napoli) in questo libro la Serao rientra nella vita quotidiana della povera gente dei quartieri malfamati sporchi e abbandonati della città, come se facesse parte anche lei delle famiglie di quelle persone disastrate, sempre in contrapposizione alla piccola e grande borghesia che di quei problemi non ne avevano, e non volevano neppure sentirmene parlare.
Ella punta il dito verso le mille e mille situazioni scabrose dei poveri, descrivendo una insanabile realtà di questo ceto di persone eternamente alla ricerca di sopravvivenza. E tra gli altri mali di Napoli riecco il lotto, croce e delizia, meglio sarebbe dire "eterna speranza delusa pei poveri", che si barcamenano giornalmente in una vita di stenti, ma attirati dal miraggio di diventare ricchi, azzeccando un semplice ambo; e perché no un terno, o l'irraggiungibile quaterna, e - illusione delle illusioni - magari una cinquina; che li faccia approdare, appunto, al Paese di Cuccagna.
Ma non solo il lotto; la Serao nel libro svaria dal lotto al carnevale, con le sue gioie (superficiali), gioie di pochi giorni per poi tornare alla misera normalità, al miracolo dello scioglimento del sangue di San Gennaro.
La Serao denuncia con violenza il gioco del lotto, causa di tutte le povertà e di tutti i vizi della parte più povera della città, di quella gente che ella dice essere umile, bonaria, che sarebbe felice per poco e invece non ha nulla per essere felice; che, sopporta con dolcezza, con pazienza, la miseria, la fame quotidiana, l’indifferenza di coloro che dovrebbero amarla,
l’abbandono di coloro che dovrebbero sollevarla
Scrisse il critico letterario Piero Pancrazi in occasione della pubblicazione del libro:"Tra cent'anni, quando non si sapesse più nulla di Napoli, questo libro basterebbe a resuscitarla"
Il paese di Cuccagna vide la luce nell'anno 1891, e la scrittrice non fece che rivedere e ampliare il suo precedente racconto, "Terno secco", che faceva parte del libro dal titolo "All'erta sentinella!" pubblicato due anni prima, in cui raccontava la rassegnazione eterna del popolino di Napoli che - ultima spes - destina i suoi pochi denari (qualche soldo, quando ce l'ha) all'ultima speranza di un vita migliore: il gioco del lotto.
Il gioco del lotto arrivò a Napoli solo verso la fine del seicento, per l'esattezza nell'anno 1682. Furono le persone che avevano in mano il governo della città di Napoli che decisero di adottarlo come gioco primario, per incrementare le entrate dell’erario, che allora erano davvero misere, basate come si può immaginare solo sulla vessazione dei poveri e dei ceti medi, lasciando i ricchi esenti da qualsiasi imposizione. E' vero, era agli occhi di tutti un gioco d'azzardo (e la Chiesa se ne accorse subito e lo contrastò in ogni modo, considerando addirittura chi giocava in peccato mortale, perché vedeva lo sfacelo che portava nei bilanci delle povere famiglie). Anche per questa ragione ci fu un periodo in cui venne abolito, ma per poco, ché presto fu reintrodotto dal viceré Carlo Borromeo, agli inizi del 1700.
Matilde Serao punta l'indice sull'illusione di un facile arricchimento, che portasse i poveri a quel Paese di Cuccagna cui non si giungeva mai.

Si gioca anche per un evento improvviso, un avvenimento inatteso che sconvolge la quotidianità di ognuno. Voglio riportarvi qui uno di questi fatti che Pino Imperatore, un giovane scrittore napoletano responsabile della Sezione Scrittura Comica del Premio "Massimo Troisi" di Napoli, riporta nel suo libro, uscito nel gennaio del 2012 per le Edizioni Giunti, dal titolo: Benvenuti in casa Esposito, le avventure tragicomiche di una famiglia camorrista.
Premessa: Tonino e Patrizia e la loro prole e suoceri, consuoceri eccetera hanno in casa un coniglietto e un iguana, che per un caso fortuito va a finire nello zainetto del figlio Genny che se lo porta a scuola, dalle suore. Qui, al momento di tirare fuori un libro, l'iguana sguscia fuori, salta e va ad azzannare la caviglia di suor Paoletta, che finisce all'ospedale più morta di paura che viva. La superiora suor Celeste fa chiamare la signora Patrizia che sta dal parrucchiere, lei accorre, e finisce che si riporta a casa il figlio con l'iguana in una gabbietta.
E dunque:
...
"Nella Smart mentre Genny le raccontava i particolari della mattinata, Patrizia si calmò e rise più volte.
Mammà, dovevi vedere a suor Paoletta quando è scappata dalla classe. Il demonio! il demonio! alluccava.
Sai che ti dico, Genny? Mo ci andiamo a gioca' i numeri. Può darsi che vinciamo qualcosa di soldi.
Patrizia si fermò in Via Fonseca, davanti al negozio di "Lotto e mangiato". Metà ricevitoria e metà paninoteca.
Tu aspetta qua, disse a Genny.
Entrò nel locale e andò dritta verso il gestore. Buongiorno, don Cosimo, mi voglio giocare un terno secco sulla ruota di Napoli, però mi dovete aiutare.
Ditemi pure, signora Patrizia.
Mi gioco quarantatre, 'a monaca, e settantadue, 'a meraviglia. Poi mi dov
ete dire quanto fa l'iguana.
'A che?
L'iguana. Quella che assomiglia a 'na lacerta, ma è assai cchiù grossa. Se venite fuori, ve la faccio vedere. La tengo in macchina!
Signo', e voi camminate con un'iguana nella macchina?
Sta dentro a 'na gabbietta.
Meno male. Comunque ho capito che belva è, ma mi trovate impreparato. Nessuno m'aveva chiesto mai l'iguana. Aspettate, piglio 'A smorfia e vediamo a che
numero corrisponde.
Don Cosimo inforcò gli occhiali da presbite, prese un librone da sotto il banco, si mise a sfogliarlo e trovò la pagina giusta, ecco qua: iguana.
Studiò il brano sfregandosi il mento, poi declamò: Dunque, signora Patrizia, ascoltatemi bene, il fatto è serio. Teniamo quattro possibilità: l'iguana semplice fa trentotto, l'iguana adulto sessantotto, l'iguana cucciolo trentadue, l'iguana con prole settantaquattro. Quale ci giochiamo?
E je che ne sacc
io? buttò lì Patrizia.
E lo dovete sapere, esclamò don Cosimo. Non possiamo improvvisare. Il lotto mica è 'na pazziella. Il lotto è scienza scientifica. Fatemi capire: quest'iguana com'è? E' neonata o maggiorenne? Se piglia ancora 'o biberon oppure mangia da sola? E' sposata? Ha famiglia? Tiene figli?
Don Co', mi mettete in difficoltà. Dovrei chiedere a mio marito, è lui che l'ha portata a casa.
Volete prima approfondire lo stato civile dell'animale e poi ripassate?
No, non ciò tempo. Facciamo così: mi gioco l'iguana adult
a.
Siete sicura? chiese don Cosimo.
Abbastanza. L'animale è grande, quindi penso che è adulto. Fate venti euro, terno secco.
Bene, allora: quarantatre, settantadue, sessantotto. Niente ambo?
Niente
ambo.
... il sorriso le torno' (a Patrizia) grazie a Tina (l'altra figlia) che rientrando da scuola comunicò di aver preso nove all'interrogazione di storia. Il broncio le riapparve la sera, quando in tv furono annunciate le estrazioni del lotto. Sulla ruota di Napoli uscirono 'a monaca, quarantatre, 'a meraviglia, settantadue, e l'iguana con prole, settantaquattro. Evidentemente Sansone (l'iguana) era papà.
Niente ambo? aveva chiesto Cosimo.
Niente ambo
Ma il romanzo è variegato, non solo il gioco del lotto, del resto trattato già ampiamente nel suo precedente libro, ma è anche un documento su altri pezzi di vita del popolo napoletano: il miracolo di San Gennaro, il Carnevale, i dolcetti tipici di quella gente in occasione di una comunione, eccetera. E la scrittrice dipinge come su una tavolozza in cinemascope i personaggi e i vari ambienti della città, mettendone però in evidenza i mali, le pecche, le crepe, una denuncia non smetterà mai di fare nel corso della sua vita.
Come quella che ella di persona rivolge, ne Il ventre di Napoli, in una appassionata lettera al Ministro De Pretis (Presidente del Consiglio nell'anno 1905):

... lei sa tutto dell'Italia...
... le statistiche della mortalità e quelle dei delitti... quante femmine disgraziate diciamo così, esistano... quanti vagabondi dormano in istrada, la notte ... l'andamento... della disoccupazione...
... vorrei farle una domanda:... queste persone, lei le ha mai incontrate? Sa cosa mangiano, (e più spesso non mangi
ano), cosa pensano, quanto desidererebbero dare ai propri figli un'educazione simile a quella che lei ha dato ai Suoi...
... e quanto renda il lotto. Quest'altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere
?...
E si firma per esteso: Matilde Serao.

La scrittrice, nel corso della sua carriera giornalistica, oltre ai tradimenti del marito dovette subire critiche talvolta feroci da parte di molti, anche per le sue idee politiche e sociali, che come abbiamo visto non esita a denunciare persino a presidenti del Consiglio e altri uomini politici. Era contraria alla guerra, e si schierò apertamente per quelli che si astenevano dall'intervento dell'Italia; si inimicò in tal modo anche il Capo del Governo Benito Mussolini, che non l'appoggiò per il conseguimento del premio Nobel, che andò infatti a Grazia Deledda.
Ci siamo dilungati sui due romanzi principe della sua carriera di scrittrice, ma la Serao ne scrisse tantissimi altri. Va detto che anche nei libri successivi riprende spesso il tema delle sofferenze dei suoi amati concittadini. Fu autrice anche racconti, brevi e lunghi, molti romantici; scrisse in essi di mondanità, di "buona creanza", ma tutti che risentono in maniera determinante del suo stile, dei suoi articoli e saggi giornalistici, che scavavano a fondo - come questi - nelle cose che osservava e amava sfidare.
.

...quando una operaia napoletana nomina i suoi figli, dice: le creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna pietà, con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente, la intensità della miseria napoletana...

Era il suo modo di attirare l'attenzione del lettore, a qualsiasi ceto appartenesse. Il suo stile, a detta di molti - e non ultimo suo marito Edoardo Scarfoglio - lasciava molto a desiderare, ma a lei non importava, il suo fine era quello di coinvolgere la gente, di comunicare in maniera semplice, di far partecipare tutti alla sua vita che andava a vivere in mezzo al popolino con le sua poche gioie e le molte disperazioni.

...i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati... una lira, venticinque soldi, al più, trenta soldi al giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo.. .
... i tagliatori di guanti guadagnano novanta centesimi al giorno
...

Il suo scopo era quello di far conoscere le tantissime miserie e le poche, e spesso inutili, speranze a quello stesso popolino che era il fulcro della città, ma anche alla cosiddetta nobiltà o ex-nobiltà, alla superba aristocrazia, agli inarrivabili "signori".

...che dove erano otto persone, ora sono dodici; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute...

Quel triste 13 novembre dette le dimissioni dal Mattino, per stare lontano da Scarfoglio, trovandosi all'improvviso senza lavoro. Né aveva intenzione di trovare un altro giornale; tuttavia vicino al suo nuovo uomo lo fece. Fondò quindi il quotidiano Il Giorno, che ebbe un buon successo di pubblico e di critica. Ebbe da Giuseppe Natale - che sposò solo alla morte di Edoardo avvenuta nel 1917 - una figlia che chiamò Eleonora per ricordare la sua cara amica Eleonora Duse. Ma poi perse anche il secondo marito, e restò definitivamente sola fino alla fine. Continuò a scrivere libri e a dirigere il giornale, con la passione che sempre la contraddistinse.
Aveva 71 anni quando morì. Si trovava in redazione, china sull'articolo o saggio che stava scrivendo; s'accasciò poggiando la testa sui fogli che aveva davanti; un colpo al cuore la stroncò; improvvisamente, ché niente faceva supporre una fine così tragica.

fine
marcello de santis

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La tragedia di Marcinelle

22 Agosto 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

La tragedia di Marcinelle

L'8 agosto 1956, in Belgio, a Marcinelle, in miniera, avvenne una vera catastrofe che fece 262 vittime di cui 136 italiani.

Il grave incidente si verificò a causa di un incendio divampato nel pozzo uno, che serviva anche per l'impianto di aerazione dell'intera miniera. Non esisteva un pozzo di salvataggio, così, in pochi minuti, tutte le gallerie divennero un’immensa camera a gas. Il calore dell’incendio aveva fatto fondere tutte le funi d'acciaio dei montacarichi e nessuno poteva risalire, la miniera era divenuta una trappola mortale per i lavoratori.

De Gasperi, nel 1946, aveva firmato un accordo con il Ministro belga Van Hacker che prevedeva l'acquisto di carbone a un prezzo di mercato, in cambio dell'impegno italiano di mandare 50 mila uomini per il duro e pericoloso lavoro in miniera. Tra il '46 e il '57, in Belgio arrivarono 140 mila italiani.

Il contratto prevedeva 5 anni di miniera, con l’obbligo tassativo di lavorarne almeno uno. Chi si rifiutava di scendere in miniera, durante il primo anno, veniva arrestato e, in prigione, oltre ai maltrattamenti, gli facevano soffrire anche la fame per indurlo a scegliere di tornare a lavorare. Chi si ammalava a causa del lavoro, non era retribuito e perdeva il diritto all'alloggio. La vita degli uomini nella miniera non valeva granché, solo nel 1948, finalmente, furono superate le maggiori differenze tra gli operai italiani e quelli belgi.

Alla fine della seconda guerra mondiale, le condizioni economiche in Italia erano precarie, il paese, pesantemente bombardato dagli alleati, era semidistrutto, l'industria aveva subito una forte perdita di macchinari, impianti e scorte di materie prime, la fortissima inflazione faceva lievitare a dismisura i prezzi, la disoccupazione e la delinquenza comune erano in crescita. Il manifesto della Federazione delle miniere belghe, che era stato affisso nei comuni italiani, a moltissimi disoccupati apparve come una manna dal cielo. La fame, la necessità, fecero sì che molti disperati accettassero l'invito di De Gasperi a emigrare in Belgio. Erano uomini che avevano ancora dei valori in cui credere: l’amore per l’Italia, per la patria, la fiducia nella vita, e la speranza di potersene costruire una al di fuori della miseria e della distruzione . Erano giovani in cerca di futuro, padri di famiglia con responsabilità verso mogli e figli e furono scambiati a peso con il carbone: in base agli accordi l'Italia riceveva la possibilità di acquistare 200 kg di carbone al giorno per ogni minatore inviato.

Il Belgio aveva promesso trattamento dignitoso e alloggi per il ricovero degli operai:

l’impresa belga si impegna a fare tutto quanto è nelle sue possibilità per procurare all’operaio un alloggio conveniente, provvisto di mobili necessari, al prezzo di fitto praticato nella regione e rispondente almeno alle condizioni previste dal codice di lavoro belga”.

In realtà, le autorità decisero di acquistare vecchi campi di prigionia, costruiti durante e dopo la guerra per alloggiare i prigionieri russi e tedeschi che lavoravano nelle miniere. Campi costituiti da fatiscenti baracche edificate in luoghi insalubri.

Dagli abitanti del luogo e dai minatori belgi gli Italiani venivano trattati come appestati, come prigionieri. Non potevano entrare nei bar, né provare ad affacciarsi nei pochi cinema o luoghi di spettacolo pubblico. Dovevano restare nei campi a loro riservati e venivano chiamati “Machaques”, nomignolo preso in prestito da una razza di scimmie. Nella regione carbonifera del Belgio, dal 1946 al 1963, durante l’accoro “uomo-carbone”, nel bacino di Charleroi morirono in totale 867 minatori italiani per incidenti, abruzzesi e pugliesi pagarono il maggiore tributo di sangue. Altre migliaia persero la vita, negli anni successivi, a causa degli effetti devastanti sulla salute provocati della polvere di carbone. Polvere che avevano respirato sotto le gallerie anche per dieci ore al giorno. La memoria di questi italiani va onorata e non dimenticata, furono usati come merce di scambio dal nuovo governo democratico del nostro paese e sacrificati in cambio del carbone necessario a far ripartire industrie ed economia.

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