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Marco Campogiani, "Smalltown boy"

22 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Marco Campogiani, "Smalltown boy"

Smalltown boy

Marco Campogiani

Edizioni Anordest 2013

pp. 335

€ 12,90

Quando noi eravamo Noi, e il mondo se ne stava fuori, tutto era leggero, e come scivoloso, mentre ora non riesco a muovere un passo.” (pag 294)

Alla fine, sono ancora Babi e Step, alla fine è ancora “un’altra storia d’amore”. E tuttavia…

“Smalltown boy”, di Marco Campogiani, finalista al XXVI premio Calvino, s’inquadra sì nel filone dell’amore giovanilistico ma, soprattutto, in quello della ricerca dell’identità sessuale, adesso tanto in voga. Lo fa con un attacco lieve, quasi tragicomico, come fossimo, appunto, ancora “tre metri sopra il cielo”, poi, però, va in crescendo verso lo scavo interiore, verso l’accettazione dell’ineluttabile, verso la sofferenza, verso l’essere costretto a misurarsi con il metro della cosiddetta normalità, con “l’altro da sé”.

Davide Guizzardo s’innamora a quattordici anni con una profondità, con un’assolutezza drammatica, superiore alla sua età, e il suo è un amore tragico come quello di Romeo. Ma l’anima gemella non è Giulietta, bensì Guido, l’amico con cui è solito giocare a calcio e parlare di ragazze. Guido è bello, forte, atletico, è il campione che tutte vogliono. Guido è omosessuale, Guido ha una gemella, Martina, considerata da tutti stramba, dark, solitaria. Anche Martina è omosessuale e ama Cristina che tutti credono la ragazza di Guido. Per stare insieme, Davide e Guido, Martina e Cristina, dovranno fingere di uniformarsi, diventare agli occhi del mondo ciò che la società richiede. “Essere. Come. Gli. Altri.”

Nascerà così una commedia degli equivoci, un intreccio strano fra i quattro ragazzi, dove Davide farà finta di stare con Martina, mentre Guido darà a vedere di essere il ragazzo di Cristina. In realtà, le coppie vere saranno omo e non etero.

Come dicevamo, la storia parte con tono leggero, all’inizio l’omosessualità è solo un’evenienza, un’esplorazione nell’ambito di un’età confusa, della quale si saggiano tutte le potenzialità. Davide, Guido, Martina provano a essere come tutti, testano le sensazioni del loro corpo e le emozioni del loro cuore a contatto con l’altro sesso, ma l’amore ha un sopravvento vitale, giocoso. I ragazzi accettano ciò che non possono più nascondere o rifiutare, vivono in una bolla isolata dal resto del mondo, creano un loro spazio alternativo, un giardino segreto dove coltivano la loro personale felicità. “Dio quanto siamo belli, mi pare.” (pag 197)

Ma questa loro bellezza esteriore ed interiore non è capita, deve essere negata.

Cos’altro potrei raccontare al Capitano dei Carabinieri? Sarebbe lungo spiegargli il Mondo Parallelo delle “regole Speciali”. O la teoria dei Nostri Momenti. Cosa capirebbe? Niente. Perché quello in cui vive lui è un mondo diverso, che non ci appartiene: il mondo dell’Ordine.” (pag 196)

Inevitabilmente, questi giovani puri e felici dovranno scontrarsi con il perbenismo, con la società, con la famiglia, con la scuola, con la Chiesa, che li vogliono come non sono, che pretendono di cambiarli anche se non fanno niente di male, anche se sono bravi ragazzi studiosi. Perché Davide, Guido e Martina non sono soltanto la loro omosessualità ma anche giovani qualsiasi, che scandiscono la vita a suon di pizze e musica anni ottanta. Le canzoni fanno da colonna sonora a tutto il romanzo e ritmano i capitoli (e anche questo, ultimamente, sta diventando un cliché della narrativa.)

Chi decide cosa è in ordine e cosa no?” (pag 196)

L’irrompere dell’Ordine, in quello che solo dall’esterno sembra Disordine senza esserlo, porterà a rotture, a lacerazioni, a dolorose separazioni che distruggono l’energia del protagonista, che lo “reificano”, che lo trasformano in un automa capace solo di provare nostalgia, perdita, solitudine. Il dramma di Davide è narrato con un tono semplice e penetrante insieme, dove il dolore è ancora più intenso perché ipertrattenuto.

Mi alzo, colazione, scuola, rispondo persino quando mia madre mi chiede qualcosa, ma è come se non fossi io, è come se avessi premuto il tasto rosso del telecomando e ora fossi in standby.” (pag 294)

Se le atmosfere, ripetiamo, possono essere ascritte ad un clima che ricorda Moccia o persino le canzoni della Pausini, lo scavo interiore è, però, lucido e tagliente nella sua elementarità, la lingua scabra e studiata. I dialoghi sentono gli effetti del vissuto da sceneggiatore di Campogiani, sono avvincenti, realistici, fin troppo perfettini per un protagonista ragazzino, al punto che è lo scrittore stesso, a volte, ad auto criticarsi: “Potevi dire qualcosa di più originale Guido: ‘Ho sbagliato, non voglio perderti…’ Sei… sdolcinato. Sei finto.” (pag 253) Peculiare l’abitudine di zoomare dalla terza persona alla seconda, per avvicinarsi al personaggio, per dialogarci.

Concludiamo dicendo che nel testo è presente anche una forte componente di denuncia dell’omofobia, sebbene sfumata, addomesticata. Dopo la presa di coscienza si giunge al rifiuto dei pregiudizi, delle categorizzazioni, delle etichettature.

Non ho mai conosciuto la vita di un camionista. Non ho mai parlato d’amore con un camionista. E d’un tratto mi rendo conto di una cosa magari semplice, ma la voglio dire. Non esistono “i camionisti”. Esistono degli uomini, delle persone che fanno i camionisti. Semplice no? Ma non ci avevo ancora mai pensato. S’imparano un sacco di cose, viaggiando.” (pag 327)

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Due scrittori piombinesi Luigi Carletti e Sacha Naspini – Cadavere squisito e Il canile

21 Settembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #recensioni

Due scrittori piombinesi  Luigi Carletti e Sacha Naspini – Cadavere squisito e Il canile

Che cosa hanno in comune due scrittori come Luigi Carletti (Cadavere squisito - Mondadori) e Sacha Naspini (Il momento del distacco, Guanda)? Una città: Piombino, dove sono cresciuti; il primo ci è pure nato, nel 1960 (proprio come me, ma ha fatto più strada), il secondo è nativo di Grosseto (1976), sempre Maremma, ma ha studiato e si è formato culturalmente sotto le ciminiere della Lucchini, tra Riotorto e Follonica. Era un bimbo quando vinse il Premio Licurgo Cappelletti, bandito dal Foglio Letterario, subito dopo un altro della Biblioteca di Massa Marittima, dove mi trovavo (per caso, ché non mi chiamano mai, sono un battitore libero) a fare il giurato. Un’altra cosa che hanno in comune Sacha e Luigi è che nella loro terra non sono mai stati celebrati a sufficienza, vorrei dire a torto, ché sono due narratori di razza. A Piombino preferiscono riservare pagine e pagine al prossimo libro di Silvia Avallone (Acciaio era un buon romanzo), pure se non è ancora uscito, quando sarà in libreria Il Tirreno le dedicherà un numero monografico, credo. Il nuovo romanzo della Avallone fa stare tutti con il fiato sospeso, non ci si dorme la notte, pare.

Partiamo da Carletti per diritto di anzianità. Vive a Roma, dove ha lavorato per anni alle dipendenze del Gruppo L’Espresso - Repubblica come giornalista. Credo di aver letto quasi tutto quel che ha scritto e non smetterò mai di consigliare di recuperare Alla larga dai comunisti (2006) e Lo schiaffo (2008), due struggenti storie di provincia edite da Baldini e Castoldi. Lo stesso editore di Faletti. Chi l’avrebbe mai detto? Pubblica pure scrittori veri. Da un paio d’anni Carletti esce per Mondadori, nel 2012 dà alle stampe Prigione con piscina, che ci riporta alle atmosfere hitchcockiane de La finestra sul cortile, mentre da pochi giorni è in libreria Cadavere squisito. Il suo ultimo lavoro segue una pubblicazione francese: Six femmes au foot (Liana Levi, 2013) e un racconto utilizzato per la fiction di Raiuno, Operazione pilota. Cadavere squisito è un altro giallo hitchcockiano costruito su flashback ambientato in una Roma decadente che ricorda (in meglio) quella de La grande bellezza. Avvertiamo la presenza di un personaggio seriale, l’ostinato ispettore di polizia Gennaro Falasco, proprio quel che chiede il mercato editoriale, ma Carletti non rinuncia a fare letteratura. La è partenza è scioccante, da thriller angoscioso e claustrofobico, con un cadavere in primo piano, poi arrivano le ombre del passato e i fantasmi della memoria di un pubblicitario di successo. Due delitti e tanti dubbi investono la scrivania di questo nuovo ispettore di polizia pensato per un panorama editoriale italiano affollato di commissari e marescialli.

Sacha Naspini, invece, debutta con Il Foglio Letterario (per questo l’ho tanto caro) con L’ingrato e I sassi, due romanzi brevi ancora in catalogo e che consiglio di leggere. Per Il Foglio dirige la collana Demian, insieme a Federico Guerri, curando la selezione di storie adolescenziali ispirate al capolavoro di Herman Hesse. Naspini non si ferma alla piccola realtà di provincia, ma esce con romanzi di taglio diverso, ispirandosi a una sorta di terrorismo dei generi tanto caro a Lucio Fulci. Cento per cento e Noir Desir sono del marchio Perdisa Pop, I Cariolanti (2009, forse il suo miglior testo) e Le nostre assenze (2012) escono per Elliot. Il suo ultimo libro che mi è capitato di leggere lo vede coinvolto in un’antologia (Il momento del distacco - Nove racconti italiani, a cura di Alessandro Greco) edita niente meno che da Guanda, nella quale ho trovato (purtroppo, non me ne voglia il signor Guanda) degno di nota soltanto il suo racconto. Il canile, nero e torbido, sembra la sceneggiatura di un film di Tarantino, eccessivo e tagliente, scritto con lo stile dei migliori narratori horror statunitensi.

Luiogi Carletti e Sacha Naspini hanno in comune anche Gordiano Lupi, ché sono entrambi amici miei, ma non ne parlo solo per questo. Ne parlo perché anche in provincia - come a livello nazionale - bisognerebbe dedicare più spazio agli scrittori veri, meno agli imbrattacarte e ai personaggi televisivi. Ne parlo perché entrambi rappresentano una piccola gloria provinciale, in fondo, sono due scrittori che portano in alto, in giro per l’Italia, il nome di Piombino. Naspini, tanto per dire, è stato ospite del Festival della Letteratura di Mantova, insieme a personaggi del calibro di Leonardo Padura Fuentes.

Leggeteli, ne vale la pena.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Luigi Carletti

Luigi Carletti

Due scrittori piombinesi  Luigi Carletti e Sacha Naspini – Cadavere squisito e Il canile
Sacha Naspini

Sacha Naspini

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Incompiuta

20 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Al funerale ci sono gli amici che trovano il morto smagrito e sciupato. Per forza, è sciupato. Si ragiona della vita, siamo tutti attaccati a un filo, oggi ci siamo e domani no, ma nessuno dice la verità, cioè che quello lì, Tommaso, mai avrebbe chiesto di venire al mondo, e ha vissuto tutti i suoi anni senza sapere qual era la sua meta, giusto per finire così, stecchito e rigido nella bara.
Perché, quello lì, Tommaso, era un poeta.
Scendeva al mare, la mattina, là dove la schiuma sferzava gorgogliando gli scogli, e scriveva versi. Poi si rimetteva i mocassini, risaliva la scarpata e andava a lavorare al magazzino.
Non era più giovane Tommaso, ma per lui l’ultima poesia era ancora la prima. Per lui era ancora il primo giorno di lavoro, quel lavoro temporaneo, meschino, che non gli piaceva. Si sentiva appena fresco di studi, in attesa di tuffarsi nella vita vera, la vita che ti dà gioia, soddisfazione, piacere.
Invece la pelle era grigia, e gli occhi non vedevano più, specie il sinistro. Sua moglie, Pina, adesso non lo riconosceva neanche, quando la sera tornava casa.
Eppure lui aspettava, fiducioso, aspettava la vita.
C’era una cosa che non osava neppure pensare, una frase che non poteva nemmeno formulare, mentre Pina già parlava di pensione e di nipoti.
Che senso avrebbe, si chiedeva, se ora io morissi, che senso avrebbe mai, questa mia vita incompiuta, sprecata?
E, dentro di sé, sbatacchiava come un leone in gabbia, si rivoltava come un matto nella camicia, mentre, in silenzio, con estrema calma, smarcava le vernici e contava i barattoli.
Prima, aspetti e sai che ce la farai, poi, aspetti e sei un po’ meno sicuro, ma, dici, non è possibile, ci deve essere uno scopo, una meta, un pianerottolo. Alla fine capisci che stai rinunciando, che davvero nessuno leggerà mai le tue poesie.
Allora morire non è poi così grave.
Piangeva, la notte, Tommaso, e stringeva i pugni.
Forse perché se lo sentiva, forse perché le sigarette gli avevano ingiallito le dita e arrochito la voce. Come adesso stanno dicendo in tanti, se l’è voluta. Il coso dentro il polmone è cresciuto, gli ha disintegrato gli alveoli, l’ha soffocato. È morto guardando la finestra, lo so perché c’ero. Pina stava zitta, in un angolo, con le bollette in mano.
Allora sono andato di là, dove lui teneva le poesie. Scritte a mano, perché non gli piaceva picchiare sui tasti, perché lui era rimasto indietro, ai tempi del liceo. Ho preso i fogli dal cassetto, li ho messi nella borsa.
E ora, Tommaso, sarebbe bello dirti che ho trovato un editore, che il mondo ti leggerà postumo, che Pina ed i ragazzi diventeranno ricchi con i tuoi versi. Questa storia avrebbe un senso, un lieto fine.
Ma il mondo non gira in questo modo, il mondo non è degli illusi, come noi.
Domattina andrò al mare, là dove tu scendevi, appena farà giorno.
Non avrò bisogno di leggere le tue parole perché le conosco, come tu conosci le mie. Ci scambiavamo rime, consigli, figure.
Mi toglierò le scarpe, come tu facevi, e immergerò i fogli ad uno ad uno nell’acqua. Resterò a guardare mente l’inchiostro si scioglierà, e le parole scompariranno.
Le tue parole, Tommaso, le parole nate sul mare, che il mare raccoglierà.
E le mie parole, le parole dei poeti sconosciuti, delle anime nascoste, delle vite incompiute.

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Segnalazione

19 Settembre 2013 , Scritto da redazione Con tag #redazione

Vi segnaliamo

Web Comedy di Giovanna Angelino

su Bookolico.com

Una guida sulle potenzialità della rete combinata con le vicende dell’Avvocato Giorgino e della moglie Concettina e di tutti i personaggi che gravitano attorno a questa singolare coppia: collaboratori, stravaganti clienti, originali vicini di casa, amici vip; non mancano viaggi reali, virtuali e ben immaginati, gag e colpi di scena; tutti gli ingredienti di un sano humor.

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Gordiano Lupi, "Il ragazzo del Cobre", Virgilio Piñera, "L'inferno e altri racconti brevi"

18 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #gordiano lupi

Gordiano Lupi, "Il ragazzo del Cobre", Virgilio Piñera, "L'inferno e altri racconti brevi"

Il ragazzo del Cobre

Gordiano Lupi

L’inferno e altri racconti brevi

Virgilio Piñera

Edizioni Il Foglio letterario, 2013

pp 104

4,90

Da sempre le hanno insegnato che non si deve programmare il futuro, perché sono i giorni a scegliere la successione degli eventi. Vivere la vita momento per momento è la medicina migliore per sconfiggere la malinconia”. (pag 62)

La neonata collana Demian de Il Foglio letterario, diretta da Sacha Naspini e Federico Guerri, ha caratteristiche molto particolari. Il motto è “Il tentativo di una vita, l’accenno di un sentiero” (H. Hesse), la collana ospita 2 racconti per libro ed è organizzata in stagioni – ogni numero un episodio, con una antologia ogni dieci episodi. L’argomento esplorato è l’adolescenza.

L’episodio 7 raccoglie un bel racconto di Gordiano Lupi, “Il ragazzo del Cobre”, e uno speciale dedicato ad alcuni testi di Virgilio Piñera (1912 – 1979), scrittore cubano “dimenticato” dal regime castrista perché omosessuale, in un paese che considera l’omosessualità un vizio borghese, individualista e decadente.

Protagonista de “Il ragazzo del Cobre” è una famiglia che vive negli alagados, i quartieri costruiti su palafitte alla foce del fiume, a Salvador de Bahia. Gli abitanti del Cobre sono così poveri da trovarsi, nella scala sociale, addirittura sotto a quelli delle favelas. Padre, madre, un nonno, due figlie adolescenti, un ragazzino che gioca al calcio, un’altra bambina in arrivo, la lotta per portare a casa il pane ogni giorno con mezzi leciti e illeciti, la rassegnazione allo sfruttamento e al turismo sessuale, la speranza che non muore mai.

Ci sarà un riscatto, alla fine, ma sarà solo al prezzo di una vita, quella della giovane Anabel, uccisa mentre vende il suo corpo acerbo “alla luce della luna”. Sono gli stessi spiriti del Candoblè, intuiamo, a esigere questo sacrificio. Anabel muore e rinasce nella piccola che porterà il suo nome e i suoi occhi, cosicché la secondogenita, Maria, non faccia la sua fine, ma trovi un bravo ragazzo italiano disposto a toglierla dalla strada e offrirle una nuova esistenza in quel di Piombino, cosicché Juanito, a furia di tirar calci al pallone, venga notato dai procuratori sportivi ed entri a far parte di una squadra importante, allontanandosi – ma non con il cuore – dagli alagados, realizzando il suo sogno e ottenendo la possibilità di aiutare tutta la famiglia.

“I ragazzi saranno felici. Solo di questo è sicuro.

Nessuno dovrà più fare la loro vita.

Nessuno dovrà più lottare per non morire.” (pag 69)

Quella di Lupi non è una denuncia sociale ma una dichiarazione d’amore: per le notti tropicali, per le creole dalla pelle ambrata e i corpi sinuosi, per il calcio povero, quello dei campetti sterrati, che crea campioni come Pelé e Ronaldo.

La sonorità del titolo si trasmette tutta al testo. La lingua è asciutta, ci sono echi di Santiago de Il Vecchio e il mare ma lo stile vira decisamente al poetico, al nostalgico, al reiterato con strascichi da ritornello di ballata.

Per quanto riguarda i racconti di Piñera, alcuni possono essere ascritti ad una vena avanguardista da teatro dell’assurdo. Piñera precorre Ionesco. Ne è un esempio il racconto “L’interrogatorio”, illogico e kafkiano nelle atmosfere.

La novella che più ci colpisce è, però, “Il secchio”, col cerchio della vita rappresentato, appunto, dal secchio pieno di tamponi insanguinati, con il bisogno del protagonista di aggrapparsi a un ruolo, a una funzione, di trovare quello che Vasco Rossi chiamerebbe “il senso a una vita”, la quale di per sé “non ha importanza”, se non per la funzione sociale che svolge.

“Dopo il 1985”, ci viene spiegato nell’appendice, "a Cuba comincia il processo di rettificazione degli errori, le figure letterarie di Lezama Lima e Virgilio Piñera vengono rivalutate e valorizzate, omettendo tutte le persecuzioni che hanno dovuto subire.” (pag 102)

Si spera che tale opera continui anche in Italia, dove di Piñera esiste solo un romanzo, “La carne di Renè”, pubblicato da un piccolo editore e ormai fuori catalogo.

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Daniele Lembo, "Otto settembre 1943"

17 Settembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #storia

Daniele Lembo, "Otto settembre 1943"

Chi scrive di storia e' non soltanto appassionato della materia di cui
scrive, ma e' percorso a mio avviso da una sorta di febbre da ricerca alla
quale per l'intera sua esistenza non puo' sottrarsi. E per quanto tantissimo
venga scritto quotidianamente e diffuso con mille veicoli in tutto il mondo,
egli sarà sempre stimolato da nuove scoperte, da eventi grandi e piccoli, a
conferma che mai si finirà di dire e di scoprire. Come l'archeologo non sa
mai cosa apparirà esattamente rimuovendo la terra o le pietre, come in quel
momento si accende in lui la speranza di trovare ciò che intuiva di poter
reperire, chi si occupa della storia, quella degli eventi drammatici che
forgiano il corso dell'umano procedere, scava perennemente negli archivi,
legge tomi dimenticati, sfoglia carte ingiallite e vecchie immagini
nascoste nei luoghi piu' diversi , cercando la documentazione che confermi
quegli eventi e i suoi perche'. Se si può sintetizzare in poche parole il
significato di questo stimolo inarrestabile,si può parlare di ricerca della
verità, questo e' il vero motore che da secoli spinge chi scrive di storia.
Nella mia lunga esperienza editoriale nel settore, una delle persone che ho
incontrato che piu' rappresenta il ricercatore storico, e' stato Daniele
Lembo. Mai fermo nel suo sforzo incessante di portarci a conoscenza di
qualche dettaglio, di qualche immagine,di qualche intuizione o di qualche
prova che gettasse nuova o ulteriore luce su qualche evento storico.Il
periodo di cui si occupava era il Novecento, con attenzione particolare per
la seconda guerra mondiale, ma soprattutto per gli eventi italiani, di cui
mai credo abbia cessato un solo giorno della sua non lunga vita di occuparsi
e di studiare, producendo una serie di opere sul tema a ritmo serrato, quasi
avesse il presentimento che il tempo non gli sarebbe bastato per tutto ciò
che la passione lo spingeva a fare.
Quest'opera e' l'ultima che Daniele Lembo mi ha consegnato prima della sua
scomparsa prematura, un tema a lui molto caro, perché per lui dolorosissimo,
come dovrebbe esserlo per ogni italiano: quell ' 8 settembre che lui ha
definito così bene,così lapidariamente, come ' il giorno in cui mori' la
Patria".
Una sintesi degli eventi, questa narrata da Daniele Lembo, che, sono
certo, rimarrà a lungo nelle biblioteche non solo dei cultori di storia,ma
di chiunque abbia a cuore il nostro paese. Un punto di riferimento essenziale
a testimonianza del lavoro incessante e appassionato di uno storico dei
nostri tempi.

L' editore

Daniele Lembo, "Otto settembre 1943"
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San Galgano

16 Settembre 2013 , Scritto da Impronte d'Arte Con tag #patrizia puccinelli, #Impronte d'Arte, #fotografia, #luoghi da conoscere

La Toscana, ricca di luoghi indimenticabili. Uno di questi è San Galgano in provincia di Siena. La pregevole articolazione delle masse murarie si unisce all’eleganza delle linee architettoniche, che sembrano, per l’assenza del tetto, protendersi verso il cielo. Nel cortile dell’Abbazia c’è la Sala Capitolare, luogo di riunione della comunità. Poche centinaia di metri la distanziano dalla Cappella di Montesiepi, una piccola chiesa dove è custodita la Spada nella Roccia.

Patrizia Puccinelli

San Galgano
San Galgano
San Galgano
San Galgano
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Lucca

15 Settembre 2013 , Scritto da Impronte d'Arte Con tag #Impronte d'Arte, #patrizia puccinelli, #fotografia, #luoghi da conoscere

Sta finendo l’estate e Lucca, con le sue Mura, si riempie di colori caldi ed ineguagliabili, mentre l’orologio del Palazzo Pretorio scandisce il tempo nelle notti di luna piena.

Patrizia Puccinelli

Lucca
Lucca
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Intervista a Ida Verrei: "Vesna è la speranza in una nuova primavera."

14 Settembre 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #interviste

Intervista a Ida Verrei: "Vesna è la speranza in una nuova primavera."

«Sono nata a Venezia ma vivo a Napoli – così inizia a raccontarsi Ida Verrei, autrice del romanzo Le Primavere di Vesna, recensito proprio qui, sulle pagine di Critica Letteraria – una città che mi è molto cara e dalla quale credo di aver assorbito tutte le mille contraddizioni. Tutto quanto è accaduto nella mia vita – prosegue – è stato fuori tempo: o troppo presto o troppo tardi».

Anche se involontariamente, queste prime righe di presentazione sembrano riecheggiare proprio Vesna: Napoli e Venezia sono le città tra cui la protagonista si divide e quel “troppo presto o troppo tardi” richiama non poco il carattere delle sue scelte, esistenziali e non solo. «A vent’anni – ci racconta – ho vinto il concorso magistrale e ho iniziato la mia carriera di insegnante. Avevo già un bambino di un anno. E tre anni dopo è arrivata la seconda figlia. A quaranta, quando i figli erano già quasi adulti, mi sono laureata in Pedagogia, con una tesi sperimentale in Psicologia dell’Età Evolutiva».

«Sin da bambina – così inizia a parlare di una delle sue più grandi passioni – sono sempre stata una lettrice appassionata; da adolescente mi tuffavo di nascosto nella biblioteca di mio padre e divoravo tutto quello che trovavo, in modo confuso e disordinato. Ho amato moltissimo gli scritti di Hemingway, Scott Fitzerald, Steinbeck. Ma leggevo di tutto, e anche ora, non ho un genere preferito, ho degli autori che amo più di altri, rileggo sempre volentieri gli scritti della Morante, della Ortese, sono innamorata di Erri De Luca, ma qualche volta mi accosto anche a nuovi autori premiati, come la Muggia o Veronesi».

Ida, però, non ama soltanto leggere: come qualsiasi buon lettore, ha scritto e scrive ancora oggi moltissimo: «Ho sempre scritto molto, ma i miei scritti – precisa – nel passato erano soprattutto inerenti il mio lavoro e la mia formazione: pedagogia, metodologia, didattica, psicologia, con qualche saltuaria incursione in attività più creative, come sceneggiature e riduzioni teatrali per le scuole. Al romanzo sono arrivata tardi e per caso: pensionamento, figli sposati, una camera-soppalco tutta per me, un PC e, finalmente, un po’ di tempo a disposizione. Il mio primo libro Un, due, tre, stella! è un romanzo di formazione, con molte concessioni all’autobiografia; cosa che mi ha creato qualche problema, perché, pur avendo avuto un discreto successo tra i lettori, ha spesso suscitato interesse per le vicende della mia vita, piuttosto che fermare l’attenzione sul valore letterario dell’opera. Ma, in fondo, riuscire a risvegliare la curiosità del lettore è pur sempre un merito!».

Come è nato Le Primavere di Vesna? – le chiedo – Lo hai scritto di getto oppure è "venuto fuori" pian piano? C'è un episodio particolare che ti ha spinto a scrivere?

«Proprio la curiosità di alcuni dei miei lettori è stata la molla che mi ha spinto a scrivere il secondo, Le Primavere di Vesna. Molti chiedevano: “E poi?...” “ci racconterai il seguito?” Non ci ho pensato neanche lontanamente! Non l’ho fatto e non lo farò. Ma mi è venuto in mente che avrei potuto affabulare, a modo mio, il “prima”. E ho scoperto che mi piace molto raccontare le persone che, in qualche modo, hanno attraversato la mia vita. Qui non c’è autobiografia, la storia del secondo romanzo si svolge in gran parte in un’epoca in cui io non c’ero ancora e forse non ero neanche un progetto. Mi è piaciuto raccontare, piuttosto che ciò che è stato, ciò che sarebbe potuto essere, con qualche memoria rubata, e molta fantasia. Solo alcuni dei personaggi, luoghi ed eventi appartengono alla realtà. Ho manipolato la verità e l’ho dipinta di finzione».

La protagonista del romanzo, Liana, è il simbolo della "rinascita". Il suo soprannome, d'altra parte, è "Vesna", un essere mitologico, come tu scrivi, che "al suo arrivo porta la primavera". Perché hai sentito l'esigenza di mandare un messaggio di speranza al lettore?

«Non ho mai avuto l’intenzione di lanciare messaggi al lettore, ma a me stessa. Mi sono spalancata una porta, anche se è alle mie spalle».

Ho adorato sua madre, il suo pudore e il suo amore incondizionato, che poi è tipico di tutta la famiglia di Liana. Ho odiato, invece, il secondo compagno di lei: credevo l'avrebbe resa felice davvero, ma si capisce sin da subito che non sarà così. A quale personaggio sei più affezionata? E di quale faresti a meno, se fossi costretta a scegliere?

«Mi piace un personaggio secondario, uno di totale fantasia, uno che non viene citato quasi mai nelle recensioni che ricevo: l’anziana maestra slovena Vera. Per me rappresenta l’incarnazione dei luoghi di cui parlo, è l’antico, la tradizione. È quella che dà il soprannome a Liana, quella che ne intuisce la natura selvaggia e solare, insieme. Ma anche la forza di rinascere mille volte. Farei a meno, invece del personaggio di Flora, ma il corso degli eventi, forse, sarebbe cambiato. Non mi piace perché rappresenta una categoria di donna che detesto: quella che può distruggere un uomo, avvolgendolo di un amore soffocante ed esclusivo e annientandogli la volontà; quella che, alla fine, un uomo finisce col temere più che amare».

Più delle sequenze descrittive, sono i dialoghi uno tra i punti di forza del romanzo. Li hai costruiti in modo spontaneo oppure ci hai ragionato su? Ce n’è qualcuno a cui sei legata in modo particolare?

«Sai che non lo ricordo? Penso siano nati spontaneamente. Se riesci a “diventare” i tuoi personaggi, riesci anche a parlare come farebbero loro. Più che ai dialoghi, sono legata ai monologhi interiori di Liana-Vesna, specie a quelli finali, nella chiesa. Penso che la rappresentino davvero: c’è la nostalgia, il rimorso, l’ansia di madre, la religiosità e la superstizione. C’è la speranza di una nuova primavera».

Parlavamo di "punti di forza". Quali sono quelli de Le Primavere di Vesna?

«Credo siano in quello che tu indichi al termine della recensione: l’assenza di riflessioni personali. Non amo i romanzi pieni di dissertazioni filosofiche, di messaggi in codice o disquisizioni dotte, preferisco sia il lettore a riflettere spontaneamente. Diversamente mi sembrerebbe di dare una chiave di lettura precostituita che toglierebbe la libertà di interpretare, scegliere e “sentire” la storia come propria».

E i "punti deboli", invece?

«Forse nella caratterizzazione di alcuni personaggi minori? Flora e Manuel li ho resi così sgradevoli che non mi andava neanche di parlarne troppo…».

Cosa non hai apprezzato della recensione? Avresti scritto qualcosa in più? Cosa, invece, ti è piaciuto particolarmente e perché?

«Ho apprezzato molto la recensione. Mi sembra una lettura attenta e competente; ho apprezzato soprattutto quello che ho sottolineato sopra: che sia stata messa in rilievo la fluidità della narrazione, senza la presenza ingombrante del narratore (narratrice). E mi piace che un giovane lettore di talento abbia saputo cogliere con sensibilità tutte le sfumature del mio romanzo».

Quanto di te c'è in questo tuo secondo libro, quanto di ciò che pensi del mondo e quanto, invece, di chi ti è (o ti è stato) vicino? In relazione al romanzo, c'è qualcuno a cui ti senti di dire "grazie"?

«C’è la madre, la figlia, la donna. Ma mi è purtroppo estranea la positività della protagonista. C’è anche, forse, una considerazione dell’uomo come compagno di vita, viziata da un vissuto personale. Si, devo senz’altro dire “grazie” a mia sorella Olga e a mia figlia Giovanna. Hanno sempre creduto in me e mi hanno sostenuta con continue “iniezioni” di entusiasmo».

Dicevi che nel 2008 hai scritto anche il romanzo Un, due, tre, stella! Non sei proprio una esordiente, insomma. Qual è il tuo rapporto con la scrittura? Hai mai attraversato un periodo di crisi? Cosa ti ha spinto ad andare avanti e tenere duro?

«Credo di avere con la scrittura un rapporto mutevole, ma sostanzialmente sano. Scrivere mi fa stare bene, alcune volte mi esalta, altre mi rasserena, altre mi fa anche soffrire, ma è una sofferenza cercata, anche se consuma energie. Penso sia così per tutti. Non ho avuto periodi di crisi quando scrivevo Vesna, di incertezza, forse, ma questo dipende dall’alternanza dell’autostima. Il periodo di crisi è quello attuale, ma soltanto perché, per motivi contingenti, non riesco a dedicarmi alla scrittura come vorrei».

Prima di pubblicare Le Primavere di Vesna, hai ricevuto delle porte in faccia? Come hai reagito?

«No, nessuna porta in faccia. Ho pubblicato il secondo libro con lo stesso editore del primo».

Cosa consiglieresti a un esordiente?

«L’umiltà».

Una scrittrice così in gamba avrà sicuramente dei progetti futuri...

«Grazie per “la scrittrice così in gamba”! Mi piace che un romanzo venga definito “un progetto”… Dà l’idea di qualcosa di predisponibile e certamente realizzabile. Io ho sempre pensato al romanzo come a una avventura che inizia senza che se ne conosca l’esito finale. E in una nuova avventura mi sono lanciata, non so come andrà a finire, devo rubare il tempo, e questa volta, superare tante crisi…».

Intervista di Michele Rainone a Ida Verrei

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Nebbie

13 Settembre 2013 , Scritto da Impronte d'Arte Con tag #patrizia puccinelli, #Impronte d'Arte, #fotografia

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Ho avuto fortuna e di abitare in campagna, fra vigne ed ulivi delle colline Chiantigiane, in autunno, quando la temperatura cambia e la terra calda si scontra con l’aria fresca del mattino, si possono ammirare queste meraviglie. Ogni giorno è uno spettacolo diverso.

Patrizia Puccinelli

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