Giuseppe Benassi, "Occhi senza pupille"
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Occhi senza pupille
Giuseppe Benassi
Vertigo
pp. 95
Gli “Occhi senza pupille” del titolo sono quelli ritratti da Amedeo Modigliani, occhi che non guardano all’esterno bensì all’interno. È ciò che fa l’avvocato Leopoldo Borrani, che opera nella città dove Modì nacque, Livorno, odiandola e amandola allo stesso tempo. Borrani si sposta fra un ufficio in Via Borra e un caffè in piazza Cavour. Peccato solo per quei protagonisti i quali, più che livornese, parlano fiorentino. Giuseppe Benassi, l’autore del romanzo, è infatti livornese solo di adozione e la mimesi linguistica non gli riesce del tutto.
Borrani ha nel sangue la sua città ma ne sente “il lezzo”, ne percepisce il degrado, fatto di personaggi che sembrano a loro volta usciti da un quadro di Sickert, per rimanere nell’ambito pittorico. Personaggi per i quali la vita è già finita, le illusioni sono morte, la disperazione è in agguato. Così è Corinna Repetti, antiquaria, che ricorda la portinaia de “l’Eleganza del riccio”, sciatta, pisciosa, ma con una sua dignità nascosta a illuminarla dall’interno, a procurarle, al contrario del personaggio della Barbery, un meritato lieto fine. Così è Eustachio Bernardi, commendatore sudato, sgraziato spasimante di Corinna, così è lo squallido Mafhuz, giovane marocchino marito di Corinna.
Attorno alla figura di Corinna, già a partire dal suo nome che riporta a quello della cugina di Modigliani, ruota un mondo “altro”, fatto di coincidenze, di rimandi, di intrecci misteriosi, di richiami.
“Stava muovendosi in un mondo misterioso, dove tutto quel che accadeva era inesplicabile, inatteso, e dove tutto poteva succedere. Attorno a lui, tutto era visibile eppure inafferrabile.” (pag. 45)
Gli occhi senza pupille sono anche gli occhi di vetro delle bambole di Corinna – che tanto richiamano le bambole elettriche di Marinetti - gli stessi occhi che le indicheranno la via, permettendole di trarsi d’impiccio; ma anche gli occhi spenti della cieca indiana, e ancora gli occhi cantati da Lautrémont, il poeta che Modigliani amava e che esercitò un’influenza fondamentale sul surrealismo. Questo rimandare ad altro, a un universo parallelo, coincide per Borrani col guardarsi dentro, scendere agli inferi, scoprire i propri lati misteriosi, il rapporto con la morte, con l’aldilà, ma anche con la donna che frequenta, Marianna Messori, amata e non amata, tollerata e non tollerata, la quale, a sua volta, rivelerà angoli inesplorati, introducendolo nel mondo misterioso e splendente dell’arte di Modigliani capace di scintillare solo “attraverso la tenebra”.
Una buona metà del romanzo si svolge a Parigi, dove Modigliani visse un’esistenza maledetta, finendo seppellito al Père Lachaise a soli trentacinque anni. Modigliani “dipingeva in trance, spesso sotto l’effetto di alcool o di droghe. La tela bianca era come il muro su cui Lautrémont vide proiettato un profilo” (pag. 67). Farsi ritrarre da lui era come farsi spogliare l’anima.
“All’inizio del novecento, Parigi era un covo di maghi, di occultisti, di gente che passava il tempo a far sedute spiritiche” (pag 67) E, per associazione d’idee, ci vengono in mente i cupi scenari de “Il cimitero di Praga” di Eco.
A Parigi, nei primi vent’anni del novecento, nascono tutte le avanguardie, là dove operano gli alchimisti, i cabalisti, ma anche i cubisti, i futuristi. La pittura di Modì mescola gli elementi dell’alchimia: la terra, la pietra, l’acqua, il fuoco, il colore. Una delle sue amanti è allieva di Madame Blavatski, i suoi quadri sono pieni di simboli - come le tele di Leonardo secondo Dan Brown. Le sue annotazioni richiamano l’androgino, l’unione del maschile e del femminile, le sigizie gnostiche, Ermete Trismegisto, il numero della Bestia e dell’Apocalisse, la sezione aurea. In particolare, quest’ultima è “la cosa più simile a Dio, unico e incommensurabile”. La sezione aurea contiene il segreto dell’armonia, si ritrova nella natura e in tutte le opere dei più grandi artisti, dalla piramide di Giza alle sculture di Fidia, dal Partenone a Piero della Francesca.
Modigliani, ebreo livornese, imbevuto di esoterismo e di cabala, sta cercando, suggerisce Benassi, d’interpretare Dio attraverso la propria opera.
La trama ci avvince quasi nostro malgrado, s’intreccia e si dipana fino alla conclusione non ovvia che “la fortuna arride a chi non la cerca”, il tutto in uno stile che alterna un modo di narrare tradizionale ad altri più stringati, moderni, fatti di dialoghi veloci, di battute, di descrizioni che sembrano appunti di taccuino.
Da "Twilight" a "Cinquanta sfumature di grigio", dissoluzione di un mito
Per fanfiction s’intende la continuazione di una storia cult da parte degli appassionati. I lettori affamati di altro materiale possono proseguire la storia, colmare le lacune, resuscitare i loro beniamini, creare sequel o prequel. Nel caso della fanfiction di “Twilight” di S. Meyer, ovvero il famigerato, inflazionato, “Fifty Shades of Gray” - dove Gray sta per Grigio ma anche per il cognome dell’algido, imbalsamato, stoccafissico protagonista - più che di una continuazione si tratta, a quanto pare, di una parodia che ha preso la mano alla scrittrice Erika James.
Nell’introduzione viene spiegato che ella “dreamed of writing stories that readers would fall in love with”. Bene, ci pare che sia proprio ciò che non ha fatto, mentre l’operazione era perfettamente riuscita alla Meyer. E tuttavia, quando un caso editoriale assume tale portata, quando ogni persona che incontri, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi studio dentistico o vagone ferroviario, tiene in mano una copia del romanzo incriminato, quando ogni libreria, ogni vetrina, ogni stand di autogrill trabocca di copertine tutte nere con un anodino groppo di cravatta, quando gli alberghi americani hanno sostituito la vecchia Bibbia con le Cinquanta Sfumature, allora non si può liquidare il fenomeno senza nemmeno tentare di capirci qualcosa.
Facciamo un passo indietro, torniamo all’originale, alla saga di Twilight, rivisitazione moderna ma ancora fascinosa del mito della Bella e la Bestia, dove la protagonista, appunto Bella Swan, è una ragazza qualsiasi, una Cenerentola capace di conquistare il principe dei vampiri, Edward, bello fino all’impossibile (cui l’attore del film omonimo non rende giustizia) non incenerito dal sole ma scintillante sotto di esso come un cristallo rifratto, puro di cuore, “vegetariano”, romanticamente lacerato fra i suoi istinti e l’input morale che lo spinge a sublimare il desiderio. Bella lo attira perché il suo sangue ha per lui il più dolce dei richiami, è nettare e delizia, è fragranza e rimorso. Pur di amarla, pur di starle vicino, soffocherà l’istinto omicida, lo trasformerà in protezione, che è poi quello che ogni maschio fa con la sua donna, tenendo a bada l’impulso sessuale, avvolgendolo di tenerezza. Bella Swan è vera, con problemi familiari tangibili, emozioni adolescenziali comuni a molte ragazze della sua età e una naturale propensione alla solitudine, alla malinconia.
Che resta di questi due personaggi in Fifty Shades? Edward Cullen diventa Christian Grey, privo di allure, sexy quanto un manichino da vetrina, maniaco sessuale sadico che si diverte a frustare le sue donne, ad appenderle al soffitto, a flagellarle, a inserire nella loro vagina sfere di piombo, a far loro firmare pedantissimi contratti sul ruolo Dominante/Sottomessa. Al contrario di Edward, Christian non sorride, ghigna, non è tormentato, non è romantico, “I do not make love”, dice, “I fuck hard”, ed è buono solo perché il suo maggiordomo compiacente ci dice che lo è. Christian Gray è un divoratore di fanciulle innocenti, come il suo ispiratore Alec Stoke in “Tess dei d’Urbeville” di cui, a quanto pare, la James è intenditrice. Christian regala alla sua vittima preziosissime edizioni del romanzo di Hardy forse per convincere lei (e pure noi) che nelle sue perversioni c’è qualcosa di letterario.
L’indomita, coraggiosa, Bella Swan diventa la brutta copia Anastasia Steele, un personaggio che non vediamo, che non ha volto, che è sempre tutto un bollore costante, che passa i suoi giorni ad arrossire, a mordersi il labbro e “andare in pezzi” per orgasmi multipli e stellari.
Quasi tutte le scene principali dell’originale Twilight sono fotocopiate nella fanfiction, stravolgendole e togliendo loro dignità. Non c’è trama, non c’è sviluppo, solo un susseguirsi di atti sessuali porno soft, sempre più ripetitivi al punto che, già al quarto o quinto, ci viene da sbadigliare: “oddio, no, lo fanno ancora.”
Bella Swan scopre, attraverso Edward Cullen e la sua gente, un mondo diverso, magico, sotterraneo, parallelo, dove vampiri e lupi mannari sono credibili e coerenti con questa nostra realtà moderna, con la realtà di tanti adolescenti americani.
La visita di Bella/Anastasia alla famiglia Cullen/Gray è un esempio di come l’inventiva, la fantasia e l’ironia della Meyer vengano trasformate dalla James in volgarità e pochezza. Persino i nomi dei padri dei protagonisti maschi si somigliano, Carrick, il padre di Gray, riecheggia Carlisle, il medico vampiro padre di Edward. Ma dove è finita la tensione morale, la lotta contro l’istinto che trasforma un vampiro potenzialmente letale in chirurgo compassionevole, sempre pronto ad aiutare chi soffre? Mentre Bella affronta con coraggio e ironia la famiglia vampira, sperando di non diventare lei la cena, confidando sull’istinto che le indica quelle persone come buone e capaci di proteggerla dal male, Anastasia Steele si presenta all’incontro senza mutande, fa piedino sotto il tavolo al suo dominante e sgattaiola appena può nella dependance per consumare l’ennesimo atto sessuale. Il divertimento è assente, il gioco è più osceno che erotico, la trama è solo un pretesto. Non c’è passione vera, solo l’iniziazione al sesso di una ragazzina che dice di volere di più dal suo mentore ma che, in realtà, ha in testa solo una cosa. Anastasia precipita in una spirale di perversione crescente, vittima consenziente di uno stalker, un uomo che gode a prenderla a cinghiate e la fa sentire umiliata e paga allo stesso tempo. Per riflettere, ella colloquia in continuazione con il suo subconscio e con la sua dea interiore, buona coscienza l'uno, cattiva l'altra, che sono, paradossalmente, forse i personaggi più vivi del libro, sebbene ce li immaginiamo come genietti saltellanti con un fumetto fuor dalla bocca.
Laddove l’originale vampiro sapeva commuovere, creare atmosfera, oscurità, amore, e dare corpi, volti e gestualità ai personaggi di una saga indimenticabile, qui tutto è narrato con un linguaggio ripetitivo, infarcito di una serie di mail soporifere, condito delle medesime esclamazioni infantili, “oh my”, dei medesimi aggettivi ed espressioni per descrivere scene ed emozioni sempre identici.
Quale sarà il motivo dell’incommensurabile successo planetario di una fanfiction, di una semiparodia nata su commissione? Per il primo libro la parte del leone la fa certamente la curiosità, stimolata dal passaparola, dalla sovrabbondanza di copie visibili ovunque, ma per arrivare a comprare il secondo e il terzo bisogna forse chiamare in causa lo stimolo sessuale cui si sottopongono le pruriginose lettrici, il voyerismo, il sadomasochismo latente in ognuno di noi. Oppure la voluta indeterminatezza della protagonista - la quale più che essere in realtà non è, non è bellissima, non è intelligentissima, non è brillantissima – fa sì che con lei si possano identificare milioni di donne anonime, desiderose di immaginarsi sessualmente irresistibili e capaci di catturare un bello-ricco-superfigo?
Non sappiamo la ragione di tanto furore e vorremmo che chi è arrivato alla fine della saga ce lo spiegasse perché, se errare è umano, perseverare fino al terzo libro pensiamo sia davvero diabolico.
By fanfiction is meant the continuation of a cult story by fans. Readers hungry for other material can continue the story, fill in the gaps, resurrect their favorites, create sequels or prequels. In the case of the fanfiction of "Twilight" by S. Meyer, or the infamous, inflated, "Fifty Shades of Gray" - where Gray stands for Gray but also for the surname of the icy, embalmed, stockfish protagonist - more than a continuation it is, apparently, a parody that took the hand of the writer Erika James.
The introduction explains that she "dreamed of writing stories that readers would fall in love with". Well, it seems to us that it is precisely what she did not do, while the operation was perfectly successful witht Meyer. And yet, when an editorial case takes on such significance, when every person you meet, at any latitude, in any dental office or railway wagon, holds a copy of the novel in your hand, when every bookstore, every showcase, every autogrill stand overflows of all black covers with an anodyne lump of a tie, when American hotels have replaced the old Bible with the Fifty Shades, then the phenomenon cannot be dismissed without even trying to understand.
Let's take a step back, go back to the original, to the Twilight saga, a modern but still fascinating reinterpretation of the myth of Beauty and the Beast, where the protagonist, precisely Bella Swan, is an ordinary girl, a Cinderella capable of conquering the vampire prince, Edward, beautiful to the impossible (to which the actor of the homonymous film does not do justice) not incinerated by the sun but sparkling beneath it like a refracted crystal, pure in heart, "vegetarian", romantically torn between his instincts and the moral input that pushes him to sublimate desire. Bella attracts him because his blood has for him the sweetest of calls, it is nectar and delight, it is fragrance and remorse. In order to love her, even to be close to her, she will suffocate the murderous instinct, transform it into protection, which is what every male does with his woman, keeping the sexual impulse at bay, enveloping him with tenderness. Bella Swan is true, with tangible family problems, adolescent emotions common to many girls of her age and a natural propensity for solitude, for melancholy.
What remains of these two characters in Fifty Shades? Edward Cullen becomes Christian Gray, free of allure, as sexy as a window mannequin, a sadistic sexual maniac who enjoys whipping his women, hanging them from the ceiling, scourging them, inserting lead balls into their vagina, making them sign very pedantic contracts on the Dominant / Submissive role. Unlike Edward, Christian does not smile, he grins, he is not tormented, he is not romantic, "I do not make love", he says, "I fuck hard", and is only good because his compliant butler tells us that he is. Christian Gray is a devourer of innocent maidens, like his inspirer Alec Stoke in "Tess of d'Urbeville" of which, apparently, James is an expert of. Christian gives his victim precious editions of Hardy's novel, perhaps to convince her (and we too) that there is something literary about his perversions.
The indomitable, brave, Bella Swan becomes the draft Anastasia Steele, a character we don't see, who has no face, who is always a constant boil, who spends her days blushing, biting her lip and "going in pieces ”for multiple and stellar orgasms.
Almost all the main scenes from the original Twilight are photocopied in the fanfiction, distorting them and taking away their dignity. There is no plot, there is no development, only a succession of soft porn sexual acts, more and more repetitive to the point that, already in the fourth or fifth, we are yawning: "oh god, no, they make sex again."
Bella Swan discovers, through Edward Cullen and her people, a different, magical, underground, parallel world, where vampires and werewolves are credible and consistent with our modern reality, with the reality of many American teenagers.
Bella / Anastasia's visit to the Cullen / Gray family is an example of how Meyer's inventiveness, imagination and irony are transformed by James into vulgarity and littleness. Even the names of the fathers of the male protagonists are alike, Carrick, Gray's father, echoes Carlisle, the vampire doctor who is Edward's father. But where is the moral tension, the fight against instinct that transforms a potentially lethal vampire into a compassionate surgeon, always ready to help those who suffer? While Bella faces the vampire family with courage and irony, hoping not to become their dinner, trusting the instinct that indicates those people as good and capable of protecting her from evil, Anastasia Steele shows up at the meeting without underwear, she caresses a foot underneath the table to its dominant and sneaks as soon as she can in the annex to consume yet another sexual act. Fun is absent, the game is more obscene than erotic, the plot is just an excuse. There is no real passion, only the initiation into sex of a young girl who says she wants more from her mentor but who, in reality, has only one thing in mind. Anastasia falls into a spiral of growing perversion, a willing victim of a stalker, a man who enjoys to make her feel humiliated. She continuously talks with her subconscious and with her inner goddess, good conscience, bad conscience, who are, paradoxically, perhaps the most alive characters of the book, although we imagine them as jumping little geniuses with a comic out of the mouth.
Where the original vampire knew how to move, create atmosphere, darkness, love, and give bodies, faces and gestures to the characters of an unforgettable saga, here everything is narrated in a repetitive language, stuffed with a series of soporific emails, topped with the same childish exclamations, "oh my", of the same adjectives and expressions to describe always identical scenes and emotions.
What is the reason for the immeasurable worldwide success of a fanfiction, of a semi-parody born on commission? For the first book, the lion's share certainly is curiosity, stimulated by word of mouth, by the overabundance of copies visible everywhere, but to get to buy the second and third, it is perhaps necessary to call into question the sexual stimulus to which the itchy readers undergo, and the voyerism, latent sadomasochism in each of us. Or the intentional indeterminacy of the protagonist – who, more than being, she “is not”, she is not beautiful, she is not extremely intelligent, she is not brilliant. This means that millions of anonymous women can be identified with her, eager to imagine themselves sexually irresistible and capable of to capture a handsome-rich-super-cool?
We do not know the reason for such fury and we would like those who arrived at the end of the saga to explain it to us because, if to err is human, to persevere until the third book we think is truly diabolical.
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Per fanfction s'intende la continuazione di una storia cult da parte degli appassionati. I lettori affamati di altro materiale possono proseguire la storia, colmare le lacune, resuscitare i loro ...
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Bambino-arcobaleno (ricordi) - di Ida Verrei
Nveid è seduto tra i banchi dell’istituto; incolla su un foglio piccoli pezzi gialli e azzurri di carta lucida. A guardare, diresti che è un cilindro capovolto da cui escono fiori, cuori, stelle e un volto arricciato in un sorriso strano.
Ma Nveid non sorride, ha un’espressione assente, lontana, di un vecchio che abbia vissuto cent’anni, che perde la sua storia passata ma cerca nella memoria una traccia che lo possa ricondurre alla sua realtà emotiva, che pure è incisa nella mente, nel corpo.
Ed è proprio col corpo che Nveid comunica il suo vissuto e racconta la sua storia, che è poi la storia di tanti bambini “che si perdono nel bosco”.
Ha otto anni, è magro, spalle gracili che s’indovinano attraverso il maglioncino rosso; il viso appuntito e la bocca sottile che, per le finestrelle dei dentini mancanti, accentua l’impressione di un volto senza età, attenuata solo dal ciuffo di capelli nerissimi, lisci, un po’ dritti sulla testa: ha l’aria buffa di un pagliaccio triste. Gli occhi cerchiati di scuro si perdono nel vuoto; talvolta, ansiosi e mobili, cercano, chiedono, aspettano.
Nveid è un bambino rom. È arrivato in un gelido mattino di febbraio, accompagnato dai servizi sociali. Lo hanno trovato all’estrema periferia della città, non lontano da un campo nomadi mentre si aggirava, solo, tra cumuli di rifiuti che rovistava con un bastone. Aveva lividi, graffi e morsi d’animale sul corpo.
Nveid ha terminato il compito; lo osserva dubbioso, poi me lo mostra, solleva lo sguardo alla ricerca dell’approvazione.
La rassicurazione dipende per lui dall’apprezzamento delle persone che gli sono vicine: insegnanti, compagni, personale dell’Istituto: ogni successo gli dimostra che le sue possibilità costruttive hanno la prevalenza su quelle distruttive. Ed è per questo che mette la massima concentrazione in ogni impegno gli venga richiesto: il “compito” rappresenta un elemento di legame con gli altri ed esprime il desiderio di “donare” qualcosa di gradito; anche le sue modalità di rapporto con i coetanei sono connotate dal desiderio di “dare”. Spesso distribuisce la sua merenda, i pastelli, le matite, le sue piccole cianfrusaglie; forse per “sedurre” e conquistare l’amicizia, la simpatia, o forse per negare la propria aggressività che si rivela, a tratti, in situazioni ludiche, attraverso fantasie di onnipotenza e di forza fisica.
Ora Nveid è in cortile. Non piove più; c’è un vento leggero; l’aria è pungente, ma limpida e serena.
Non corre con gli altri; mi si accuccia accanto, alza il capo verso l’alto, indica qualcosa con una mano. Guardo: c’è l’arcobaleno.
«Le nuvole camminano», dice. E non so se è un’affermazione o una domanda.
«Le spinge il vento», spiego, poi: «non te n’eri mai accorto?» chiedo.
«No, non avevo mai guardato il cielo».
D’improvviso, un aereo rompe la quiete, sfreccia attraverso l’azzurro. Nveid s’alza di scatto, allarga le braccia, prende a correre per il cortile.
Corre e corre e corre:
«Voglio volare, voglio volare!» grida. Poi si arrampica sul muretto e salta, salta come se volesse slanciarsi verso l’alto.
Nveid non c’è più, un destino ignoto lo ha condotto sotto un altro cielo. E non c’è più neanche l’Istituto.
Ma io lo vedo ancora, lo riconosco in ogni lavavetri, in ogni accattoncello all’angolo delle chiese, in ogni piccola mano bruna che si tende. E non voglio pensare ad un’emotività lacerata, voglio ricordarlo come bambino azzurro e giallo, bambino-arcobaleno, bambino che voleva volare e guardava il cielo sognando nuvole di zucchero filato.
Ida Verrei
C'era una volta...
C’era una volta, in una terra di nebbie e folletti, un bambino con i capelli biondi e ricci che nacque in una famiglia di persone tutte con i capelli neri e lisci. I fratelli lo prendevano in giro dicendogli che era un trovatello e lui imparò a nascondersi così bene che neanche lui stesso era capace di ritrovarsi. Si rifugiò in mondo fantastico dove tutto era possibile, dove l’amore era un sentimento naturale, dove si poteva donarlo senza chiedere niente in cambio.
Nella terra dei colori era nata qualche anno prima una bambina con gli occhi come due stelle, amata dai suoi genitori a tal punto che crebbe convinta che il mondo fosse un luogo meraviglioso e l’amore un sentimento naturale da donare senza mai chiedere niente in cambio.
I due bambini divennero grandi entrambi facendo della ricerca il loro scopo principale, l’uno soffrendo ogni istante per non riuscire a portare il sogno nella realtà e l’altra per la convinzione delusa che la realtà potesse essere un sogno.
Un giorno, ormai adulti, sentirono tutti e due una musica che proveniva da un bosco fitto e buio ma colmo di creature meravigliose, farfalle, cervi, orsi e pieno di ruscelli cristallini, arcobaleni giganti. Affascinati e curiosi si addentrarono nel bosco da due estremi opposti, lasciarono le cose di tutti i giorni dietro le loro spalle e, nonostante la paura dell’ignoto, o, forse, proprio per quella, misero un piede davanti all’altro fino a giungere ad una radura formata da un fiume che, scavando nei secoli la terra, aveva creato lì un piccolo lago le cui acque chete riflettevano un cielo di un indaco impudico.
Entrambi sobbalzarono per il colpo violento che quella vista aveva inflitto al loro stomaco, si guardarono a lungo negli occhi ma nessuno osò andare oltre quel semplice contatto. La bambina, ormai donna, per prima si accorse della meraviglia che la circondava, si sdraiò per terra e con gli occhi come due stelle cercò di rubare quello che vedeva per farlo suo. Il bambino, anche lui già grande, invece, pur colpito nello stesso modo, si rifugiò di corsa dietro un cespuglio, il suo cuore non ce la faceva a contenere tutta quella meraviglia.
Rimasero così, mentre il tempo passava inesorabile, e nella radura comparivano a tratti le creature che popolavano il bosco, rendendo tutta la realtà assolutamente irreale e magica. Alla fine lui, in un impeto di curiosità, uscì dal cespuglio e si avvicinò a lei che era così persa nella contemplazione del creato da essersi dimenticata della sua esistenza, della presenza di un essere umano dietro il cespuglio.
Si sedettero entrambi al bordo del lago, coi piedi nudi immersi nell’acqua, e si raccontarono le loro vite, le loro parole, il racconto sofferto di due storie, che non sembravano avere niente in comune, li avvolse in una sottile ampolla di cristallo che rifulgeva di tutti i colori dell’arcobaleno, parlarono senza sosta, dimentichi perfino di dove fossero e del buio freddo che lentamente cadeva nella radura, illuminati e riscaldati com’erano dal loro sentito.
La mano di lui stringeva con forza la mano di lei quando alla fine fu completamente notte e si resero conto che era troppo tardi per tornare indietro. Ci fu un attimo sospeso nel vuoto, di quelli che spesso succedono quando la consapevolezza della realtà che ci circonda ci assale con tutta la sua potenza negativa.
La donna allora tirò fuori dalla tasca un po’ di pane raffermo e l’offerse all’uomo che, pur avendo fame, si rifiutò di mangiarlo perché era convinto che dovesse essere lui a procurare il cibo per la loro fame.
Rimasero così in silenzio, lei con il pane nella mano tesa e lui con gli occhi fissi nella notte ostile, finché l’uomo sfilò la sua mano da quella della donna, si alzò e si allontanò senza dire una parola, scomparendo nel fitto bosco lasciandola sola.
Lei, volendo chiamarlo e non sapendo il suo nome, cominciò a urlare “Amore” con tutto il fiato che aveva in corpo ma, forse, “Amore” non era il nome giusto perché dal folto della selva non giunse nessuna risposta, solo qualche fruscio lontano a significare il passo di lui che si allontanava lento ma ferreo.
Sono una pianta
Dalla stanza accanto arriva il parlottio irritante della televisione rimasta accesa. Non ho voglia di andare a spegnerla. Guardo chi entra in chat e quanto ci rimane. Loro non possono vedermi, ma io cerco di immaginare chi stia parlando con chi e di cosa. Cerco di immaginare chi mi contatterebbe se smettessi di stare invisibile e di cosa parleremmo. Di niente immagino, perché ormai credo d'aver perso anche la facoltà di rispondere a un semplice saluto.
Sfoglio le foto delle ultime vacanze. Provo un istintivo disgusto per tutta la gente insignificante che le affolla e non mi riconosco nell'essere deforme che ghigna col viso abbrustolito dal sole e i rotoli di grasso che strabordano dal costume troppo stretto e troppo piccolo per il suo corpo. Una marea di corpi semi-ustionati, che si contorcono e premono sulla sabbia come insetti. Che senso ha distinguere quelli che conosco da quelli sconosciuti?
Mi piacciono le foto del mare e dei vicoli della città vecchia, con i vecchi giardini abbandonati a se stessi. E mi piacciono le foto degli scogli in fondo alla pineta, dove non c'è la spiaggia e non ci sono persone, solo alcune grandi piante succulente di cui non so il nome e su cui la gente ha inciso i propri nomi. Da lontano le foglie sembrano verdi e rigogliose, ma da vicino sono tutte una cicatrice si segni bianchi: nomi, lettere, date, cuori.
Io sono come una di queste piante. La gente passa, scrive il proprio nome e se ne va, nella convinzione che non mi accorga di nulla, che non possa sentire alcun dolore. E infatti non lo sento. La mia anima sanguina e muore senza che io lo percepisca. Le persone mi guardano ma non mi vedono, io non posso parlargli, non posso guardarle e non posso dargli niente. Anche loro non possono darmi niente.
La televisione continua a blaterare e vorrei spaccarla per farla tacere. Guardo il sole che tramonta fra le fessure delle persiane e mi rendo conto che ho passato una giornata a fissare lo schermo del computer. Voglio vedere fino a dove riesco a portare avanti la metafora della pianta. Più vado a fondo, più mi sembra che tutto torni. Io non sono il rotolo di carne arrostita che sorride come un'idiota in mezzo a una distesa di sabbia e corpi informi, io sono la pianta sullo scoglio che non vuole niente da nessuno e da cui nessuno vuole niente, che non ha bisogno di niente e nessuno, tranne un po' di acqua e di sole. E ogni tanto passa qualcuno e incide il suo nome. Le persone non ricordano d'aver inciso i loro nomi, ma la mia scorza li conserva.
Io sono una pianta velenosa. Sono velenosa e ho le spine. Tutto di me è velenoso, le foglie, i fiori, i frutti. Ho dei frutti? Questa è una domanda difficile. Le piante nella foto non ne hanno, ma al di là di ciò, cosa sono i frutti? Cosa sono i miei frutti, se ne ho?
Sento il rumore della chiave che gira nella serratura e un vago senso di fastidio al pensiero di quel che seguirà. Rumore di passi, una borsa che viene appoggiata in terra. Mia madre si affaccia alla porta dietro di me.
- Cosa stai facendo?
Niente, sono una pianta.
- Cos'hai fatto tutto il giorno?
Sono una pianta.
- Dovevi venire all'ospedale a darmi il cambio, dov'eri?
Sono una pianta velenosa.
- Hai chiamato la nonna, almeno? Le hai detto cos'è successo?
Le piante non sono buone o cattive, le piante non hanno sentimenti.
La voce dietro di me comincia a tremare:
- Ti rendi conto che sono tornata ora? E dovrei anche chiamare i parenti? Non ce la faccio più! Ma si può sapere cos'hai fatto tutto il giorno?
La voce soffoca nel pianto. Ma io non vedo, non sento, non parlo e sono velenosa e ho le spine. Sono una pianta.
Guardando avanti
Il vento arriva
prende per mano le mie parole
per sparpagliarle in alto
fino a quel Dio che non sa ascoltare
o verso chi, lontano da me,
non le può più udire.
C’è la compagnia di questo mare
fisso nei miei occhi,
a chiedere silenzio.
Tace! Non acconsente!
Si lascia bagnare una volta ancora
da sputi e lacrime.
In riva muovo un altro passo incerto
su questa umida terra che vibra
sotto la mia rabbia
e freme per quella dolcezza,
abbandonata alle spalle.
Anche lei, stanca,
farà mancare ai miei piedi
quel sostegno sicuro…
Ormai è deciso:
ch’io vinca o perda la battaglia,
in questa vita,
andrò avanti da solo.
Davide Puccini, "Renato Fucini opere"
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di Patrizia Poli
Renato Fucini – Opere
A cura di Davide Puccini
Edizioni Le Lettere
Davide Puccini, saggista, fine studioso, ma soprattutto appassionato di letteratura italiana ha curato questa nuova edizione delle opere di Renato Fucini. L’operazione, spiega, deriva dalla necessità di riproporre un autore ormai dimenticato, di cui non si trovano più le opere.
L’unico libro ancora in circolazione contiene circa 5000 errori su 1000 pagine. I testi di Fucini sono stati mal compresi, rovinati dai parenti, dagli stampatori, di edizione in edizione. Puccini ha dovuto risalire ai manoscritti, contenuti nelle biblioteche fiorentine, e compiere un’opera certosina di ricostruzione dell’originale.
Il volume è ponderoso, consta di circa 700 pagine e raccoglie tutte le opere pubblicate in vita da Renato Fucini, non le postume, ritenute inferiori. Comprende cento sonetti in vernacolo pisano più altri in lingua, tutte le novelle raccolte ne Le veglie di Neri (1882), All’aria aperta (1897) e Nella campagna toscana (1908) e il saggio Napoli ad occhio nudo (1878).
Davide Puccini ha dedicato cinque anni di lavoro all’opera di Fucini e, come abbiamo detto, ha affrontato la materia soprattutto dal punto di vista filologico. Spesso gli stampatori non comprendevano i vocaboli del vernacolo pisano. Sceglievano la lectio facilior, correggevano bimbino con bambino, sterzatori (chi puliva un albero su tre) con sterratori, rovinando un testo che aveva valore proprio per la precisione etnografica: Fucini, infatti, non sceglieva mai i suoi termini a caso, ma li usava perché erano tipici del luogo di cui stava narrando o poetando.
Nel volume sono contenute molte pagine di bibliografia, Davide Puccini ha rintracciato tutte le edizioni – al punto che è stato in grado, al termine dell’esposizione, di valutare al primo sguardo un libriccino di nostro possesso e datarlo agli inizi del novecento come edizione contenente almeno una trentina di errori.
Ma Puccini ha compiuto anche un’opera di rivalutazione contro quella critica che, dopo la morte di Renato Fucini, ne decretò la lenta decadenza e il ridimensionamento a esponente “minore della letteratura.”
In vita, Fucini ebbe grande successo. A Firenze, allora capitale d’Italia, al caffè Michelangelo, meta di artisti come Edmondo de Amicis (che ha scritto la prefazione proprio all’edizione in nostro possesso) la lettura dei sonetti in vernacolo, che scriveva per divertirsi, ebbe il successo che oggi hanno gli interventi di Benigni. Poi li pubblicò a sue spese e fu un best seller.
Fucini era consapevole dei propri limiti, sapeva di non avere il respiro lungo del romanziere, bensì il fiato corto del novellatore e, tuttavia, una volta pubblicate, le sue opere ebbero risonanza anche fuori della Toscana, furono adottate nella scuola fino agli anni trenta e Croce ne scrisse in modo lusinghiero. Ma dopo, lentamente, su Fucini calò l’oblio e non solo, fu oggetto delle critiche di molti personaggi famosi come Cassola, che lo stroncò nella prefazione ad un edizione BUR. Nel sessantotto fu considerato reazionario, poco attento alla questione sociale, laddove, invece, egli fu mazziniano e garibaldino, impregnato degli ideali risorgimentali che vedeva traditi. Nei sonetti, ma soprattutto in novelle come “Vanno in Maremma”, si sente tutta la sua dolente partecipazione alla miseria degli umili, la comprensione del fenomeno dall’interno, evitando il difetto della letteratura popolaresca (come quella, ad esempio, di Lorenzo il Magnifico).
Fu accusato anche di aver scelto una lingua troppo facile, il toscano, non si capisce cosa avrebbe dovuto fare, visto che le sue novelle sono ambientate principalmente in maremma.
I sonetti sono classici come struttura ma originali come contenuto, perché dialogati, mossi, con battute e vari personaggi fra i quali Neri Tanfucio, lo pseudonimo adottato da Fucini per pubblicare, che ritroviamo ogni volta come personaggio differente. Le poesie sono d’ambiente pisano e fiorentino, popolate di caratteri umili, beceri, degradati; sono spassose, ferocemente allegre ma sempre con una nota amara e triste. (Vedi La mamma, il bimbo e l’amia)
La lingua è un vernacolo che, spesso, ha più del livornese che del pisano. Puccini cita i fenomeni del labdacismo (la elle che diventa erre) e dell’ipercorrettismo (dove si sbaglia per paura di sbagliare).
Renato Fucini nacque nel 1843 a Monterotondo, nella Maremma grossetana, dove il padre David, medico, si era stabilito per la cura delle febbri malariche, ma era livornese di famiglia e si sentiva molto legato alla nostra città, dove frequentò le scuole elementari dei Barnabiti. Visse a Livorno dal 1849 al 1853 - nella città appena riconquistata dagli austriaci dopo i moti del 48 - e, proprio leggendo un poemetto manoscritto in vernacolo livornese, ebbe l’idea di compiere la stessa operazione con quello pisano. Fucini frequentava i macchiaioli a Castiglioncello, dove possedeva una casa, e, in particolar modo, fu amico di Giovanni Fattori al quale fornì ispirazione per il quadro “Lo staffato”. Ma le sue frequentazioni sono più ampie e non riguardano solo l’ambito toscano. Oltre al già citato Edmondo de Amicis, fu amico anche di Verga, di cui assorbì il naturalismo.
Un discorso a parte merita “Napoli ad occhio nudo”, reportage commissionatogli da P.Villari, il primo in Italia a far conoscere l’esistenza di una “questione meridionale”. Senza dilungarci, diremo che Fucini seppe cogliere al primo sguardo l’essenza della città, con la quale entrò subito in empatia, comprendendo il fenomeno della camorra in modo non superficiale e raccontando gli aspetti più crudi, dai “talponi” (confronta il livornese tarpone), cioè le pantegane che affollavano fogne e vicoli, al cimitero con 365 fosse, una per ogni giorno dell’anno, in cui i morti erano gettati dall’alto con una carrucola, senza tante cerimonie.
In conclusione, se il saggio sull’umorismo di Pirandello è ancora di là da venire, possiamo affermare, tuttavia, che quella di Fucini fu senz’altro una comicità che “fa pensare”.
Fucini morì a Empoli, nel 1921 per un cancro alla gola.
Scrittura e Fobia Sociale
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Aggiornamenti costanti sull'argomento, prove e fallimenti, sindrome da evitamento cronico, frustrazioni e piccole vittorie...
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The end
Io,
la somma dei tuoi errori.
Tu,
la somma degli errori miei.
Insieme
fu il nostro sbaglio...
il più grande !
Folco Terzani, "A piedi nudi sulla terra"
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di Patrizia Poli
A piedi nudi sulla terra
di Folco Terzani
Mondadori, 2011
Pp. 232
18,00 €
“I valori dipendono dal punto di vista. Per esempio, per i mass media, per il pubblico, un sahdu è rovinato, è un poveretto perché rinuncia agli attaccamenti, alle case, alle cose. Mentre un sahdu, un fachiro, pensa che sono rovinati quelli che rimangono nel samsara. Sono loro che rinunciano alla conoscenza, alla dimensione di grandezza che può essere dio, per perdersi nelle storie materiali nell’illusione”. (pag. 229)
Quando si parla di quest, di cerca, vien subito da pensare al Santo Graal e a Frodo che deve distruggere l’anello del male, ma esiste anche un altro tipo di ricerca, quella interiore, dell’uomo che vive un perpetuo richiamo alla trascendenza.
Folco Terzani, figlio di Tiziano, in A piedi nudi sulla terra, ci racconta l’inquietudine che l’ha condotto a conoscere, nei suoi pellegrinaggi, un uomo votato a questo genere di ricerca, il sahdu Baba Cesare. Terziani conosce Baba Cesare in India, luogo eletto della ricerca spirituale. Per gli indù, la trascendenza è, in verità, immanenza, poiché tutto è dio e conoscere dio significa rendersi conto di questo suo essere ogni cosa. Curiosamente, però, Baba Cesare non è indiano bensì italiano, figlio di un commercialista. Egli ha abbandonato la moglie, una serie di compagne più o meno amate, e alcuni figli mai dimenticati. Il suo percorso è quello tipico del sahdu, dalla vita mondana a quella ascetica, dalla famiglia alla rinuncia. Rinuncia che è il corrispettivo di ricerca.
“Se sei in rinuncia, rinunci a tutti i valori sociali, metti tutto sullo stesso piano: l’oro, i diamanti, una pietra, un cavallo, una foglia, tutto fa parte della composizione del pianeta, no? Di cui siamo parte anche noi. Siamo tutti granelli che compongono il pianeta. Non è una teoria, è proprio così. Dobbiamo avere coscienza di quello che realmente siamo. Appena non dai dei valori sociali alle cose, realizzi che tutto è la creazione del creatore.” (pag. 127)
Solo attraverso la rinuncia a qualsiasi bene materiale – persino ai capelli se diventano oggetto di curiosità e simboli di uno status – come anche a qualsiasi attaccamento affettivo, l’asceta può affinare la sua ricerca interiore, per capire dio, per afferrarne il concetto, per rendergli grazie di averci creato, soprattutto per servirlo. Appena sveglio, il sahdu saluta il sole e riconosce dio, gli fa la puja, l’offerta rituale, la cerimonia. Ungendo di ghee il lingam di Shiva, offrendogli una collana di gelsomini, mantenendo acceso il dhuni, il fuoco sacro, con la cenere sterile e benedetta, egli dà concretezza a dio, lo materializza nella pietra, nell’idolo, nell’oggetto.
Senza contare i ciarlatani, ci sono tanti tipi di asceti in India, dagli aghori che vivono nei crematori, bevono urina dai teschi e assaggiano carne umana, ai fakir, i sahdu musulmani, a coloro che vanno sempre nudi, a quelli che usano il fallo come uno strumento, a chi tiene sempre un braccio sollevato finché non si atrofizza, a chi dorme in piedi. Più generalmente, un sahdu è un uomo scalzo, che vive di semplicità, delle uniche cose davvero possedute, il suo corpo e la sua mente, ed è pronto a rinunciare anche ad esse. Il corpo va mortificato nei suoi bisogni e così pure il cuore, se si vuole davvero trovare l’unione con dio.
“La mortificazione della carne è la liberazione dall’ego. Mortifichi questo ego, lo porti sotto la pioggia o non ti curi di te e di quello che ti può succedere, perché sei parte del tutto. Quindi hai un’idea più ampia, che ti viene dal perdere l’identità, dall’andare oltre gli attaccamenti dell’ego. Perché l’ego cos’è? L’ego è quello che ti dà le paure, no? “Io ho paura?”. Se non ci sei, di cosa hai paura? Sei uno zombie, e uno zombie non ha paura di niente. Non ha paura di essere distrutto, di non essere più “io”, di scomparire, cioè di morire. “Lasciatemi morire!” Il punto è la liberazione dell’io, in nome di dio. E se ci riesci e non ci sei più come entità separata, allora vai oltre la vita e la morte. Sei il Tutto, e il Tutto né nasce, né muore.” (pag. 146)
Baba Cesare è un santo, ma della speciale santità indiana; non lo è per il mondo occidentale. Baba Cesare entra ed esce di galera, proviene dalla cultura post beat generation, freak, psichedelica. È uno degli hippie che negli anni settanta mollavano casa e famiglia e si mettevano in viaggio via terra, senza passaporto, verso l’India, convinti di far parte di un movimento la cui essenza era peace and love. Giunti a destinazione, giravano per gli ashram, finendo poi, inevitabilmente, per affollare le spiagge di Goa, in quelli che oggi chiameremmo rave parties, feste in cui si ballava, si praticava l’amore libero, si fumava il chilum, si assumevano acidi e droghe più o meno pesanti.
“Provi questo, l’altro, provi il peyote, la mescalina, l’erba, i funghi, il veleno degli scorpioni e prendi conoscenza della natura, di quello che cresce sul pianeta, no? Alimentarsi non significa solamente alimentare la parte fisica, significa alimentare anche la mente di conoscenza. […] È dall’inizio del pianeta che l’umanità scopriva le piante, cos’era nutrimento, cos’era medicina, cosa dava un effetto particolare.” (pag. 56)
Anche in questo c’è chi si ferma allo sballo e chi va oltre, continuando la ricerca, usando la droga come esperienza per superare i confini sensoriali, per espanderli, per sentirsi parte della natura, in comunione con l’universo e con dio. Dall’incontro con Baba Cesare e con molti altri sahdu, Folco Terzani trae un insegnamento di vita senza precedenti, un’esperienza che solo l’India e la sua spiritualità può offrire.
“Ho riscoperto la bellezza degli elementi – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria. Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi dell’Himalaya, stando accucciato accanto alle fiamme di un fuoco, respirando spazio.” (pag.14)
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CriticaLetteraria: Folco Terzani, "A piedi nudi sulla terra"
"I valori dipendono dal punto di vista. Per esempio, per i mass media, per il pubblico, un sahdu è rovinato, è un poveretto perché rinuncia agli attaccamenti, alle case, alle cose. Mentre un sah...
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