Tangueri o tangheri?
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Sono sempre stata affascinata dal tango e dalla filosofia che c’è dietro, ma più ancora dai colori e dalle note dalla musica argentina che è spirito di popolo prima che melodia. Oh, tango, suonatore di corde così profondamente nascoste nell’anima nostra che nemmeno sospettavamo ci appartenessero!
Le implicazioni, i rimandi sessuali che pervadono la danza, tutte le danze, nel tango trovano un’espressione voluttuosa, esibita in modo compiaciuto, ma al tempo stesso naturale. Forza, audacia, passionalità, capacità di evocare: al solo guardare una coppia che balla un tango la sensualità che ronfa in fondo ai nostri corpi viene fuori pure se ormai anni di routine familiare ci hanno ridotte con l’appeal di Wilma degli Antenati e da lì … vai col tango delle fantasie erotiche represse.
Poi, recentemente ho letto un articolo che magnificava le virtù taumaturgiche del tango per la vita di coppia. In pratica, si diceva, i nostri maschietti, ormai in crisi cronica nella relazione con le pollastre moderne, avrebbero potuto riscoprire la loro virilità e riappropriarsi del loro ruolo di “maschio” nella coppia attraverso il tango.
Il concetto, più o meno, era che l’uomo, se non sente di guidare la sua donna, va in crisi e questo varrebbe fuori, ma ancor di più dentro al letto.
Ora, la regola nel tango è una sola e bella chiara: lui guida e lei si fa condurre.
Dunque, attraverso il gioco della danza, le coppie avrebbero riscoperto la bellezza e la forza aggregante dell’accettazione dei ruoli tradizionali.
Al tempo stesso il tango riaccenderebbe la passione, attraverso la stimolazione di tutti e cinque i sensi, principalmente del tatto e dell’udito.
Inoltre la milonga sarebbe il luogo dove attizzare profonde gelosie, anch’esse, naturalmente, terapeutiche. Anche il maschietto più freddino, infatti, vedendo la sua lei tra le braccia di un altro tanguero, sicuramente si sentirebbe ribollire il sangue … e a giusta ragione! Fra due tangueri si crea un legame che va oltre la semplice complicità: è un ballo in cui l’amore pulsa e travolge (corpi avvinghiati e abbracci possenti, gambe irretite in copioni di attacchi e di prese, tutta la voluttà di un corteggiamento fisico perpetuo). I ballerini sono praticamente incollati, occhi negli occhi, l’attrazione, anche la più flebile, subisce un’impennata febbrile … per i maschietti non lo so… ma per noi donne sicuramente meglio di un film porno!
La mitologia costruita intorno a questo ballo, il mio pregiudizio positivo, l’articolo … insomma ho deciso di iscrivermi a un corso di tango che, se non ricordo male, nella vita serve sempre.
Inizialmente ho cercato di convincere mio marito a seguirmi, ma lui balla solo ai matrimoni, solo dopo il quarto calice, e solo, ve l’assicuro, per mettermi in imbarazzo: in sintesi mi ha decisamente rimbalzato e io gliela farò pagare, ma questa è un’altra storia.
E qui veniamo all’utilità sociale di questo post che oggi si concretizza in un ammonimento per le pollastre che intendono iscriversi a un corso di tango…. da sole.
Avete presente Richard Gere e Jennifer Lopez in Shall we dance? Ecco scordateveli…
O meglio, voi, se avete proprio deciso che è ora di volervi davvero bene, che ogni posteriore è bello a’ mamma sua e che lo stronzo rimasto a casa dovrà pentirsene amaramente, potete certamente sentirvi bona e tosta come Jennyfromtheblock, ma Richard, anche con tutta la buona volontà e lo sforzo d’immaginazione, quello proprio non lo troverete …
Sì, signore, state sicure che a questi corsi di tango i maschietti, single o meno, che incontrerete, nel 90% dei casi, o sono totalmente impediti nei movimenti o famelici mutanti che stanno sviluppando le caratteristiche della piovra umana…
E dire che io tutte queste aspettative sui miei partner di ballo nemmeno ce le avevo… sì, mi sono iscritta che sembravo Baby di Dirty dancing e non è che non me ne fregasse dello scopo terapeutico all’interno della coppia, ma soprattutto avevo voluto provare perché già mi vedevo con i capelli tirati in un chignon, la gonna attillata al ginocchio e lo stacchetto spinto che mi faceva figa. Era più la mia immagine di donna, ai miei stessi occhi, che voleva trarne beneficio. Se poi fosse stato anche un tipo non male a condurmi nelle trame del tango, tanto di guadagnato per le mie fantasie erotiche… no?
Dunque, durante le prime due lezioni ho ballato con dei tizi che erano mariti meno riottosi del mio ivi trascinati da mogli più imperative di me (all’inizio tutti devono ballare con tutti …). Stavo tra le loro braccia e i miei piedi sotto le suole delle loro scarpe. Unica eccezione un anziano signore, più prossimo ai settanta che ai sessanta, ballerino tecnicamente inappuntabile, ma talmente concentrato su sé stesso e sulla perfezione dei suoi movimenti da rasentare … l’onanismo coreutico!
Poi, la terza sera mi becco lui: questo tizio, piacione, più prossimo ai sessanta che ai cinquanta, ma che doveva sentirsi come uno di quaranta col “vigore” di uno di trenta… lui che forse aveva letto, e liberamente interpretato, la poesia di Borges intitolata “El tango”:
Sebbene la spada ostile, o quell’altra spada
Le ha perdute il tempo nel fango,
Oggi, al di là del tempo e della fatale
morte, questi morti vivono nel tango.
Lui … il tànghero che, con la sua “spada” ostile, ha messo fine alla mia breve vita di tanguera.
Eh sì, care pollastre, ho dovuto troppo presto appendere i tacchi al chiodo… e non perché la mia fantasia di femme fatale si fosse esaurita… (quella c’è sempre) ma perché, alla terza lezione, mi sono detta: “e passi per le pestate di piedi sulle scarpine da tango comprate per l’occasione (si possono sempre pulire, ma che mal di piedi…), passi per la mano tenuta un po’ più in basso del fianco (puntualmente tirata su, ma tanto avrei preferito tirare qualche cazzotto a qualcuno), passi per le cadute per mancanza di prese convinte (pure la capoccia ho battuto una volta … che dolore!!!), passi per gli sguardi di sufficienza da parte di tanguere più esperte (‘ste stronze …)”, alla terza lezione, proprio quando l’anatroccolo pensava di poter diventare finalmente un cigno… mi sono detta: “ … e no eh! L’appoggio sulla gamba, incrociata per il passo appena imparato, del “membro”, caldo e barzotto, di un improvvisato John Travolta preso dalla febbre sabato sera … NO!!!”
Quindi, mi sono sorbita la ramanzina dall’insegnante che mi ha imputato di essere troppo rigida (a me!), ho concluso la lezione sforzandomi di pensare al prossimo pranzo di Natale, dopodiché ho raccolto mestamente le mie cose, senza lasciarmi dietro neppure una scarpetta e sono andata via per mai più tornare.
Mio marito mi guarda tra il compiaciuto (stile: “lo sapevo che durava poco”) e il curioso (“come mai non mi racconta niente? Che sarà successo?”).
Per un po’ lo lascio ad arrovellarsi, così impara a mandarmi sola … solo per un po’, però, perché ho bisogno di consolazione. Meglio.… di un certo tipo di consolazione … ho bisogno di sentirmi donna (ruoli o non ruoli chissenefrega …) e di sentirmi felice.
Felice … felice … come faceva quella canzone?
“Potremmo essere felici, fare un mucchio di peccati …”
Allora gli racconto l’altra storia (nella mia testa)… quella del bel tenebroso alto e figo che quando ballavamo mi stringeva forte forte forte.
Com’era il discorso della gelosia…?
Le italiane lo fanno? ...meglio?
Sono sempre stata affascinata dal tango e dalla filosofia che c'è dietro, ma più ancora dai colori e dalle note dalla musica argentina che è spirito di popolo prima che melodia. Oh, tango, suona...
http://myfreedom.blog.tiscali.it/2014/07/tangueri-e-tangheri/
IL DIARIO DI REDEGONDA di Arthur Schnitzler
Arthur Schnitzler (Vienna 1862 – ivi, 1931) è stato uno scrittore e medico austriaco. Fu ampiamente influenzato dalla psicanalisi elaborata da Sigmund Freud. Tra le sue opere, menzioniamo Doppio Sogno, da cui Stanley Kubrick trasse ispirazione per il suo ultimo film Eyes Wide Shut.
I fatti vengono narrati in prima persona da un uomo di cui non viene detto il nome; i protagonisti del racconto sono il signor Wehwald, il capitano Teuerhim e sua moglie Redegonda.
Il narratore spiega che una sera in un parco gli si accostò a sorpresa il suo conoscente Wehwald; l’uomo si sedette accanto per iniziare poco dopo a raccontargli una vicenda personale a dir poco inverosimile. Essendosi innamorato della bella moglie del capitano Teuerheim e non sapendo come farsi avanti, giunto al parossismo della sua passione amorosa, fece ricorso alla fantasia. Nella sua immaginazione lui e Redegonda iniziarono un’intensa vita da amanti, fatta di incontri segreti e rischiosi appuntamenti. Un tale innamoramento così travolgente non gli permetteva di considerare la possibilità che la donna gli mostrasse indifferenza o manifesto disinteresse. Fantasticando e dissociandosi dalla realtà, ogni cosa diventava possibile e piacevole. Tutto proseguì fino alla tremenda notizia dell’imminente trasferimento dell’ufficiale e del suo reparto. Wehwald non poteva credere che anche Redegonda partisse. Attese a casa che la donna lo raggiungesse, abbandonando per sempre il marito. Invece, raccontò, giunse da lui proprio il capitano. Il dialogo fu rapido e drammatico; la donna contesa era morta improvvisamente e aveva lasciato un diario in cui si parlava dettagliatamente della loro relazione. Wehwald, sgomento, sfogliò il diario in cui c’erano date, luoghi, note; il loro rapporto era stato minuziosamente registrato in ogni momento della loro intimità. Eppure l’amante credeva fosse tutto una costruzione della sua mente. Si era più o meno consapevolmente autoingannato non potendo accettare che Redegonda fosse irraggiungibile. Invece, diario alla mano, doveva essere tutto vero … Il marito che gli aveva mostrato il testo, ora voleva soddisfazione. Il giovane acconsentì e all’alba si svolse il duello, concluso con l’inevitabile successo dell’ufficiale. Wehwald raccontò di essere stato colpito al cuore. In quel momento il suo attento ascoltatore, ricordò qualcosa, ma un attimo dopo il suo interlocutore scomparve dalla sua vista, lasciandolo solo sulla panchina.
L’anonimo narratore il giorno prima aveva infatti parlato con gli amici di un fatto di cronaca; la moglie del capitano Teurheim era fuggita con un sottotenente. Il marito aveva sfidato a duello e ucciso il signor Wehwald, da tutti ritenuto persona corretta e integra, tanto da far pensare che avesse pagato colpe non sue.
La matassa narrativa si è ingarbugliata, dato che la vicenda raccontata dall’innamorato si accompagna a quella, più contenuta e oggettiva, sintetizzata dal suo ascoltatore nel parco. Il lato romantico e fantastico della prima si contrappone all’asciuttezza della seconda. Probabilmente non esiste nessun vero diario di Cunegonda; si può dedurre che la donna prima della fuga col sottotenente, per guadagnare tempo inguaiò lo spasimante non ricambiato, lasciando al marito le prove artefatte di un loro inesistente rapporto. Così il giovane venne sfidato a duello e ucciso al posto di un altro. Probabilmente, ci fu un qualche suo compiacimento nel vedersi considerato come l’amante della donna, come narrato dallo stesso Wehwald. Quello che resta impresso è il ruolo forte dell’immaginazione che sembra andare oltre l’impossibile e incunearsi nella realtà fino a diventarne parte. Nelle Operette Morali di Leopardi si parla spesso della superiorità del pensiero sulla realtà; ciò che rientra nella sfera dell’immaginazione e del sogno è consolatorio, mentre la realtà è fatta di dolore e tedio. Nel Dialogo di Torquato Tasso e il suo Genio familiare si affrontano questi temi. “Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?” chiede il Genio al poeta che risponde: “Non so. Certo che quando era presente mi pareva una donna; lontana, mi parve e mi pare una dea”.
Qui però, in Schnitzler, l’immaginazione sembra creare essa stessa la realtà. La sua forza appare superiore alla vita e in grado di condizionarla. Ma non appena l’innamorato scompare dal parco, ecco che la sostanza prende una piega ben diversa e infatti la conclusione del racconto è spiazzante. Alla fine tutto rischia di rivelarsi come un’allucinazione; il ciarliero signor Wehwald sparisce e il suo interlocutore si chiede poi se veramente abbia parlato con lui (o col suo fantasma). Forse l’uomo del parco ha inconsciamente arricchito una storia di cui conosceva una parte, fantasticando sui retroscena di quell’amore impossibile, nell’ambito di una faccenda triste, con un mancato amante “incastrato” e vittima sacrificale di una donna in fuga con un altro uomo.
Eppure Il diario di Redegonda ci offre una bella suggestione; sarebbe bello che le cose immaginate, pensate, sentite profondamente, potessero davvero diventare, a sorpresa, un segmento della realtà, soprattutto quando si tratta di aspirazioni pressoché irrealizzabili.
... come l'amore
Arriva dal buio che ci appartiene
come l'ululato di notte
a indicarci una strada nuova
Appare nella pioggia,
l'arcobaleno sospeso,
a colorare quanto di grigio c'è
E' improvviso come il baleno
il falco
l'ondata alle spalle
una pacca sulle spalle
il fischio del treno
Una faina davanti al flash
Un regalo davanti a un bimbo felice
Un mazzo di fiori che non aspetti
Ma viene lentamente
diventa grande col tempo
Una luna piena
tra brandelli di nuvole
Il sole che sorge,
raggio a raggio,
dall'aspra cresta
Soffice e gentile
come il fiore che sboccia
la mattina
come la mattina lenta e tiepida
d'estate
come l'estate che non passa
lungo mare
Come il mare che si muove
arriva
ti bagna
se ne va
...
arriva
ti solletica i piedi
se ne va
...
arriva
ti profuma di sale
se ne va
...
si muove
arriva
se ne va
Ma c'è sempre:
la notte mentre dormi,
poi ti svegli,
e c'è.
Ti volti, sorridi abbassi gli occhi,
ti volti per giocare
ma lui c'è.
Te ne vai, corri veloce,
via! risali i monti le valli
dalla cima...lui c'è...
E' la brace
dell'ultimo fuoco
nella sera
Che dorme con te
E si sveglia grazie a te
E' lume e
calore
da tenere stretto
tra il cuore
e il resto
in questa
fredda bufera...
M.
KOBILEK di Ardengo Soffici
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Ardengo Soffici (1879 – 1964), scrittore, poeta e pittore, fu uno dei protagonisti del vivace ambiente culturale italiano d’inizio secolo. Soggiornò a Parigi dove conobbe tra gli altri Picasso e Apollinaire (anch’egli scrittore e poi soldato nella Grande Guerra); fu uno dei fondatori della rivista Lacerba e convinto interventista. Nel dopoguerra si legò al Fascismo. Sul primo conflitto mondiale ci ha lasciato due diari: Kobilek e La Ritirata del Friuli.
Kobilek racconta la presa del Monte omonimo, nell’ambito di quell’ampia offensiva che nel 1917 permise all’Italia di occupare l’altopiano della Bainsizza. Come tenente partecipò da vicino a quelle operazioni. Si tratta di un diario pieno di verve guerresca, a tratti di ispirazione classica per i rimandi a una grandezza antica e per la ricerca di profili “plutarchiani”; in particolare il maggiore Casati, amico con cui l’autore prima della guerra aveva condiviso molte giornate fiorentine e parigine, risente di questa idealizzazione per la calma e la misura che caratterizzano il suo fermo contegno anche nelle circostanze più delicate. La prosa è potente, legata come stile ad alcune avanguardie artistiche del primo Novecento (Soffici ebbe un tormentato legame col Futurismo); in generale c’è un impatto descrittivo adatto a presentare un campo di battaglia fatto da rocce, sterpaglie bruciate dal sole, fossati, boschi annichiliti dalle artiglierie dove l’afa e la sete tormentavano i fanti. Non mancano le descrizioni liriche: “E oggi ho visto un rosignolo che saltellava ingenuamente sul reticolato, di filo in filo”.
Qualche aspetto può apparire inquietante, come quando si reclama una sorta di diritto dei combattenti a mettere in riga quella parte del Paese (il “putridume”) che non asseconda abbastanza lo sforzo bellico: “Chi ride, scherza, sopporta tanti disagi (…) in faccia alla morte imminente, ha il diritto di essere padrone della vita futura italiana, e se dovesse essere defraudato del suo diritto avrà ragione di divenir terribile”.
Le sofferenze della guerra sono presenti nel testo, ma l’entusiasmo per la lotta e per gli obiettivi da conseguire prevalgono sulla paura e sui disagi. Il diario ci presenta da vicino le manovre dei reparti e tutti i problemi di una complessa offensiva di cui ogni reparto era solo una piccola parte; accade così che gli uomini guidati da Soffici e da Casati (di cui poi lo scrittore diventa aiutante maggiore) sono costretti a fermarsi a lungo perché tre mitragliatrici nemiche bloccano il passaggio, mancano ripari sufficienti per difendersi dai colpi, si rischia di perdere il collegamento con gli altri reparti e ciò determina incertezza e alcuni momenti di panico tra i soldati. Soffici si trova varie volte senza informazioni esatte; nascono equivoci e si crea angoscia. Eppure gli ufficiali e i subalterni rispondono bene alla tensione e alla fine, grazie anche all’artiglieria, le truppe prendono il Kobilek. Soffici, fino a poco prima incerto sulla sorte della sua compagnia, raggiunge pur ferito i compagni sulle alture finalmente occupate e qui c’è il momento più emozionante del diario, in cui i soldati vittoriosi sono su “una specie di anfiteatro favoloso”, appollaiati alla meglio, simili a “uno stormo di avvoltoi che si riposassero da qualche fantastico volo”.
Lo scrittore, colpito seriamente a un occhio, viene portato nelle retrovie. In ospedale riceverà la visita del generale Capello (già incontrato prima e di cui lascia un vivace ritratto) e della Duchessa D’Aosta. Le memorie dell’artista terminano con le parole inviate dall’amico Casati, anch’egli ferito ma felice per il successo dell’avanzata. Si tratta di un diario che racconta una vittoria, con enfasi e qualche momento di retorica, ma non senza umanità e partecipazione come quando in un bosco, accanto al corpo di un austriaco, Soffici trova un libro di Schopenhauer. L’ironia che fa riferimento alla fine del “lettore pessimista” diventa subito rispetto per la vittima: “Ma no, non era il momento di ridere. La morte in battaglia, è così vicina a tutti, che ci si sente portati a rispettarla anche nel nemico”. Poco prima, a proposito di un altro nemico caduto aveva scritto: “ (…) finché dura la battaglia, tutti siamo morti nell’animo”.
Maria Grazia Di Biagio, "Nella disarmonia dell'inatteso"
Maria Grazia Di Biagio
Nella disarmonia dell’inatteso
Bel Ami Edizioni – Pag. 80 – Euro 10
Maria Grazia Di Biagio è una vera poetessa, una che non si limita a scrivere versi senza leggere, per essere originale e non avere padrini letterari. Sembra impossibile ma ne ho conosciuti tanti di (presunti) poeti che non leggono poesia ma si credono vati e fanno i sostenuti se non li leggi. I versi di Maria Grazia Di Biagio raccontano un amore che non fa rima con cuore ma è ricco di metafore straordinarie e di versi suadenti.
È un anno di parole che non scrivo
e non c’è incuria o disamore, credi,
se ho lavato la matassa dei pensieri
e l’ho stesa al silenzio ad asciugare.
Renato Fiorito - autore di un’ispirata postfazione - ha avuto la mia stessa sensazione di struggente tenerezza nel leggere i versi sopra riportati, forse perché anche lui aveva bisogno di rispecchiare in altrui parole il proprio dolore. Questa è la forza della vera poesia, ma anche della vera letteratura, di una scrittura profonda che non sia volta a realizzare il mero intrattenimento.
Non è cambiato molto da quel giorno
cado ancora come allora
mi sbuccio le ginocchia
ma non piango più, purtroppo
e questo è male, perché il pianto cura,
è pioggia che consola, il pianto.
Ho letto questi versi a mia figlia, certo lei che ha sette anni non ha pensato al male di vivere di montaliana memoria, né al vizio assurdo di Pavese, ma alle sue ginocchia sbucciate e al pianto, facendomi notare che le lacrime sono una pioggia metaforica che cade dai suoi occhi quando è triste, addolorata o soffre. Grandezza della vera poesia che si fa apprezzare da una bambina, come quella del mio amico cubano Felix Luis Viera che parla della figlia lasciata a Cuba per un doloroso esilio quando aveva quindici anni, racconta la sofferenza tangibile d’un padre in fuga.
Cerco in ogni libro una rivelazione
oppure un’intuizione condivisa,
una piccola cosa impertinente,
una violetta sbucata dalla neve
che mi faccia sentire meno assurda.
Cerco la bellezza delle cose
nella disarmonia dell’inatteso,
nelle parole, il senso primo del significato.
Altri versi che raccontano l’importanza di un libro, di una storia, di una pagina scritta, dove cerchiamo soprattutto noi stessi, il senso profondo delle cose, per recuperare stupefatti una metaforica violetta sbucata dalla neve.
Ho mentito.
Non è vero che non sto scrivendo
sono solo versi bianchi
ma ho finito i fogli colorati.
Stupenda la chiusura della raccolta. Il poeta non può fare a meno di scrivere, se ti dice che non sta scrivendo sta mentendo, il poeta è un fingitore, come scrive Pessoa, ma nel caso della Di Biagio è un sincero dispensatore d’amore, che quando finisce i fogli colorati scrive solo versi bianchi.
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
Sasso assassino
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Era stato un sasso, solo un maledetto sasso. Non particolarmente grande, affusolato, biancastro; se non avesse avuto un paio di irregolarità, lo si sarebbe quasi scambiato per un uovo. Era l’ideale, come forma, per venire lanciato con una fionda. Ancora però non si sapeva come si fossero svolti i fatti. Ora il sasso si trovava in un contenitore trasparente, posto sulla scrivania del gerarca Steiner che si tastava di tanto in tanto la testa, zeppa di pensieri e di dolori; una benda gli cingeva la fronte, da cui aveva smesso di fuoriuscire il sangue che aveva lasciato qualche traccia rossastra anche su quella pietra. A diverse ore dai fatti, il gerarca e ufficiale non cessava di ruminare intorno a quell’episodio che aveva rovinato la sua investitura a governatore della città, evento per il quale molto si era impegnato. Aveva organizzato una parata per il corso principale, delimitato da due grandi archi romani; le macerie erano state occultate alla meglio e i simpatizzanti delle truppe di occupazione erano stati mobilitati in gran numero, mentre la piazza dove il corteo sarebbe giunto per la solenne cerimonia avrebbe offerto uno scenario ideale. Là, accanto al grande anfiteatro romano, il gerarca si sarebbe richiamato alla grandezza degli antichi imperatori; a poche decine di metri c’era ancora un tratto delle mura fatte costruire dall’imperatore Gallieno. Poi era accaduto ciò che ancora angustiava tremendamente il povero Steiner. Proprio quando si era alzato in piedi sulla macchina scoperta, come aveva visto fare in tanti cinegiornali, offrendo lo statuario corpo con marziale posa alla folla, un sasso lo aveva centrato alla tempia sinistra. Un colpo netto, non fortissimo, ma sufficiente a farlo cadere sul sedile. Era stato soccorso ed era giunto un medico, mentre i soldati avevano reagito scioccamente sparando a caso tutto intorno. Proprio lui aveva interrotto la sparatoria urlando: “E’ solo un sasso! Basta!”.
Mentre nel suo studio si stava riprendendo dalla ferita, sentì profondamente la vergogna per essere stato abbattuto in quel modo. Non si sapeva che cosa fosse accaduto precisamente. Forse un altro automezzo in movimento aveva fatto schizzare quel sasso, oppure il lancio faceva parte del gioco avventato di qualche gruppo di ragazzini. Davanti a migliaia di persone, l’ufficiale era stato messo fuori combattimento da una pietruzza. Questo solo contava per lui, ora che seguitava a osservare il sasso. Chissà cosa avrebbero detto a Berlino! Un gerarca steso da quel coso a forma di uovo! Il nemico più grande per un ufficiale serio e quadrato era il ridicolo. Che cosa si poteva fare contro il ridicolo? Tirare raffiche come avevano fatto i suoi uomini? Impossibile liberarsene. Ogni tanto entrava nella stanza qualche subordinato che lo ragguagliava sulle indagini avviate; si scomodavano parole come attentato, arresti, rappresaglie. Una reazione energica e sproporzionata avrebbe solo peggiorato le cose, dando forza ai fatti accaduti. Steiner lo sapeva, ma ascoltava poco. Premette invece perché venissero dei geologi da Berlino; voleva far esaminare l’arma del delitto da loro. Bisognava capire scientificamente quanto era accaduto; mentre passeggiava nella stanza con le braccia dietro la schiena, cominciò a dettare alcune disposizioni al suo segretario, senza distogliere gli occhi dal recipiente e dal suo contenuto. Si doveva provvedere a fotografarlo, mandare le foto da qualche specialista, possibilmente far venire qualche esperto a esaminarlo direttamente. Steiner voleva capire come fosse accaduto che quel sasso si fosse frapposto fra lui e la sua apoteosi. Era arrabbiato e mortificato; non avevano preparato una bomba contro di lui, nemmeno gli avevano sparato. Si era usata un’arma rudimentale, semplice, da monelli di strada. Si ricordò di quel re che era andato su tutte le furie, dopo che uno squilibrato gli aveva sparato con un fucile di piccolo calibro, buono per tirare ai passerotti. La sua ira, si raccontò, non era legata all’attentato in sé; infatti, ogni autentica autorità dotata di fierezza e consapevolezza del proprio ruolo di argine contro il disordine, auspica quasi di subire almeno un tentativo di omicidio. Erano le modalità usate a essere francamente inaccettabili. Il re si era sentito umiliato davanti a un’arma così modesta e infatti rifiutò ogni clemenza all’attentatore.
Steiner, invece, nemmeno sapeva da chi fosse stato lanciato il sasso e se qualcuno effettivamente lo avesse tirato. Continuò a dettare le sue richieste al segretario che non osava commentare. Voleva che si scoprisse da dove veniva, quale fosse la sua storia, da quale mare o fiume fosse stato sballottato e levigato nel corso dei millenni, come fosse arrivato su quella strada, quando e soprattutto perché. Essere vittima del puro caso era doloroso, perciò voleva raccogliere ogni elemento possibile per capire se ci fosse una logica. Farsi classificare come ufficiale sfortunato avrebbe aggiunto compatimento al ridicolo che già sentiva graffiargli direttamente la carne.
Il segretario, con qualche imbarazzo, si permise di chiedergli se l’indomani desiderava farsi visitare nuovamente, ma non ricevette risposta. Il gerarca sollevò il recipiente per osservare meglio, poi ordinò di mandare a Berlino la richiesta di avere subito un geologo ben qualificato.
“Chissà che pietra sarà” disse con un sospiro. Poi ripensò a quando era in servizio vicino al Mar Baltico. Anche là gli era capitato un episodio particolare. Due soldati della sua unità erano stai trovati morti sulla riva di un fiume. Non si erano capite le cause della loro fine. Nessun segno di arma da fuoco o da taglio era stato trovato sui corpi, quindi non erano i partigiani i colpevoli. Un autentico enigma. Poco prima di venire trasferito, Steiner aveva avuto un interessante colloquio con un vecchio pescatore che gli aveva offerto questa spiegazione: “Vede signore, i suoi uomini sono stati trovati vicino a un fiume molto pescoso. Sembra che ogni tanto, tirassero qualche piccola bomba nel fiume e poi raccogliessero i pesci ammazzati che arrivavano a riva. Non è decoroso pescare così dalle nostre parti. Direi antisportivo. Qui i pesci sono patriottici e questo non stupisce nessuno, ma soprattutto sono amanti della lealtà. Si metta nei panni, o nelle pinne, di un pesce attento alle forme, tutto d’un pezzo, orgoglioso, retto da un’etica da cavaliere medievale. Se lei fosse un pesce simile, tollererebbe di essere cacciato con sistemi rudi e sleali? Ci vuole rispetto, un pesce non è una gallina. Perciò ritengo che i nostri amici dei fiumi si siano vendicati. Sono stati loro”.
Questo discorso aveva impressionato il gerarca a tal punto che con ingenuità ne aveva poi parlato a un collega, senza fargli capire che considerava quella spiegazione solo una curiosa storiella. Il prevedibile risultato era stato che tra i commilitoni le risatine solevano accompagnare la pronuncia del suo nome. Adesso, dopo quel precedente, rischiava di subire un’altra ondata di ridicolo. Dopo la storia dei pesci che ammazzavano i suoi uomini, ecco i sassi che da soli si scagliavano contro di lui. Era tutto un caso? Aspettava dei responsi scientifici per capire meglio. I medici nel frattempo giudicavano la sua ferita lieve, ma lui preferiva passare le giornate nel suo studio a guardare il sasso, senza riprendere le normali attività. Attendeva con impazienza l’arrivo del geologo che aveva richiesto. Dopo una settimana, gli giunsero invece alcune voci sui commenti fatti a Berlino. Sembrava che una vignetta lo rappresentasse qualche istante dopo il ferimento. Accanto a lui avevano disegnato Cristo che gli diceva: “Alzati e cammina”. Il governatore resse ancora per una decina di giorni, poi il disonore e lo scoramento prevalsero. Fu ritrovato con la testa appoggiata sulla scrivania, accanto all’oggetto della sua morbosa attenzione.
L’ufficiale che per primo lo vide in quello stato era venuto ad aggiornarlo sulle indagini; avevano arrestato un giovane di nome David. Chissà che cosa avrebbe pensato Steiner a riguardo. Sentendo quella notizia, forse anche da morto si sarebbe sollevato e poi avrebbe afferrato il recipiente; quindi avrebbe probabilmente preteso di accertare se fosse plausibile che quella pietra avesse già avuto un uso simile nell’antichità. Forse, in effetti, c’era una possibilità su un milione che quel sasso, viaggiando per millenni, tra infinite peripezie, subendo e partecipando ai giochi sconosciuti della natura e della terra, fosse lo stesso usato molto tempo prima da un pastorello per abbattere il più temuto dei nemici del suo popolo.
Questo è il primo racconto della raccolta PIETRE, la cui anteprima è visibile sul sito ilmiolibro.it.
Mario Calabresi, "Spingendo la notte più in là"
Mario Calabresi
Spingendo la notte più in là
Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo
Mondadori – Pag. 130 – Euro 14,50
Mario Calabresi scrive il libro più difficile della sua vita, quello che ha pensato di realizzare per anni - ogni volta in modo diverso - ma che ha sempre evitato di concepire come una replica astiosa a troppe accuse infamanti. Spingendo la notte più in là racconta la storia della sua famiglia, distrutta dal terrorismo, da un atto insensato organizzato nelle segrete stanze dell’estrema sinistra italiana, avallato da articoli di fuoco pubblicati da quotidiani come Lotta Continua. Non solo, narra altre vittime della barbarie terroristica - poliziotti, giornalisti, medici, agenti di scorta, servitori dello Stato caduti a difesa delle istituzioni -, veri figli del popolo (come diceva Pasolini) eliminati da un’elite intellettuale che giocava (con il fuoco) alla rivoluzione. Mario Calabresi è figlio di Luigi, il commissario di polizia assassinato perché qualcuno aveva costruito la leggenda del boia addestrato dalla CIA reo di aver ucciso e gettato dalla finestra l’anarchico Pinelli. Spingendo la notte più in là parla alla coscienza di tutti noi, mi fa vergognare di aver ascoltato e persino canticchiato la cialtronesca canzone di Claudio Lolli che racconta la morte di Pinelli secondo le veline di Sofri e di Lotta Continua. Mi fa ricordare che negli anni Settanta e Ottanta ci avevano convinto che la realtà virtuale del commissario assassino fosse realtà storica. Gente come Giampiero Mughini, Erri De Luca - che parlano e scrivono ancora! -, persino Adriano Sofri - che scrive su Repubblica e io mi rifiuto i leggerlo! - adesso sono venerati come opinionisti e scrittori di rango, mentre con i loro articoli, con assurde opinioni dettero via libera all’omicidio di un servitore dello Stato. Mario Calabresi non si lascia andare ad alcun desiderio di vendetta in un libro che nel finale tocca vette di pura poesia quando l’autore segue la voce del padre e del nonno e decide che tutto sommato la cosa migliora è scommettere tutto sull’amore per la vita. È l’insegnamento della madre, l’idea che ha sempre seguito convinto di non sbagliare, anche quando ha visto uscire dal carcere - persino graziati! - gente come Ovidio Bompressi e Adriano Sofri. L’obiettivo del libro è quello di contribuire alla pacificazione nazionale, superare un tragico momento storico della nostra vita, quando per morire era sufficiente fare il giornalista o il magistrato, solo perché un tribunale del popolo aveva deciso la tua sorte. Mario Calabresi mi ha fatto ricordare che vedo spesso Renato Curcio alle fiere del libro, ché lui come me è un piccolo editore, manda avanti Sensibili alle foglie, realtà più conosciuta del mio Foglio Letterario, per meriti di lotta politica. Ecco, io non ho avuto nessuna vittima in famiglia da quella stagione del terrore, ma non mi è mai venuta voglia di scambiare qualche parola con Renato Curcio. Io sono un vero figlio del popolo, uno di quelli che diceva Pasolini. Non lui, dispensatore di morte e di aberranti ideologie. Grazie Mario Calabresi per questo libro. Leggerlo fa bene al cuore.
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo è un libro di Calabresi Mario pubblicato da Mondadori nella collana Strade blu. Non Fiction : € 12,32 ...
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Lillo Favia, "Come meta il viaggio"
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Come meta il viaggio
Lillo Favia
Ebook 2014
Tutto si può dire di “Come meta il viaggio”, di Lillo Favia, tranne che non sia originale. Non per il contenuto - ché pur sempre trattasi di storia maschile di sesso, droga e rock and roll – ma piuttosto per lo stile. Di solito testi di questo genere, sulla scia dei vari Kerouack, Bukowski, Carver etc, che imperversano nella narrativa odierna prodotta dai maschi dai vent’anni in su, sono scritti in un linguaggio “postmoderno” infarcito di volgarità, ormai standardizzato fino a diventare anonimo. Il romanzo di Lillo Favia, invece, gioca con le parole e porta avanti un’approfondita ricerca, non per niente egli si definisce “meccanico della lingua”. La narrazione si avvale di una prosa che sfocia nella poesia, alternandosi spesso a essa. Favia non lascia nulla al caso e l’analisi stilistica diventa esistenziale.
“Per un artista, l’opera è una missione, un percorso impervio in cui rintracciare un’ipotesi di libertà. In cui provare a risolvere i propri dilemmi, le proprie paure, il proprio non saper vivere.”
Il narratore racconta la storia dell’amico Max, prematuramente scomparso. Insieme i due hanno attraversato tutti gli stadi di un vivere giovanile estremo, dal viaggio on the road, alle canne rollate, su su fino al primo buco, alla dipendenza da eroina descritta con la stesso sguardo ravvicinato di Gregory David Roberts in “Shantaram”, alla disintossicazione nella comunità di recupero Albatros, diretta dal tremendo Don Rosario, personaggio ambiguo e non del tutto positivo. Alla fine, però, i cammini dei due giovani divergono: Max perirà poiché la perdita che dovrà subire sarà talmente dolorosa e inaccettabile da poter essere sublimata solo con la morte. Prima di morire, però, egli sceglierà la strada, diventerà un senzatetto, nell’accezione più nobile del termine. La strada, più che la droga o il viaggio, incarnerà l’indagine spirituale, l’affinamento, la libertà da ogni sovrastruttura, il percorso dentro se stessi.
“È solo grazie al suo intuito se ho potuto intraprendere questo esaltante percorso letterario, questa impagabile auto-analisi”
Sorge il dubbio che Max sia l'alter ego del protagonista, e il “Max pensiero” ciò che il protagonista pensa o vorrebbe pensare. Max è quello che il protagonista diventerebbe se andasse a fondo nell’autodistruzione, nella trasgressione, nell’annullamento dei legami civili: amicizia, amore, famiglia, dogma. E il rapporto che li lega è indefinibile, quasi una sorta di amore platonico che supera e sublima ogni vincolo con l’altro sesso.
Ambientato negli anni 80 e 90, fra la Puglia, l’Olanda e vari altri luoghi, il romanzo mostra una vera e propria ossessione per le date, quasi a voler fissare i momenti, a voler imbrigliare e catalogare una vita che appare senza direzione, dando senso alla morte. E la morte, si scoprirà, è un diritto, un atto di estrema affermazione di sé:
“Sono pronto ad affermare che Max aveva tutto il diritto di decidere il proprio futuro, di arrogare volontà di vita o di morte sul proprio tempo. Mi vergogno come un assassino per aver messo in discussione il suo libero arbitrio. Ora che ho viaggiato fra i suoi tormenti, tra le sue scritture, tra i suoi ricordi; ora che assaporo in pieno il proverbiale respiro della parola “vita”: riesco a percepire la sua condizione di neo giovane Werther.”
Scrittore e musicista barese, Lillo Favia sembra optare per la commistione di generi e stili in modo sperimentale. Ed anche questa pare essere una caratteristica degli artisti di ultima generazione, cioè la multimedialità e la mescolanza della scrittura con altre forme d’arte, dalla musica, al canto, alla danza. C’è una miscela fra un “basso” – la vita randagia, le crisi d’astinenza, il sesso a pagamento –e un “alto” costituito dai frequenti abbandoni lirici della prosa.
“Partimmo a notte fonda, all’ombra di un cielo nero. L’aria era farcita di quei tipici sapori del litorale pugliese, le alghe fresche allineate dal grecale, l’ulivo, il pino marittimo, le effusioni di terra d’argilla rossa e rosmarino si rincorrevano e mischiavano lungo la lingua d’asfalto.”
Certo è che non sempre la mistura di tecniche e forme espressive (fra appunti, dialoghi, brani di diario, versi lasciati in giro da Max come indizi) riesce ad apparire funzionale, capita di chiedersi se non si sia voluto accogliere tutto (troppo) senza saper tralasciare o, come minimo, amalgamare, e nasce il sospetto di possibili incursioni nel diario privato dell’autore.
Nel complesso un lavoro scorrevole, nonostante la sperimentazione, che non annoia ma, piuttosto, mostra un notevole sforzo di elaborazione linguistica, non comune di questi tempi e senz’altro positivo.
IL COLPO CONTRO IL PORTONE
Il protagonista di questo racconto di Kafka passeggia con la sorella. Fa caldo. Passano davanti al portone di un cortile. Sono in una zona a loro non nota. La giovane bussa al portone (o forse accenna a farlo). Un gesto banale, semplice, scherzoso. Eppure quasi subito c’è la percezione che le conseguenze saranno durissime. La gente del posto li guarda con aria di disperazione, come se la coppia fossero già condannata. Il ragazzo sorride e ostenta tranquillità; il fatto, apparentemente insignificante, si può facilmente spiegare. Solo delle persone ignoranti come quelle del luogo possono agitarsi tanto senza motivo. Ma un gruppo di cavalieri armati di lance poco dopo si mette al loro inseguimento. C’è anche un giudice tra loro. La ragazza riesce a dileguarsi. Il giovane viene raggiunto e condotto nella casa di un contadino. L’ambiente è davvero inquietante: “Grandi pietre per il pavimento, scure, parete grigia, nuda, non so dove un anello di ferro murato, e nel mezzo qualcosa tra il pagliericcio e la tavola operatoria”. L’arrestato credeva come cittadino di poter chiarire ogni cosa e addirittura di uscirne con tutti gli onori (anche il protagonista del Processo ha pensieri simili e ugualmente fallaci). Ma dopo essere entrato in questa prigione, dispera di salvarsi. Scopre di non avere diritti o tutele, ma solo colpe.
Colpisce la sproporzione tra il “misfatto” e la punizione; oltretutto il gesto potrebbe non essere mai stato compiuto. Sembra venga punito il presunto significato dell’atto; anche l’accennare a bussare a una casa importante è uno sberleffo o una piccola manifestazione di ribellione che un potere assoluto e paranoico non può tollerare. Il gesto è avvenuto in pubblico e questa è un’aggravante. La dura reazione seguente confermerà lo status quo; nulla deve cambiare, solo la sottomissione viene permessa come la gente del posto ha capito, a differenza dei due giovani che sono forestieri. L’ignoranza della legge non è una scusante sufficiente. Il portone è intoccabile in quanto allegoria di un contesto (con le sue gerarchie) che è esso stesso intoccabile. Impressiona anche l’istantaneità dell’intervento “giudiziario”; tra i cavalieri che arrestano il ragazzo c’è anche un giudice che quindi non sembra una figura terza. Non può esserci scampo per il “colpevole”.
Basta così poco per essere sanzionati? A volte è sufficiente uno sguardo duro.
Nel 1917, all’indomani del disastro di Caporetto, nel padovano avvenne un gravissimo episodio. Si voleva imporre all’esercito la massima disciplina in un momento drammatico in cui il nemico aveva occupato parte del suolo nazionale. Il generale Graziani, nominato da poco Ispettore Generale del Movimento di Sgombero, nel pomeriggio del 3 novembre, fece fucilare contro il muro di una casa un artigliere; il militare venne arrestato mentre sfilava con il suo plotone, reo per Graziani di averlo guardato con atteggiamento di sfida e di avere il sigaro in bocca. Il generale aveva pieni poteri, di cui fece varie volte ampio uso.
Forse il giovane non mostrò soggezione davanti al superiore, forse il suo sguardo non fu abbastanza deferente; anche in questo caso, come per il colpo al portone, non è chiaro cosa sia accaduto e abbia portato a una simile reazione. Bastò comunque un nulla perché Alessandro Ruffini, di anni ventitré, finisse fucilato, a poca distanza dalla chiesa parrocchiale di Noventa Padovana.
Un giorno di ordinaria follia
Suona il telefono e sul display compare numero privato. Non è un parente stretto, ergo il cuore accelera.
“Salve, sono dell’associazione culturale tal dei tali, la contatto in merito a quegli articoli che lei ha scritto.”
“Ah… ehm… guardi, non è che io sia proprio un’esperta dell’argomento, cioè… ho letto qualcosa… mi sono informata…”
(Oddio, per chi mi ha preso questo? Oddio, forse mi crede più di quel che sono, in fondo ho solo fatto qualche ricerca, ho letto Wikipedia, oddio non sono assolutamente all’altezza… stai a vedere che ho scritto un mucchio di cazzate e questo vuole sconfessarmi.)
“Vorremmo incontrarla di persona.”
(Ma che bisogno c’è? Ma non vi basta quello che scrivo? Cos’è questa necessità che hanno sempre i babbani di vedersi, d’incontrarsi, di bere un caffè insieme?)
“Ehm… ma per quale motivo, scusi?”
“Noi facciamo delle conferenze.”
(Conferenze???!!! Io?!!!!!) “Sa… io avrei un problema a parlare in pubblico…”
“Che vuole che sia! Ma non si preoccupi, siamo tra amici!”
(Ma io nemmeno tra amici.) “Mi dispiace, sono molto timida.”
Risata: “Eheh, le allestirò un confessionale, va bene?”
(Ha ragione Claire: i babbani non capiscono, non capiranno mai. E ridono. E mi tocca fingere di divertirmi anch'io.) “Ah… ah…”
“Le do il mio numero.”
(‘Cazzo me lo dai a fare? Non ti chiamerò mai!)
“Ci conto, eh, mi chiama?”
“Uuugh…"
“Allora quando ci vediamo?”
(Ma non ti voglio vedere, non ti voglio parlare, non voglio vedere nessuno, sto male anche solo a risponderti al telefono, odio il telefono, datemi una pala che mi scavo un buco e mi ci seppellisco.)
"Ok, va bene, la chiamerò".
***
Con mio marito andiamo a mangiare un panino fuori. All'improvviso, entra un gruppo di colleghi suoi che hanno scelto proprio oggi per festeggiare lì non so cosa. Me li ritrovo tutti schierati che ci fissano immobili e sornioni, sembra il tribunale dell’Inquisizione, l'imbarazzo esplode, non so più dove guardare, mi entra un giramento di coglioni a bestia, dico: "Vado a prendere un po' d'aria" e schizzo fuori a razzo senza salutare nessuno, mangio il panino all'addiaccio, su un tavolino bagnato di pioggia. Mio marito è costretto a lasciare gli amici, a raggiungermi con aria impietosita e compassionevole. All’aperto fa meno venti, la salsa verde si congela, le melanzane mi si fermano sullo stomaco, la mia autostima si sgretola mentre rimugino su cosa staranno pensando di là gli amici di lui.
***
E per concludere, alcuni consigli.
Ricorda che anche gli altri hanno paura, però non ne fanno un dramma.
Muoviti lentamente, fai tutto con più calma del normale. Tanto apparirai comunque schizzato.
Non restare impalato mentre ti fissano, tieni a portata di mano un giornale da sfogliare (alla diritta!) o un cellulare da cui fingere di inviare sms.
Se devi telefonare a qualcuno, preparati su un foglio le domande da fargli.
Se arrossisci e sei una donna, puoi sempre dire di avere le caldane. Sforzandoti, magari riesci a dimostrare più di quarant’anni.
Ogni tanto lascia che siano gli altri a provare imbarazzo per primi. Perché sempre e solo tu?
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come me, è affetto da fobia sociale e quindi, pur scrivendo ... La resa dei conti Rieccomi qui, dopo tutto questo tempo, per dirvi che, alla fine, non cambia mai niente, che la fs ti ammazza a venti
http://signoradeifiltri.altervista.org/scrittura-e-fobia-sociale.html